Feliz Navidad, Vincenzo Borriello

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In uscita il 31/ /2019 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine PDJJLR e inizio JLXJQR 2019 ( ,99 euro)

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VINCENZO BORRIELLO

FELIZ NAVIDAD

ZeroUnoUndici Edizioni


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FELIZ NAVIDAD Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-309-3 Copertina: immagine Prima edizione Maggio 2019 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


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FELIZ NAVIDAD

L’odore

delle foglie marce rendeva più pesante il respiro

della donna che correva lungo i viali alberati del grande parco poco prima del crepuscolo. La leggera foschia cui andava incontro ricordava l’autunno inoltrato. Chiusa nella leggera giacca a vento e protetta dal cappuccio la snella figura non sentiva l’umidità della sera, ma sbuffava piano con il viso accaldato dalla fatica. La musica dei Coldplay sparata a tutto volume dalle cuffie le impediva di udire lo scroscio del ruscello che correva parallelo al sentiero e i rumori dei suoi passi sulla ghiaia. Il parco era semideserto, per questo sceglieva sempre quell’ora. Pochi incontri, sempre i soliti; un sorriso e un lieve saluto sbattendo gli occhi, sempre persa nella musica. Domenica sera. L’indomani sarebbe cominciata la solita settimana fitta di impegni e di stress. Le note violente nei timpani l’aiutavano a non pensarci. Forse la stanchezza le aveva appannato i riflessi o forse era troppo distratta dalla


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musica. Inciampò cadendo pesantemente in avanti. Una caduta rovinosa che le aveva strappato un urlo più di sorpresa che di dolore. Rialzò la testa con il viso in fiamme, grattato dalla ghiaia a pochi centimetri dalla sponda del fosso che delimitava il ruscello. Trascorsi i primi secondi dall’impatto si rese conto di avere male dappertutto; le mani erano spellate e sanguinavano. Sentiva con le dita la pelle lacerata del naso. Il dolore più forte l’avvertiva sui seni, che avevano subito l’impatto più violento con il terreno. Con le lacrime agli occhi fece appena in tempo a liberarsi delle cuffie che le martoriavano le orecchie che intravide l’ombra in piedi su di lei. Trovò la forza di sorridere allungando un braccio verso quella presenza così rassicurante. Sentì la violenta stretta al collo e istintivamente cercò di liberarsi. Non ne aveva la forza, il cappio si stringeva sempre più trascinandola verso l’acqua. Tentò di gridare ma la voce non uscì. In bilico sul fossato arrancava senza fiato mentre la vista si annebbiava e le dita grattavano disperatamente il terreno nel tentativo di frenare la caduta. Qualcuno le sollevava le gambe, con grande fatica. Non riuscì a opporsi quando perse tutti gli appoggi e precipitò in acqua. Il cappio allentò la presa per un attimo e lei provò con tutte le forze rimaste a tenere la testa fuori dall’acqua. Qualcosa di pesante la colpì sulla nuca ricacciandola dentro. Le sue ultime percezioni furono una forza ruvida che le premeva la


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testa sott’acqua e la terribile sensazione dell’acqua che le gonfiava i polmoni. Il suono delle sirene riempiva l’aria della sera. Era incessante, troppo per un borgo solitamente tranquillo. Martina stava finendo di cenare e guardava gli occhi inquieti di sua madre cercando risposte. Il papà era andato sul balcone quasi d’istinto. «È successo qualcosa» sentenziò rientrando. «Di grave» aggiunse dopo una pausa. La mamma si alzò per sparecchiare senza nascondere l’agitazione. «Cosa vuol dire grave?» domandò la ragazza che avvertiva la tensione nell’aria. «Non preoccuparti» le rispose seccamente la mamma. «Qualunque cosa sia successo, lo sapremo domani. Dammi una mano

e

ricordati

che

devi

finire

i

compiti».

L’aria umida gli entrava nelle narici trasportando gli odori della campagna corrotti dai gas di scarico delle auto. Ce n’erano quattro dei carabinieri e due della polizia locale, oltre a un’inutile ambulanza e al carro funebre appena giunto sul posto. Le luci dei fanali e delle numerose torce elettriche avevano stravolto l’atmosfera del parco che a quell’ora, di solito, si preparava ad accogliere le creature della notte lasciando fuori le scorie della civiltà. “Civiltà” pensò con amarezza il capitano Lorenzo Marasco fissando con sgomento il telo bianco su cui stava chino il dott. Tancredi, il medico


