Foglie

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In uscita il 31/10/2016 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine novembre e inizio dicembre 2016 ( ,99 euro)

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LEONARDO BELLINI

FOGLIE

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FOGLIE Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-037-5 Copertina: immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Ottobre 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova



“Puoi avere pace o libertà. Scordati di averle insieme” (Robert A. Heinlein)




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Jack si svegliò di soprassalto. «Mi scusi signore, può gentilmente allacciarsi la cintura di sicurezza? Il segnale è acceso, ci sono spesso turbolenze in questa zona.» Un volto femminile, sorridente e perfettamente truccato lo stava fissando. Jack mise a fuoco la divisa color rosso acceso e il colletto bianco inamidato. La hostess appoggiò dolcemente la mano sulla sua spalla, assicurandosi che il risveglio non fosse troppo traumatico. «Sì, certo, grazie», rispose annuendo col capo. Guardò fuori dal finestrino, l’ala dell’aereo brillava riflettendo la luce lunare, il cielo era limpidissimo, si intravedeva una vellutata coltre di nubi grigiastre in bassa quota. Sull’aereo regnava la quiete, nessuno si muoveva, tutti cercavano disperatamente di dormire. In quel momento Jack pensò a quanto fosse bizzarro condividere il sonno con estranei, in un ambiente così ridotto. Si guardò intorno notando decine di persone con mascherine nere sugli occhi, coperte di cotone inodori con ricamato il logo della compagnia aerea appoggiate sulle spalle, tappi arancioni di gommapiuma che sporgono dalle orecchie e scarpe in pelle lucida ordinatamente riposte sotto al sedile. La turbolenza era passata, l’aereo continuava la sua rotta indisturbato, mentre il ronzio ipnotico delle turbine si diffondeva liquido tra le file di passeggeri. Jack pensò di nuovo al suo ufficio a Manhattan e si chiese per l’ennesima volta se aveva istruito correttamente i suoi collaboratori sul lavoro da fare durante la sua assenza. Ci sarebbero state un paio di udienze importanti nelle settimane successive ed era fondamentale non incappare in errori. Cerca soltanto di rilassarti, sei qua per un motivo, dovresti concentrarti soltanto su quello adesso.


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Jack affossò le spalle nel soffice cuscino verde appoggiato sullo schienale, accese la luce sopra la sua testa e sfilò dalla borsa un quadernetto con la copertina rigida, rivestita di pelle marrone. Sciolse la stringa di cuoio che lo avvolgeva e lentamente lo aprì. Era malconcio, le pagine ondulate, probabilmente si era bagnato varie volte. Era scritto con una penna talvolta blu, talvolta nera. Le parole era fitte, con molte cancellature. Ogni tanto compariva qualche disegno. Le tracce scure solcavano la carta sporca e consumata creando vistosi avvallamenti. La prima pagina era bianca, con al centro una parola soltanto. Asia. Un tratto spesso e deciso, le lettere rimarcate, lo stile chiaro e minimale. Jack scorse le dita su quelle cinque lettere, chiuse gli occhi e aprì il palmo della mano appoggiandolo sulla carta. Seguì con i polpastrelli i solchi lasciati sulla pagina, finché il suo sguardo non si perse nel nulla per qualche istante. Chiuse il libro di scatto e con un sospiro nervoso tornò a guardar fuori dal finestrino, mentre le luci delle stelle gli apparvero offuscate dalle lacrime che gli stavano gonfiando gli occhi.


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«Salve a tutti, questo è ciò che normalmente chiamiamo il momento dei ringraziamenti. Molti di noi utilizzano questi cinque minuti di gloria per ringraziare cordialmente il proprio professore di riferimento, con la speranza di venire a breve assunti nel suo studio legale. Qualcuno ringrazia poi i genitori, fonte inestinguibile di supporto, conforto e approvazione, e così via… «Beh, che dire, io non ho passato cinque anni studiando legge alla Columbia University per poi salutarvi con simili banalità. Oggi ringrazierò chi veramente mi ha reso felice durante gli ultimi cinque anni qui, partendo da quel simpatico ragazzo che si offrì di falsificarmi la carta d’identità anticipando di ben due anni l’inizio del mio florido rapporto con l’alcool. Ringrazio il portiere della sezione femminile per tutte le volte che ha chiuso un occhio vedendomi calare goffamente dal balcone di qualche camera durante la notte, ringrazio la banca che mi ha gentilmente concesso il prestito necessario al pagamento dei miei studi, prestito che finirò di restituire fra un centinaio di anni, forse. «Ringrazio Jack, il mio caro, carissimo compagno di studi e di vita, lo ringrazio per tutte le volte che mi ha riportato in carreggiata, per ogni volta che si è preso la briga di ascoltare le mie paranoie, per la sua razionalità e il suo invidiabile equilibrio. Siamo una bella coppia in effetti, io sono l’estro, lui è la meticolosità, penso che faremo scintille insieme e, considerato che normalmente le ragazze ci durano quanto un pulcino d’aquila in uno stagno di piranha, finiremo per sposarci l’un con l’altro e, quando saremo ricchi e pensionati, ci ritireremo in una casetta di montagna in Colorado, alla faccia vostra. «Sì, lo so, questo non è esattamente ciò che ci si aspetta di ascoltare da un neolaureato alla facoltà di legge della Columbia, da questo palco siete abituati ad ascoltare solenni promesse di incondizionata fedeltà agli Stati Uniti d’America, alla legge e alla Costituzione, come se le leggi, la Costituzione e le regole che abbiamo scelto di seguire fossero


