In uscita il 31/10/2016 (14,00 euro) Versione ebook in uscita tra fine novembre e inizio dicembre 2016 (3,99 euro)
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BRUNELLA CANOBBIO
FIGLIE DELLA STESSA ANIMA
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FIGLIE DELLA STESSA ANIMA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-039-9 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Ottobre 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
A Luca «Era una vita che ti aspettavo»
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CAPITOLO 1
Francesca nacque il ventitré marzo, in una giornata solare d’inizio primavera. Non ricordava quasi nulla della sua infanzia, e le poche volte che aveva fatto domande ai suoi genitori la risposta era stata una soltanto: il silenzio. Ricordava qualcosa dai quattro anni in poi. Una volta alla settimana c’era la visita a suo fratello. Al cimitero. Lei era venuta al mondo due anni dopo la morte di Paolo: un neuroblastoma se lo era portato via. I suoi genitori, che non si erano mai ripresi da quel dolore, avevano deciso di mettere al mondo un altro figlio, possibilmente maschio. Invece arrivò lei, Francesca, e la nube nera da quella casa non se ne andò: negli occhi di una bimba di appena quattro anni si rispecchiavano un padre e una madre che vivevano nel passato. Questo l’aveva portata, per molti anni, a pensare a se stessa come a un surrogato mal riuscito. All’apparenza sembrava una bambina come le altre, anche se nel profondo non lo era mai stata. Di quegli anni rammentava tanti minuscoli frammenti che solo a fatica riusciva a mettere insieme. Sua madre la portava spesso in riva a un fiume che scorreva in un paese vicino a Sanremo. C’erano anatre e pesci che, allegramente e per la gioia dei bambini, sguazzavano in quel posto. Rappresentava il ritrovo dei più piccoli, alcuni sui passeggini, altri che muovevano i primi passi, e poi quelli più grandicelli. Tirare un pezzetto di pane secco creava un rapporto di complicità tra chi lo lanciava e chi lo prendeva per primo. Sembrava una festa per tutti, comprese le mamme che chiacchieravano tra di loro. Dopo, tutti al parco.
6 A quel punto Francesca andava subito verso ogni albero che i suoi occhi ingenui e innocenti vedevano. Li abbracciava forte, tutti. Tornava allora dalla mamma e, felice, le confidava il suo piccolo segreto: gli alberi le avevano parlato. Ed era questo che la distingueva dagli altri: lei non giocava con i bambini, ma con l’erba, con i fiori. Con la natura che la circondava. Parlava con loro. Bisbigliava frasi delle quali non comprendeva fino in fondo il significato ma che la legavano a un universo segreto e meraviglioso dal quale si sentiva profondamente attratta e che osservava con grande stupore e amore. Sembrava una particolarità della sua persona e sua madre, ogni volta, si scopriva sbalordita davanti a sua figlia. Quando cominciò la scuola, Francesca rimase molto delusa: capì che le cose non funzionavano come lei aveva sempre creduto. Gli alberi venivano tagliati, i fiori calpestati, gli animali allevati e mangiati. Tutte le certezze della sua infanzia crollarono. Un giorno, a bruciapelo, chiese a sua madre se per comprendere il mondo avrebbe dovuto mettere la testa al rovescio, perché così non lo capiva. La risposta non arrivò, ma la mamma di Francesca ebbe la conferma definitiva che sua figlia non era davvero come gli altri bambini. Gli anni passavano e Francesca viveva sempre più nel suo mondo immaginario e, controvoglia, andava a scuola. Tra quei banchi appariva ancora più minuta e fragile di quanto fosse, dando l’impressione che potesse bastare un soffio di vento per farla crollare. Padre e madre presero una decisione: si sarebbero rivolti a uno specialista. L’approccio che usò lo psicologo fu il metodo di Rorschach, la lettura delle tavole con delle macchie nere, il test più usato per quell’età. Lo specialista, dopo diversi tentativi, concluse che, vista la scarsa partecipazione di Francesca, era inutile continuare: si era chiusa in se stessa. Lei non voleva l’aiuto di nessuno, non si sentiva amata dai suoi genitori: sapeva di aver solo riempito un buco. E per di più senza successo.
7 Non puoi amare un figlio se stai ancora piangendo quello che hai perso: questa era l’idea elaborata dalla sua psiche da adolescente e che, senza saperlo, avrebbe condizionato tutta la sua vita. In quegli anni, ancora troppo giovane, non avrebbe mai immaginato quanto sadico sarebbe stato con lei il destino. Qual era il cammino da percorrere per essere se stessi? Una domanda che la tormentava. L’eterno dilemma dell’esistenza: recitare in base agli eventi o essere quello che si è davvero? Senza distinzioni? Senza problemi? Senza convenzioni? Aver bisogno di essere accettati e compresi o fregarsene di tutto e tutti? E quel disperato bisogno di essere amata, doveva per forza essere appagato? Da chi, poi? Non sono gli altri ad assetare la nostra necessità d’amore. Resterebbero sempre dei surrogati. Tutto parte da noi. Per questo Francesca era consapevole che la sua vita faceva schifo. Si stava formando dentro di lei una doppia Francesca: quella che volevano gli altri e quella che in segreto era veramente. Un tormento unico che sbatteva contro porte sprangate, che chiudeva le finestre che il vento, con forza, apriva. Un vaso immaginario dove racchiudeva tutto quello che lei non riusciva a essere. E il risultato, alla fine, fu uno soltanto: perse se stessa, non sapendo più chi fosse. L’eterna lotta tra l’essere e il dover essere. Senza rendersene conto, davanti all’ambulatorio di neurologia, Francesca si era lasciata andare ai ricordi del suo passato. Un passato che, ora e volontariamente, l’aveva condotta sin lì. I suoi occhi si persero attraverso i vetri: il sole, limpido e magnifico, entrava prepotentemente dappertutto, abbracciando, anzi, sfiorando ogni cosa. Rapita, Francesca immaginava che il calore di quel sole le accarezzasse il corpo, liberandolo da quel gelo che da sempre viveva dentro di lei. La sua mente ebbe un sussulto quando il neurologo chiamò: «Morelli».