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legale. Era giovane per il grado raggiunto. Una bella carriera la sua; il più giovane ufficiale dell’Arma posto al comando di quel distretto. Incidenti, furti, risse, qualche volta con feriti gravi. Ma non era preparato a tanto. Stava toccando con mano l’aspetto peggiore del mestiere che aveva scelto. Si tolse il berretto grattandosi i corti capelli neri. Vide avvicinarsi lungo il sentiero la tozza figura del dott. Di Staso, il procuratore incaricato di seguire il caso. Si strinsero la mano poi il magistrato inspirò profondamente prima di parlare. «Cosa ne pensa?» «Guardi lei stesso» rispose Marasco indicando il cadavere. Tancredi era impegnato a scrivere su un blocco, appoggiato sul ginocchio mentre un agente gli faceva luce. Di Staso lo guardò salutandolo con un cenno, poi sollevò il telo, «Dio mio!» esclamò. «Ma chi può aver fatto questo?». «Si chiamava Elena Belviso, 36 anni, sposata, due figli. Abitava qui in paese. Stava facendo jogging». Marasco aveva parlato tutto d’un fiato, ritto ai piedi del cadavere, senza aspettare le domande. «Chi l’ha trovata?». Marasco indicò una figura infagottata con le braccia conserte che indossava pesanti stivaloni di gomma. «Era in giro con il suo trattore; più avanti c’è un’azienda agricola. Uno dei cani della fattoria puntava con insistenza verso il fosso e non smetteva di abbaiare. Forse sentiva degli


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animali». «Animali? Che animali?» si informò il magistrato. «Chi lo sa? Forse nutrie, qui è pieno, o topi». Di Staso fece una smorfia di disgusto e gettò un’altra occhiata al corpo davanti a lui. «Quindi era nell’acqua?». «Sì» annuì il capitano. «Causa della morte?». «Dai segni sul collo avrei detto strangolamento ma il dottore ritiene più probabile l’annegamento». Il procuratore scoprì anche il resto del corpo. Guardò gli abiti fradici e le dita di una mano rattrappite come in seguito a uno spasmo. L’angoscia lo prese alla gola quando notò la fede nuziale. «Ha subito violenza sessuale?». «A prima vista lo escluderei» rispose il medico scuotendo il capo. «Gli abiti sono in disordine ma non è stata spogliata». Di Staso annuì. Poi tornò a fissare il viso della donna. «Dottore, questo… scempio, le è stato fatto prima… o dopo?». «Non posso dirlo con certezza. Penso post mortem. Ovviamente dopo l’autopsia sarò più preciso, anche sulle cause della morte». «Ma… l’occhio» biascicò Di Staso indicando un punto del viso senza trovare la forza di continuare. «È stato usato un oggetto acuminato, forse un coltello molto affilato, lo stesso che le ha tagliato la faccia. L’impressione è


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che l’assassino abbia cercato di estrarlo ma abbia poi rinunciato gettando il corpo in acqua con l’occhio fuori dall’orbita. Ciò che si vede sono solo i resti del bulbo. Almeno quello che hanno lasciato gli animali che hanno…» lasciò cadere la frase. Di Staso rifletté guardando prima il corpo, poi l’argine del canale. «Da quello che dice sembra proprio che sia stata torturata prima di essere gettata nell’acqua. Se è annegata». «L’ho pensato anch’io» intervenne Marasco. «Come ho detto al momento non ho certezze. Dall’esame delle ferite però ritengo che l’assassino abbia infierito sul cadavere». Di Staso si grattò il mento: «Quindi l’avrebbe annegata, poi ripescata per compiere questo scempio prima di ributtarla in acqua». «È un’ipotesi» annuì Marasco. Il magistrato si rialzò affiancandosi al capitano come se volesse confidare un segreto. «C’è la possibilità che sia caduta da sola nella roggia, sia annegata e qualche maniaco di passaggio abbia poi infierito sul corpo?». «Guardi anche lei dottore» gli rispose stancamente il militare. «È solo un canale di irrigazione. L’acqua è alta meno di un metro. Non c’è corrente. Certo potrebbe aver avuto un malore, ma è molto improbabile, anche se il dottor Tancredi al momento non può escluderlo. Purtroppo credo proprio che