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elementi a noi del tutto estranei e dotati di vita propria, come se fossero un qualcosa di costantemente minacciato da una società che cova odio verso qualsiasi tipo di limitazione del nostro ancestrale arbitrio. «Il mio obiettivo sarà diverso, io non mi impegnerò a far rispettare la legge, non mi impegnerò a proteggerla così come si fa la guardia a una gioielleria, niente di tutto questo. La mia missione sarà diversa, io mi sforzerò con tutto me stesso perché la legge si avvicini sempre più a quel che dovrebbe in realtà essere, ovvero il soddisfacimento di quell’insieme di esigenze che la coscienza comune detta per una sana convivenza democratica, pacifica ed egualitaria. «Cercherò di ascoltare i bisogni della società, prenderò la parola nel tentativo di istruire il legislatore giornalmente su ciò che a nostro avviso dovrebbe cambiare. Non dovremmo mai aspettare che arrivi un ordine dall’alto, non esiste niente più alto di noi. «Vorrei ora concludere con una citazione. «Quando iniziai il corso di storia del diritto romano ero convinto che fosse inutile conoscere le leggi appartenenti a civiltà vissute in Europa due millenni fa. «Beh, mi sbagliavo. «Di lì a poco scoprii tanti dei così detti precetti romani, e uno in particolare mi colpì come niente era riuscito a colpirmi durante i miei studi. «Gli antichi romani dicevano che una legge su pietra rimane pietra, mentre una legge nel cuore è “vita”. Ed è per questo che oggi vi dico che il mio compito sarà quello di ascoltare e far ascoltare i cuori di ognuno di voi, plasmando quelle sensazioni in ciò che convenzionalmente chiamiamo legge, lottando perché queste acquistino quel carattere indelebile e universale che si meritano, esaltando quelle qualità e virtù che un’umile pietra non potrebbe mai contenere. «Grazie a tutti.» Tom alzò lo sguardo e socchiuse gli occhi abbagliato dal sole, davanti a lui c’era una distesa di tocchi neri con sotto tanti occhietti curiosi che lo fissavano increduli e affascinati. Passarono almeno quattro secondi prima che qualcuno iniziasse ad applaudire. Jack non poteva credere a ciò che aveva appena ascoltato.


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Quel pazzo si è messo a raccontare di quando si è procurato il documento falso per comprare alcolici, non è possibile! Tom scese tra il pubblico con un balzo e si diresse sorridente verso l’amico, in prima fila. I suoi riccioli biondi uscivano scomposti dal tocco posizionato sulla testa. Aveva un sorriso a trentadue denti e gli occhi celesti socchiusi che brillavano di luce propria. «Sempre molto pacato e convenzionale come al tuo solito, Tom», disse Jack con un ghigno di approvazione, cingendo il collo dell’amico con un braccio. «Son stato bravo vero? Di’ la verità!» «Sì, davvero un gran bel discorso, e grazie per gli elogi, anche se potevi risparmiare al pubblico simili esternazioni riguardo al tuo progetto di volermi sposare.» «Lo sai che amo soltanto te, conquisteremo il mondo insieme, tu sei un fottuto genio, sei giovane, bello e preparato, ma sei un maledetto scorbutico rompicoglioni, senza di me sei finito, lo sai.» «Sì, sì, va bene, lo so Tom, lo so.» «Dai, andiamo a toglierci questi gonnelloni e facciamoci una birra!» «Sì, è meglio…» Jack e Tom si erano laureati lo stesso giorno, così come accadde col diploma, cinque anni prima. Tom si trasferì con la famiglia a New York quando aveva tredici anni e frequentò il liceo a Manhattan nella stessa classe di Jack fin dal primo anno. Jack era un ragazzo diligente e studioso, Tom era tanto brillante quanto ribelle, studiava molto meno di Jack ma otteneva gli stessi voti. Tom apprezzava molto la bontà di Jack, la sua genuinità e altruismo, la sua modestia e correttezza, a Jack invece piaceva l’estroversione di Tom, la sua simpatia e positività, la sua bravura nel ridimensionare il problema e aver sempre pronta una soluzione senza mai perdere la calma. Tom ricordava spesso a Jack di non stressarsi inutilmente e che la vita era una soltanto, mentre Jack si prendeva cura di Tom e si assicurava che non saltasse troppe lezioni, che dormisse sufficientemente, che non prendesse di punta le autorità per problemi in fondo facilmente risolvibili. Tom era un sognatore, Jack era più concreto e razionale, pur amando il rischio e le sfide. Si compensavano a vicenda. Entrambi decisero di studiare legge affascinati da quel sentimento di giustizia che avvertivano come una fiamma dentro il loro stomaco. Sognavano le cause del secolo, quelle


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dove vengono trascinati alla sbarra i corrotti, le assicurazioni sanitarie, le aziende del tabacco e tutto il resto, roba da prima pagina. Si sentivano forti, giovani e pieni di possibilità . L’avvocatura era una sfida con loro stessi e già durante i primi mesi della scuola legale postuniversitaria si resero conto che quello era esattamente il futuro che volevano.


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Giorno 1 Bangkok è la cosa più diversa rispetto a casa mia che abbia mai visto fino a questo momento. Il nome della città è azzeccato, dato che sembra esploderti davanti e prenderti a schiaffi appena trovi la forza di immergerti nei suoi vicoli. Bang! Quando solitamente scendo dall’aereo in un luogo molto lontano da casa mi diverto a notare subito le prime differenze. In Tailandia risulta difficile fare il contrario, ovvero trovare le affinità. Il traffico congestionato, il cibo di strada, l’umidità prossima al cento per cento e le barche che brulicano nel fiume marrone sono soltanto le prime cose che un occidentale nota, ma ben presto emergono elementi nuovi e inimmaginabili, in grado di non farti mai dimenticare quanto lontana sia casa tua, non solo geograficamente. Ho preso un autobus dall’aeroporto, quando tutti i turisti solitamente prendono un taxi. Ero l’unica persona non asiatica a bordo, la gente mi guardava sorridente e stupita. Ci vuole pochissimo per notare come il modo in cui vivono e l’approccio che hanno con l’altro siano del tutto diversi rispetto a ciò che siamo abituati a vedere nel mondo occidentale. Sono tutti mortificati del fatto che non parlano inglese, e in effetti pochissimi lo parlano, direi quasi nessuno. Quando mi vedono in difficoltà si avvicinano e mi sorridono, dicendomi una frase che contiene la parola “thai”. Ho capito che quella frase vuole dire “Parli thai?”, quindi quando la sento scuoto la testa e dico di no, loro si rattristano e cercano di capire dove voglio andare o che informazione mi serve, facendo di tutto per aiutarmi. Ieri sera mi stavo dirigendo in cerca di un ostello nei pressi di KhaoSan Road, solo che ho attraversato il fiume per sbaglio e non sapevo come tornare indietro, nel frattempo stava piovendo a dirotto. Una signora mi ha preso per


