Fior di spina, Federico Carcano

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In uscita il 31/10/2018 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2018 (3,99 euro)

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FEDERICO CARCANO

FIOR DI SPINA

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni

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FIOR DI SPINA

Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-239-3 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Ottobre 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Alle donne Amalia, Giordana, Martina, Donatella e‌ Virginia

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Quando lo vedo per la via fangosa Passar sudicio e bello, Colla giacchetta tutta in un brandello, Le scarpe rotte e l’aria capricciosa; Quando il vedo fra i carri o sul selciato Coi calzoncini a brani, Gettare i sassi nelle gambe ai cani, Già ladro, già corrotto e già sfrontato; Quando lo vedo ridere e saltare, Povero fior di spina, E penso che sua madre è all’officina, Vuoto il tugurio e il padre al cellulare, Un’angoscia per lui dentro mi serra; E dico: «Che farai, Tu che stracciato ed ignorante vai Senz’appoggio né guida sulla terra?… De la capanna garrulo usignuolo, Che sarai fra vent’anni? Vile e perverso spacciator d’inganni, Operaio solerte, o borsaiuolo? L’onesta blusa avrai del manovale, O quella del forzato? Ti rivedrò bracciante o condannato, Sul lavoro, in prigione, o all’ospedale?…» …Ed ecco, vorrei scender nella via E stringerlo sul core,


In un supremo abbraccio di dolore, Di pietà, di tristezza e d’agonia: Tutti i miei baci dargli in un istante Sulla bocca e sul petto, E singhiozzargli con fraterno affetto Queste parole soffocate e sante: «Anch’io vissi nel lutto e nelle pene. Anch’io son fior di spina; E l’ebbi anch’io la madre all’officina, E anch’io seppi il dolor… ti voglio bene.» “Birichino di strada” di Ada Negri (Lodi, 3 febbraio 1870 – Milano, 11 gennaio 1945)


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PREFAZIONE

Ci hanno pensato gli anni a dividere le parole con cui inizia questo romanzo da quelle che lo concludono. Il tempo necessario per accumulare il carburante giusto e procedere, vincendo il mostro della pigrizia con cui combatto da una vita. Che cosa mi ha spinto a farlo? Ebbene sarò onesto, almeno con voi: la paura. Il terrore di scomparire senza aver mai affrontato la mia immagine allo specchio. Finora avevo sempre e solo dato occhiate fugaci al mio riflesso. Ne ero e ne sono ancora spaventato a morte. Non vi è mai capitato di specchiarvi e pensare: “No, quello non sono io”. Un pezzo di carne informe che ha una parziale coscienza di sé. Raccapricciante. Ho dovuto creare uno strumento apposito per scrivere questa storia. Non potevo usare lo stesso che mi avevano affidato per mettere nero su bianco qualche articolo di cronaca striminzito, ai tempi del mio primo impiego come giornalista per un quotidiano free press. Ne è venuto fuori un oggetto strano, dai tratti indefiniti. La fatica per portarlo dove volevo è stata tanta ma ora, a conti fatti, mi sento di ringraziarlo per essere oggi qui, davanti a me. Le prime pagine sono arrivate prepotenti mentre sedevo la mattina, prima di recarmi in redazione, sul tavolo della cucina del bilocale dove vivevo in via Gratosoglio. Stava per concludersi il mio praticantato giornalistico e con esso anche il mio contratto di lavoro, ma non mi interessava. Pensavo che l’energia che possedevo mi avrebbe tenuto in vita per sempre. Allora non avevo compreso che anch’io avrei avuto bisogno di alimentarmi di tanto in tanto, e non solo di entusiasmi. E così, rimbalzando tra un mestiere e l’altro e facendo spesso a botte con i miei sogni, trascorsero anni prima che mi riavvicinassi gradualmente a quella brutta faccia che incontravo in bagno ogni mattina. Compresi proprio in quel periodo che non ero venuto al mondo per stare fermo, magari in un ufficio, e diedi credito alla mia volontà, in costante


8 ricerca di chimere da rincorrere. Così proseguii a scrivere infilandomi progressivamente in una sorta di casa degli specchi, attratto dalle diverse prospettive che questi riuscivano a offrirmi. E pensare che da ragazzino, al luna park, non avevo mai osato provare quell’attrazione, temendo di non essere più in grado di uscirne. Ora è tempo di passarvi il timone. Spero che durante il breve viaggio troviate della materia viva, utile a far germogliare domande. Spero che troviate una Milano vista dal basso, la solitudine, il senso di smarrimento, quello della lotta perduta – anche e soprattutto di classe – la paranoia imperante, il complottismo populista, l’impossibilità di comprendere e tutto ciò che di altro riuscirete a cavarne. Ma più di tutto spero che troviate un cuore popolare che batte insieme a voi per le vostre sfide quotidiane, per i vostri sorrisi e per i vostri pianti. Vi stringo al petto miei cari fior di spina mentre girovago qui, ai margini della città che si è già spenta.


