Excelsior!, Gianluigi Polcaro, mainstream

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In uscita il 31/3/2018 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine marzo e inizio aprile 2018 (3,99 euro)

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GIANLUIGI POLCARO

EXCELSIOR!

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni

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EXCELSIOR! Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-189-1 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Marzo 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


PARTE PRIMA



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I

L’incedere svelto dell’automobile non faceva desistere Ric dal dormire così insistentemente. Rannicchiato come un bambino che si copre dalle botte del padre, mi stava a fianco mentre io guidavo verso il mare e lo sballottavo facendolo dondolare. Ma quello era per lui un modo per conciliare il sonno anziché un’azione di disturbo. Se ne stava appoggiato alla portiera, con il suo pugno schiacciato sulla guancia e curvo in avanti mentre con l’altro braccio si cingeva il ventre quasi a coprirsi come un lenzuolo. La sua spalla sinistra era leggermente alzata in una postura difensiva. Infradito, jeans, canottiera, barba incolta e capelli ricci lo facevano somigliare a un profugo in una situazione di fortuna. Come potesse una persona dormire tanto in una condizione talmente precaria e scomoda, quando io - agitato come di solito sono - non vi sarei riuscito neanche nel migliore dei letti, era per me un mistero. Eravamo diversi io e Ric, tanto diversi quanto amici. Amici da tanto, anche se non sapevo se avessi trascorso più tempo a osservarlo che a interagirci. La giornata era fresca e addormentarsi a fianco del guidatore non sembrava una cattiva idea. Ero sereno o almeno mi dava serenità la presenza dormiente di Ric. Si guidava alla grande, l’aria era calda ma ventilata e sulla grande strada in direzione mare non trovammo molto traffico. In pieno agosto la gente era già in ferie in qualche posto lontano, permettendo a noi di godere pienamente della città e del suo mare. ***


6 Da tempo avevamo deciso di rifare qualcosa insieme. Le nostre storie personali ci avevano allontanati, ma finalmente era giunto il momento di ritrovarci. Volevamo una vacanza vicina ma molto particolare, come solo quei luoghi potevano essere. Noi li conoscevamo bene. Tutti noi della città li conoscevamo bene, perché sin dall’infanzia era lì che trascorrevamo le nostre vacanze. Erano dei luoghi avvolgenti che rievocavano paesaggi tropicali e selvaggi, ma nel corso del tempo abitazioni più o meno abusive li avevano colonizzati, ospitando prevalentemente gente della periferia urbana alla ricerca di vacanze dal costo contenuto. La natura di quei luoghi si connotava di colori forti e di edificazioni arabesche. Un qualcosa di gitano aleggiava nell’aria e quella sensazione la percepivo sin da bambino. Ricordavo una famiglia che viveva in una roulotte sulla spiaggia. Una famiglia molto numerosa, che col tempo si era costruita un’abitazione. Erano belli, dalla carnagione scura, occhi azzurri e ficcanti e capelli al vento striati di biondo, con due o tre cani lupo che sbraitavano tutto il giorno. Sembravano degli zingari di mare, anche se provenivano dalla periferia. Avranno avuto delle origini nomadi, ma loro si dichiaravano dei pescatori. Il capofamiglia, detto il capitano perché portava la visiera tipica dei marinai, se ne andava in barca a pescare tutto il giorno insieme alla moglie, donna che sapeva suscitare con la sua bellezza l’interesse di tutti e anche di noi piccoli. Frattanto i loro figli crescevano, sempre più schiariti dai raggi solari e sempre più belli e selvaggi. Non ho mai saputo se ci vivessero tutto l’anno, ma quando io arrivavo loro erano lì a rendere particolare quel pezzo di spiaggia. Stranezze come quelle rendevano esotica la località. Come le costruzioni anni Settanta, con il mattonato e mattonelle rosso fuoco, quasi a richiamare a sé il bollore del sole. Nei locali pubblici c’era quell’idea di festosità rappresentata da tanti simboli: il megacono gelato di plastica davanti al bar del centro, i pupazzi enormi di Paperino e Topolino all’entrata delle giostre. Dentro c’erano dei giochi semplici: calcinculo, takadà, quelli sì gestititi dagli zingari.


7 Nel corso del tempo la costa si era trasformata, la crisi aveva riversato di tutto, e oltre alla gente umile, vivace e maleducata di periferia, vi si potevano trovare immigrati, sbandati e feste di ogni tipo. Il nuovo volto di quei posti aveva lo sguardo giovanile dello svago e dello spasso a ogni costo, tra tendenza e degrado. Bambini al sole, serate chiassose, droga e divertimento estremo. C’era ormai di tutto. Io e Ric stavamo per tornare lì e man mano che ci avvicinavamo si sentiva la brezza venirci incontro. *** Al semaforo rosso - quello dell’ultimo incrocio, che di solito durava un’eternità - Ric cominciò ad aprire gli occhi e a stiracchiarsi. Si guardò intorno poi, come se avesse capito dove stavamo, si riaccoccolò in posizione fetale, non prima di aver lanciato uno sguardo oltre il parabrezza. «L’hai sentito?» disse con voce cavernosa e gli occhi chiusi. «Sì, ci aspetta» risposi. «Quel vecchiaccio.» «Mi raccomando con la moglie, lo sai che non ci sopporta.» «Povero Mac.» Riflettendo ad alta voce, Ric accompagnava il ricordo con un sorriso compiaciuto che anticipava una piacevole nostalgia nei suoi brillanti occhi verdi che aveva preso ad aprire e chiudere a ogni stop della macchina, che io volutamente rendevo brusco per provocare una sua reazione. I ricordi di tante avventure che ci avevano visti protagonisti riaffioravano man mano che ci avvicinavamo alla casa di Massimiliano De Pisis, il nostro amico, detto “Mac” perché non voleva confondersi con quelli che si facevano chiamare Max. Eravamo cresciuti insieme nel quartiere, così come lì sulla costa. Poi il crack. La fine. Mac che si sposa e ci abbandona e noi due a litigare fino all’addio. Si dice che quando arrivano le donne il gruppo si disgrega. È una legge sociale ferrea. Come quella che segnò i Beatles: quando Yoko


8 Ono si mise con John Lennon fu l’inizio della fine. E i Beatles si disgregarono. Ma non era così. Quando arrivano le donne forse il gruppo è già in disfacimento e attende soltanto un elemento esterno che benedica la fine, la santifichi accollandosi le colpe e assurgendosi a causa dell’inevitabile cambiamento. Lo stesso fenomeno era successo a noi. Mac a un certo punto incontrò Lea e non seppe resisterle. Tra noi era finito qualcosa, si era concluso un ciclo naturale della vita e Lea si portò via quel che era rimasto di lui e che conteneva il germe del cambiamento. Ma se esisteva una donna a giustificare la fuga di Mac, tra me e Ric fu il tempo che ci consumò fino al distacco, evidenziando le nostre paure e difficoltà; e non trovammo di meglio che scagliarcele addosso a vicenda. Incomprensioni, meschinità, non ci mancò niente per rompere il nostro legame. Come al solito Mac era riuscito a eclissarsi prima della disfatta totale, uscendo indenne dal ciclone che ci stava travolgendo. Io e Ric lo prendemmo in pieno. Eravamo giovani, certo, ma oramai si stagliava di fronte a noi l’epoca delle scelte, quelle che fanno diventare adulti; e ci colse impreparati. Ric stava cominciando un percorso in solitaria mentre io mi trovavo sull’orlo del baratro. Per un cane sciolto come lui non era difficile darsi alla macchia. Non seppe nemmeno di Anna se non molto tempo dopo, quando provò a ricontattarmi. Le sue fughe erano la vita, il suo modo di affrontare le sfide e le contraddizioni del suo animo. Era in gamba Ric, il suo fiuto e il senso pratico ben si amalgamavano con il suo sano anarchismo.