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mano e portato in una stazione di piccole imbarcazioni adibite al trasferimento di persone da una sponda all’altra. Ah, dimenticavo, lei doveva andare da tutt’altra parte, l’ha fatto soltanto per me, senza sognarsi di chiedermi un bath, la moneta locale. Ho imparato a dire grazie in tailandese, è una cosa come “Korp kun kap” se detto da un uomo. Lo dico di continuo perché è veramente eccezionale quello che costantemente fanno per me. Quando loro ringraziano congiungono le mani in preghiera e accennano un inchino. Sto facendo lo stesso e sembrano apprezzare divertiti. La lingua tailandese è molto dolce, ha una cantilena che ricorda la “yaa” dei coreani e la “gn” nasale dei cinesi. La “a” è sicuramente la vocale più usata. È un melodico susseguirsi di “gnaa taaa saa ep paa saaa gne taa”. Adorabili! Anche gran parte del linguaggio del corpo è diverso. Ad esempio, quando vogliamo dire “dopo”, noi occidentali generalmente mettiamo l’indice della mano destra in posizione orizzontale e iniziamo a volteggiarlo disegnando un cerchio immaginario. Per loro questo è un gesto sconosciuto. Pensate a quante cose noi facciamo con quel gesto senza accorgercene (“la prossima fermata”, “ci vediamo dopo”, “dopo torno”, eccetera). Devo capire com’è la versione tailandese di quel gesto, mi semplificherebbe molto le giornate. Passeggiando per Khaosan road durante la sera, è impossibile non rimanere affascinati. Cibo di strada ovunque, musica alta, neon lampeggianti, tuk-tuk che passano in aerea pedonale, decine di turisti spaesati, venditori ambulanti, locali e discoteche sugli attici dei palazzi. Tutto sparso in maniera causale, senza il minimo ordine. Immaginate di mettere Las Vegas in uno shaker, aggiungete un po’ di curry, agitate e poi versatela in una strada urbana, così come viene: ecco che avrete Khaosan road. Ho passato la prima sera bevendo rum tailandese e mangiando cavallette fritte con un gruppo di ragazzi francesi incontrati in un bar. Tornato in ostello il sole era già molto alto nel cielo e l’afa di nuovo opprimente. Stamattina, dopo qualche ora di sonno, ho preso un autobus e mi sono dedicato alla visita delle principali attrazioni che offre la città. Muoversi in autobus è bellissimo, avevo una ragazza davanti a me, abbiamo parlato tutto il viaggio, lei in tailandese, io in inglese. Sto man


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mano capendo quanto i sorrisi e gli sguardi possano andare ben oltre le semplici e convenzionali regole grammaticali. Il caldo è opprimente, qualcosa che noi americani non riusciremmo mai a immaginare prima di metter piede qua in Sud Est Asiatico. Fortuna che sono passato all’abbigliamento tailandese molto in fretta, che è come andar in giro nudi o quasi. Sto capendo quanto sia comodo per una donna indossare una gonna d’estate (molta invidia). Jack era finalmente arrivato a Bangkok. Se si esclude qualche fine settimana passato in Messico durante gli anni universitari e una gita organizzata a Venezia con una sua ex fidanzata, quella era la prima volta che usciva dagli Stati Uniti. Il viaggio l’aveva distrutto. L’aria condizionata durante il volo e le lunghe attese per le procedure di controllo dei passaporti gli stavano facendo desiderare sempre di più un comodo letto dove finalmente avrebbe potuto riposare un po’. Era partito con un grande trolley pieno zeppo di vestiti, medicinali, scarpe, un’enorme zanzariera da letto e varie altre cose di discutibile utilità. La prima grande differenza che notò rispetto all’autunnale New York appena lasciata alle sue spalle era la temperatura atmosferica. Qualcosa che si aggirava ai trentacinque gradi centigradi, con un’umidità fuori dal comune. Appena uscì dall’aeroporto si trovò di fronte a uno scenario a lui del tutto nuovo e inaspettato: centinaia di tassisti si avventavano su chiunque si trovasse sul marciapiede offrendo insistentemente una corsa in direzione del centro, venditori di cibo ambulanti spingevano piccoli carretti in legno e lamiera, cercando di vender bibite, spiedini di carne arrostita, sacchetti di plastica pieni di frutta tagliata a pezzi e piccole polpette fritte in salsa agrodolce. Nonostante Jack fosse abituato alla calca caratteristica della downtown della Grande Mela, si sentì mancare il respiro. Un taxi lo portò in zona Banglamphu, nei pressi di Khaosan Road, dove aveva prenotato un albergo in una delle strade vicino al fiume. Il tassista lo lasciò nel luogo sbagliato chiedendogli il doppio del prezzo concordato. Jack pagò confuso e fu scaricato con il suo ingombrante trolley nel bel mezzo del cuore pulsante della capitale. Erano le quattro del pomeriggio e Banglamphu brulicava di turisti zaino in spalla,


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giovani tailandesi, carretti colmi di cibo e tuk-tuk che circolavano all’impazzata infrangendo qualsiasi precedenza o norma stradale. I tuktuk sono veicoli a tre ruote, due dietro e una davanti, guidati con un manubrio. Costano meno del taxi e sono più piccoli, riuscendo quindi ad arrivare a destinazione in un minor tempo. Il tuk-tuk è spesso considerato l’elemento più tipico e tradizionale della Tailandia, così come l’insistenza e la scarsa padronanza della lingua inglese di chi lo guida. Dopo qualche centinaio di metri, Jack iniziò a capire quanto fosse scomodo spostarsi con un trolley in una città del Sud Est Asiatico. La sua camicia di lino a maniche lunghe era completamente fradicia di sudore, per non parlare dei pantaloni scuri che si stavano man mano incollando alle gambe. Ma che posto è questo? Sembra un girone infernale! Le persone del luogo lo osservavano divertite accennando talvolta una composta risata mentre molti autisti di tuk-tuk lo affiancavano chiedendogli fino allo sfinimento se aveva bisogno di esser portato da qualche parte. Finalmente trovò l’albergo che aveva prenotato. Un edificio fatiscente con camere piccole e poco pulite. Rimase a fissarlo perplesso, poi si fece coraggio ed entrò. Tom mi diceva sempre di non prenotare mai il posto dove dormire, diceva che così facendo ci si priva di gran parte dell’avventura… Finalmente in camera, si gettò esausto sul letto. Il ventilatore volteggiava all’impazzata due metri sopra di lui. Era tempo di controllare le email, forse quella era la prima volta negli ultimi cinque anni che non apriva la sua casella di posta elettronica per più di dodici ore. Si era portato con sé un tablet e uno smartphone con contratto internazionale. Il contatore segnava quarantasette email, la maggior parte delle quali provenienti da studi legali con cui lo studio di Jack collaborava. Speriamo che i ragazzi non facciano cazzate. Iniziò a leggere qualche email col tentativo di rimanere in un certo senso aggrappato al suo mondo ormai lontano, ma durò ben poco, almeno finché il sonno che gli stava martellando le tempie non lo travolse violentemente, svanendo soltanto cinque ore più tardi, quando