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siamo di fronte a un omicidio orribile compiuto da una o più persone senza scrupoli che adesso sono qui in giro, da qualche parte». «Va bene» sospirò Di Staso. «La famiglia è stata avvisata?». «Il marito è qui» rispose prontamente il capitano. Indicò un uomo appoggiato a una delle macchine della polizia municipale. Indossava un impermeabile chiaro. Teneva il capo chino e una mano sul viso. «Ha rischiato di trovare lui il corpo della moglie. Sapeva che era venuta a correre qui al parco. Non vedendola rientrare l’ha cercata inutilmente sul cellulare, che probabilmente è finito nell’acqua. Poi è uscito con un amico a cercarla. È arrivato solo pochi minuti dopo di noi. Ho fatto il possibile per impedirgli di vedere il corpo». «Ha fatto bene» replicò il procuratore. «L’ha interrogato?». «Poche parole. Non è in grado di dire molto. È come pietrificato. Ho temuto avesse un malore. Tancredi consiglia di evitargli

ulteriori

pressioni

al

momento.

Cercherò

di

convincerlo a tornare a casa». «Sono d’accordo» confermò Di Staso prima di rivolgersi nuovamente al medico legale. «Dottore, ha finito qui?». «Direi di sì». «Allora, per favore, portate via questa poveretta». Il procuratore si accese una sigaretta e ne aspirò una lunga boccata prima di riprendere a parlare: «Io vado. Capitano


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Marasco mi tenga informato e che Dio ci aiuti». Si allontanò lentamente, scortato da due agenti all’auto che l’avrebbe riaccompagnato. Marasco si avviò a sua volta verso la figura curva in soprabito bianco. Non faceva freddo ma un brivido violento gli attraversò la schiena fino all’attaccatura dei capelli, viscido come un serpente. «Che Dio aiuti quell’uomo e i suoi figli». Al mattino davanti alla scuola c’era un capannello di genitori, insegnanti e altri personaggi mai visti prima. In mezzo due agenti di polizia. Un parlottare fitto, facce preoccupate. All’ingresso delle elementari una delle maestre si coprì il viso con le mani. Martina si fermò davanti al cancello delle medie insieme a Camilla e avvertì la tensione. «Perché tanti genitori?» chiese l’amica. «È successo qualcosa. Ieri sera. Hai sentito le sirene?» «Sì, ma cosa è successo?». «Ce lo diranno spero…» Martina fu interrotta da un abbraccio improvviso dalle spalle. Gaia era comparsa sorridente come al solito. Era diventata la sua grande amica dall’anno precedente, in prima media. Più alta di una spanna sembrava più matura dei suoi dodici anni. A Martina dava sicurezza, stava bene con lei. L’unico suo difetto era… Samuele, il fratello minore. Più


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giovane di un anno era antipatico e maleducato, un vero teppista. Le due ragazze cercavano di passare insieme tutto il tempo libero e qualche volte si trovavano anche a studiare. Giocavano nella squadra di volley. Con loro Benedetta ed Elisa, tutte compagne di classe. Le cinque amiche non potevano essere più diverse tra loro. Martina era forse la più timida ma anche la più brava a scuola. Capelli lunghi e castani, occhi neri. Era agile come un gatto. Gaia la più spensierata, non si arrabbiava mai e l’unica cosa che sembrava farle paura era la noia. Più alta delle altre con gambe chilometriche era l’unica a portare i capelli più corti a caschetto, neri come gli occhi. Elisa era alta quasi come Gaia ma magra come un grissino. I capelli biondi come il grano e la pelle quasi diafana. Benedetta era invece più piccola e rotondetta delle altre, ma questo non le impediva di essere tra le più brave della squadra di pallavolo. Anche lei aveva i capelli lunghi e castani e li portava quasi sempre raccolti in una coda. Infine Camilla:, un autentico ciclone, esuberante e ribelle, ma anche molto lunatica. Spesso si arrabbiava per delle sciocchezze e si allontanava dal gruppo, ma poi tornava sempre. Bionda, capelli lunghi, occhi azzurri e il viso pieno di lentiggini. «È morta una donna» affermò Elisa con aria grave. «Una che abitava qui. Ho paura» aggiunse dopo una pausa.


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Gaia rise tentando come al solito di sdrammatizzare. «Paura di che? Come al solito si esagera». «Intanto mia madre ha detto che viene a prendermi all’uscita» insistette Elisa. «Anche la mia, e quella di Camilla» confermò Martina. Difficilmente i genitori presenti, dopo il colloquio con i poliziotti, avrebbero lasciato troppo soli i ragazzi fuori di casa. Certo è che pochi avevano notato che quella mattina, al suono della campanella, Mattia e Edoardo davanti a scuola non c’erano, come non c’era e non ci sarebbe mai più stata la loro mamma Elena. Quel pomeriggio, Sara, la mamma, raccontò a Martina della tragica fine della signora Belviso, tanto lo avrebbe saputo presto. In paese non si parlava d’altro. Non scese in particolari, del resto neanche la polizia lo aveva fatto. Però piangeva mentre parlava. Era stata tentata di non mandarla agli allenamenti ma poi, come del resto gli altri genitori, aveva deciso che non poteva rinchiuderla in casa. D’altronde la vittima era una donna adulta. Tutti loro potevano essere in pericolo, gli agenti erano stati chiari. Comunque tutta la zona era battuta da polizia e carabinieri. Il capitano Marasco stava interrogando con discrezione tutti coloro che conoscevano e avevano avuto rapporti con Elena.