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CAPITOLO 1

Come ogni mercoledì sera, Eric stava per attraversare quel gran portone di legno massiccio. Questo significava che si trovava in procinto di incontrare tutte e diciannove le persone del gruppo di dibattito “Io amo gli animali”. La giornata era fredda, ghiacciata. Eric l’aveva iniziata con uno spirito stranamente positivo. Il cielo limpido e la luna di un giallo intenso e irregolare, quasi fosse stata pitturata da un bambino con un pastello, lo fecero sentire per un attimo felice. Improvvisamente voltò le spalle alla lugubre entrata. Non aveva in testa assolutamente nulla, voleva solo camminare. Prese una via buia e sconosciuta e gli sembrò di entrare in un tunnel, di aver trovato una breccia all’interno di una città ferita. Arrivò alla stazione centrale. Nessun posto di Milano riusciva a renderlo tanto inspiegabilmente inquieto, ma quella notte non ci fece caso e prese le scale mobili per arrivare ai binari dei treni. Si sentì sollevato e leggero. Entrò in un vagone e si sedette subito dopo aver incrociato lo sguardo spento di un uomo grasso, che cercava di carpire delle noccioline da un piccolo sacchetto di plastica, malgrado le grosse dita nere sembrassero impedirglielo. Poi si addormentò per un tempo che gli parve indefinito. Quando si risvegliò lentamente e sbirciò fuori dal finestrino, il treno era fermo. Attraverso una palpebra leggermente sollevata, Eric scorse una ragazza con dei paraorecchie rosa masticare smodatamente un chewing gum. Scese e subito si allontanò dal vagone. Una scritta fuori dalla stazione diceva che si trovava a Stoccolma. Ancora non sapeva dove fosse diretto ma si rese conto di essere all’inizio di un nuovo giorno. Una cocorita grigia continuava a gracchiare appollaiata su una statua in ferro battuto posta al centro di un cortile malmesso, nella periferia Est della città. Eric cercò di avvicinarsi all’animale e fu sommerso all’istante dai colori. Viola, giallo, arancione, rosso, verde, blu grigio e nero. Erano


10 decine i quadri appesi nel cortile, ma uno in particolare attirò la sua attenzione. Si trattava di un collage confuso, con all’interno due edifici pendenti che ricordavano vagamente le torri gemelle di New York poco prima del crollo. Sotto gli edifici spiccava l’immagine del cartello stradale “lavori in corso”. Ma la cosa che notò per prima era una scritta bianca su uno sfondo rosso, al centro dell’opera che diceva: “MAKE CAPITALISM HISTORY”. Accanto al perentorio imperativo, da una parte poggiava la sagoma di un uomo incravattato, che aveva il volto di un rapace, e dall’altra una chitarra elettrica nera. In quel preciso momento non si sentì più solo. Ma anche questa sensazione non durò più di un attimo. Tornò in stazione e volle concedersi un altro giro sul treno, quasi si trattasse di un’attrazione all’interno di un grande luna park. Cercò di salire frettolosamente a bordo, ma due grossi ragazzi dal look punk, che stavano scendendo, glielo impedirono involontariamente. Fu allora che il capostazione lo fermò chiedendogli il biglietto. Eric non sapeva che fare, così allargò le braccia e si allontanò. Il ferroviere lo guardò con aria bonaria e non fece nulla. Poi improvvisamente la vide: occhi grandi, capelli lunghi neri e lisci e una sigaretta che pendeva tra le labbra morbide. Lei lo guardò e gli si rivolse in inglese: «What the hell are you waiting for?» tendendogli una mano come per portarlo via da quel luogo. Eric la seguì senza dire una parola e si ritrovò in un altro cortile. Questa volta lo spazio era gremito di persone che discutevano, mangiavano e bevevano. La ragazza lo guardava continuamente negli occhi mentre parlava, rivelandogli di frequentare la facoltà di architettura. Amante dello spazio così come lui lo era del tempo. Due fattori che, ammisero entrambi, stavano scomparendo, almeno apparentemente. I due cominciarono a bere qualche birra, le ore passarono velocemente e, solo alla fine, Eric si rese conto di aver parlato con una moltitudine di persone. Gli argomenti furono l’arte, la musica, il cinema, la vita. All’imbrunire lei gli chiese se volesse andare a un concerto la sera stessa. Eric accettò senza indugiare. La sagoma storta e avvizzita, debole e forte allo stesso tempo di Iggy Pop riusciva a far vibrare le forze fanciullesche e magiche della natura, riusciva a conciliare lo spirito del bambino e quello dell’adulto, la parte femminile e maschile del cosmo fino ad arrivare al caos. Quella notte lui la riaccompagnò a casa, in un quartiere elegante a gamla stan, nella città vecchia. Arrivati sotto il palazzo lei gli diede un bacio in


11 fronte e lo abbracciò, ringraziandolo per averle fatto compagnia. Eric aveva il cuore gonfio di gioia ed eccitazione. Subito dopo essersi allontanato guardò verso la strada. Le automobili sembravano passare lentissime e i loro fari parevano sorridergli. Accelerò il passo in cerca di un hotel dove trascorrere la notte.

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CAPITOLO 2

La sveglia continuava a suonare, fastidiosa. Non era servito spegnerla la prima volta. Il piccolo marchingegno dopo il primo avviso continuava a suonare ogni cinque minuti, ancora e ancora. Al secondo scampanellio Eric la buttò giù dal comodino volontariamente e si alzò. Guardò fuori dalla finestra, i fumi della cartiera dall’altra parte della strada riuscivano a rendere il cielo ancora più grigio. Un caffè e poi giù per le scale piene di scritte e mozziconi di sigarette, buttati per terra fino ad arrivare in una strada sporca, dissestata, con delle buche talmente grandi da far pensare di essere sul suolo lunare. Poi sulla vespa, direzione centro. Finalmente l’aria fredda e umida riuscì a svegliarlo, mentre cambiava marcia e sfrecciava accanto al Naviglio Pavese. Facendosi largo tra le nutrie spiaccicate sull’asfalto, sognava sempre di cadere. Voleva finire nel canale avvitandosi in un doppio salto carpiato, ma non era ancora successo. Entrò in redazione senza guardare in faccia nessuno, così come gli altri non guardarono lui. Acceso il computer si cominciò a documentare sul caso dell’assessore comunale che si era reso protagonista di uno scandalo a sfondo sessuale. Era accusato di aver molestato una giovane danzatrice del corpo di ballo del Teatro Alla Scala. Eric cercò di entrare nei file della polizia anche se – come prevedibile – gli fu impedito dai sistemi di sicurezza. Ciro Ignazio, Crotone 1943. Iniziò la sua carriera politica nelle file della “Piccola Italia”, movimento di estrema sinistra. Era stato coinvolto in diversi processi per la sua vicinanza all’organizzazione criminale della ‘ndrangheta ma non era mai stato condannato. Imprenditore edile predicava logiche di eguaglianza e fraternità, mentre i suoi operai magrebini morivano nei cantieri. Da poco più di tre anni si era trasferito a Milano, dove ricopriva la carica di assessore alla cultura. Si dedicava principalmente a importanti eventi cinematografici, che gli offrivano l’occasione di accogliere sporadicamente grandi star di Hollywood. Ci teneva a essere fotografato insieme alle celebrità d’oltreoceano, ogni mano celebre che stringeva lo aiutava a sentirsi sempre più lontano da