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si svegliò di soprassalto in un bagno di sudore, sotto il rumoroso ventilatore che tentava senza troppo successo di far circolare l’aria calda e umida. Le dieci… Decise di uscire alla ricerca di cibo. Seguendo il flusso di gente, Jack si mosse in direzione del forte rumore di clacson e musica. Ben presto si trovò all’imboccatura di Khaosan road, rimanendone letteralmente folgorato. Non aveva mai visto niente di simile, sembrava una sorta di bizzarra Time Square asiatica, piena zeppa di neon lampeggianti, venditori ambulanti e banchetti ovunque. Gli odori si mischiavano tra loro, così come la musica proveniente da ogni bar o ristorante. Jack rimase immobile per vari minuti a osservare quell’insolito spettacolo. Scorse un Mc Donald’s colmo di occidentali intenti a divorare hamburger e patatine. All’ingresso c’era la statua in vetroresina del caratteristico pagliaccio Ronald con le mani congiunte in preghiera e il viso sorridente, il gesto che i tailandesi e gli asiatici in genere utilizzano per ringraziare. Non ci pensare neanche, non puoi mangiarti un Big Mac adesso! Nonostante l’idea di gustarsi quel cibo così familiare lo stesse tentando, trovò la forza di proseguire addentrandosi sempre di più nel cuore di Khaosan, finché non si fermò in un bar con tavolini all’aperto e musica dal vivo, dove ordinò da bere. Non fece in tempo a sedersi che un gruppo di ragazzi gli fece cenno di unirsi a loro. Jack sorrise e si mosse goffamente verso il loro tavolo, trascinando con sé la propria sedia. «Ciao, grazie dell’invito, mi chiamo Jack, come ve la passate?» «Ciao Jack! Io sono Aron, questi sono Evert e Jan, dalla Svezia con amore!» I ragazzi scoppiarono in una risata sguaiata, di quelle che raramente si sentono in Svezia. Sul tavolo c’erano un paio di bottigliette vuote di liquore, rum probabilmente, con l’etichetta completamente scritta in caratteri tailandesi. «Da quant’è che sei qua, Jack?» «Sono appena arrivato, è il mio primo giorno in Tailandia.»


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«Benvenuto a Bangkok allora! Noi siamo qua da qualche settimana, stasera ti unisci a noi! Ti va?» Aron cinse Jack al collo con il braccio spingendo la fronte contro la sua. Era su di giri, il suo alito ricordava una distilleria di rum venezuelana. Passò davvero pochissimo tempo prima che i ragazzi si scolassero altre due bottiglie di rum tailandese e solo quando Jack si alzò per andare in bagno si rese conto di esser completamente ubriaco, complici sicuramente il caldo, il fuso orario e la stanchezza accumulata. Non aveva ancora mangiato nulla e doveva mettersi assolutamente qualcosa nello stomaco prima che fosse troppo tardi. «Ragazzi! Il tizio degli insetti! Fermatelo!» Aron si alzò di scatto lanciandosi barcollante in strada verso un carretto che stava lentamente transitando lungo il marciapiede. Rimase qualche istante a parlare col venditore, finché non fece ritorno con una busta di plastica che gettò orgoglioso sul tavolo. «Buon appetito Jack!» farfugliò tutto divertito, mentre gli altri due avvicinavano curiosi le teste verso il sacchetto. Jack mise a fuoco quei piccoli oggetti fritti e marroni al centro del tavolo d’alluminio. Dio… C’erano cavallette, larve, rane e blatte. Fritte. Probabilmente erano state gettate vive nell’olio bollente, dato che, specialmente le rane, assumevano posizioni strane, come di fuga, con i muscoli ancora in tensione e le zampe stese. Cristallizzate in quella posa per sempre. Jack sentì chiudersi lo stomaco, un sussulto all’altezza dell’esofago lo fece sobbalzare, la salivazione aumentò e il cuore iniziò a battere all’impazzata. Iniziò a girargli la testa. «No, ragazzi, io non… no, grazie, davvero.» «Sei a Bangkok! Devi mangiare gli insetti! Non puoi tirarti indietro! Sono buone! Prova le cavallette!» disse Aron mentre sgranocchiava una rana. «No, davvero, ti ringrazio ma proprio non posso…» Due giorni fa pranzavo nel miglior ristorante francese di Manhattan con i nostri migliori clienti, oggi mi trovo a Bangkok, ubriaco, a bere