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II

Si viveva molto la strada, e tra ragazzi ci si conosceva tutti. Poi creavi i tuoi gruppi e ci trascorrevi la giornata. La periferia può essere un ambiente duro, ma di sicuro il migliore di tutti. Soprattutto quando in casa si vive in due. Vivere senza padre e altre figure maschili non è facile, in particolare se lo perdi prima ancora di nascere e se perdi anche i tuoi nonni quando sei piccolo. Una madre da consolare e una casa troppo grande e buia per un bambino, e come unico focolare negli inverni, un lettone dove stimolare il calore stando abbracciati. Fortuna che c’era il quartiere, con i suoi miti e le sue contraddizioni, i suoi ragazzi, quelli morti di droga e quelli partiti, ma rimasti adolescenti. Man mano la nostra amicizia si era consolidata tra le strade. Anche se io sentivo forte la fragilità di mia madre. Così lasciavo gli altri quando lei rincasava dal lavoro e le stavo vicino, finendo i compiti e aspettandola a letto, mentre la casa si popolava di mostri e la sola consolazione era quella televisione accesa che diventava una speranza per mia madre e il contatto con la realtà per me. Sin dalla tenera età mi ero accorto di essere un notturno, un po’ per l’insonnia, un po’ per attitudine. Così la mattina ero cadaverico e ad andare a scuola faticavo. Mia madre mi vestiva e io sentivo il freddo delle sue mani quando mi infilava calze, pantaloni, eccetera. E così non ho mai amato la scuola e tutte le cose che si fanno la mattina, come il lavoro. Mi sono addirittura laureato, ma solo per senso di colpa verso di lei. Era il suo sogno vedere l’unico figlio laurearsi e io l’ho accontentata. Un giorno apprezzerò di più lo studio, come del resto ho imparato ad apprezzare la lettura, l’arte e la scrittura. Il senso di colpa. Quello sì, mi ha sempre seguito come un segugio. Dalla mattina fino alla notte, ma fortuna che c’era il quartiere.


10 La prima volta che entrai in un bar avevo dieci anni e fu Ric a introdurmi. Io avevo timore perché mia madre non voleva. Mi diceva che erano luoghi di perdizione e posti abbastanza loschi, soprattutto nei retro dove si organizzavano le bische clandestine. Ma Ric insisteva perché doveva giocare a un videogioco e gli serviva un compagno. Così un giorno racimolai delle monete sparse per casa e fui pronto per quella iniziazione. Lo ricordo come un giorno memorabile; da quel momento non ebbi più timore dei bar, anzi li vidi sempre come luoghi affascinanti, soprattutto quando iniziai a leggere, e i miei scrittori preferiti li frequentavano spesso. Una volta, dopo scuola, rimasi in una sala giochi di un bar fino alle due del pomeriggio. Poi un ragazzino venne ad avvertirmi che mia madre e altra gente mi stavano cercando e avevano avvertito la polizia. Ric fin da bambino era dotato di spirito di avventura e non aveva timore di affacciarsi alla vita vera. Credo che anche per lui quella volta fosse stato il primo giorno in un bar, ma sembrava ci fosse nato lì dentro. La vita pratica lo aveva sempre affascinato e non aveva paura di niente. Anche lui non aveva il padre, o meglio il padre c’era, ma non viveva in famiglia. Ogni tanto si faceva vedere, gli dava dei soldi e poi spariva. Non si è mai saputo cosa facesse nella vita. Ma la sua era una famiglia più numerosa della mia e non aveva certo tutto quel senso di colpa per via del padre. Almeno lui. E le sue debolezze sapeva nasconderle bene. Chi viveva in una famiglia apparentemente normale era Mac. Una famigliola borghese come borghese è diventato lui, ma sapeva da dove proveniva e cosa la strada gli poteva insegnare. Era amante dei comfort, Mac, e dalla strada otteneva le cose positive e quando veniva con noi diventava come quei gatti che si riadattano alla vita selvatica dopo la cattività. Se ne stava ben al largo dai guai, però, soprattutto quando cominciò a frequentare Lea. Non fu difficile ritrovarsi. Un incontro casuale per strada in un giorno di poco tempo addietro. Il sorriso contagioso di due amici ritrovati e il risvegliarsi di un’antica passione. Tutto qua. “Cosa fai ora? Senti ancora Mac?” …e il gioco è fatto. E avevamo il mare per immergerci le ferite, lenire i dolori e battezzare il rinnovato sodalizio.


11 Chi sarebbe stato piĂš audace a guardare indietro e fare i conti col proprio passato? Chiacchiere. Il richiamo del mare non si stava facendo attendere. Entro breve saremmo arrivati. Mac ci stava aspettando.


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III

«Senti Gio’, ma saremo di troppo…?» riattaccò Ric dopo un lungo periodo di dormiveglia. «No, e pure se fosse?» «Lei non ci ha mai potuto vedere.» «Chi se ne frega, Ric? Ci sopporterà, basta non esagerare come fai tu.» «Non ci sopporta.» «Chi se ne frega.» «E sai anche perché?» «Per quella storia al matrimonio?» «Sì.» «Macché, son cose che si fanno.» «Sì, ma per lei abbiamo esagerato.» «Ma Mac era il più contento di tutti!» «Ti ricordi le ragazze?» «Ero ubriaco, mi ricordo quando me lo hanno raccontato» dissi. Vestiti al contrario con il sedere di fuori ci avvicinavamo alle donne e le toccavamo con i nostri culi. E altre oscenità del genere. Mac avrebbe voluto ubriacarsi con noi, ma doveva fare lo sposo modello. «Ma non è per quello che Lea ci detesta» proseguii. «Come no! Non ti ricordi come ci guardava? Era disgustata.» «Non é per quello. Lei crede che Mac con noi si trasformi in un bambino che cambia addirittura voce e atteggiamenti.» «E tu che ne sai?» «Lo so e basta.» «Ma che ne sai.» I nostri discorsi si infransero sulle onde di un mare assolato e accogliente, che finalmente ci venne incontro riflettendoci addosso la parte più bella del sole al tramonto.