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Giancarlo, l’allenatore, aveva provato ad arrabbiarsi con le ragazze perché non lo seguivano e pensavano ad altro. Poi si era rassegnato. L’argomento del giorno aveva ovviamente turbato anche lui e non poteva biasimarle. Per fortuna c’era Gaia, che, seppur scossa come le altre, cercava di scherzare e soprattutto giocare. Il volley era la sua passione. Quel giorno più

di

altri

Martina

era

contenta

di

averla

vicino.

A casa discusse a lungo con i genitori. Papà Alessandro cercava di sdrammatizzare ma si vedeva che era preoccupato. A ogni modo occorreva prestare attenzione. Mai da soli e sempre in compagnia di persone conosciute. Martina provava una gran pena per Edoardo e Mattia che non avevano più la loro mamma. Il giorno dopo i giornali non parlavano d’altro. La polizia non aveva reso noti i particolari più terribili ma qualcosa era trapelato comunque e la paura si impadronì della piccola comunità. Marasco era seduto davanti alla scrivania del procuratore mentre quest’ultimo scorreva il referto del medico legale. «Alopecia areata da strappo. Che vuol dire?». «Le hanno strappato i capelli» replicò prontamente il capitano. «Non per torturarla. Era già morta. Secondo il dottore l’hanno afferrata per tirarla fuori dall’acqua. Per questo l’hanno presa per i capelli oltre che per i vestiti».


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«L’hanno afferrata? Lei crede quindi che non sia un solo assassino?». Marasco annuì convinto. «Credo proprio di sì, ed esaminando il corpo anche il dottor Tancredi ne è convinto. Da quello che sembra erano almeno in due e hanno fatto una gran fatica a sollevarla.

Non

dovrebbero

essere

quindi

persone

particolarmente robuste. Al momento però sono solo supposizioni». Il procuratore si appoggiò allo schienale con l’aria stanca e si tolse gli occhiali con un sospiro. «Ricapitoliamo. È stata trascinata in acqua e annegata. Dopo di che è stata tirata fuori dal canale e sfregiata in quel modo orribile. Finito il lavoro l’hanno ricacciata in acqua. Non vedo la logica in questo comportamento, se mai si può cercare una logica nella testa di sadici criminali». Il capitano sembrava non ascoltarlo nemmeno, assorto in pensieri che lo riportavano nel parco, lungo il sentiero della morte. Di Staso si schiarì la voce tornando a leggere il referto. «Si parla di un’abrasione alla caviglia destra, dei segni di un parziale strangolamento e degli sfregi. Del particolare dell’occhio». «Sì, secondo il dottore, e su questo mi trova d’accordo, non è caduta da sola. È stata fatta inciampare. Forse con una corda, o un bastone. Più probabile una corda. Era distratta dalla musica


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nelle cuffie e non si è accorta di essere stata avvicinata. Poi mentre era a terra le hanno infilato un cappio al collo e trascinata fino al bordo del fosso. Era ancora viva quando è stata buttata in acqua. L’hanno tenuta con la testa sotto, con un bastone o qualcosa di simile. Poi come lei ha detto prima si sono preoccupati di tirarla fuori e sfregiarla, con un coltello o un altro oggetto molto affilato, forse un addirittura un bisturi». «Ma perché?» continuava a domandarsi il magistrato. «L’impressione è che l’attenzione fosse concentrata soprattutto sull’occhio. Tancredi afferma che dal taglio si intuisce che cercassero volutamente di cavargli l’occhio. Non hanno finito perché qualcuno o qualcosa li ha disturbati. Un rumore, forse i trattori della fattoria che a quell’ora rientravano dai campi». Di Staso si massaggiò le tempie. «E quale sarà il movente? La violenza e l’accanimento sul corpo sembrano una vendetta. Dobbiamo ritenere che si conoscessero. L’alternativa può essere solo un pazzo maniaco. Non so quale delle due ipotesi sia la meno peggio». Fece una pausa, poi continuò: «Ha appurato dai primi interrogatori se aveva nemici, o se qualcuno ce l’aveva con la sua famiglia?». «Sembra una famiglia del tutto normale, o almeno lo era fino all’altra sera. La signora Belviso lavorava a casa come traduttrice per conto di diverse case editrici. Il marito si chiama Roberto Gulli, è ingegnere presso una multinazionale