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rum tailandese con tre sconosciuti che tentano di farmi mangiare insetti fritti comprati in strada… ma che sto facendo? «Rilassati! Capisco che è il tuo primo giorno, è normale che la tua testa sia sempre in occidente, ma adesso sei in Asia, sei nel bel mezzo di una fiaba, questa non è la realtà che conosci, conviene che ti abbandoni alla svelta a quest’idea, sarebbe una stupida forzatura altrimenti. Abbandonati, dimentica il posto da dove vieni, adesso sei a Bangkok, sei sudato fradicio, sei ubriaco e mangi cavallette.» Aron era completamente sballato, Jack faceva fatica a capire quel che diceva, stava farfugliando parole in una sorta di crisi mistica, tirando fuori tutto un susseguirsi di cliché sulla cultura asiatica e il senso di sentirsi liberi. Jack dette un sorso al bicchiere di rum davanti a sé e afferrò una cavalletta per una zampa portandosela vicino agli occhi. Vedeva tutto annebbiato, la testa nera dell’insetto compiva lente spirali davanti a lui, mentre sullo sfondo c’erano le tre facce divertite dei ragazzi svedesi che lo fissavano a bocca aperta. Jack chiuse gli occhi, apri la bocca e adagiò lentamente la cavalletta sulla lingua. Serrò le fauci e iniziò a masticare riaprendo gli occhi. Le zampette, le ali e l’esoscheletro del piccolo animale si frantumavano rumorosamente tra i denti per poi venir tritate finemente dai molari, prima di esser ingoiate. Le zampe erano ruvide e creavano un forte e talvolta doloroso attrito sulla lingua e il palato. Tutto era così secco, duro e croccante. Jack mandò giù il boccone con il rum rimanente, ringraziando timidamente i ragazzi per gli applausi, le urla di approvazione e i complimenti che gli stavano rivolgendo. «Allora? Com’è?» urlò Aron. «Sì, non male, davvero, sa di pollo, lo stesso identico sapore della pelle fritta del pollo vicino alla zampa», disse Jack muovendo la lingua tra i denti nel tentativo di togliere i pezzetti di cavalletta rimasti. «Sì! Di pollo! È il cibo del futuro! Il cibo del futuro!» gridò Aron alzando le braccia al cielo. Jack stava ondeggiando, cominciava a lasciar le frasi incomplete e rideva senza senso abbandonandosi ogni tanto allo schienale della sedia con lo sguardo perso nel cielo sopra di loro. Fu in quel momento che il cellulare squillò.


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Una chiamata da New York. Jack cercò di metter a fuoco il nome sul display sgranando gli occhi lucidi. Era Johnny Basile. E adesso che vuole? Che diavolo è successo?

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«La difesa può procedere al controesame del teste», disse il giudice guardando svogliatamente il banco degli imputati. «Faccio io!» bisbigliò Tom nell’orecchio a Jack. «Ma come fai tu? Ti sei preparato per l’arringa finale, pensavo di doverlo fare io questo controesame!» gli disse Jack preoccupato. «Tranquillo, mi sento tonico, dai che ti faccio divertire!» «Tonico…» ripetette Jack sarcastico, mentre tornava a sedersi lasciando spazio a Tom. «La parola alla difesa, prego», sollecitò il giudice spazientito. «Sì, vostro onore, soltanto alcune domande…» Jack si passò nervosamente una mano sulla fronte mentre Tom ordinava lentamente le carte e i documenti di fronte a lui. Al banco dei testimoni c’era un certo Scott Wilson, guardiano notturno del magazzino dove era stato compiuto un furto di materiale elettronico. «Buonasera signor Wilson, adesso le farò alcune domande, ma prima cercherò di riassumere brevemente quel che lei ha fino a questo punto affermato in risposta alle domande dell’accusa, se non le dispiace…» «Certo.» «Bene, quindi lei si chiama Scott Wilson e lavora da circa dieci anni come guardiano notturno del magazzino oggetto del furto durante la notte tra il nove e il dieci febbraio scorso.» «Sì…» «Quella notte lei era di turno e si trovava all’interno della sua saletta posta sul corridoio d’entrata quando ha notato la presenza di un soggetto estraneo sui monitor di sicurezza.»


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«Esattamente, sì.» «A quel punto lei si è alzato in piedi e attraverso il vetro ha chiaramente visto una persona vestita di nero intenta a uscire dal magazzino scavalcando la rete adiacente al cancello d’ingresso...» «Sì, con uno zaino.» «… E oggi lei riconosce senza alcun dubbio quella persona nel mio assistito qua presente, il signor Johnny Basile, è corretto?» «Sì, è corretto.» Johnny Basile era il figlio trentenne e piantagrane dell’italo-americano Tony Basile, proprietario di un’importante azienda di spedizioni con sede a New York. Jack e Tom strinsero una grande amicizia con il padre dopo averlo tirato fuori da qualche piccolo problema doganale durante i loro primi anni di carriera, dopodiché iniziarono costantemente ad arginare le conseguenze delle continue ragazzate che il figlio Johnny puntualmente combinava. Col passare degli anni e con la nascita dello studio associato Smith&Simons, Jack e Tom iniziarono a occuparsi principalmente di processi di ben altra portata, non avendo più tempo per risse e furtarelli. La difesa di Johnny Basile era una sorta di favore che i ragazzi continuavano a fare al buon Tony per non rovinare i preziosi rapporti di amicizia. In realtà non era assolutamente un peso per loro, anzi, era esattamente il contrario, con Johnny Basile si esaltavano. Ormai avevano per le mani parecchi processi da prima pagina, roba con perizie da capogiro e centinaia di prove documentali. Ogni tanto ripensavano ai primi anni, a quelle difese disperate a favore del ladruncolo di turno, con tutta quella creatività e spavalderia che soltanto un procedimento privo di meticolose prove scientifiche poteva permettere. Il buon Johnny Basile dava spesso loro l’occasione di concedersi questa sorta di ritorno alle origini, questo tuffo nel passato. Ogni volta che capitava, firmavano sempre il mandato congiuntamente, presentandosi entrambi alle udienze. Si divertivano. «Lei si considera una persona attenta ai dettagli, giusto?» chiese Tom. «Beh, sì, il mio lavoro lo richiede», rispose il signor Wilson con tono solenne.


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«Lasci perdere per un attimo il suo lavoro signor Wilson, le ripeto la domanda, lei si considera in genere una persona molto attenta ai dettagli?» «Sì, lo sono.» «Qual è il suo film preferito, signor Wilson?» «Obiezione! La domanda è totalmente superflua e priva di senso!» esclamò il Pubblico Ministero alzandosi in piedi dal banco dell’accusa. «Respinta. Vediamo dove vuole arrivare l’avvocato Simons», rispose pacatamente il giudice. «Grazie vostro onore, reitero la domanda.» «Il mio film preferito è Qualcuno volò sul nido del Cuculo», disse il signor Wilson con voce sicura. «Davvero? Gran bel film, mi congratulo per la scelta e dato che è il suo preferito immagino si ricordi senza dubbio il nome del personaggio interpretato dal grande Jack Nicholson.» Il signor Wilson aprì lentamente la bocca senza emettere alcun suono, il suo sguardo andò di scatto verso l’alto, alla ricerca di qualche dettaglio tra gli intarsi del soffitto a cassettoni sopra la sua testa. Passò qualche secondo prima che riprendesse a parlare. «Beh… adesso non ricordo bene, è molto tempo che non lo vedo…» «No, aspetti, mi faccia capire, lei mi sta dicendo che non ricorda il nome del protagonista del suo film preferito? Com’è possibile?» «Adesso non mi viene in mente, ma che c’entra scusi?» «Qua sono io a far le domande, lei cerchi di limitarsi a rispondere, la ringrazio.» «Avvocato Simons, cerchi di arrivare velocemente al punto», disse il giudice gettando un’occhiata minacciosa in direzione del banco degli imputati. «Sì, certo, ancora un paio di domande Vostro Onore…» disse Tom con un ghigno di soddisfazione. «Signor Wilson, durante il suo turno lavorativo lei che fa esattamente?» «Controllo i monitor di sorveglianza e se vedo qualcosa di strano do l’allarme», rispose stizzito il testimone. «Quindi controlla i monitor giusto? E lo fa senza mai distrarsi? Oppure, che so, magari legge il giornale, guarda un film o si concede un pisolino?»