13 Sul litorale svoltammo a sinistra, verso le case, lasciando dalla parte opposta i lidi più in voga della costa, affollati di giovani di ogni tipo. Era tardo pomeriggio e la gente rincasava dalle spiagge costringendoci a procedere a passo d’uomo. Famigliole seminude e disordinate, ombrelloni sotto braccio; un senso di angoscia mi pervadeva, sorprendendomi alle narici e scivolando giù fino allo stomaco. Era il mio snobismo anticonformista che diventava ansia. Tante persone, tutte uguali e tutte insieme schiacciavano la mia individualità. Anche Ric era così, ma reagiva meglio emotivamente perché se ne fregava degli altri. In realtà anch’io me ne fregavo, ma avevo bisogno di più tempo per sciogliermi. Mentre cercavo di scaricare le mie ansie su carta, lui viveva con il sole in faccia, così come capitava. Era il mio alter ego. Le grandi bevute ci spedivano in un mondo migliore e il problema sorgeva il giorno dopo; quel mal di testa che ti colpiva sulla nuca e non ti mollava, e ti consumava tutto il giorno fino a sera per tormentarti il sonno, gettandoti in una cupa depressione. Insomma il guaio dell’alcool è che il giorno dopo ti presenta un conto malinconico, ma è un prezzo onesto da pagare. Ric conosceva le mie angosce, anche se non gliene avevo mai parlato fino in fondo. Gli accennai qualcosa riguardo ai deliri di quegli anni in cui non ci eravamo frequentati. Era apparentemente un tipo ruvido, ma estremamente sensibile. “Meglio prendere le cose che ti succedono come un gioco” diceva “al più se combini qualcosa di sbagliato cambi strada”. E lui spesso doveva cambiar strada nella vita. Ric faceva il meccanico, povero ovviamente. Non aveva alcun interesse ad arricchirsi e nemmeno a sforzarsi per lavorare. Ma aveva genio! Aggiustava le auto, ma solo quando era ispirato, e se era ispirato veniva un capolavoro. Il guaio è che uno nella vita non può sempre trovare l’ispirazione. E così a volte combinava dei pasticci con i clienti che aspettavano invano che lui aggiustasse loro l’auto. Non amava lavorare, ma lui era sempre stato così, anche quando era più giovane. Era bravissimo a suonare la chitarra e quando eravamo ragazzi era una vera attrazione. Aveva una forza spropositata e un animo nobile, molto più di me e di Mac. Magari era più istintivo e a volte brutale,


14 ma sapeva farsi apprezzare. Amava viaggiare e tutto quello che aveva guadagnato negli anni lo utilizzava per i suoi giri e i suoi eccessi. Piaceva alle donne - tutti e tre piacevamo, anche se a femmine di tipo diverso - ma lui era l’ariete, quello da mandare avanti a sfondare la linea. Era un autentico trascinatore e con lui le serate prendevano una piega diversa. Poi anche lui intraprese la via discendente della sua parabola. Si appesantì, non fu più l’ariete giovanile e perse la sua giovialità per accentuare la sua vena individualistica. Appena poteva scappava in qualche viaggio, da solo o con la donna di turno. E sempre più di rado si riusciva a incontrarlo. Quello che successe a me poi, fu un disastro che contagiò tutti. La morte di Anna divenne uno spartiacque inesorabile. Rappresentò il crollo di certezze inossidabili che potei analizzare solo a distanza di tempo. Quando Mac si sposò, io stavo con Anna, anche se da poco, e certo nemmeno lei apprezzò lo scherzo al matrimonio, tanto da rinfacciarmelo per molto tempo. Ma il punto non era quello. Il fatto era che senza più Anna e senza più mia madre, morta poco prima, ero rimasto senza legami femminili. Mi chiusi in un mondo di paranoie in cui nemmeno i miei amici potevano entrare. Durò per anni. Con Ric ci eravamo già allontanati. Sia lui che Mac provarono a riavvicinarsi per consolare il mio dolore, ma non lo permisi. Volevo soffrire da solo, conservare gelosamente e lontano dai pudori quell’inferno dentro di me, senza che neanche loro potessero esserne coinvolti. Era meglio ricordarli invincibili nella loro giovinezza, che imbarazzati al mio supplizio. La mia vita andò a rotoli. Mi facevo sentire ogni tanto, quando le notti insonni mi davano tregua e mi permettevano di ragionare da sobrio, giusto per mantenere il rapporto con gli altri, ma a una distanza adeguata. L’alcool era il mio tranquillante fidato, in cui annegavo i tanti bei ricordi con Anna, ma anche le tante incomprensioni asfissianti in cui ci imbattevamo spesso. La sua morte mi provocò una scintilla negativa che mi fece franare sotto


15 alle macerie dei miei problemi di ragazzo, che non ero ancora riuscito a risolvere. Vivevo nel panico. Migliorai gradatamente, ma solo dopo molto tempo e proprio grazie alla scrittura. Quando riuscii a capire che dovevo buttare sulla carta le mie ansie, le cose migliorarono. E potei riaffiorare alla vita reale e col tempo rivedere le persone più care. Ciò non significava che avessi abbandonato i miei dolori, perché il passato non si dimentica, bisogna farci i conti, renderlo innocuo e poi portarlo con sé come una cosa che arricchisce. E questo è quello che provai a fare. Da quel fermento nacque la mia prima opera che mi diede un po’ di respiro, soprattutto economico e che mi inorgoglì molto. Giovanni Mancinelli, una stella nuova nel firmamento letterario, così scrivevano i giornali. Ma io non ci avevo mai creduto e poi me ne fottevo di starmene nel firmamento. Meglio la terraferma, perché la terra è l’unica cosa vera, sincera. Scrissi comunque un romanzo avvincente, introspettivo, autobiografico quanto basta e molto tagliente, che ebbe un bel successo di pubblico e un ottimo riscontro nella critica; due fatti che se messi insieme portano al successo, ma il successo si sa è labile e breve. E io dovevo dimenticare in fretta il primo libro e ripartire da zero.


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IV

Il continuo cambio di marce ci portò verso casa di Mac. Aveva affittato una casetta sulla spiaggia, di quelle abusive ma ormai condonate. Per come ce l’aveva descritta doveva essere vecchia e un po’ arrangiata, ma conoscendo il vecchio Mac doveva essere molto confortevole. Eravamo ormai a pochi metri dalla nostra prima tappa vacanziera. Lui ci aspettava sul ciglio della strada con fare da sentinella. Sembrava molto ansioso. Era piantato in terra col suo costume lungo che gli lasciava fuori le gambe abbronzatissime e pelose. Quando capì che eravamo noi ci venne incontro. «Ce l’avete fatta, parcheggiate qui» disse avanzando con passo deciso. Era nerissimo, come sempre lo ricordavamo in estate, e indossava una camicia chiara aperta sul petto ispido e scuro. Notammo anche un mozzicone di sigaro ben saldo tra le dita, il che mi confermò le notizie raccolte da Ric: Mac aveva preso a fumare. Scendemmo e ci abbracciammo tutti e tre. Come bambini ridevamo e ci abbracciavamo, anche se Mac era diventato ingombrante e rimbalzavamo sulla sua nuova pancia felice. «Ve la siete presa comoda, non siete proprio cambiati» disse Mac. «Sul lungomare c’era folla e ci ha fatto rallentare. Ti sei sistemato bene qui.» Era un ambiente molto accogliente, un po’ selvaggio, in perfetto stile con il resto della zona. Mac ci spiegò un po’ di cose sulla spiaggia, di come si godeva la veranda e delle notti brave dei ragazzi che la sera bivaccavano davanti ai falò proprio di fronte a casa sua. «Ma è normale, Mac» intervenni «è estate.» «Lo so, ma davanti a casa mia non devono rompere.» «Sei vecchio e hai la pancia.»