8 «Buongiorno signorina, come posso aiutarla?» domandò il medico una volta che si erano accomodato nell’ambulatorio. Lei lo guardò titubante, indecisa se confidare i suoi più intimi segreti a quello sconosciuto, poi, alla fine, decise e disse: «Mi sento sempre sotto pressione, non so come chiamare questo malessere. Infelice, ecco». «Parliamo un po’ della sua vita, le va? Le dispiace se fumo una sigaretta? Non si dovrebbe, ma anche noi medici, come può vedere, siamo stressati…». «No, si figuri, prego». Con un gesto sicuro il dottore accese la sigaretta e Francesca, prima di continuare, osservò innervosita i cerchi di fumo che gli uscivano dal naso: rozzo, cafone maleducato, ecco cos’era un medico che fumava davanti a una paziente! «Mi sono laureata a Genova e lavoro come receptionist in un hotel qui a Sanremo, ma ho sempre l’impressione, ecco, insomma, di deludere le aspettative degli altri. Non ho un ragazzo e la mia vita sociale è inesistente. In questo periodo mi sento stretta in una corsa contro il tempo, come se avessi accumulato, giorno dopo giorno, solo momenti che non mi appartengono. Il mio presente è una continua fotocopia del passato: vado avanti per inerzia e per non deludere gli altri. Sono qui da lei perché sto per scoppiare. Soffro di crisi di panico e non riesco a dormire». «Signorina Morelli cosa la renderebbe serena?». Francesca ci pensò su: mentire? A che scopo? Fece il salto, rispose: «Poter essere me stessa, dire quello che penso, non dovermi nascondere per piacere agli altri». Il dottore, poco professionale con quella sigaretta tra le dita, sentenziò: «Lei sta attraversando una fase delicata della sua vita, non ha ancora definito la sua personalità. Di solito questo periodo avviene proprio dopo l’adolescenza, ma evidentemente qualcosa in lei lo ha rallentato. Spesso è la famiglia e il contesto in cui viviamo. Di solito, una lieve depressione come la sua è curata con i farmaci. Credo sia indispensabile nel suo caso seguire un percorso terapeutico con uno psicologo. Le prescrivo un antidepressivo leggero e delle gocce per aiutarla a riposare. Segua il mio consiglio e mi chiami tra una settimana».
9 «Va bene dottore, grazie. Arrivederci» si salutarono, ma senza nessuna stretta di mani. Francesca seppe in quel preciso istante che non sarebbe mai tornata da lui. I primi tempi la cura fece effetto e cominciò a stare meglio. Con il passare delle settimane, tuttavia, le sue domande la tormentarono di nuovo e, con sempre maggiore consapevolezza, capì che in questo mondo non c’era posto per le sue riflessioni. Tutti mostravano sempre la parte più opportuna di sé alla situazione in cui si trovavano. Anche Francesca stava imparando la lezione, ma “il dopo” era il suo strazio. Il male di vivere era il compagno delle sue giornate, nonostante il sorriso forzato che doveva stamparsi in faccia al lavoro. Fingersi qualcun altro e nascondersi dentro, fino a esplodere. C’erano giorni in cui la vera Francesca urlava, sbraitava furiosa, rifiutando la maschera che però, alla fine, le veniva comunque inchiodata sulla faccia: senza la maschera infatti, non sarebbe arrivata alla fine della giornata, schiacciata dal peso di quel mondo alieno in cui era costretta a vivere. Com’era prevedibile, arrivò il giorno in cui cercò una via di fuga. Quando non lavorava, si avvicinò all’alcool. Odiava il suo gusto, ma un bicchiere annientava il tormento che si annidava nel suo cuore. Lo beveva velocemente perché le dava la nausea, però la portava lontana dalla sua mente e da tutto quello che la preoccupava. Per un’ora buona, completamente stordita, si sentiva libera, anche se con capogiri continui. Il capolinea era sempre il bagno, con lei china sulla tazza che vomitava non solo l’alcool, ma anche l’anima intera. Francesca riuscì a portare avanti questo giochetto per circa un mese, poi smise. Non ebbe troppi problemi a chiudere con l’alcool: era sempre stata astemia e bastava solo l’odore a farla stare male, presagio funesto di quello che ci sarebbe stato dopo. Per questo motivo non diventò mai un’alcolizzata e, almeno in questo, fu fortunata.