13 quel paesino calabrese in cui era nato. Lo portava a sentirsi potente. Queste erano tutte le informazioni che Eric era riuscito a reperire e tutte le supposizioni che ne erano conseguite, quando pensò di alzare il telefono. «Ciao Matteo sono io. Ascolta, ho bisogno di una cosa…» Matteo era un amico d’infanzia e, soprattutto, era un discreto hacker. «Dimmi Er, cosa ti serve…» «Devi cercarmi informazioni su un politico.» Matteo rimase in silenzio un paio di secondi prima di rispondere: «Stai scherzando? Lo sai che rischio troppo. Ti prego non mi chiedere una cosa simile. Ne abbiamo già parlato.» Eric nascose un sorriso e replicò: «Ci vediamo stasera all’Angelo Nero, grazie.» Non era abituato a seguire casi del genere e il pensiero di Ignazio con quella ragazza lo rendeva già inquieto. *** Erano dieci minuti che Matteo aspettava l’amico fuori dal locale. Pensò di accendersi una sigaretta ed ecco che gli sguardi dei due si trovarono. Superato l’eccentrico ingresso, costituito da una porta a forma di enorme faccia d’angelo dai tratti somatici africani, scesero le scale e subito musica d’altri tempi riempì loro le orecchie e un profumo di spezie indefinito colmò le loro narici. Una ragazza di colore ballava per il pubblico, con addosso solo un tanga e un boa rosa attorno al collo. Eric la guardò per un solo istante, era bellissima. Lui e l’amico si sedettero intorno a un tavolo di legno nero. La prima cosa che disse Matteo fu: «Dio… perché ci ostiniamo a venire sempre in questo posto?» «Perché è kitsch» rispose Eric. Ordinarono due negroni e iniziarono a parlare del caso. «Tutto quello che sono riuscito a scoprire è che Ignazio è amico dell’Ispettore di polizia Soldoni, che pare lo abbia tirato fuori dagli impicci diverse volte e sempre per lo stesso motivo: Ignazio ha una vera e propria fissazione per le giovani donne, soprattutto quelle che lavorano in ambito artistico» riferì Matteo. «Bene. Che vada farsi fottere questo stronzo, voglio arrivare alla verità questa volta. Vediamo cosa succede, Teo. Mi sono rotto di stare davanti alla scrivania e scrivere trafiletti sui vernissage per l’inaugurazione di mostre improponibili.»


14 «Invece della ragazza sai qualcosa, Er?» «Assolutamente niente. Non si trova nulla su di lei. Da domani comunque mi attivo e vediamo cosa salta fuori.» I due ordinarono un altro drink sulle note di Kombat Rock e le loro menti si persero tra le luci rosse del locale, per tutta la notte.


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CAPITOLO 3

Il mal di testa del giorno dopo gli stava lentamente rosicchiando le meningi, quando arrivò davanti al Teatro alla Scala. Eric non era mai stato un fan dell’opera, né apprezzava il balletto. Entrò e il portiere lo fermò immediatamente: «Dove crede di andare, giovanotto?» «Devo vedere un’amica, sta provando in questo momento e sa che sarei venuto a trovarla» rispose lui. «Il nome?» «Jonsson.» «Attenda un attimo» il portiere alzò una cornetta nera. «Mi dispiace la signorina dice di non aspettare nessuna visita, per cui buona giornata.» Eric lo guardò fisso negli occhi ebeti, aveva una gran voglia di non considerarlo e così fece. Uscì dal teatro senza proferire verbo. Voleva e doveva incontrare quella ragazza, era determinato ad aspettare. Guardò Palazzo Marino e si sedette su una panchina, continuando a fissare la sede del Comune. Un mendicante gli si avvicinò sudicio, chiedendogli degli spiccioli. Eric si accorse di lui solo quando gli occhi dell’uomo lo fissarono da una distanza di circa due centimetri. «Hai delle monete?» «No mi dispiace, niente.» «Amico guarda che le bare non hanno le tasche, non ce le hanno.» «Sì, va bene. Anche se sono convinto che qualche modello con le tasche adesso ci sia.» «No! Cosa dici amico, dai. Delle monete, ti chiedo solo degli spiccioli.» L’odore di vino da tavola che l’uomo emanava aveva ormai impregnato l’aria di mezza piazza. Eric sollevò un braccio e diede un colpo amichevole sulla giacca sudicia del mendicante. «Mi è venuta un’idea, vieni con me.» I due camminarono e sbucarono in corso Vittorio Emanuele. Entrarono in un bar e Eric comprò due bottiglie di vino rosso e un pacchetto di sigarette. Cominciarono a bere senza parlare e si diressero nuovamente verso il Teatro ad aspettare. Poi cantarono e risero per circa due ore.