17 «Lo facessero da un’altra parte e poi noi eravamo un’altra cosa.» Mi faceva ridere quando se la prendeva per quelle cose. A parte l’aria da boss, sempre con i capelli nerissimi e all’indietro, non era poi tanto cambiato da quando ci frequentavamo, perché già da adolescente cercava di darsi arie da adulto. «Lea è in casa?» dissi io. «Sì.» Lea era ai fornelli e Mac ci fece strada in casa, accompagnandoci da sua moglie. Lei davvero non era cambiata. Con la sua criniera mora e il suo corpo longilineo pareva anzi più giovane di qualche anno addietro. Si girò appena entrammo e la sua bellezza distinta ci colpì e imbarazzò come sempre. «Ciao Lea.» «Ciao ragazzi, come state?» «Bene, tu sei sempre in forma» aggiunsi. «Mac, accompagnali nella stanza.» Un accenno di sorriso, delicato e subito represso da una compostezza seriosa, ma accogliente vista l’occasione, che subito fu interrotta da Mac. «Ecco brutti gay, questa è la vostra stanza.» «Ma con il letto matrimoniale?» insorse Ric. «Meglio, no? Siete due gay!» Ci sistemammo alla meglio, giusto in tempo per la cena che Lea aveva preparato in veranda. Noi avevamo portato del vino. «Vai a prenderlo» dissi a Ric «è in macchina!» «Ah sì, le bottiglie.» Mentre ripercorreva il corridoio con le bevande nelle buste, Lea lo squadrava. Mi vergognavo, ma avevamo un regalo solo per Mac, e per noi tre visto che lei era astemia. Anzi, sarebbe stata una preoccupazione in più sapendo di cosa eravamo capaci con un po’ di alcool nelle vene. Almeno un mazzo di fiori per Lea potevamo prenderlo. Alle nove era pronto in tavola. Io e Ric, dopo una rapida doccia, ci vestimmo e raggiungemmo Mac in veranda.


18 Ric aveva dei jeans e una canottiera e rimase con le ciabatte bagnate ai piedi. Non badava molto al formalismo e secondo me neanche alla comodità personale. Non avrei mai potuto essere a mio agio così bagnato. Forse le scomodità lo tenevano vivo e gli davano la possibilità di stare sempre vigile, senza rilassarsi mai. Io indossavo un paio di bermuda e una camicia di lino estiva aperta sul petto. Ricordavo un cacciatore da safari, uno stile che mi aiutava a sognare avventure da superuomini di altre epoche, in cui si mescolavano vizi selvaggi e virtù letterarie. Nella dispensa prima di uscire avvistai del whisky e lo feci presente a Mac. «Se vuoi ho acqua gasata gelata in frigo, al resto pensaci tu» disse. Sorrisi e senza aspettare un attimo mi diressi verso il frigo, chiesi scusa a Lea, aprii e portai via la bottiglia. «I bicchieri sono qui sopra» mi fece lei senza guardarmi, col tono di chi rimbrotta senza essere seria. La ringraziai e con silente velocità rapii due bicchieri e me ne scappai. Versai il whisky nei bicchieri poi ci versai sopra un po’ di acqua gelata. «E io?» esclamò Ric. «Tu guardi» risposi mentre ero intento a dosare le quantità giuste. Il resto lì sulla veranda era perfetto. Mac già fumava. Aveva preso il vizio da poco, ma in realtà gli era sempre piaciuto fumare. Da quando si era sposato aveva attaccato con un ritmo incalzante, per la gioia di Lea. E comunque il sigaro gli dava un contegno inaspettato. Era diventato un signore. Si era imborghesito, ma aveva sposato la donna che amava e le cose gli andavano bene. Forse si annoiava un po’, ma sembrava soddisfatto. Un’altra cosa in cui Lea sapeva distinguersi era nel cucinare. Io e Mac non facevamo complimenti a tavola, un po’ meno Ric, che non amava le cose preparate da altri. Quella sua tendenza si era accentuata nel corso degli anni, anche se compensava i digiuni forzati sfamandosi famelicamente nei più disparati bar e paninoteche alla ricerca di pizze, kebab e panini di infimo ordine. Ce ne erano di storie che Ric ci aveva raccontato sulle cucine dei ristoranti.


19 Sosteneva che la diffidenza nel mangiare cibi di altri provenisse dalla sua esperienza nei ristoranti. Ma in gran parte erano storie raccontategli dal fratello maggiore. Suo fratello era poliziotto, ed era spesso in giro con amici o per lavoro. Sin da bambino Ric dovette sorbirsi delle vicende incredibili che il fratello gli rifilava. Messe nere, delitti efferati e avvenimenti abominevoli sui ristoranti. Ric poi ci aggiornava su tutto, forte delle sue capacità espositive, e le sue storie ci rimanevano impresse. Quando ci trovavamo a mangiare nei locali, era solito chiamare il fratello che lo informava sulla reputazione del ristorante arricchendo il suo giudizio sempre con nuove vicissitudini. Eventi che acquisivano il crisma dell’ufficialità, visto che provenivano da un poliziotto. *** “Non sapete che mi ha riferito mio fratello”, e così partiva con la storia che non ci si sarebbe mai aspettati. Una volta ci trovavamo in un ristorante di pesce. Ci parve subito molto diffidente al momento delle portate. Chiamò il fratello davanti a noi. «Lo conosci questo posto?» Mentre ascoltava le informazioni il suo sguardo mutava in un volto atterrito, che catturava straordinariamente la nostra attenzione. «Ragazzi, non mangiate quel pesce! È surgelato e poi è usato solo per nasconderci la droga, il ristorante è una copertura.» Quella volta, una delle prime occasioni, gli credemmo e abbandonammo i nostri pesci per andarcene. Poi capimmo che erano sue paranoie, anzi sue e del fratello, che si divertiva a prenderlo in giro o perché era più psicopatico di lui. Quando ci intratteneva con le sue storie, noi lo assecondavamo e continuavamo a mangiare i nostri pasti, mentre lui rimaneva digiuno, salvo poi soddisfare la sua fame in qualche pizzeria o bar notturno. Così si passava tutta la serata a mangiare, prima noi e poi lui. Una sera eravamo invitati a una festa in una villa. Era il compleanno di una ragazza che nemmeno conoscevamo bene. L’ambiente era un po’ sofisticato, forse un po’ snob ma allegro. La cena fu servita a buffet con prevalenza di piatti di pesce. Fu il padre della festeggiata