10 Continuava a sentirsi una condannata all’ergastolo e non c’era giorno in cui la sua anima non urlasse la sua disperazione contro le sbarre che la tenevano prigioniera. La notte non esisteva più, si fuse con il giorno fino a diventare una cosa sola. Pensò allora alle gocce che il dottore le aveva prescritto. All’inizio seguì la prescrizione: venticinque gocce. Poi, di sua iniziativa, passò a quaranta e infine a sessanta. Quel giorno maledetto, perché di fatto avrebbe segnato l’inizio della sua condanna, in quello studio, aveva fatto conoscenza con il Minias, uno dei farmaci più subdoli in commercio, se mal usato. Un ipnotico per dormire che dava assuefazione, appartenente alla famiglia delle benzodiazepine. A Francesca questo non interessava: lei voleva solo dormire e finalmente trovò il suo salvavita. Ora poteva riposarsi dalla recita senza fine che era la sua vita.
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CAPITOLO 2
Ritornai di corsa a casa e dalla borsa tirai fuori quello che avevo comprato in farmacia. La giornata afosa mi toglieva il fiato, ma ero troppo agitata per preoccuparmi del sudore che scendeva dalla fronte e dal collo. Mi tolsi i vestiti, presi lo stick e seguii attentamente le istruzioni, senza pensare che questo rito lo conoscevo a memoria. L’attesa si rivelò snervante: continuavo a camminare avanti e indietro come un automa e, a scatti, guardavo l’orologio che segnava sempre la stessa ora. A volte i minuti sembrano senza tempo, specie quando sono la risposta a una domanda che rappresenta l’eternità. Avanti e indietro, dalla sala da pranzo alla camera, dalla camera allo studio. Dal passato alla speranza per il futuro. Chiusi gli occhi, il momento che avevo tanto aspettato era arrivato: guardai il risultato del test di gravidanza. Ero incinta. Fissai incredula la doppia linea rosa per quasi un minuto, senza respirare. Ero incinta. Quando il bisogno d’ossigeno mi fece tornare con i piedi per terra, telefonai al ginecologo e mi disse che già nel pomeriggio potevo eseguire le analisi del sangue. Distesa sul divano, l’ansia si mescolò alla gioia: dopo tre aborti spontanei la mia mente non solo si rifiutava di crederci, ma addirittura di essere felice. Il terrore di soffrire una nuova perdita era più forte che mai. In quello stato di profonda confusione, mi domandai se sarebbe stato un bene chiamare mio marito. Non feci tempo a darmi una risposta che avevo già composto il suo numero di telefono: a quell’ora era in ospedale. «Pronto, ciao. Ti disturbo?».
12 «Amore, figurati. Ho appena terminato il giro delle visite. Come va?». «Tutto bene, sto lavorando. Volevo solo sapere a che ora torni» mentii. «Verso le 14.30, salvo imprevisti ovviamente, solo che stanotte sono reperibile. Sicura di stare bene? Hai un tono di voce strano…». «No, tutto a posto. Ci vediamo più tardi Manuel». «Ciao, a dopo» anche se capii che non era troppo convinto della mia risposta. Fissai il cellulare silenzioso: non ero riuscita a dirglielo. Non ero stata capace di condividere quella meravigliosa notizia proprio con lui, con l’uomo che avevo sposato. La ragione erano le parole che mi aveva detto l’ultima volta che avevo perso nostro figlio: «Si può essere una famiglia anche in due, amore, ricordalo sempre». Incominciai a contare le ore che mancavano alle analisi, sentendo l’ansia montare dentro di me, come la marea attirata dalla luna. Non potevo andare avanti così, dovevo assolutamente calmarmi. La mia mente stracolma di pensieri stava crollando: era come un enorme masso in bilico sulle spalle, in procinto di schiacciarmi. Dopo l’ultima delusione, non avevamo più cercato un bambino, eppure il destino riesce sempre a sorprenderti, specie quando meno te lo aspetti. Guardai fuori dalla finestra e fissai le persone che passavano veloci, ognuna con i propri pensieri, ognuna persa nella propria vita. Soffermai lo sguardo su una mamma che spingeva un passeggino. Stava sicuramente dicendo qualcosa di divertente perché la sonora risata del bambino arrivò un attimo dopo. Che meraviglia quel suono! Genuino e incontaminato, come solo una creatura di pochi anni sa donare. Mi morsi le labbra: io ne ero sempre stata esclusa, non avevo mai stretto un neonato tra le braccia, non avevo mai cambiato un pannolino. Non ero mai rimasta sveglia tutta la notte, non mi ero mai attaccata al seno un figlio. Alla fine lo avevo accettato, serenamente me ne ero fatta una ragione. Grazie alla mia forza di volontà e all’amore di Manuel avevo raggiunto un equilibrio che adesso rischiava di essere stravolto. Una domanda inaspettata mi bloccò: a trentanove anni lo volevo ancora un figlio?