16 Serafino, l’uomo che non aveva fissa dimora ma non era un barbone perché piuttosto ben rasato, era a conoscenza di storie e pettegolezzi di ogni sorta. Erano trentacinque anni che viveva tra quelle vie e quelle piazze. A un certo punto con voce da sbronzo chiese a Eric: «Scusa ma chi stai aspettando di preciso?» «Aspetto una ragazza, una ballerina.» «Io le conosco tutte. Quale?» «Jonsson.» «Jonsson, Jonsson… non saprei, magari se la vedessi…» «Lascia stare Serafino, neanche io so cosa sto cercando esattamente.» Il cigolio di una porta di legno che si apriva destò l’attenzione dei due. Una decina di ragazze chiacchieravano fra di loro mentre uscivano dal teatro. Eric corse incontro al gruppo e chiese della Jonsson. Incrociò lo sguardo di una ragazza che gli rivelò che la signorina se n’era andata parecchio tempo prima da un’uscita secondaria e che, comunque, non avrebbe avuto piacere di incontrarlo. Poi lo sguardo si diresse verso via Manzoni. Lui cercò di spiegarle che era molto importante il motivo per cui la cercava e che avrebbe voluto aiutarla a svelare pubblicamente la verità sull’accaduto. A quel punto lei, con fare indispettito, lo interrogò arrogantemente sul concetto stesso di verità: «Tu sai se esiste una verità? Tu credi di poter possedere la verità, credi ci sia una strada per arrivare a essa? L’arte è la cosa che si avvicina di più, ma nonostante ciò non riesce mai a catturarla, è una tensione verso la verità. Come l’amore. I momenti più belli si hanno quando lo si cerca di afferrare e ci si illude di poterlo possedere. È l’illusione quello che cerchiamo, non la verità.» Lui fermò il passo e la lasciò andare. “Che concetto banale” pensò. La ballerina appariva piccola e aggraziata mentre si allontanava tra la nebbia che scendeva chiara e spettrale. Telefonò a Claudia, una giovane infermiera con cui ogni tanto si frequentava. Quella sera voleva egoisticamente vederla, si sentiva solo. Lei rispose dopo qualche squillo. «Ma ecco chi si risente, mon amour. Era un mese che non ti facevi vivo.» «Lo so, lo so. Sono incasinato come sempre. Stasera che fai?» «Finisco il turno in ospedale a mezzanotte.» «Ok, arrivo lì dopo cena.» «Va bene ti aspetto. Ah, guarda che sono nel seminterrato in


17 rianimazione.» «Allegria, a dopo cara» e scese gli scalini per prendere la metropolitana alla fermata di Monte Napoleone. Salito sul vagone dagli interni di un celeste psichedelico, Eric strizzò le palpebre a causa dell’intensa luce artificiale e si sedette. Quando riaprì gli occhi notò una ragazza di colore che ne fissava un’altra con aria schifata, era una bianca con i dilatatori alle orecchie e piercing vari. Pensò all’intrecciarsi di spazio e tempo di luoghi e culture e ritrovò per un attimo le sue radici. Capì di essere a casa.


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CAPITOLO 4

Erano ormai le nove di sera quando scese alla fermata di Famagosta e si diresse verso la Barona. Quel quartiere popolare in qualche modo lo tranquillizzava. Le strade larghe, le case popolari che assomigliavano a enormi alveari pieni di luce e di api industriose. Tutto quello lo rassicurava. Giunto all’ingresso del pronto soccorso non vide nessuno, eccetto un guardiano che dormiva su una seggiola di legno che qualcuno doveva aver preso dalle scuole medie lì di fronte. Proseguì con il viso mezzo coperto dal bavero del giubbotto e si inoltrò in corridoi labirintici verso il piano seminterrato nel reparto “rianimazione”. Il lampadario al neon emetteva una luce a intermittenza. Intravide Claudia aggirarsi tra i pazienti moribondi con una flebo in mano. «Ciao piccola…» sussurrò ma lei non lo sentì. Decise allora di andarle più vicino e le prese un braccio. Claudia sobbalzò senza urlare, poi si girò sorridendo. Mentre si baciavano Eric incontrò lo sguardo spento di un’anziana paziente. «Fra quanto stacchi?» le chiese. «Questione di minuti. Fammi controllare la signora Gorli, poi Max mi dà il cambio.» «Ok, ti aspetto.» Più tardi lei si ripresentò senza uniforme ospedaliera, ed era decisamente sexy. Eric notò all’istante lo splendido maglioncino aderente che le evidenziava i due piccoli seni che ondeggiavano lievemente per la camminata decisa sui tacchi, e il modo in cui quei jeans le avvolgevano il sedere. La baciò nuovamente. Poi i due si diressero verso casa di lei, in zona Paolo Sarpi. Arrivati nel cuore di China Town si fermarono a mangiare dei noodles sotto una delle tante insegne rosse, quando lei incalzò con tono leggermente compunto: «Ma dove sei stato in quest’ultimo periodo? Certo che una telefonata me la potevi anche fare, non credi?»