20 che ci pose i primi di pesce ancora fumanti e noi non potemmo rifiutare. Io, goloso di tutto, assaggiai con gusto sotto agli occhi del padre che si stava vantando delle doti di grande chef domestico. Lo assecondai con soddisfazione, visto che il cibo era ottimo e mangiai tutto gustandomi delle ottime combinazioni di pesce e pasta. Nel frattempo Ric stava arrancando con la prima portata già dopo due forchettate. Alla terza mi disse: «Gio’ accompagnami al bagno.» Gli risposi che non sapevo dove fosse, anche se in realtà ero impegnato a gustare il mio pasto e non avevo intenzione di interromperlo. Nella sala, poco dopo, vidi Ric che chiedeva a una ragazza dove fosse il bagno. Allora lo accompagnai ed entrai nella toilette giusto in tempo per assistere a Ric che mi vomitava addosso le sue due forchettate di pasta. I conati del suo potente rigurgito sporcarono per terra nel corridoio, lasciando a bocca aperta chi passava da quelle parti. Poi chiuse la porta del bagno alle nostre spalle. «Che hai combinato? Fai schifo» feci. «Lo so ma hai assaggiato la pasta? Ci ho sentito del muco dentro.» «Ma che dici, era ottima… tu sei fissato, guarda che hai fatto. Puzziamo del tuo vomito.» Mentre io parlavo lui scaricava il suo piatto nel water, cosa che gli provocò altri conati. Il rumore aveva richiamato l’attenzione degli ospiti, oltre alla scia puzzolente del suo vomito che ci annunciava già dal corridoio. Sopraggiunsero anche i proprietari che chiesero se stavamo bene. «Sì, sì» rispondemmo, ma dovevamo uscire e affrontare il pubblico ludibrio. «Esci da questo cesso!» gli intimai. Dopo altri conati ci lavammo alla meglio gettandoci dell’acqua sui vestiti e uscimmo. Vedemmo dai loro occhi il nostro pietoso aspetto. Da quel giorno non rivedemmo più quella ragazza e tutto il resto della compagnia. Ma la migliore di tutte le storie gastronomiche di Ric fu quella che ci raccontò su un ristorante e i suoi cuochi filippini.


21 «Non andate mai lì» ci ammonì una sera «quel locale è peggio di una fogna.» Eppure noi avevamo notato sempre un buon viavai di clienti, ma mai cose strane. «Mio fratello» continuò «c’è andato una volta con i suoi colleghi e quando si è alzato per andare in bagno ha sbagliato porta ed è entrato in cucina» fece una pausa, poi con lo sguardo severo proseguì: «Quello che ha visto nemmeno ve lo immaginate.» «Cosa?» incalzammo noi. «Ha visto un filippino che lo prendeva in bocca dall’altro.» Era l’iperbole dell’enfasi narrativa di Ric. Qualcuno gli rammentò che non era presente, ma lui sentenziò: «Dico la verità» e il suo tono perentorio non accettava smentite. Poi aggiunse: «Anch’io avevo notato movimenti strani quando ci sono stato… e poi il sapore di quei piatti.» Ecco perché diffidava del pesce ormai. *** Ci sedemmo a tavola quando Lea portò da mangiare. Lea era sorridente perché sapeva che avremmo apprezzato la sua cucina. Sul mangiare non c’erano possibilità di scontri. Ci ritrovavamo tutti, a parte le manie di Ric. La serata procedeva bene, tra le portate di Lea e il sigaro di Mac. L’aria era fresca e si stava bene di fronte al mare, dove le parole scorrevano scivolando lungo fiumi di vino. Lea aveva fatto degli spaghetti allo scoglio buonissimi. Ric ne mangiò solo la metà, poi il resto lo passò a me senza farsi vedere. Il secondo andò meglio anche per Ric. «La carne è un alimento sano, non lo devi manipolare» sosteneva «la trovi già così, la devi solo cuocere.» Nemmeno delle candide mani di Lea si fidava.


22 Mac mangiava con calma e contento della nostra presenza. Era sempre stato così: pacato, conformista, anche un po’ opportunista, ma sempre generoso con noi. Lavorava in banca. Un lavoro tranquillo e stabile. Era riuscito a entrare grazie ai traffici del padre, anche se non aveva grandi pretese dalla vita. Era una persona molto pragmatica e non somigliava per niente a me e a Ric, ma quella sua razionalità era preziosa per noi perché ci dava quella sicurezza basata sull’ordine, che a noi serviva per il nostro slancio creativo. Del resto anche lui si nutriva della nostra vitalità o imprevedibilità. «Allora Gio’» fece Mac «come procede la tua attività? Riesci a scrivere?» «Non proprio» risposi. «Ti manca l’ispirazione.» «Già.» «Questa estate ti porterà bene» intervenne Ric. Io risi, perché poteva essere vero. Magari mi poteva scuotere dentro. «Non è facile scrivere, figuriamoci se lo devo fare per commissione» dissi. «Però ti pagano, lo stimolo lo trovi» fece Mac. «Sì, vorrà dire che alle strette mi inventerò qualcosa.» *** La casa editrice, dopo il successo del libro, aveva deciso di puntare su di me e mi aveva commissionato una seconda opera. Ma non avevo le idee. Era una buona possibilità per svoltare. Non scrivevo sempre, ma ero stato fortunato con quel romanzetto introspettivo. Sono quelle congiunzioni astrali che capitano all’improvviso e ti indicano la strada e tu, che lo voglia a no, sei costretto a seguirla. Altrimenti cosa avrei potuto fare? All’Università avevo pensato più a divertirmi che a studiare e così mi ero laureato tardi e con poca voglia di lavorare. La crisi già imperversava e avevo trovato solo qualche lavoretto nei bar. Così le sere lavoravo e il pomeriggio scrivevo.


23 Mi piaceva fare il barista. Imparai molte cose sui cocktail e tutto il resto, anche se era faticoso. A fine turno, dopo aver servito da bere per tutta la sera, cominciavo io. Insieme ai colleghi mangiavo qualcosa, ma poi bevevamo, visto che era tutto a nostra disposizione. Il giorno dopo era difficile svegliarsi. Ma in una di quelle sere conobbi Anna. Entrò nel bar con delle amiche per prendere qualcosa da bere dopo cena. Mi colpì subito il suo sguardo fresco e attento. I suoi capelli biondo cenere incorniciavano un viso dolce dagli occhi castani e talmente profondi da vederci il bene dentro. Quando incrociò il mio sguardo fu naturale sorriderci e io mi sentii ribollire dentro. Allo stesso tempo mi esaltai e capii di volerla. È come quando tutto è perfetto e ogni cosa va come deve andare. Ogni volta che servivo lei e le sue amiche, avevo una battuta pronta per farla sorridere. Ci desideravamo e già ci mancavamo. Non la persi di vista per tutta sera. Come era aggraziata nel conversare con le amiche. Così signorile e semplice allo stesso tempo. Riuscii a strapparle il numero. Quando glielo chiesi lei non attese nemmeno un istante; mi rispose così prontamente da farmi capire che tra noi ci sarebbe stato qualcosa di buono e lo intuii da un senso di calore distensivo che mi colse alla pancia, dopo che Anna aveva pronunciato l’ultima cifra del suo numero. Ero sempre stato un sognatore e ciò mi aveva impedito di approfondire qualsiasi tipo di attività. L’unica stabilità venne proprio dal rapporto con Anna. Dal momento che le cose venivano affrontate veramente, sarebbero uscite dal mondo dei sogni e sarebbero entrate nella realtà, nella razionalità e avrebbero perso il loro fascino. Incastrate in una procedura per me difficile da seguire, mi avrebbero allontanato da loro. Forse era un altro modo per dire che ero pigro, forse era un altro modo per capire che dovevo scrivere, ma Anna sapeva sopportarmi. Del resto non sono come chi ha l’esigenza di scrivere continuamente. Scrivevo solo casualmente e ciò è un azzardo per uno scrittore. Primo, perché puoi fare delle pause anche molto lunghe, a volte troppo per una casa editrice; secondo, perché rischi