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«Assolutamente no, niente di tutto questo! Ma con chi crede di parlare?» «Va be ne, ho capito, non si arrabbi… senta, ancora una domanda, lei sa se su di lei è puntata una telecamera durante il suo turno di lavoro?» «No, non è puntata nessuna telecamera su di me, sono tutte puntate verso l’esterno e sono visibili sui miei monitor.» «Ne è sicuro? Magari è una telecamera che non appare sui suoi monitor e non per questo vuol dire che non esista, magari è una telecamera piccola, posta in un luogo strano che lei non ha mai notato, ci ha mai pensato signor Wilson?» Il testimone irrigidì i muscoli del collo e serrò la bocca con uno scatto nervoso mentre gli occhi ruotavano freneticamente alla ricerca di un oggetto da fissare. Tom lo stava incalzando. «Io… no, non ci ho mai pensato, no. Non penso ci sia nessuna telecamera puntata su di me.» Tom si voltò lentamente, aprì la sua borsa di pelle e sfilò un DVD, appoggiandolo in bella vista sulla superficie in legno del banco della difesa. Il signor Wilson perse letteralmente la calma. «E quello cos’è? Dove l’ha preso? È illegale!» «Questo? È una raccolta di musica Jazz, non si preoccupi, le avevo già detto poco fa che spetta a me far le domande in questa sede, la prego di limitarsi a rispondere.» «È ridicolo!» «Cerchi di non renderci partecipi delle sue opinioni personali a riguardo e risponda nuovamente alla mia domanda di poco fa: durante il suo turno di lavoro le capita mai di distrarsi e intrattenere attività diverse rispetto a quella per la quale è pagato? Le ricordo che è sotto giuramento e che la falsa testimonianza è un reato.» «Obiezione! La domanda posta in questi toni è tendenziosa! Il teste ha già risposto poco fa! Chiedo che venga dichiarato concluso l’esame Vostro Onore!» Il Pubblico Ministero era balzato in piedi su tutte le furie. «Respinta. Risponda alla domanda signor Wilson», disse il giudice adagiando la schiena sulla poltrona in pelle imbottita.


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In aula ci fu un attimo di silenzio. Tom osservava il testimone così come una volpe fissa un fagiano dopo avergli rotto un’ala, prima del colpo di grazia. «Io… beh, io, mi capita di fare altro ogni tanto, ecco», farfugliò il testimone guardandosi le unghie. «Che intende per altro? Le capita mai di leggere un libro?» chiese Tom. «Sì, può capitare.» «Le capita mai di dormire un po’?» «È raro, ma può capitare, sì…» «E la sera tra il nove e il dieci febbraio scorso le è capitato di dormire durante il suo turno notturno? Ci pensi bene.» In aula calò il silenzio, il teste era completamente nelle mani della difesa, Tom lo stava modellando a piacimento come si fa con un pezzo d’argilla. Il signor Wilson stava ammettendo di aver fatto cose delle quali non era neanche del tutto sicuro, ma la paura di poter essere clamorosamente smentito da una registrazione lo terrorizzava. «Io… sì, forse quella notte ho dormito un po’, non ricordo bene, ero molto stanco.» «Lei forse ha dormito un po’ perché molto stanco! E lei vorrebbe farci credere che durante il suo dormiveglia avrebbe notato una figura nel buio che oggi riconosce categoricamente nel mio assistito? Magari stava soltanto sognando, non ci aveva pensato?» «… Sì, non lo so, sono un po’ confuso adesso, ma penso di aver visto bene il volto di quella persona!» provò a giustificarsi il signor Wilson. «Lei pensa? Poco fa ne era categoricamente sicuro! Adesso lei pensa! Lei non è qua per pensare! Lei deve esserne certo! Ma la certezza non è il suo forte a quanto pare signor Wilson, lei ha cambiato versione almeno tre volte durante quest’esame testimoniale, prima era certo di aver visto una persona, adesso pensa di averla vista, prima era categorico sul fatto che sul posto di lavoro non si distraeva, adesso ammette che dorme, legge i libri e Dio solo sa cos’altro fa!» «Io…» «Le faccio un’ultima domanda signor Wilson e la prego di pensarci bene prima di rispondere.» Tom si interruppe per un paio di secondi, in aula c’era un silenzio tale che si riusciva a sentire il lieve ronzio delle lampade al neon disposte sulle pareti laterali.


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«… Lei è sicuro di riconoscere nel mio assistito qua presente, il signor Basile, l’uomo che durante la notte tra il nove e dieci febbraio scorso si trovava all’interno del magazzino da lei sorvegliato?» Il signor Wilson abbassò lo sguardo e si passò la mano sul mento per qualche secondo, aprì la bocca un paio di volte, ma poi la richiuse senza emettere alcun suono. «No, forse no, non ne sono sicuro», disse con un filo di voce. Gli angoli della bocca di Tom si spostarono lentamente verso l’alto e un sorriso spontaneo iniziò a disegnarsi sul suo volto. «Non ho altre domande Vostro Onore, grazie.» Tom chinò il capo e si sedette di nuovo al banco della difesa. Jack lo stava fissando a bocca aperta, con gli occhi fuori dalle orbite. «Dove diavolo hai preso quel DVD?» chiese strabiliato. «Hai presente quel negozietto di dischi dove vado sempre sulla Broadway?» Jack si appoggiò una mano sulla fronte e scosse la testa. «Non ci posso credere! Tu sei pazzo! Così l’hai spaventato, l’hai condizionato, ti potrebbero radiare dall’albo per una cosa del genere!» «E perché mai? Per aver estratto un DVD dalla borsa?» chiese Tom con aria innocente. «E come ti è venuta in mente la storia del film? Come sapevi che si era dimenticato il nome del protagonista?» «Jack, seriamente, ti pare che quello abbia la faccia di uno che si ricorda le cose?» sussurrò ridacchiando. «Sei pazzo! Pazzo!» Si guardarono negli occhi finché ai due non scappò una risata che fu immediatamente smorzata dal giudice con due colpi di martello.