19 «Hai letto del casino di Ignazio e della ballerina della Scala?» chiese lui. «Sì, perché?» «Voglio capirci di più.» «Questa sarebbe una risposta, Er?» «Certo! Adesso andiamo a casa» rispose pensieroso, risucchiando uno spaghetto. Dopo pochi passi arrivarono davanti al portone verde scuro dell’ingresso. Mentre la ragazza era intenta a cercare le chiavi, lui dietro di lei osservava il tanga nero che la vita bassa lasciava intravedere al minimo movimento. Arrivati sulle scale di pietra corrosa e spaccata, Eric la strinse forte a sé, abbracciandola. Poi la spinse contro il muro e cominciò a baciarla sul collo. La sollevò da terra, le gambe di Claudia si avvinghiarono istantaneamente alla vita di lui. Fecero in questo modo gli ultimi scalini e poi si divisero l’attimo necessario per aprire la porta di casa. Una volta entrati proseguirono da dove erano rimasti e si ritrovarono sul tavolo della cucina, dove si fermarono a osservare le luci della sera per qualche minuto. Eric e Claudia avevano in comune la solitudine. Si sentivano sempre e comunque soli. Probabilmente erano consci di non amarsi e che i loro incontri non fossero altro che palliativi. Una dose di affetto, di sesso, di amore a cui tutti cedono per poter sopravvivere. Non pensavano spesso al futuro, avevano anche in comune il fatto di voler cercare di vivere il presente. Quali prospettive? Sostenevano entrambi che fossero un’enorme balla. Esistono solo la vita e la morte nulla in mezzo, pensavano. Claudia gli ripeteva sempre: «Siamo uno scherzo Er, una burla. Per me siamo uguali alle bollicine dell’acqua minerale, piccole merde saltellanti e incoscienti.» Lui di norma non rispondeva. Era proprio questo che frullava nelle loro menti mentre erano distesi su quel tavolo bianco. Eric quella notte non riuscì a dormire, continuava a pensare a quella ragazza, alla Jonsson. Il fatto è che non digeriva più quelle notizie. Proprio lui che da anni lavorava nella cronaca cittadina, non voleva più saperne di quello schifo. Gli sembrava di trovarsi ormai in un immenso immondezzaio senza riuscire a respirare, sommerso dalle flatulenze di una fogna a cielo aperto che lo circondava fino all’orizzonte. La cosa che lo turbava di più, era l’orrore di non poter arrivare a vedere al di là della discarica in cui si trovava.


20 Il giorno in cui scoprì di non essere nato libero aveva più o meno dieci anni e da quel momento aveva unicamente pensato al modo di scappare. Questo era tuttora l’unico scopo della sua vita.


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CAPITOLO 5

L’Ispettore Capo Soldoni non ne poteva più del caso Ignazio. Erano settimane che veniva preso d’assalto da giornalisti, curiosi e aspiranti giustizieri della notte. «Una bella conferenza stampa, ecco cosa facciamo» ordinò confuso all’Appuntato D’Angelo. Mentre passeggiava nervosamente su e giù per il suo ufficio aggiunse: «Voglio qualcosa di conciliante. Vediamo di preparare un discorso che raffreddi un po’ gli animi, che getti acqua sul fuoco. Offriamo a tutti i presenti da bere, troviamo il luogo adatto.» Maurizio Soldoni era un uomo piccolo, in tutti i sensi. Aveva lasciato Brescia – la sua città natia – per fare carriera nella polizia. Era un codardo. Non era mai riuscito a difendere le sue idee, e anche se non gli piaceva scendere a compromessi ormai ci aveva fatto il callo. Era convinto fosse l’unica maniera per mantenere il tutto: lavoro, donne e false amicizie. «Ho trovato, D’Angelo! Organizziamo l’incontro con i media alla Terrazza Martini. Lì dove parlano sempre di quelle boiate di cinema.» «Vabbuò ispettò, mo’ organizzo, non ci stanno problemi.» Proprio in quel momento Eric bussò alla sua porta. D’Angelo aprì. «Buongiorno, Maurizio Soldoni?» chiese Eric entrando nell’ufficio. «In persona, cosa vuole?» gli chiese l’uomo. «Sono un giornalista, attualmente mi sto occupando del caso Jonsson…» «No, no. Guardi, adesso non ho tempo. E che cos’è? Venite tutti qui ogni due minuti a chiedere di questo, di quello. Cosa c’è scritto sulla porta, ufficio informazioni? Se ne vada per piacere, adesso sono occupato.» «Occupato? Mi scusi, forse potrebbe rispondere a qualche mia domanda mentre finisce il suo sigaro? Guardi le ruberò due minuti, non un secondo di più» insistette Eric. Soldoni abbassò in un primo momento lo sguardo poi alzò repentinamente la testa e lo fissò. «Ho detto fuori» disse risoluto.


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Eric si accese l’ennesima sigaretta in via Fatebenefratelli. Una lieve ventata di falsa aria primaverile gli accarezzò il viso, pensò che avrebbe voluto concedersi delle ore al parco e così fece. Salì in sella alla sua vespa e arrivò in dieci minuti alla Guastalla. Mentre fissava i pesci nella vasca barocca continuava a pensare a lei. La polizia non aveva diffuso le fotografie della Jonsson e lui si ostinava a cercare di immaginare come fosse fatta. “Una svedese” si ripeteva “deve essere bionda, alta. Chissà se è scappata da questa città. Deve aver avuto voglia di andarsene dopo quello che le è successo”. All’improvviso vide l’ombra di un uomo, accanto alla sua riflessa nell’acqua, e si voltò. «Roberto…» disse sorpreso, riconoscendolo. «Eric, come stai? È una vita che non ci vediamo.» «Dio Roby, cosa stai facendo adesso? Dai, andiamo a prenderci un caffè!» gli propose entusiasta. «Va bene.» I vecchi compagni di studi attraversarono la strada e in pochi minuti si ritrovarono all’interno dello splendido cortile dell’Università Statale. «Ora lavoro qui, Eric. Sto completando il dottorato in storia del cinema con il professor Mengoni. Sto scrivendo una piccola biografia su Werner Herzog, la mia passione se ti ricordi» gli spiegò Roberto «certo che ne sono passati di anni da quando studiavamo qui insieme, Er!» «Puoi dirlo forte» concordò Eric con nostalgia. Mentre sorseggiava il caffè guardava le colonne del cortile del Filarete, di quell’antico ospedale che nella sola estetica invitava allo studio. Dolci ricordi lo riportarono ad anni felici e di emancipazione. Un inaspettato vigore cominciò a pervadergli la mente e una nuova forza lo accompagnò in quel pomeriggio. Finito il caffè, Roberto lo condusse nello studio del professor Mengoni. Si trattava di una piccola stanza nel seminterrato. Una tappezzeria scadente ricopriva tutte le pareti e un odore forte di tabacco sembrava provenire da un piccolo portagioie in legno posto sulla scrivania. Eric era un po’ agitato per quell’incontro, non sapeva se il professore si sarebbe ricordato di lui. Quando gli strinse la mano ogni dubbio si dissipò. «Rossi sei tu? Ma qual buon vento. Mi ricordo ancora la tua fissazione maniacale per Jim Jarmush. Come stai?» «Direi bene, professore. Lavoro in un giornale locale, mi sono buttato