13 La nostra libertà di essere in due, i nostri viaggi, le nostre professioni, seppur completamente diverse l’una dall’altra, ci appagavano. La realtà era che stavo bene così, non avevo più bisogno di un figlio per sentirmi completa. L’ansia era stata scalzata dalla confusione. All’improvviso squillò il cellulare: la mia casa editrice. Oh no, proprio ora! pensai. Mi feci coraggio: a quella chiamata dovevo rispondere per forza. «Sì, pronto Emma». «Ciao, a che punto sei con il libro?» senza troppi giri di parole, Emma andava sempre dritta al nocciolo della questione. «Ho quasi finito, rispetterò la scadenza, tranquilla». «Benissimo, allora ci sentiamo via mail». «A presto». Una bugia, non tanto a fin di bene, ma per preservare me stessa: in quel momento non riuscivo a capire più nulla e parlare di lavoro mi avrebbe messa ko. Da anni lavoravo con un’importante casa editrice come traduttrice di testi dal francese, incarico, questo, che aveva dato una svolta definitiva alla mia vita e che mi aveva resa davvero felice. Uscii di corsa e andai in ospedale. I risultati delle analisi sarebbero arrivati quella sera stessa, sul tardi. Una volta a casa, ci sarebbe stato Manuel e mi ripromisi di parlargli. Ero certa che lui avrebbe compreso. Lui mi capiva sempre, e questo era uno dei motivi per cui lo amavo così tanto. Mentre fissavo l’ago che bucava la mia vena, un altro maledettissimo dubbio fece capolino: e se la sua reazione fosse stata diversa? E fu proprio quest’incertezza che alla fine mi spinse a non dirgli niente. A nascondergli la notizia che avrebbe dato un nuovo corso alla nostra vita. Da anni, infatti, non toccavamo quell’argomento, la coppia era il cerchio perfetto che racchiudeva la nostra esistenza. Perché proprio ora tutto doveva cambiare? Tornata a casa, mi limitai ad accendere il computer per portare avanti la traduzione: forse impegnandomi in qualcos’altro mi sarei allontanata da quei pensieri cupi.
14 Scoprii che non era poi così semplice zittire la mente e, soprattutto, il cuore. Erano già passati quindici giorni da quando avevo avuto la conferma della mia gravidanza e Paolo Germani, il mio ginecologo, aveva fissato la data della prima ecografia. Non avevo ancora trovato il coraggio di parlarne con mio marito e dentro di me vivevo con un enorme senso di colpa: razionalmente sapevo che non era di lui che dovevo aver paura, ma solo di me stessa. Stavo privando la persona che amavo di più al mondo di una verità che ci coinvolgeva entrambi e, allo stesso tempo, ero consapevole che non mi avrebbe mai perdonata. Il paradosso era che, a parte questa bugia, non c’era nessun’altra finzione nella nostra vita. Tutto era come sempre: anche la sera prima, dopo cena, Manuel si era avvicinato a me con passione e, senza rendercene conto, ci eravamo trovati l’uno di fronte all'altra nudi e ardenti di desiderio. Seduta sopra di lui, su una sedia in cucina, muovevo il mio corpo in cerca del piacere, bramando la perfetta armonia tra il suo pene e la mia vagina. Il sesso era sempre stato una continua scoperta senza fine per noi, anche se all'inizio del nostro rapporto mi era servito un po’ di tempo per lasciarmi andare completamente. Le paure del passato avevano fatto di nuovo capolino, come tante briciole di me stessa sparse qua e là su un letto: bastava un semplice movimento per avvertirne la presenza fastidiosa e ingombrante. L'amore che provavo per Manuel era unico, proprio perché, nonostante quelle briciole, lui si era innamorato di me e mi aveva accettata per quella che ero davvero. Il nostro primo incontro fu inconsueto e non mi sono mai tolta dalla testa l’idea che il destino ci abbia messo lo zampino. Mia nonna, a causa di una brutta caduta notturna, cinque anni prima si era rotta il femore. Per fortuna Mariuccia, così chiamavo affettuosamente la nonna, riuscì a telefonare e il numero che compose fu proprio il mio. Chiamai immediatamente l’ospedale e, una volta lì, venne operata d'urgenza.
15 Il dottor Varese, giovane e già stimato ortopedico, terminato l'intervento, venne a parlarmi. «Buongiorno» mi salutò. «L’operazione è perfettamente riuscita» e sorrise, «vista l'età della paziente, la fisioterapia sarà più lunga del previsto, ma sono sicuro che ci sarà una ripresa completa». «La ringrazio dottore, lei è un vero tesoro!». Mi fermai subito e arrossii, rendendomi conto di quello che avevo appena detto. Da quando i pensieri prendono forma? Perché la mia bocca si era aperta prima di pensare? Quella figuraccia tuttavia mi portò fortuna: se non avessi detto quelle parole, la mia storia d'amore con il dottor Manuel Varese non sarebbe mai iniziata. Sei mesi dopo, in una piccola chiesetta, alla presenza di quindici invitati, ci sposammo. Non serviva tempo, sapevamo tutto di entrambi. Amarsi era solo l'inizio, camminare insieme ed essere felici, la strada da percorrere. Non si colgono solo rose in un rapporto, le spine si fanno sentire e pungono. Di questo eravamo consapevoli: in fondo non avevamo vent'anni. Eravamo due persone adulte che, restando se stesse, si scontravano su quegli aspetti del rispettivo carattere che si scoprono solo vivendo insieme. Io, a trentacinque anni, e Manuel a trentotto, eravamo un uomo e una donna in grado di comprendere che l'amore non era solo portarsi la colazione a letto, fare l'amore a qualsiasi ora, divertirsi. C’era dell’altro, c’era molto di più. I primi mesi discutevamo per delle piccolezze, come succede a tanti. Dentifricio e bagnoschiuma lasciati sempre aperti, l'asciugamano mai ripiegato, l'uso della spatola sbagliata per la padella antiaderente e tante altre sciocchezze simili. Questo non ci aveva spaventati, era tutto stato messo in conto e lentamente cominciammo a ridere delle nostre piccole abitudini. Nel nostro primo anno insieme, purtroppo arrivò anche il peggio e a questo non eravamo preparati. Manuel aveva un solo grande difetto: era, ed è tuttora, testardo. Anche quando era in errore, puntava i piedi e proseguiva dritto per la sua strada.