24 di scrivere, insieme a varie banalità, troppe cose importanti ma tutte insieme, senza diluirle in un tempo utile per guadagnarci da vivere. E poi con i miei continui sbalzi d’umore non era facile essere fresco per buttare giù due righe. *** «Quel tuo libro non era niente male» disse Lea «quelle cose oscene potevi risparmiartele però.» In realtà ero lusingato dal suo apprezzamento che voleva mascherare l’insolito complimento con una stilettata alle scene hard che avevo descritto. Era un gesto di apertura nei miei confronti. Pensavo che mi snobbasse, ma dal suo sguardo e da come avesse mal celato quel rimprovero conseguente all’apprezzamento, percepii il suo interesse. Restai al gioco rimanendo sulla critica. «Ma sono importanti quanto la storia e lo stile! Danno maggiore risalto a quella condizione esistenziale del protagonista.» «Danno un senso di piccante alla storia Lea, serve anche quello» aggiunse Mac riducendo tutto all’aspetto materiale e utilitaristico, come suo solito. In realtà, dopo aver sorseggiato della buona grappa che Mac si era procurato da qualche suo giro, capii. Scendendo in uno strato sotterraneo dell’interpretazione, mi resi conto di cos’altro intendesse Lea. Incominciai ad avvertirlo quando arrivammo alla frutta e quando non avevo più bisogno del vino. Mentre lei portava via i piatti il suo volto sereno da vincitrice mi illuminò. E capii. Dietro alla sua battuta c’era ancora una volta, se ce ne fosse stato bisogno, il ribadire che Mac era suo e che non sarebbe più stato un compagno per le nostre avventure che non si addicevano alle esigenze di una coppia come la loro. Stabilito questo, la sua battuta manifestava l’apprezzamento per quello che avevo scritto, ma non abbastanza da condividerne lo stile di vita. Amici sì, ma diversi. Anzi, amici di Mac, ma alla giusta distanza. Alla fine lo intesi per quello che era: un armistizio tra noi. Anni di lontananza, di dolori e incomprensioni, ma ormai eravamo maturi per mantenere in piedi una coesistenza pacifica, in virtù del nostro bene in comune: Mac.


25 «La cena era buonissima Lea» esclamò Ric col suo modo ruffiano, tanto che Lea gli sorrise aggiungendo: «Grazie, ma hai lasciato tutto però.» «Ma non è vero, ho mangiato!» «Sì, tranne quello che hai passato a Gio’» replicò sorridendo. «Arrenditi Ric» aggiunse Mac. Ric rimase senza parole mentre ci guardava imbarazzato, come se fosse stato accusato di un crimine che non aveva mai commesso. *** Dopo cena eravamo troppo stanchi e brilli per uscire. Rimanemmo lì, affacciati sul mare, con la brezza che ci accarezzava il viso e il fumo di Mac che ci entrava nelle narici. Stavamo quasi immobili a riposare, senza parole. I discorsi erano finiti e gli ultimi pensieri se li portava via il vento caldo, che insieme all’alcool creava una miscela proditoria per il riposo notturno. Quando ce ne andammo a dormire risentii del viaggio e della ghiotta cena. Faticavo a trovare una giusta posizione e Ric attaccò a russare. Si muoveva, tirava le lenzuola e si raggomitolava il cuscino; se mi distraevo, magari per alzarmi e andare in bagno, mi rubava il cuscino e se lo metteva tra le cosce, e non riuscivo più a riprenderglielo, chiuso a tenaglia tra la sue potenti gambe. Sapevo per esperienza che dormire con Ric non era facile. Io propenso a delle notti insonni e lui a mettersi in evidenza anche quando dormiva. Provai a mettermi a pancia in su, con le braccia dietro alla nuca. Mentre scrutavo il soffitto nero cercavo una convivenza possibile con il mio amico. La finestra aperta concedeva solo un po’ di luce dall’esterno, ma di aria fresca nemmeno a parlarne. Il passaggio delle auto nelle vicinanze illuminava il soffitto di figure geometriche create dai fari, che scorrevano sopra di me velocemente e dolcemente. Era una cosa che mi portava sempre molto sollievo quando ero bambino. Proprio in quei luoghi, quando venivo a villeggiare con mia madre, la notte mi presentava il conto della solitudine di due persone che


26 dovevano bastare a se stesse. Quando mia madre mi metteva a dormire, io non dormivo. E l’oscurità della stanza si popolava di mostri di ogni genere. Ombre, rumori, scricchiolii, tutto era amplificato dalla mia ansia di bambino solo. Non la chiamavo mai per soccorrermi. Forse per orgoglio o forse per non caricarla troppo di ulteriori doveri nei miei confronti, dopo un’intera giornata passata ad accudirmi. Ma schiacciato dall’ansia di quelle camere oscure, ci voleva poco a tramutare la mia fantasia in terrore. Scarichi del bagno che si trasformavano in aliti di un mostro infernale; il lavorio dei tarli nel legno che tradivano dei movimenti inopportuni di presenze intente a osservarti nel buio; vecchi armadi troppo imponenti per non conservare segreti indicibili al loro interno; porte socchiuse che stavano per essere aperte da chi smaniava per sconvolgermi la vita. Le mie paranoie non andavano in vacanza, mi seguivano ovunque io mi recassi. Nelle ore di attesa per prendere sonno, almeno in vacanza, quelle macchine che passavano e illuminavano di figure il soffitto erano il mio solo momento di requie. Mi riconducevano alla realtà, perché erano guidate da uomini adulti, concreti, che avevano il peso di mantenere una famiglia e non potevano badare a mostri o fantasmi. E così il loro passaggio diveniva per me il saluto di figure paterne mai conosciute, che mi confortavano nei secondi in cui spazzavano via le mie paure con il rumore dei motori e la luce riflessa dei fari sul soffitto. Non temo più i mostri nell’oscurità, ma non dormo mai nel buio completo. Ho bisogno sempre di avere un po’ di luce che mi conceda dei punti di riferimento. I mostri ora sono nella realtà di tutti i giorni, nelle sfide continue che minano il mio equilibrio. Ma ero di nuovo in vacanza, e il sollievo delle macchine che passavano non bastava a conciliarmi il sonno. L’umidità poi fece il resto, densa a tal punto da impedirmi di respirare. Dopo i primi giramenti nel letto ero già intriso di sudore. Caldo, movimenti appiccicaticci, delirio. I pensieri reconditi non si fecero attendere, caricati dall’ansia di dover dormire. Quanto tempo è passato. Quei dannati anni che mi separano da te.