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americana. Dalle testimonianze raccolte emerge il ritratto di una famiglia assolutamente ordinaria, unita e serena. Mi riesce difficile pensare che la donna nascondesse segreti tali da scatenare una simile furia omicida». Il procuratore richiuse la cartellina con il referto e lo guardò dritto negli occhi. «Capitano, so che non è abituato a tutto questo. Neanche io. Probabilmente non lo è nessuno, ma dobbiamo trovarli. E presto. La gente vorrà delle risposte, così come la stampa. Il prefetto mi ha già comunicato che ci invierà un esperto della omicidi dalla città. Non posso impedirglielo ma ho fiducia in lei e nei suoi uomini». Nei giorni seguenti la polizia continuò le indagini interrogando più persone e cercando collegamenti particolari con la famiglia Gulli. Il capitano Aloisi, l’esperto venuto dalla città aveva scandagliato nuovamente con la sua squadra il luogo dell’omicidio. Le forze dell’ordine non avevano ancora tolto i nastri che delimitavano la zona impedendo l’accesso ai curiosi, purtroppo sempre numerosi. Il parco della morte, come era stato soprannominato, era diventato meta di curiosi, attratti dalla morbosa prospettiva di cogliere qualche particolare macabro da poter raccontare in giro. Era facile prevedere che il paese sarebbe diventato anche nei giorni successivi la meta di gite familiari alla ricerca del torbido.


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Il giorno del funerale c’era tantissima gente, tra cui giornalisti e un paio di televisioni locali. Alessandro Gulli, con il viso nascosto da occhiali scuri, stringeva i due bambini accettando le condoglianze con un cenno del capo senza dire una parola. I parenti più stretti tenevano lontano, anche con modi bruschi, giornalisti e curiosi occasionali, speranzosi di avvicinare il vedovo e i bambini per leggerne la sofferenza sui volti. C’era anche la polizia, che seguiva con discrezione il corteo. Marasco scrutava con attenzione la gente cercando qualche individuo strano, che magari se ne stava in disparte con l’aria ambigua, o qualcuno che stonasse in qualche modo con la folla composta che abitualmente segue un corteo funebre. In chiesa aveva sorpreso Aloisi a prendere appunti. Riconosceva che era un professionista molto serio e preparato ma non ne apprezzava i modi e il piglio con cui dava gli ordini. Aveva un ego smisurato e, soprattutto, tendeva a confrontarsi solo con la sua squadra, lasciando ai margini dell’indagine lui e i suoi uomini. Non gli era piaciuto soprattutto il tono usato durante i vari interrogatori dell’ingegner Gulli. Il pover’uomo rispondeva a monosillabi ed era chiaramente sconvolto. Ciononostante Aloisi lo incalzava come se cercasse di farlo crollare e confessare il delitto. Purtroppo in molti casi come questo, lo dicono le statistiche, il colpevole risulta essere uno dei familiari, spesso proprio il coniuge. Ma sono solo statistiche.


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Non c’era bisogno dell’esperto per capire che il signor Gulli era solo un uomo distrutto dal dolore e dalla prospettiva di dover crescere due figli senza la loro mamma. Con il passare dei giorni nessuna novità trapelò dagli inquirenti. Tra la gente nascevano solo supposizioni che purtroppo sfociavano in sospetti dettati dai pregiudizi. Così alle forze dell’ordine furono segnalati degli operai che lavoravano in un cantiere attiguo, tutti extracomunitari. Tra di loro, uno particolarmente giovane, con l’aria da bullo, era stato visto maneggiare un coltello. In realtà lo usava solo quando mangiava, durante la pausa pranzo, ma questo bastava per additarlo come il probabile assassino. Poi furono presi di mira i fattori dell’azienda agricola all’interno del parco. Tipi rozzi e solitari, in particolare proprio colui che aveva trovato il cadavere. Pur senza dimenticare le precauzioni più elementari suggerite da polizia e carabinieri la tensione si allentò. Il sentiero del parco fu riaperto e anche i curiosi gradualmente sparirono. Diverse persone, soprattutto maschi, avevano già ripreso a fare jogging cercando di lasciarsi alle spalle l’accaduto. Anche le donne certo, ma mai da sole. I genitori di Martina erano tra quelli più prudenti. Non si fidavano e cercavano di seguire, come potevano, i movimenti della ragazza al di fuori della scuola. Veramente Alessandro era preoccupato anche per Sara, considerato che la vittima era