23 nell’odioso e odiato mestiere di giornalista e ormai non riesco più a venirne fuori!» rispose Eric ironicamente. «Beh, dipende da come lo affronti.» «È la melma in cui si naviga quotidianamente nel mestiere che mi soffoca, non riesco a uscirne. Una volta lessi che il giornalismo consisteva nella scoperta della verità, addirittura nell’informare le persone portando a galla i fatti. In tutta onestà, dopo qualche anno di lavoro, devo confessarle che sembrano troppi gli ostacoli che si presentano sulla strada, per diverse ragioni.» «Caro Eric sai che in tanti faranno più o meno consapevolmente di tutto per continuare a fluttuare nella vacuità, per nascondere la verità.» Il professore, preso da un furore populista che gli era consueto in questo tipo di disquisizioni proseguì: «Tutti hanno il diritto di parlare di tutto per non dire niente. Tutti sono al servizio dell’intrattenimento. Panem et circenses per miliardi di persone. Gli intellettuali si vendono ai media più potenti come bestie da circo, diventando strani esseri esotici per la loro diversità. Attirano il pubblico come pappagalli colorati del Brasile in una gabbia europea. E se qualcuno di essi prende una posizione, che abbia anche solo il fine di difendere l’amor proprio, se non addirittura la verità, verrà dilaniato, condannato dal popolo ammaestrato. Avendo perso poi anche la forza e il significato di essere un maledetto, si ritroverà solo.» A Eric erano sempre piaciute le conversazioni che in passato aveva avuto con Mengoni. Stimava il professore e solitamente riusciva a sentirsi un po’ meglio dopo aver parlato con lui, anche se trovava priva di senso la parola “intellettuali”. Improvvisamente Roberto, che si stava già annoiando a morte, si congedò dicendo di dover andare a ritirare un libro in biblioteca. Salutò affettuosamente Eric e i due si ripromisero di telefonarsi e di uscire una sera per fare una bella chiacchierata con più calma. Una volta che Roberto uscì dalla stanza il clima si fece stupidamente più formale, i due si resero conto che erano rimasti soli senza un fantasma mediatore e che effettivamente era ormai diverso tempo che non si vedevano e si parlavano. Così Eric incalzò: «Sto indagando sul caso del parlamentare Ignazio, a proposito di verità.» «Sì, che vicenda torbida. Non si capisce più se sono politici o una sorta di maniaci assetati di potere e sesso.» «Già… il problema, come al solito, è che nessuno ne parla più. Nessuno indaga e tutto viene seppellito quasi immediatamente. Francamente professore sono stufo, questa volta voglio superare l’ostacolo e


24 fregarmene delle conseguenze.» «Guarda Eric, a tal proposito posso dirti che un mio amico, Valentino Lucini, si sta occupando del caso come investigatore privato. Posso darti i suoi estremi se ti può servire, ma ti prego, non dirgli come hai fatto ad arrivare a lui, non la prenderebbe bene.» «Grazie professore, davvero gentile. Stia tranquillo, non dirò niente.» Mengoni aprì il portagioie sulla scrivania e subito l’odore di tabacco pervase il piccolo studio. Poi gli consegnò il bigliettino da visita dell’investigatore. Era quasi sera quando Eric si ritrovò a camminare in via Festa del Perdono, continuando a pensare a lei.


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CAPITOLO 6

Matteo era stufo di gozzovigliare in un piccolo ufficio, seduto in mezzo a personaggi mediocri. Tra persone che lo odiavano solo perché in fondo avevano capito che lui era meglio di loro: più sveglio, noncurante del piccolo schifo quotidiano e soprattutto onesto. Non era mica uno stinco di santo, intendiamoci. Loro d’altro canto, striscianti e perfidi, appena potevano lo attaccavano, pugnalandolo con ogni arma sul “mercato”. Ma la grandezza di Matteo consisteva nel fottersene completamente di tutto ciò. Non era un fottersene programmato. Non uno di quegli scopi vitali autoimposti che non possono funzionare a causa della loro stessa natura artificiale. Era un fottersene naturale. La sua testa viaggiava sempre lontano e veloce. Entrava nei computer conoscendo il linguaggio delle macchine come pochi. Dialogava con i sistemi binari di numeri e loro rispondevano, sempre pronti, su qualsiasi argomento: musica, ragazze, letteratura. I numeri provavano simpatia per lui, ed era una questione reciproca. A volte ci scappava anche la risata quando guardando le curve sinuose di un “8” ci vedeva la ballerina di qualche locale della sera prima. «La cosa bella» diceva sempre «è che alla Soft Corporation sono flessibili con gli orari. Entro ed esco quando voglio, praticamente. Mi limito a costruire programmini per qualche dittarella e buonanotte!» Quanto era vero. Sì perché la vita di Matteo non era certo quella alla Soft Corporation. La sua casa era una sorta di “cervellone della Nasa”. Computer di ogni sorta collegati in ogni angolo, adornati da un gatto obeso che ciondolava in mezzo agli individui in quell’universo cibernetico, come da buon stereotipo. Quando staccava dal lavoro, vicino al Cimitero Maggiore, quasi sempre andava al Saloon. Dio Santo quanto gli piaceva quel locale. Aperte le porte di legno in stile “Saloon” appunto, si immergeva in un mondo di rutti, torsi nudi, bestemmie e “sparo”, cioè chupito al whisky che si mandano giù alla goccia dopo un breve count down e dopo aver dopo urlato “sparo”. Gridava come un gorilla finalmente libero nella giungla. Scoreggiava