16 La parola “scusa” usciva dalle sue labbra solo dopo giorni di mutismo, e sempre dopo essere stato messo alle strette. Si arrabbiava raramente, ma quando succedeva, c’era il rischio che potesse crollare un palazzo intero. Io, irrazionale e istintiva, gli sputavo e gli vomitavo addosso la mia rabbia Anche se dopo le nostre discussioni, tutto mi scivolava di dosso sicura di aver superato un altro piccolo scoglio nascosto lungo il nostro cammino. Quell'anno feci diverse volte le valigie: in tre occasioni mi fermai e rimisi tutto a posto, la quarta me ne andai sbattendo la porta. Trascorsi la notte in un albergo, con la sola compagnia dei miei pensieri e dell’infelicità che in quel momento mi stava assillando. Pensai ai tanti mesi trascorsi con mio marito, alla delusione e confusione che sentivo scoppiare dentro il mio cuore. Continuavo a ripetermi che l'amore non bastava. Non basta da solo, se non è accompagnato dal venirsi incontro nelle diversità e nell’accettazione per quello che siamo, come persone. Non basta, se ogni giorno non siamo capaci di fermarci e parlare con sincerità. Non basta, se non siamo in grado di aspettare che chi amiamo ci raggiunga. Non basta, se vogliamo solo cambiare radicalmente chi abbiamo accanto. Un rapporto è come un ponte dove le persone devono incontrarsi a metà, anche se il più delle volte la realtà è diversa. Spesso uno dei due deve fare più strada su quel ponte, fino a tendere una mano all'altro. Non è sempre la stessa persona, ma c’è sempre una delle due che cammina più veloce. Non significa amare di più, soltanto dare tempo a chi è più lento. Alle prime luci dell’alba, i miei occhi si chiusero e mi abbandonai al sonno, lontana dalla stanchezza fisica e mentale che mi aveva accompagnata per tutta la notte. Quando mi svegliai, presi una decisione: il mio posto era a casa, accanto a Manuel, non in fuga. Lo amavo e amavo il nostro matrimonio. Per questo motivo tornai.
17 Ad aspettarmi, la casa vuota. Mio marito era andato al lavoro, lasciando dappertutto tracce di una notte molto pesante. Lattine di birre sul tavolo, una coperta sul divano dove sicuramente si era addormentato, un piatto sporco nel lavandino. In bagno, la condensa sulla doccia appariva come un altro segno del risveglio forzato e per niente voluto. Mi spogliai e m’infilai sotto il getto d’acqua: sentivo il bisogno di lavarmi via il peso di una notte insonne. Pensai a Manuel e alle tante volte che avevamo fatto sesso proprio lì, nella doccia. L'acqua bollente temprò di nuovo vigore il mio corpo e mi lasciai cullare da quel lieve ma rigenerante massaggio. Le ore successive passarono veloci: sistemai la casa sopravvissuta alla tempesta, e mi resi conto del tempo solo quando lo sentii rientrare. Non disse nulla, il suo volto scuro e provato parlava da solo. Mi venne in contro e mi abbracciò. Quello era il suo maledetto modo per dire ti amo, per scusarsi. Lo conoscevo a memoria. Io rimasi immobile, risoluta nella mia decisione di parlare. «Non ce la faccio più amore, se tu non impari a fidarti e a parlare con me, non cambierà mai niente. Io sono tornata perché voglio restare, perché sei l'aria che respiro e non riesco a immaginare la mia vita lontana da te». «Io mi fido, lo sai» disse lui abbassando lo sguardo, «è solo che mi chiudo in me stesso e dalla mia dannata bocca non riesco a far uscire nulla». «Promettimi che imparerai» fu una supplica più che una richiesta, «magari a fatica, ma lo farai. Non è difficile come sembra. Non serve solo l'amore, Manuel, per far funzionare un rapporto, ci sono tanti altri aspetti da vivere che sono come pezzi di un puzzle che alla fine devono incastrarsi. Non sarà mai perfetto l'incastro, io non credo alle favole, ma sarà un punto d'incontro, il nostro». «Ti amo così tanto…». «Anch’io ti amo».