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«Pronto? Johnny, pronto? Mi senti?» Jack si alzò faticosamente dal tavolo e rispose al telefono tappandosi l’altro orecchio con la mano. «Jack! Ma dove cazzo sei finito? Ho chiamato in ufficio e mi dicono che sei in Tailandia! Ma ti sei bevuto il cervello? Io sono nella merda fino al collo, mi stanno arrestando cazzo!» «Ehi, Johnny, modera i termini o ci metto un secondo a mandarti a fare in culo, ti avevo avvisato che sarei stato via qualche settimana, se solo tu ti sforzassi di ascoltarmi…» «Qualche settimana? Mi prendi per il culo?» «Ti avevo pregato di non combinare cazzate durante la mia assenza, ma tu ovviamente non resisti per oltre ventiquattro ore, se stavolta t’ingabbiano sono cazzi tuoi, io ho altro a cui pensare! «Non mi mollare adesso Jack! Mi stanno arrestando, dicono che devono farmi alcune domande riguardo quel giro di ricettazione di roba rubata nella gioielleria sulla ventiquattresima, l’hanno rapinata un paio di settimane fa, ma io stavolta non c’entro nulla!» Questa è un gioco da ragazzi, la risolvo anche da ubriaco, a dieci fusi orari di distanza. «Dove sono gli sbirri? Davanti a te?» «Sì! Sì cazzo! Mi hanno dato cinque minuti per raccogliere le mie cose in macchina, poi mi arrestano e mi portano in centrale!» «Ascoltami bene, so per certo che riguardo quel furto alla gioielleria la polizia sta brancolando nel buio, quindi ammesso che tu sia coinvolto, cosa tra l’altro molto probabile, loro non hanno comunque elementi sufficienti per arrestarti. Adesso ti spiego brevemente cosa stanno tentando di fare: stanno provando a convincerti ad andar con loro alla centrale per ascoltarti come persona informata sui fatti, quindi un semplice esame di persona terza, senza l’obbligo della presenza di un avvocato. Di fatto sei già indagato, anche se formalmente ancora non lo sei, stanno tentando di estrapolarti una confessione in maniera abusiva,


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per poi dichiararti in stato d’arresto e invitarti a nominare un avvocato, dopo. Scommetto che non hanno mai usato la parola “arresto”, vero?» «No, mi hanno detto che devo andar con loro, ma non mi hanno detto che mi arrestano…» «Immaginavo, fanno sempre così, non ti dicono che ti stanno arrestando perché sarebbe illegale, loro sperano che tu abbocchi e li segua con la convinzione di esser in arresto, ma tecnicamente è una tua scelta seguirli.» «E quindi che cazzo faccio, Jack!?» «Semplice: chiedigli insistentemente se ti stanno arrestando e se ti rispondono di sì, allora sarebbero obbligati a elencarti i tuoi diritti, tra cui quello di farti assistere da un avvocato, in ogni caso non gli convaliderebbero mai un arresto con i pochi elementi che hanno, se invece ti rispondono di no, allora non possono prelevarti con la forza, semplicemente rifiutati di seguirli.» «Ok, adesso ci provo, rimani in linea.» «Ah, Johnny…» «Sì?» «Mantieni la calma, cerca di non dar loro nuovi elementi per arrestarti, evita di mandarli al diavolo minacciando tutti i loro parenti, come fai di solito…» «Sì, sì, ho capito cazzo!» Jack allontanò lentamente il telefono dall’orecchio e si voltò verso il tavolo di svedesi che lo guardavano divertiti. «Ma che stai dicendo? Chi hanno arrestato?» chiese Aron sgranocchiando a bocca aperta una cavalletta. «Sono un avvocato penalista, un mio cliente ha un piccolo problema con la polizia di New York, lo stanno arrestando», rispose Jack con tutta calma, avvicinando di nuovo il telefono all’orecchio. Aron guardò incredulo gli amici intorno a lui e tutti esplosero in una risata sguaiata. Anche Jack si mise a ridere, in effetti era una situazione ai limiti del paradossale e, forse per l’alcool, forse per il luogo dove si trovava, stava dando sempre meno peso a quel mare di guai nel quale il buon Johnny Basile si trovava, a migliaia di miglia di distanza. «Jack! Jack sei sempre lì? Jack!» Johnny aveva ripreso a parlare. «Sì, ci sono! Allora? Ha funzionato?» chiese Jack.


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«Ha funzionato! Se ne sono andati! Sei un fottuto genio! Ti voglio bene Jack!» rispose euforico. «È chiaro che ha funzionato, funziona sempre, adesso però fammi un favore, sta’ lontano dai guai, fai un salto nel mio studio e fatti seguire da qualcuno, Robert per esempio, quello è un bravo ragazzo, ci sa fare, l’ha tirato su Tom…» «Ok, ok, domattina ci vado, ma tu quando torni?» «Non lo so, Johnny, non lo so…» «Ok dai, mi raccomando stai attento e non fare stronzate, a presto avvocato!» riattaccò il telefono. Lui che dice a me di non fare stronzate… Jack si abbandonò esausto sulla sedia e rivolse la testa all’indietro. Mangiò un paio di cavallette e ordinò una birra, una Chang, quella con i due elefanti disegnati sull’etichetta. Dopo qualche minuto gli svedesi si alzarono e Jack li seguì. I ragazzi si riversarono di nuovo in strada. Kaosan Road era stracolma di gente, un sacco di persone ballavano in penombra e il caldo era sempre più opprimente. Pozzanghere di liquame di ogni tipo riflettevano le luci provenienti dai neon colorati delle insegne dei locali, persone seminude che tracannavano lattine di birra comprate in strada, l’odore acre di salsa agrodolce fermentata al calore si diffondeva raggiungendo ogni anfratto più nascosto. A Jack sembrò più volte di trovarsi in una festa dove conosceva tutti. C’era un venditore di bibite che aveva allestito una sorta di palchetto con un grande impianto stereo, chiunque poteva metter la musica che voleva, collegando un proprio dispositivo elettronico. Il gestore era un ometto sorridente, pelle olivastra, volto rotondo e una barba liscia di un nero corvino che cresceva timidamente sul mento per poi sparire quasi del tutto sulle guance. Jack si sbottonò la camicia fino al terzo bottone e si sedette sul marciapiede di fianco ad alcune ragazze tailandesi che stavano chiacchierando tra loro. Guardò il cielo avvolto dallo smog, tutto sembrò affondare nell’ovatta, un senso di pace lo pervase. Pensò a Tom, lo fece in modo intenso, era la prima volta che succedeva da quando si trovava in Asia. Cercò di immaginarselo seduto come lui, sul marciapiede ad ascoltare il rumore di quella penetrante passione che