26 ridendo e stupendosi del rumore, come fanno i cani. Restava seduto ad ascoltare Jimi Hendrix, i Clash, The Who e accumulava linfa vitale. Si nutriva di quel nettare dolce di cui aveva bisogno come una droga, e la sua faccia riacquistava colore e giovinezza. Poi, di norma, ritornava a casa ed entrava nel mondo degli algoritmi. Era libero di correre in immense praterie a cavallo o a piedi, come preferiva. Assorbiva la conoscenza dei segreti, beffava il mondo diurno smascherandone le falsità e le calunnie. Era un cavaliere dell’Apocalisse, pronto a castigare i peccatori, forte dell’Ira di Dio. Era l’unico cosa che gli permetteva di perdonare. Era l’unica cosa che gli permetteva di alzarsi la mattina. Lui era il Redentore. Viveva solo e non aveva amici, almeno non nel senso classico del termine. La sua grassezza non lo frenava nel rapporto con le donne. Sembrava però che per loro fosse un problema. Fumava all’impazzata e l’unica persona che stimava era Eric. I due si erano conosciuti in una piccola redazione in zona Sant’Agostino. Matteo era il tecnico dei computer e Er stava muovendo i primi passi nel mondo del giornalismo, scrivendo di cinema per un piccolo periodico. Quando si conobbero nacque subito un senso di profondo rispetto reciproco. Cominciarono a sbronzarsi sera dopo sera in locali come l’Atomic o il Rocket. Avevano in comune anche la passione per il rock che, almeno per loro, non aveva smesso di gridare nei primi anni del XXI secolo, martoriati da RnB da quattro soldi e da Jennifer Lopez. Anche Matteo non aveva digerito la storia di Ignazio e di quella ragazza svedese. Adesso che Eric gliene aveva parlato poi, era da diverse notti che si dedicava alla ricerca di informazioni sull’accaduto, per poter aiutare il suo amico e per cercare di capirne di più lui stesso. Era una di quelle notti quando lo chiamò Claudia. «Matteo scusa se ti disturbo a quest’ora, ma…» «Non ti preoccupare, lo sai che non dormo mai. È un miracolo che sia ancora vivo… comunque, dicevi?» «Non riesco a trovare Er. Questa sera avevamo appuntamento all’Oberdan ma non si è presentato e non risponde al cellulare. Tu per caso sai dove diavolo possa essere finito?» «No Claudia, mi dispiace. Stai tranquilla, si sarà preso una sbronza e addormentato da qualche parte. Vedrai che ti chiamerà.» «No Teo, tu non capisci. Sono ore che lo chiamo. Ho paura che gli sia successo qualcosa, aiutami…» «Va bene facciamo così, prendo la macchina e passo da te tra un quarto d’ora, così andiamo a cercarlo…»


27 Il tono di Claudia era decisamente preoccupato e gli rispose piagnucolando. «Ok, grazie Teo.» Matteo non aveva assolutamente voglia di rimettersi in marcia per la città alle 3:30 di notte. Conosceva ormai fin troppo bene Eric ed era convinto che si fosse addormentato su qualche panchina a mugugnare alle stelle e a parlare con Bacco. Versò l’ultima tonnellata di croccantini al gatto, quantità che gli sarebbe bastata per due settimane, e si diresse verso la macchina. Aveva una Talbot azzurra, l’aveva ereditata da suo zio. Non se ne vedevano di Talbot in giro e non se ne erano mai viste neanche trent’anni prima. Questa cosa lo inorgogliva, era l’unico a possedere una Talbot. Anche se non sapeva poi bene che automobile fosse. L’unico inconveniente era che con quella macchina e quella barba nera da talebano che si ritrovava, veniva costantemente fermato dalla polizia. Ma quello era un lunedì notte e pensava che non sarebbe successo. Partì alla volta di Paolo Sarpi e non incontrò nessuno durante il tragitto, neanche una macchina, fatta eccezione per il camion dell’immondizia. Quando arrivò a destinazione trovò Claudia già in strada, nervosa e fremente di partire per la perlustrazione. A causa dell’agitazione lei non lo salutò, si limitò ad aprire lo sportello e salire sull’auto. «Dove andiamo Teo? Portami sotto la redazione, anzi no…» «Calmati Claudia, stiamo calmi. Vedrai che lo troviamo.» «Sì, ma tu magari sai meglio di me dove sarebbe potuto andare stasera, quindi…» «Certamente, proviamo all’Angelo Nero, sul Naviglio Pavese.» Arrivati al locale Claudia si diresse come una scheggia verso l’entrata e Matteo dalla parte opposta. Scese le scale e vide solo qualche uomo che mangiava o beveva e Malika, la sensuale marocchina del lunedì sera. Di Eric nessuna traccia. Claudia si mise a guardare in ogni angolo, anche nei bagni, ma niente. Uscirono di nuovo e Teo si accese una sigaretta. Claudia crollò in un pianto isterico, poggiando la testa sul petto di lui che la accarezzò controvoglia. «Non disperare dai, è solo qualche ora che non lo senti. Andiamo al Nidaba, è qui vicino. Vediamo se si trova lì.» Ma Eric non era nemmeno lì. Matteo pensò di offrire alla ragazza qualcosa da bere. Voleva stordirla in modo da calmarla e prendere tempo. Sapeva che denunciare alla polizia la scomparsa – dopo solo poche ore – di un uomo adulto era inutile, ed