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CAPITOLO 3
Aveva sempre detestato Capodanno e quando era stato possibile, Francesca aveva sempre lavorato. L’invito a una festa, arrivato un giorno come un altro, la trovò quindi del tutto impreparata e il suo primo istinto fu di rifiutare. Pensò allora a tutte le volte che aveva provato a essere una ragazza come le altre e ai continui fallimenti: non si sentiva a suo agio in nessun luogo e con nessuno perché non era mai stata brava a fingere. Tuttavia voleva darsi ancora un'opportunità e così, facendosi estrema violenza, decise di accettare. Arrivò quel fatidico 31 dicembre. Non era sicuramente sua intenzione mettersi uno di quei vestiti orrendi pieni di brillantini o, peggio ancora, rosso. Si vestì con i jeans, un maglione verde che scopriva leggermente una spalla e gli stivali neri. Un filo di rossetto e di mascara ed era pronta per quella Grande Serata: la pensava proprio così, a lettere maiuscole e con tanto sarcasmo. La passarono a prendere e, già durante il tragitto per raggiungere la festa, si era pentita di essere lì. Arrivata, salutò tutti e si rese conto di quanto il nero e il rosso fossero di moda. Quei vestiti erano tutto sommato carini, anche se non capiva perché si dovevano indossare solo in quel preciso giorno dell’anno. Siccome tutti avevano portato qualcosa mentre lei si era presentata a mani vuote, cercò di rendersi utile in cucina: sistemò le pietanze, chiedendo sempre indicazioni alla padrona di casa, che neanche conosceva. Dentro di sé urlava solo una voce: «Che diavolo ci fai qui?» un grido che la accompagnò per tutta la sera. Durante la cena sorrise sempre, come se prima di uscire da casa si fosse stampata in faccia quel sorriso.
19 Quando mancava ormai poco alla mezzanotte, tutto era pronto su quell’enorme tavolata: pasticcini a volontà, panettone, pandoro, tiramisù e tante bottiglie di spumante in attesa del fatidico botto. La padrona di casa consegnò i capellini colorati per l’inevitabile trenino, rito propiziatorio per l’anno in arrivo. Guardò il suo: color oro. Si sentì sprofondare: il sorriso crollò sotto il peso di quanto sopportato fino a quel momento e una vecchia di cent’anni spuntò sul suo viso. Meno cinque! Quattro, tre! Due! Uno … «Buon anno a tutti!» Un brindisi e un altro anno era iniziato. Le venne un’idea un po’ banale, ma che aveva sempre funzionato per evadere. «Scusa cara, dov’è il bagno?» chiese alla padrona di casa. «Sali le scale e poi sulla destra». Rimase chiusa nella toilette circa dieci minuti, tempo più che sufficiente perché tutti si scatenassero nel trenino. Perché sono qui? Io non c’entro niente con queste persone. Non ho niente in comune con loro. Non riuscirò mai a essere realmente quella che sono. Vorrei sbattere la testa contro il muro. Vorrei scappare dalla finestra oppure mettermi a strillare che voglio andare via! Perché questa recita non finisce mai? Perché sono qui? Tornata di sotto, si mise a sedere e per fortuna nessuno la disturbò. Mentre i suoi occhi si stavano chiudendo dal sonno, un ragazzo si avvicinò e le chiese se poteva accomodarsi. Con un cenno della testa annuì. «Tu devi essere Francesca, vero?» chiese lui. «Come fai a conoscermi?» domandò stupita, poi: «e tu chi sei?». «Mi chiamo Gianni e ti ho incontrata un paio d’anni fa al matrimonio di due amici».
20 «Ma dai! Io non ricordo neanche cosa ho fatto ieri…». Risero insieme e parlarono del più e del meno, tuttavia aveva davvero tanto sonno e senza neppure accorgersene, Francesca si addormentò, cullata dal morbido e accogliente cuscino del divano. Alle 2.30 Gianni la svegliò e le propose di accompagnarla a casa. Accettò senza pensarci due volte. Durante il viaggio di ritorno le disse che gli sarebbe piaciuto rivederla e le chiese il numero di telefono. Lo valutò un attimo: era un tipo affascinante, sulla trentina, e forse per colpa del sonno, glielo scrisse su un pezzo di carta. Rivide Gianni due volte soltanto. La prima andarono a bere qualcosa e poi fecero l’amore in macchina. Francesca non era più vergine: molti anni prima aveva deciso di togliersi quel fardello con un ragazzo incontrato per caso. Gli aveva tolto il fatidico sigillo di garanzia e lei, vista la prestazione, aveva perso quasi ogni interesse per il sesso. Qualche volta si masturbava e, in quei momenti, riusciva per pochi istanti a sentirsi inebriata. Dopo, a causa della sua educazione cattolica che marchiava come peccato quello che aveva fatto, il senso di colpa la tormentava. Si sentiva sporca dentro e, almeno simbolicamente, con una doccia cercava di lavare via la sua offesa a Dio. Con Gianni fu estremamente semplice. Si lasciò svestire mentre si scambiavano baci appassionati e senza neanche tanti preamboli le infilò il pene dentro. Pochi secondi di spinte, respiro ansimante e sempre più veloce, poi lo sperma sul suo ventre. Tutto avvenne talmente in fretta che lei non dovette neanche fingere un piacere mai provato. A Francesca, come la prima volta, venne un conato di vomito che trattenne a stento. Quando si rividero, la vera Francesca venne fuori facendolo scontrare con i suoi umori altalenanti, l’insoddisfazione per la vita che faceva. Senza nascondere il completo disinteresse nei confronti di quell’uomo. Gianni giustamente si dileguò. La vita andò avanti con i suoi ritmi, scanditi da un orologio che ripeteva ogni giorno la sua monotona consuetudine e fu in quel periodo che, senza neanche rendersene conto, arrivò a prendere quasi un flacone di Minias. Non lo usava più soltanto la sera, ma anche di giorno, quando era libera.