27 No, non contano, stai solo aspettando, stai aspettando il momento giusto per tornare. Questi anni cosa sono? Mi sembra ieri che ci guardavamo negli occhi. Dio non ce lo faccio, non ce la faccio ad andare avanti, chi mi aiuterà? Aiutami, non ce la faccio così. Sento la fine, sono troppo fragile per camminare senza di te. Aiutami! Perché te ne sei andata?! Smettila di tormentarmi. ho mangiato troppo. Che farò adesso, è impossibile che tu non esisti più, oddio. Allora non esisto neanche io, non servo a niente, non so fare niente senza di te. Padre nostro… ma esisti Dio?! Perdona le mie bestemmie, perdonami e aiutami. Ho paura di svegliarmi all’improvviso e non sapere dove trovarti. Eccolo che arriva e non riesco a trattenerlo. Mordermi le labbra, attendere qualche secondo, poi passa. Sì, è andata, credevo di morire, ma ce l’ho fatta anche stavolta. Io ti amavo. O Signore…


28

V

Un rapido ciabattare mi risvegliò il giorno dopo, accompagnato da un sonoro trambusto di stoviglie. Guardai l’orario. Le undici. Ric stava disteso al mio fianco ancora in pieno sonno e solo in quel momento, fortunatamente, udivo il suo russare. Mi alzai per andare al bagno. I rumori che avevo sentito non furono seguiti da un movimento in casa. Forse solo Lea era sveglia. Rientrai in stanza e mi distesi al fianco di Ric che dormiva senza nemmeno essersi spogliato. Era un uomo distrutto dall’alcool. *** Un’ora dopo stavamo tutti in piedi. Con Mac decidemmo di andarcene al mare. In spiaggia c’era gente ovunque, quasi noncurante di una canicola che picchiava forte. Piantammo il nostro ombrellone facendoci largo tra bambini scatenati e corpi sudati che friggevano al sole. Ric si buttò subito in acqua, facendosi largo tra grassoni e mamme ansiose che scortavano i figli. Lo seguimmo anche noi. In acqua si stava bene. Dava un senso di libertà e di refrigerio. Noi non perdevamo l’occasione di avvistare qualche ragazza. Il nostro soggiorno da Mac stava finendo e ce ne saremmo andati la sera stessa per proseguire lungo la costa. «Sono contento che siete venuti, peccato che non potrò venire con voi.» «Che hai, ora ti sei pentito di esserti sposato?» gli dissi ironico mentre mi allungavo nell’acqua tiepida per muovere un po’ i muscoli.


29 «Ma no, è che mi annoio; non per Lea, e Dio sa quante gliene ho fatte passare.» «Perché? Ha scoperto qualcosa?» «No.» «E allora?» «Lei non mi ha mai detto niente, anche se spesso l’ho vista perplessa. Forse qualche dubbio le è passato per la testa.» «Tanto ormai hai raggiunto la pace dei sensi, può stare tranquilla.» «Girati e ti mostro la pace dei sensi.» «Comunque non è di Lea che sono annoiato» aggiunse «ma in generale, della vita quotidiana. Fai le stesse cose da anni e non ti rendi conto di come il tempo scorra. Tu pensi che sia tutto sempre uguale e invece un giorno ti svegli e ti accorgi che ogni cosa è cambiata… ogni cosa.» «Non ti capisco; credi che la vita ti sia passata davanti e tu non te ne sia accorto?» «Sembra che io, nella mia cazzo di vita, abbia sempre fatto delle cose che gli altri mi hanno indotto a fare, che non siano state scelte mie. Il lavoro, il matrimonio, la casa e tutto il resto. È come se mi sentissi un esecutore della mia vita, un automa.» «Ma che dici, tu hai fatto sempre quello che hai voluto e… e sta fermo un attimo» dissi a Ric «e ti è andata sempre bene.» Ric ci schizzava come fosse uno di quei bambini nei paraggi, ma accorgendosi della discussione si avvicinò. Sembrava infantile, ma forse era il più perspicace di noi, quello che con una battuta ti stravolgeva lo spartito di una musica che non andava da nessuna parte e anche con quella sua giocosità voleva esprimere qualcosa a Mac. «Sei un punto di riferimento per noi, Mac» dissi «magari fossimo come te. Abbiamo bisogno di un po’ di normalità.» «Ma quella ti distrugge Gio’, lo capisci? C’è da impazzire così. A volte penso: e se non lavorassi che farei nella vita? Farei la fine di quei pensionati che muoiono presto, che si ammalano perché non sanno fare altro che lavorare?» «Non dire stronzate» intervenne Ric «vuoi sapere qual è il senso della vita?»


30 Mac guardò con diffidenza l’amico grondante d’acqua da ogni poro, come se si aspettasse qualche numero dei suoi. «È questa!» Lo abbracciò, scaraventandolo in acqua e sovrastandolo con il suo possente fisico senza che l’altro potesse opporre resistenza. Mi aspettavo una scena del genere. Risi e mi tuffai in scia, e per un po’ ci azzuffammo roteando come delfini dispettosi, soprattutto verso gli altri bagnanti. Ingaggiammo una gara di nuoto verso il largo e poi giocammo a palla. La nostra specialità era quella di disturbare le ragazze lanciando loro la palla e chiedendo di restituircela per attaccare bottone. In realtà era sempre stata una strategia fallimentare e ormai eravamo arrugginiti da un lungo intervallo di inattività, così che l’epilogo non poté che essere la più completa indifferenza da parte loro. Alla fine uscimmo dall’acqua stremati. Sembravamo dei bambini, era vero, e quando parlavamo di cose importanti le trattavamo con la stessa leggerezza. Un metodo infallibile per dare freschezza alle idee. Un’ingenuità che ci mostrava i fatti della vita nel modo migliore. Quasi fosse un gioco, un rebus da risolvere. Era quello che Lea non capiva, che forse non avrebbe mai capito. Ci scambiava per dei bambini un po’ cresciuti e forse era meglio così. Erano cose nostre. Ma ciò che forse non vedeva nei nostri sguardi ingenui era la purezza, quella che bisognava preservare per rimanere veri, quella voglia di stupirci per particolari che per gli altri potevano sembrare banalità. Ed era per quello che Mac stava combattendo, forse anche contro Lea, il suo amore, il suo vanto e la sua complice. Ma se l’anima conformista di lei avesse prevalso, allora Mac si sarebbe perso per sempre. *** Quando rincasammo, Ric lasciò impronte di sabbia ovunque. A Mac non era che fregasse molto. Sulle questioni di casa non si intrometteva. Riguardavano Lea, con oneri e onori.