28 era altrettanto convinto che a Eric non fosse successo assolutamente niente di brutto. Se lo vedeva già ciondolante fuori dal Plastic con due porche inglesi strafatte. Del resto conosceva bene i problemi che affliggevano il giornalista, ma era convinto che fosse in grado di affrontare benissimo le notti meneghine. Lo aveva già visto all’opera un’infinità di volte. «Ma non dovremo andare alla Polizia? Oh Gesù, che incubo…» domandò lei. «No Claudia, domattina parleremo con Er. Ti posso quasi confermare che ora sarà in giro ubriaco.» Bevvero una birra ascoltando musica irlandese e poi un’altra e un’altra ancora. Alla quarta Super Tennent’s Claudia era cotta e Matteo pensava fosse giunto il momento di rincasare. «Ti accompagno a casa adesso, dolce fanciulla.» «Va bene, ma guarda che se tu ed Eric mi nascondete qualcosa vi ammazzo» rispose lei, singhiozzando doppio malto. «Non sappiamo nascondere io e lui, sappiamo solo bere. Dai che andiamo» si difese lui caricandosela sulle spalle. Sembravano King Kong e la sua bella. Una mano di Matteo era grande come quasi tutto il cranio di lei. Dovevano far paura nella notte. Se qualcuno ne avesse scorto l’ombra dietro a un angolo, in quel momento, avrebbe giurato di aver visto un mostro enorme rapire una povera ragazza svenuta. In quella situazione però il “povero” era lui. Si erano fatte le cinque, era nuovamente sbronzo e stava facendo una fatica immane per ricacciare Claudia sulla Talbot. Non riusciva a infilare le chiavi nel quadro della macchina per partire. Gli caddero giù vicino ai pedali, allora si chinò per raccoglierle e picchiò con la testa sul volante. Partì il clacson. Prese le chiavi, si rialzò e “toc, toc!”, uno sbirro al finestrino. Teo cacciò un urlo come se avesse visto uno Yeti. «Buongiorno, no… mmh, buonasera agente.» «Sì, buonanotte! Documenti prego…» fece il poliziotto impettito. Dove erano i documenti? Matteo di certo non lo sapeva. «Ma cos’è successo lì, abbiamo bevuto stasera?» il poliziotto si riferiva alle varie lattine di birra vuote sparse per la macchina. «Scenda prego e documenti.» A quel punto il King Kong dall’aria bonaria scese proteggendo il piccolo poliziotto dal chiarore della luna. «Aspetti, aspetti» mugugnava frugandosi nelle tasche «i documenti devono essere qui, sono sicuro.»


29 «La macchina è sua?» «Sì, certo che è mia. Aspetti ancora un attimo che…» Mentre l’agente salì sulla volante per controllare il numero di targa, quel pacato omone di Teo fece qualcosa che non doveva fare. Salì su quel rottame di automobile che possedeva, mise in moto e andò via, verso il buio. E meno male che lui si era sempre vantato di reggere l’alcol. A volte l’istinto è l’unica forma di libertà che ci rimane. Prese la circonvallazione esterna a una velocità non certo folle ma comunque a tavoletta. Rideva come un invasato mentre guidava con la testa di Claudia appoggiata sul cruscotto. Era un riso ebete, fanciullesco, bello per la sua idiozia. È come quando si dice di “avere la ridarola”. Si dice anche che questa scaturisca senza un reale motivo. Ma un motivo c’è sempre. Il motivo di Matteo era il senso innato della cazzata e del brivido che l’accompagna. Arrivati in zona De Angeli la Talbot intonò il proprio canto del cigno e cinque poliziotti uscirono da tre “pantere” arrivate già sul posto. Matteo scese dalla macchina come se nulla fosse successo. «Mi si è fermata la Talbot, agenti…» Tutti e tre gli balzarono addosso. Due lo bloccarono e il piccolino che lo aveva fermato fuori dal Nidaba gli sferrò due destri in piena faccia. «Vaffanculo, gli anelli. ‘Sto stronzo» gridò King Kong. Lo ammanettarono, poi presero Claudia e li portarono entrambi al commissariato. Arrivati a destinazione li fecero accomodare tra puttane e bande di minorenni sudamericani. Poi li convocarono, separatamente. Era presente Soldoni in persona quella notte, nessuno sapeva il perché. Teo lo riconobbe istantaneamente, aveva cercato informazioni su di lui quello stesso pomeriggio. «Caro Matteo Guidoni, l’ha fatta grossa eh… l’alcoltest che le hanno appena fatto stava per esplodere, senza contare che è fuggito. Questa sera la dobbiamo trattenere, può chiamare il suo avvocato se vuole.» Maurizio Soldoni aveva un tono paterno mentre spiegava distrattamente a Matteo il suo prossimo futuro. Dal canto suo Matteo credeva di sapere perché Soldoni si trovasse in commissariato a quell’ora della notte. In rete aveva scovato un pettegolezzo decisamente interessante. Qualcuno aveva lanciato un’accusa nei confronti dell’Ispettore, parlando in chat con un amico. L’informazione era ironica e per di più era stata scritta in dialetto milanese: «Maurizio Soldoni, quand’è che g’ha voja se ciula i truiun nel


30 cumisariat.» Matteo rise ancora una volta, come un’ebete. Per lui Soldoni si trovava lì, a quell’ora della notte, per quel preciso motivo. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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