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una donna. Forse lui era troppo apprensivo, forse lo erano entrambi ma dalle preoccupazioni proprie dell’adolescenza si erano trovati a fare i conti con quel delitto che sembrava frutto della fantasia di uno scrittore di gialli. Si consideravano persone ordinarie e la loro vita era del tutto incentrata sull’unica figlia. Tutto il resto contava poco e niente. Alessandro lavorava in uno dei più grossi gruppi assicurativi nazionali. Sara insegnava inglese in un liceo a pochi chilometri da casa e aveva quindi più tempo da dedicare a Martina. A sentire la ragazzina, gli altri genitori erano meno ansiosi e lasciavano più libertà. Lei invece si sentiva marcata stretta, quasi oppressa. Il suo modello era sempre Gaia, allegra e spensierata, non aveva cambiato il suo modo di vivere e non si faceva problemi a uscire da sola anche quando iniziava a imbrunire. Non era la sola, lentamente la vita tendeva a tornare alla normalità seppur le forze dell’ordine, in particolare i carabinieri di Marasco, non facevano mai mancare la loro rassicurante presenza per strada. L’autunno inoltrato riempiva di foglie i viali e i cortili dei condomini. Quel pomeriggio Gaia si era fermata da Martina a studiare e poi, verso sera, era passata sua mamma Caterina a prenderla. Era una gran bella donna, da cui Gaia aveva ereditato l’altezza e il fisico da modella. La mamma però era bionda con occhi azzurri, la ragazza bruna con gli occhi neri.


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Gaia, come suo fratello, aveva preso dal papà, che era argentino. Con la mamma aveva in comune anche il chiarore delicato della pelle che creava un contrasto unico con il colore degli occhi e dei capelli. Caterina era psicologa e lavorava presso un importante Istituto di psicologia applicata. Aveva scelto di insegnare dopo aver esercitato la professione per qualche anno. Era una persona notevole con molti interessi, anche se in qualche occasione i suoi discorsi sembravano precorrere i tempi. Però era sempre entusiasta come la figlia e a Sara piaceva molto. Piaceva anche ad Alessandro che scambiava volentieri quattro chiacchiere con lei quando si incontravano,

come

quel

tardo

pomeriggio

a

casa.

Mentre Martina e Gaia ascoltavano la musica in camera il discorso inevitabilmente tornò sull’omicidio. Fu Sara a tirarlo in ballo anche se i genitori di Martina avevano l’impressione che Caterina preferisse lasciarselo alle spalle, come molti altri in paese. «Non ci hai mai detto cosa pensi veramente. Tu hai studiato la mente di molte persone». «Non sono una psicologa criminale, Sara, io mi occupo di altro. Purtroppo qui troppa gente crede di trovarsi in un episodio di Criminal minds, ma la realtà è diversa. Conoscevo poco quella ragazza, per niente il marito e il mondo è pieno di persone disturbate. Probabilmente la soluzione al mistero è più


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semplice di quello che pensiamo. Lasciamo lavorare la polizia. Questo è un paese tranquillo, occorre andare avanti senza farsi condizionare». Come per Martina con Gaia, anche per Sara la presenza e le parole di Caterina erano sempre rassicuranti e le dispiaceva non riuscire a frequentarla di più. Del resto Caterina lavorava fino a tardi e qualche volta anche al sabato mattina. Purtroppo Alessandro e Gabriel, il papà di Gaia, praticamente non si conoscevano. Veramente Gabriel non lo conosceva quasi nessuno, si vedeva poco in giro. Era spesso fuori casa, anche all’estero per cui le due famiglie non riuscivano mai a organizzare qualcosa tutti insieme, nonostante il grande legame che univa le ragazze. C’era solo un aspetto di Caterina che Sara non condivideva. Il rapporto con la figlia maggiore Anita. Sì, perché Gaia, oltre a Samuele aveva anche una sorella, solo che in tre anni che si frequentavano non l’avevano mai vista. Anita aveva diciannove anni e aveva scelto di vivere in Argentina dai parenti del papà. Tornava poche volte a Natale e raramente in estate, ma quando lo faceva si fermava pochissimo e sempre quando Martina e i suoi non erano in paese. Più spesso era la famiglia ad andare a trovarla in Argentina almeno due o tre volte l’anno, se potevano durante le feste altrimenti anche in altri periodi con buona pace delle assenze a scuola.