31 Ma Ric aveva esagerato come il suo solito. Quando Lea se ne accorse, con la consueta signorilità porse nelle mani di Ric scopa e paletta, così lui si rassegnò a riparare a quel che aveva combinato. Dopo aver mangiato spaghetti al pomodoro, dell’insalata e un po’ di vino bianco, riposammo per circa un’ora. Verso le quattro e mezza riscendemmo in spiaggia. Stava salendo un vento poderoso e il mare era mosso, non una novità per quei luoghi. In spiaggia avevamo così molto più spazio perché le famiglie avevano preferito non scendere per via del vento e del mare agitato, che poteva essere pericoloso per i più piccoli. I pochi presenti stavano sulla battigia per evitare il sollevarsi della sabbia alta. Per noi era perfetto. «Mac» feci «Dai prendi la palla.» Ci mettemmo a giocare a pallone, mentre Ric era intento a prendere qualche scampolo di sole, visto che non amava giocare a calcio. A Mac andava sempre bene tutto. Era capace di assecondare qualunque cosa. Così iniziai a calciare la palla più forte e ci ritrovammo a rincorrerla sull’ampio spazio intorno a noi. Più correvo e più riacquisivo forza, quasi che stessi scrollandomi di dosso le tossine incrostate della mia ansia. E più correvo e rincorrevo la palla, più ritrovavo le sensazioni giovanili di quando giocavo in quei luoghi. La cosa bella di rincorrere una palla è che tutti i problemi della vita si concentrano sulla palla stessa e tu corri a calciare più forte che puoi, senza limiti, superando la fatica di farlo sulla sabbia alta e calciando il pallone sempre più forte, sempre più in alto. Mac era concentrato quanto me a giocare. I nostri tiri spesso colpivano Ric che, assorto nel prendere il sole, ci lanciava qualche imprecazione. Eravamo sudati, con l’affanno della corsa e i piedi che cominciavano a farci male, sempre più rossi e gonfi per i continui tiri sulla sabbia alta, ma soddisfatti e sporchi. Proseguimmo per quasi un’ora, rispettando rigidamente la disciplina del gioco e raggiungendo distanze sempre più ampie. Arrivati quasi al limite delle forze ci trascinammo da Ric. Eravamo pronti per il bagno tra le grandi onde e Ric non aspettava altro. Quella era un’altra nostra specialità; sin da piccoli ci tuffavamo


32 verso i cavalloni saltandoli o cercando di cavalcarli, e anche in quell’occasione mi accorsi che la voglia era la stessa di tanti anni addietro. Su di me sentivo l’acqua frizzante che si infrangeva e quei flutti così aggressivi che mi avvolgevano nel manto verdeazzurro. Ci buttavamo in quelle onde senza fermarci, perché una seguiva l’altra in un moto continuo. Il mare, troppo tempo senza respirarlo, troppo tempo senza immergermi in quella madre primitiva e lasciarmi coccolare e avvolgere proprio quando sembrava più agitato. Restammo a mollo così tanto che le dita si arricciarono, altro evento che non mi capitava da anni. Capii che le cose belle non muoiono mai, che puoi farle riemergere per sconfiggere quelle brutte. Forse le cose negative sono di più, ma le belle sono assolute. *** Al rientro emersero i dolori di una giornata al massimo. Mac, che era più appesantito di me, faceva fatica a riprendersi e sentiva bruciori e dolori ai muscoli e alle articolazioni. Ma dovevamo prepararci per quello che sarebbe stato l’ultimo pasto con i nostri amici. Mangiammo in una rosticceria verso il porto, che faceva dei calzoni di pesce. Una specialità del luogo. Prendemmo quelli imbottiti di calamari al sugo, pesce spada, acciughe e indivia. Il tutto condito da tanta birra. Lea ordinò dell’acqua. Quel posto c’era sempre stato, me lo ricordavo sin dai tempi dell’infanzia, quando vi andavo con gli amici accompagnati dai papà. Già allora mi sentivo inadeguato. Un intruso, visto che il turno di essere accompagnati da mio padre non sarebbe mai avvenuto e così i calzoni bollenti, che ricevevo frettolosamente dai genitori, mi suscitavano un gran disagio. Ma già al primo morso mi dimenticavo dell’imbarazzo e ad anni di distanza il ricordo era più piacevole della stretta gelata della solitudine. I calzoni che ci servirono erano appena stati sfornati, ma non riuscimmo a frenare la nostra avidità. Ci bruciammo la lingua per assaporarli subito. Consumammo litri di birra per placare il bruciore,


33 tra i rimbrotti di Lea che ci diede degli incoscienti. Poi la folla di bambini, in cui non mi riconobbi, si presentò insieme a qualche ragazzo più grande che la faceva da capetto. «Che sbandati questi ragazzi» fece un signore sui sessanta in bermuda, sandali, sigaretta e una pancia prominente. «Non sanno cos’è il rispetto» continuò «crescono su come bestie.» «E che ne sai?» risposi con disprezzo «secondo me sono meglio di voialtri.» «Noialtri sapevamo cos’era la disciplina e il rispetto» rispose quello senza scomporsi. «Voialtri non sapevate un cazzo e a loro avete lasciato solo le briciole. Ringrazia che sono svegli e qualche cosa la faranno lo stesso» incalzai con rabbia. «Ehi» fece Mac mentre Ric mi poneva una mano sulla spalla, sia per calmarmi che per controllare qualche mia reazione scomposta. Il signore se ne andò, bofonchiando ma mantenendo inalterata la sua espressione. E tutto ritornò alla normalità, di fronte al molo da dove partivano i battelli per le isole. Mangiavamo sereni al sole, guardando la gente che saliva sui traghetti, lasciando sullo sfondo un panorama tanto semplice e naturale da restare incantati. La leggera brezza del mare, complice il buon riparo fatto di teli di stoffa spessa della rosticceria, ci faceva stare bene anche nel caldo afoso del primo pomeriggio, e le nostre birre scendevano giù nel modo migliore. Ammiravo Mac quanto Ric. Sebbene fossero diversi tra loro, possedevano delle qualità che avrei voluto possedere anch’io. Conoscevo bene i loro difetti e anche le loro paure, ma avevo bisogno dei loro pregi. Mac si rifugiava nella razionalità, ma il suo modo di comportarsi mi dava sicurezza. Se volevi evitare qualche rischio che ti inquietava, bastava andare da lui che aveva già pronta una via di fuga. Ric era l’incoscienza più pura. Un perdigiorno che viveva la vita come veniva. Gli riconoscevo un senso di libertà che a me faceva paura. Mac era il suo opposto. Pienamente centrato nella realtà quotidiana di cui era un perfetto interprete. E poi c’ero io, perfettamente al centro tra i due. Un anticonformista pacifico, che si


34 confonde abilmente nella massa, conoscendone e spesso amandone i costumi. Forse quella mia contraddizione alla lunga mi aveva devastato… forse, ed ero in una posizione scomoda perché era difficile barcamenarsi, ma avevo il vantaggio di osservare i due poli da vicino. *** I preparativi per la partenza si avvicinavano. Faceva molto caldo quel pomeriggio. Ogni movimento era una fatica piena di sudore. Dovevamo sbrigarci perché stava iniziando un altro tipo di viaggio. Il resto della costa ci aspettava. I nostri bagagli erano pronti. Mac ci accompagnò alla macchina, intanto noi salutammo Lea, più tranquilla visto che tutto era filato liscio. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO: In occasione del suo 10° anniversario, la 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio "1 Giallo x 1.000" per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2018) http://www.0111edizioni.com/

Al vincitore verrĂ assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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