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lo circondava, ad assaporarsi quel mondo così diverso rispetto a quello che conoscevano. Chiuse gli occhi e vide Tom di fianco a lui, con i suoi riccioli biondi e scomposti che gli calavano sulla fronte, la barba fitta e ispida di un color cenere. Era seduto sul marciapiede intento a mangiare una ciotola di noodles con un paio di bacchette di legno, ogni tanto alzava lo sguardo e sorrideva ai passanti, scambiando qualche parola o facendo un cenno con la mano. Era felice, era vivo. Quando Jack riaprì gli occhi, Tom non c’era più.


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Giorno 8 Torno finalmente a scrivere su queste pagine approfittando del tempo a disposizione durante uno dei miei interminabili viaggi sulle roventi e luccicanti rotaie tailandesi. Non so bene dove questo treno sia diretto, ma da qualche giorno la destinazione non è più tra le mie più importanti preoccupazioni. Questa settimana è stata eccezionale, ho provato e sto provando emozioni indescrivibili. Viaggiare in treno è bellissimo, ci sono gli scompartimenti in legno con i sedili in pelle marrone imbottita, persone che vendono ininterrottamente cibo ai viaggiatori, bambini curiosi che a ogni fermata si avvicinano al finestrino, occhietti neri che fissano lo scorrere di grandi risaie immerse nell’acqua torba, bambini che si aggirano nudi tra i passeggeri, vagoni ristorante dove i cuochi cucinano cibo tailandese con enormi wok in continuo movimento sulla fiamma viva. Un intero paese, un’intera cultura racchiusa in poche carrozze che lentamente scorrono sferraglianti da un villaggio all’altro sotto il sole cocente. Durante il mio girovagare senza meta nei dintorni della capitale ho avuto l’occasione di fermarmi qualche giorno ad Ayutthaya, capitale storica del Siam per più di quattro secoli, oggi una città circondata da un largo fossato attraversabile al costo di pochi bath dal solito barcone in legno timonato da un Caronte dagli occhi a mandorla. È stato molto facile perdersi, soprattutto per l’assenza di caratteri latini sui cartelli e insegne. Stavo vagando senza meta quando mi sono imbattuto in un gruppo di ragazze all’uscita di un collegio femminile. Indossavano una divisa in stile americano, gonna nera a pieghe e camicetta bianca, scarpe nere lucide e calzini bianchi fino a sotto il ginocchio. Vedendomi confuso, hanno iniziato a sorridermi e si sono subito avvicinate curiose, i loro caschetti neri e lucidi brulicavano


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intorno a me, qualcuna provava a dire qualcosa in inglese, le altre ridevano compostamente con una mano davanti alla bocca. Dopo qualche incomprensione, le simpatiche liceali sono riuscite a indicarmi la zona degli ostelli. Avevo in programma di non uscire quella sera, se non fosse che ero appena stato invitato a una festa nel bar di fronte, quindi mi dispiaceva un po’ perdere l’occasione di passare una serata con la gente del posto. Il bar si chiama Chang Bar, dove ovviamente è possibile gustare dell’ottima Chang. Nel giro di qualche minuto stavo facendo attivamente parte di una tavolata di soli tailandesi, senza capire quasi una parola di quello che dicevano. Mi sentivo a casa. Una band ha iniziato a suonare dal vivo, un anziano tailandese simile a un maestro Shaolin stava suonando una chitarra elettrica e cantando a un microfono. Spaziava dai Guns and Roses agli Oasis, dal rap al thairock. Il gruppo di nuovi amici mi ha proposto di andar a vedere i famosi templi della città illuminati dal chiaro di luna. Qualche minuto più tardi mi trovavo seduto in sella a uno scooter guidato all’impazzata dall’abilissima Puy, una delle ragazze del posto. I templi sono eccezionali, incontaminati, divorati dall’edera e dalla vegetazione, sono magici, misteriosi. Statue dai volti sorridenti e sereni vigilano immobili gli ingressi e il perimetro degli antichi edifici. Mi sono sdraiato a terra, sull’erba. Era mezzanotte passata, il suolo era caldo, soffice e profumato, la brezza tiepida mi accarezzava il viso, le estremità delle torri disegnavano eleganti silhouette scure sullo sfondo stellato. Erano anni che non provavo una sensazione di pace simile. Ho pensato a Jack in quel momento, mi sarebbe piaciuto regalargli quell’attimo, me lo immaginavo in ufficio che scriveva un atto giudiziario mentre telefonava, tenendo la cornetta con la spalla e urlando minaccioso alla segretaria di non passargli altre chiamate per almeno mezz’ora. Jack non ce l’avrebbe mai fatta a sdraiarsi su quel prato, al momento di abbandonare la schiena sul manto verde e vellutato si sarebbe irrigidito pensando all’udienza del martedì successivo, all’intervista per il Times, a qualche stupida istanza da inoltrare a qualche stupido procuratore di chissà quale stupida Corte Federale.


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Quanto a me, questa esperienza sta rivoluzionando il mio modo di vedere il mondo. Sento il cambiamento sulla pelle, è veloce e incisivo, e la cosa mi affascina, incuriosisce e terrorizza allo stesso tempo. Ed è passata soltanto una settimana. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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