21 Si chiudeva in camera e si diceva ingenuamente: «Vado a riposarmi» e buttava giù quelle maledette gocce. Per qualche ora non sentiva più voci urlare dentro di lei. Per qualche ora riusciva a staccare davvero la spina. Quando tutto sembrava ormai scritto, come il famigerato fulmine a ciel sereno qualcosa irruppe nella sua vita: il destino le riservò un incontro che non si sarebbe mai aspettata. Francesca era ancora convinta che la causa di tutto quello che non andava in lei, fosse il disperato bisogno di essere amata. Poteva anche essere vero, ma di sicuro non sarebbe stato l’amore di qualcun altro a salvarla davvero. Con Sandro apparve comunque un autentico raggio di sole e lui fu il suo primo vero amore. Era bellissimo, alto e i suoi occhi scuri risplendevano su quel volto che pareva disegnato da un pittore. Lo conobbe casualmente tramite una dipendente dell’albergo. Laureato in medicina e chirurgia generale, come specializzazione seguiva i corsi di pediatria. L’anno che trascorsero insieme fu meraviglioso: ridusse drasticamente le gocce e non le sembrò vero. Un uomo che la capiva e l’amava per quella che era, senza dover indossare nessuna maschera. A volte uscivano con gli amici di lui, altre si ritagliavano i loro spazi e stavano semplicemente da soli. La complicità che si creò tra di loro, li fece avvicinare sempre di più e quell’amore sembrava destinato a durare per sempre, come nelle favole. Grazie alla loro affinità sessuale, per la prima volta Francesca capì quanto fosse bello dare e ricevere baci, carezze talmente intime da far vibrare ogni piccola parte del suo corpo. Anche quelle più nascoste. Con Sandro ebbe il suo primo orgasmo, un piacere sottile e inebriante, in grado di portarla sulla cima di un iceberg. Lo presentò ai suoi genitori e ne furono entusiasti. Il destino ci mise di nuovo lo zampino: Sandro ottenne una borsa di studio e per sei mesi sarebbe andato a Londra. Lui ovviamente accettò senza pensarci due volte. Francesca non la prese bene, ma non poteva negargli un’esperienza e un’occasione così importante.
22 Il giorno della partenza fu un doloroso arrivederci, anche se in cuor suo sentiva che era un addio. La sua sensazione fu vera premonizione: un giorno, infatti, tutto cambiò. Le sue telefonate divennero sempre più rare, disse che doveva studiare tanto e impegnarsi in ospedale. Qualcosa però non la convinceva, si era creato del ghiaccio tra di loro e il legame s’incrinò. Quello fu il primo momento nella vita di Francesca in cui la rabbia esplose. Non la soffocò, non la chiuse dentro a un vaso, non c’era più tempo. Dopo un mese senza neanche una telefonata fu lei a chiamarlo. «Sandro che ti ho fatto? Sto soffrendo, non lo capisci? Dimmi almeno il perché del tuo silenzio!». «Non ti amo più, non sapevo come dirtelo». Una volta a casa, andò verso la stanza da letto e sua madre, vedendola piangere, capì cos’era successo. L’abbracciò, ma ormai era troppo tardi: la “Signora” l’aveva già presa e Francesca si lasciò guidare da lei. Si tolse i vestiti, infilò il pigiama e si mise a letto. Non si alzò e non mangiò per giorni. La “Signora” la fece sprofondare nel buio, nelle tenebre senza vita. Nel dolore della sua anima e finalmente Francesca vide quanto sanguinava. Quello fu il suo primo incontro con la depressione. La “Signora” comandava e lei, schiacciata dal senso del nulla, dalla non esistenza, da un dolore senza fine, si lasciò andare, precipitando in baratri così profondi dove non arrivava mai un solo spiraglio di luce. Dopo tre giorni d’inutili tentativi, i suoi genitori si rivolsero al medico di famiglia. Vedendola in quello stato, chiamò un’ambulanza e al pronto soccorso provarono a parlarle, ma non rispondeva a nessuno. Dopo un tempo infinito arrivò una dottoressa che, mesi dopo, seppe essere una psichiatra del Centro d’Igiene Mentale. Le fece una sola domanda: «Che cosa vorrebbe in questo momento?». «Andare da mio fratello». La dottoressa scoprì dalla madre la verità e ordinò il ricovero presso un reparto di psichiatria.