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Neanche le altre amiche di Martina avevano mai visto Anita ma quando Gaia ne parlava le brillavano gli occhi. Le voleva molto bene. Suo padre in particolare l’adorava. Questo

per

Sara

e,

soprattutto

per

Alessandro,

era

inconcepibile. Come accettare di staccarsi in modo così radicale da una figlia ancora adolescente; eppure per Caterina sembrava la cosa più naturale del mondo. Martina aveva appreso da Gaia che la famiglia di suo padre era tra le più ricche di Rosario, la sua città. Possedevano terre sterminate e una “fazenda” che per percorrerla tutta in fuoristrada non bastava un giorno intero. Caterina di questo non amava parlare molto ma le poche parole sull’argomento confermavano i racconti di Martina. L’autunno era la stagione dei compleanni, molti concentrati in poche settimane. Quel sabato toccava a Elisa festeggiare a casa sua. Una ventina di ragazzi scatenati all’ultimo piano di uno dei condomini più grandi del quartiere. Nonostante il clima non certo invitante anche il terrazzo era illuminato all’ultimo piano. Probabilmente qualche genitore si isolava per fumare. Erano soprattutto le mamme a tenere i contatti del gruppo, ad acquistare i regali e a concordare tempi e orari. Verso sera, sul tardi, si procedeva al recupero dei figli da riportare a casa. Anche Alessandro aveva accompagnato Sara preferendo attendere in auto. Non era il solo; un gruppo di papà sostava


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disordinatamente in seconda fila chiacchierando e scherzando. Alessandro li raggiunse salutato dalla solita energica pacca sulla spalla da parte di Fabio, il papà di Benedetta. Sempre sorridente, eterno ragazzino, temeva sempre di annoiarsi e non riusciva mai a stare tranquillo. Faceva l’agente di commercio e praticava tutti gli sport che poteva prediligendo il rugby, agevolato dal fisico taurino che manteneva in forma a dispetto dell’età non più giovane. «Su ne avranno per un po’. Pensavamo di andare al bar invece di prendere freddo qua fuori. Vieni con noi?». Alessandro annuì, il bar era a pochi metri sullo stesso lato della strada. Insieme a loro c’era Francesco, medico, papà di Camilla, sempre serio con l’aria imbronciata. Guardava sempre gli altri di traverso come se ce l’avesse col mondo, ma quando prendeva confidenza si lasciava andare, soprattutto a tavola non disdegnando un bicchiere di troppo. Poi c’era Mauro, papà di Serena, l’informatico e Daniele, ingegnere, alto quasi due metri, ovviamente giocatore e appassionato di basket, papà di Federico, uno dei pochi maschi presenti alla festa, ambitissimo per il suo aspetto dalle ragazzine locali. Sistemarono le auto alla meglio avviandosi verso l’ingresso del bar. Alessandro indugiava. «Che ti prende?» chiese Fabio. «Non so. C’è un’auto scura. Un’Alfa ferma trenta metri più indietro. Guarda senza farti notare».


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«Senza farmi notare? Cos’è, un gioco?» scherzò Fabio. «Sarà qualcuno dei nostri che aspetta i figli». «Non credo, ho già visto quell’auto gironzolare l’altra sera mentre uscivo dall’assemblea di condominio in parrocchia. Non l’avevo mai vista prima e sembra che ci spii». «Tu sei fissato con questa storia, Ale. Stai diventando paranoico» sbottò Fabio. «Credo che abbia ragione» intervenne Francesco. «Quella macchina gironzolava lentamente per il paese l’altro ieri sera quando sono rientrato dall’ambulatorio. È strano». «Allora andate a parlargli se volete, io vado dentro». Fabio entrò nel bar, Alessandro e Francesco indugiarono un momento poi lo seguirono. Si sedettero a un tavolo sul lato che dava sulla strada e ordinarono. Alessandro fissava ancora l’auto scura. Trasalì quando un uomo con il giubbotto di pelle uscì dalla macchina e si avviò verso il bar. Fabio notò il turbamento dell’amico e provò a fare una battuta. «Viene qui. Chiamiamo la polizia?». «Non ce ne sarà bisogno» replicò prontamente Alessandro. Il capitano Marasco fece il suo ingresso nel bar aprendosi la lampo del giubbotto con un gesto stanco. Si diresse verso di loro. «Posso sedermi con voi? Per chi non mi conoscesse sono il capitano dei carabinieri Lorenzo Marasco e...».


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«La conosciamo tutti, capitano» lo interruppe Francesco. «È qui per interrogarci?». «Non proprio signori. Non sono neanche qui in veste ufficiale come notate dall’abbigliamento. La mia è più una richiesta di aiuto». Di colpo nessuno aveva più voglia di scherzare. Ci fu un lungo silenzio imbarazzante rotto dalla voce di Alessandro: «Si accomodi capitano» gli porse la mano presentandosi. «Alessandro Nardini». Fu l’unico a farlo. Marasco strinse la mano, prese una sedia ed estrasse dalla tasca dei fogli spiegazzati e li spianò sul tavolino. «Voi sapete perché sono qui. Cerco di evitare che la mia presenza e quella dei miei uomini provochino allarmi inutili. Ma è necessario». Fece una pausa poi indicò i tre fogli. «Per favore guardate questi identikit. Rappresentano lo stesso uomo. Il disegno col cappello è come è stato visto. Gli altri due li abbiamo ricostruiti noi immaginando come potesse essere la parte del viso nascosta e i capelli». Videro una faccia tonda con una folta barba non molto curata. La mascella quadrata stretta in un’espressione dura. «Le due foto senza cappello immaginano due capigliature diverse, capelli mossi e lisci. Dalla testimonianza il colore della barba era sul biondo rossiccio».


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I fogli passarono di mano in mano poi Fabio sollevò quello che ritraeva l’uomo senza cappello con i capelli mossi. «Sembra il papà di… come si chiama… Andrea». Alessandro annuì, gli altri sembravano reticenti. «Sì» continuò Fabio, «Andrea, quel ragazzo che gira sempre con lo skate». Marasco attese conferme. Alessandro stava per dire la sua quando d’improvviso Daniele sbottò: «Ascoltate tutti, anche lei capitano. Non possiamo gettare fango su una persona che vive qui, normalissimo padre di famiglia, senza sapere perché. Cosa significa? Può essere lui l’assassino? Non vi sembra di esagerare? Quando vedremo la nostra faccia su uno di questi fogli?». Il capitano alzò una mano per interrompere lo sfogo e scosse la testa. «No signori, non è così che funziona. Questa persona è stata vista da due filippini che si recavano a lavorare in un ristorante fuori dal paese. Hanno notato l’uomo uscire dal parco attraverso un sentiero laterale. Aveva molta fretta e sembrava non voler dare nell’occhio. Riteniamo siano attendibili. Lo prova la ripresa di una telecamera posta quasi di fronte che riprende l’ingresso dei box di un condominio. Si distingue una figura che, seppur non chiara, sembra proprio essere questa persona. Porta uno zaino sulle spalle. L’orario


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della ripresa coincide con quello dichiarato dai testimoni e con l’ora dell’omicidio». «Questo cosa prova?» chiese Alessandro. «Al momento assolutamente nulla» confermò Marasco. «Proprio per questo mi presento a voi in veste non ufficiale. Lungi da me l’idea di inguaiare un innocente da mandare in pasto alla stampa e all’opinione pubblica. Ma abbiamo il dovere di indagare. Se non ottengo niente con questo approccio sarò costretto a far circolare l’identikit in tutto il paese e allora sarebbe peggio. Per favore, se lo conoscete davvero ditemi che è. Tanto se vive qui lo troveremo comunque. Se non ne ricaveremo nulla sarò il primo a proteggerne la privacy». Alessandro si schiarì la voce guardando gli altri. «Sì, sembra il papà di Andrea. So che si chiama Michele, non ricordo il cognome ma credo che riuscirete a scoprirlo in fretta. Sempre ammesso che sia lui». «Michele Rapetti. Ha una piccola impresa edile. Abita nel mio stesso condominio proprio di fronte a uno degli ingressi del parco. Più o meno dove c’è quella telecamera» confermò Francesco. «Sempre ammesso che sia lui» aggiunse Daniele. Arrivarono le birre mentre il capitano si rialzava rimettendo in tasca i ritratti. Salutò con un sorriso forzato. Lo videro allontanarsi pensieroso. Alessandro beveva controvoglia


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continuando a guardare attraverso la vetrata. Fabio si soffiò rumorosamente il naso e disse: «Speriamo di non aver messo nei guai quel poveraccio». Purtroppo non andò proprio come aveva previsto Marasco. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

Feliz Navidad ............................................................................ 3 Tre anni dopo – Vigilia di Natale.......................................... 129


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