23 La portarono nell’ospedale di Imperia. Lei non si rese conto di nulla. Sentiva la sua mente svuotata di tutto tranne un solo pensiero: Sandro. Francesca fissò il grande portone di ferro del reparto e quando si richiuse alle sue spalle, riuscì a sentire solo un sordo rumore metallico. Per il resto, assolutamente niente, solo il vuoto. Le camerate erano enormi, con le sbarre alle finestre. L’ambiente gelido e sterile. Una persona urlava da una stanza chiusa, altre si lamentavano dai loro letti. Chiusa in uno stato apatico, percepiva solo in parte ciò che le stava accadendo. L’infermiera prese la sua valigia, tolse la cinta dell’accappatoio, uno specchietto e tutto ciò che poteva rappresentare un pericolo per lei. L’accompagnarono al letto e sua madre, spaventata, le mise il pigiama. L’unico segno di vita apparente erano le lacrime che, ormai logore, sgorgavano dai suoi occhi. Arrivò un’infermiera con tre pastiglie e controllò attenta che, dopo aver bevuto l’acqua, Francesca non le avesse trattenute sotto la lingua. Chiesero alla madre di andare via e di tornare nell’orario di ricevimento. Lei baciò sua figlia sulla fronte, le prese la mano e gliela strinse forte, lasciando il suo cuore in quel letto d’ospedale: si sentì come se la stesse abbandonando in un carcere, perché proprio a una prigione assomigliava quel posto. Non la venne a trovare nessuno: i suoi genitori trattarono il ricovero come un segreto da custodire. Non chiese mai, dopo, se lo fecero per vergogna o per rispetto verso una figlia che stava male. Ogni volta che i suoi genitori tornavano, lei era imbottita di sedativi e non si rendeva conto neanche di chi fossero. Faceva sempre la stessa domanda, a loro come agli infermieri: «Ha telefonato Sandro?». Con lo sguardo pieno di compassione, rispondevano di no, scuotendo mestamente la testa. Francesca era ormai decisa a lasciarsi andare, senza più alcuna aspettativa: in fin dei conti, con la “Signora” erano diventate buone amiche e a lei questo bastava.
24 Si lasciava prendere per mano e condurre dove la “Signora” la voleva portare: aveva scoperto che era proprio questo che alla sua maestra piaceva. Avere il completo dominio su di lei. Come un maestro dirige la sua orchestra, la “Signora” la dirigeva, portandola in un labirinto senza fine, dove il dolore diventava un tutt’uno con la protagonista, portandole via la vita, le speranze, il domani. “Lei” era l’unica padrona e Francesca, morta dentro, la seguiva in silenzio. Nei diversi colloqui con lo psichiatra, raccontò la sua storia con Sandro ma nulla di più. Sul Minias, neppure una parola: era il suo segreto. Di notte c’era una donna che veniva davanti al suo letto e la fissava. Si svegliava di soprassalto, come se qualcuno l’avvertisse, e urlava dallo spavento. Il ricovero si trasformò ben presto in lungo sonno, soffocata e inebetita dai farmaci che le somministravano. Nei pochi momenti di lucidità, andava in refettorio e si sedeva a osservare i pochi presenti. Rannicchiati sulle sedie, si guardavano le mani e uno in particolare compiva sempre lo stesso movimento ondulatorio: avanti e indietro con la schiena e la testa. Un giorno si chiese se a ventisette anni era quello il posto in cui voleva stare, ma la depressione prendeva il sopravvento e con una mano la rispediva sempre verso il letto. I suoi la prendevano a turno tra le braccia e papà Roberto le ripeteva: «Andrà meglio amore, tornerai presto a casa, ci siamo noi con te». Un po’ tardi forse, dopo ventisette anni. Dopo due settimane di ricovero e visto che a giorni sarebbe arrivato Natale, i genitori parlarono con il medico e decisero di firmare per portarla a casa. Il medico però fu categorico: avrebbero dovuto seguire scrupolosamente la terapia di Francesca che prevedeva l’uso di tredici farmaci al giorno. Una volta a casa, fu accudita con un abbraccio unico, fatto di comprensione, ascolto e incoraggiamento. Sentimenti che finalmente i suoi genitori si resero conto di provare per la figlia.
25 Non festeggiarono il Natale, tuttavia dopo quindici giorni, Francesca girava per casa in tuta e azzardava anche qualche timida uscita nel terrazzo quando il tempo lo permetteva. D’accordo con la madre, decisero di andare da un altro psichiatra. Dopo la prima visita, il nuovo medico diminuì drasticamente la terapia, permettendole così di non essere sedata giorno e notte. Francesca non fu però sincera con lui: disse che per l’insonnia usava il Minias, venti gocce. Vista la sua condizione, le venne di nuovo prescritto. Iniziò anche l’analisi con una brava psicoterapeuta: una via nuova che accettò serenamente d’intraprendere. Le spiegarono che, per superare la rabbia che provava, doveva elaborare il lutto, farsi una ragione per l’abbandono di una persona così cara com’era stato Sandro. Fu un cammino molto lungo e non privo di ostacoli, ma arrivò il giorno in cui ritornò a essere una persona normale. O almeno fu quello che la sua mente voleva credere: neanche l’esperienza di psichiatria l’aveva davvero cambiata. Un dolore troppo grande non scompare mai del tutto, lascia sempre delle tracce di sé, come tanti aloni su un vetro ingiallito dal tempo. La parte più profonda di noi stessi resta sempre ben ancorata al terreno e continua a crescere, come le radici di un albero che fa di tutto per rendere il suo tronco solido e fruttuoso. L’albero di Francesca possedeva cattive radici fin dall’infanzia, e tutto quello che era riuscito a far crescere era una donna che, guardandosi allo specchio, non aveva mai visto se stessa. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD