Fuga da destino

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ANTONIO TRAFICANTE

FUGA DAL DESTINO BLACK DREAMS

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FUGA DAL DESTINO

Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-596-0 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Settembre 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova

Questa è un'opera di fantasia. Ogni riferimento a cose, persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale.


A Karen, che ha acceso la mia fiamma e a Daria, perchĂŠ crede sempre in me.



Ciascuno è l’artefice del proprio destino. Appio Claudio Cieco

PROLOGO

L’aspetto più inquietante era l’aria. Stava diventando densa di un fumo che sapeva di gomma bruciata, rendendo il buio più spesso e opaco. La forza dirompente dell’esplosione aveva proiettato nella notte sprazzi di luce vivida, dopo l’accecante lampo e il boato. Alcuni frammenti che sembravano di carta erano rimasti come sospesi, nell’attesa di cedere infine a una gravità che pareva indugiare davanti a quella brutalità. Poi tutte le schegge e i brandelli precipitarono, sollevando all’impatto con il terreno piccoli sbuffi di polvere. Una singola goccia di sudore stava scorrendo sulla fronte di un uomo seduto sul bordo di un marciapiede. Facendosi beffe del calore insopportabile e intimorita dal percorrere un viso così tormentato, la goccia decise di allungarsi verso il naso per cadere sul petto, uscendo così di scena. Lentamente l’uomo sollevò le palpebre. Le fiamme dipinsero curiosi riflessi su quegli occhi color smeraldo, che spiccavano sul viso coperto da una patina di polvere grigia. Inutile vagare con lo sguardo, cercando di capire. Non erano stelle riflesse dal cielo quelle che luccicavano, ma una miriade di vetri rotti rischiarati dal bagliore di un’automobile in fiamme. Di spostarsi, nemmeno a parlarne. Con la testa ingabbiata da sensazioni ovattate, l’uomo provò a muovere un braccio, realizzando di essersi trovato come nel centro di un maledetto tornado, o quel diavolo che era stato. Ogni minimo gesto era accompagnato da una fitta, che percorreva imperterrita il suo povero corpo per un tempo ogni volta troppo lungo. Ma era vivo. Almeno, così sembrava. Consapevole del dolore che ne sarebbe seguito, l’uomo sollevò la testa, osservando con sguardo inespressivo l’abitazione di fronte a sé.


La facciata annerita e un segmento di cornicione, trattenuto soltanto da un paio di tondini metallici, stavano lĂŹ a dimostrare lo sfregio, mentre un bagliore sinistro illuminava i frammenti di vetro ancora incastrati attorno agli infissi. Una casa gialla senza finestre. Finalmente ricordava. Si trattava del frutto di un sogno.


7 Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo. Johann Wolfgang Goethe

CAPITOLO I

Quattordici giorni prima. Stazione centrale di Francoforte sul Meno (Germania). Mercoledì 1 settembre 2010, ore 9:00 a.m. Era difficile non rimanere impressionati dall’imponente complesso della stazione. L’edificio principale, l’unico in stile neoclassico, rappresentava la straordinaria sala reception principale, gremita senza sosta dalle trecentomila persone che ogni giorno affollavano centinaia fra treni di superficie e metropolitani. Benaski osservò la costruzione che partendo da grossi pilastri d’acciaio fissati al terreno si ramificava verso il tetto, completandone la copertura con lastre di vetro. La miriade di voci contenuta all’interno della sala pareva restasse sospesa nell’aria, in attesa di altre parole o suoni il cui obiettivo, come in un gioco perpetuo, era quello di non lasciare mai il vuoto. Ecco. Mancava il silenzio in quel posto. In fin dei conti ciò rappresentava una sicurezza, perché tutto quello spazio chiuso evocava le opprimenti atmosfere di una cattedrale, in cui un’oscura liturgia esortava le migliaia di persone che transitavano da quel luogo ad ascoltare ciò che era utile nell’immediato, come l’annuncio della partenza del proprio treno oppure il richiamo di un familiare. Tutto il resto era davvero silenzio, il cervello lo rimuoveva dalla gamma di suoni pertinenti e lo archiviava come file di sottofondo silenzioso. Benaski si avvicinò alla cassa dello Starbucks Coffee, senza ordinare nulla e sistemandosi l’abito scuro d’ordinanza. Due anziane signore gli si accodarono, l’una parlando con enfasi e senza prender fiato, mentre l’altra, sgranando gli occhi, sembrava deliziata da quanto stava ascoltando; quando guardarono l’uomo con aria interrogativa, lui sorridendo fece un cenno cortese in direzione della cassa, invitandole a passargli davanti.


8 Altezza media, capelli e occhi scuri, Hans Benaski, figlio di un rifugiato politico tedesco della Seconda Guerra mondiale, era nato negli Stati Uniti nel dicembre 1965. Suo padre Albert fu un attivista ostile al III Reich e poche settimane prima che Hitler invadesse la Polonia, nel settembre 1939, levò le tende dal sobborgo di Berlino in cui risiedeva ormai clandestinamente e si imbarcò su un cargo diretto verso gli Stati Uniti. In seguito prese la cittadinanza americana e si sposò, stabilendo la residenza a Hattotown, nello Stato della Virginia, dove nacque Hans. Di certo Albert non avrebbe mai immaginato quanto la vicinanza alla sede della Central Intelligence Agency avrebbe poi influenzato le scelte future del suo unico figlio, facendolo diventare uno dei loro agenti. All’improvviso Benaski si sentì spingere da un lato, come se qualcuno avesse atteso una sua distrazione per andargli addosso. La visione periferica percepì con il dovuto anticipo quell’evento, faceva parte del suo addestramento. Ma lasciò fare. Un uomo di circa cinquant’anni, carnagione chiarissima e altezza da giocatore di basket, gli sorrise esibendo la stessa espressione posticcia di una faccia stampata su un manifesto elettorale. Perfetto. Corrispondeva alla descrizione trasmessa con una consueta modalità tramite un addetto del Consolato americano a Francoforte. «Le dieci sono un perfetto orario per un caffè» affermò lo sconosciuto mentre con gesti impacciati cercava di sistemarsi la cravatta. Hans infilò la mano nella tasca dei pantaloni e ne estrasse una moneta, che porse all’addetta dello Starbucks Coffee. Quella stupida procedura di riconoscimento era terminata, finalmente. Non appena ebbero tra le mani il loro agognato caffè americano, entrambi si avviarono verso il centro dell’enorme sala, occupata da negozi, agenzie turistiche e sportelli bancari. «Ah, finalmente la mia bevanda preferita!» sospirò l’uomo sorseggiando avidamente il contenuto del bicchiere «sa, il caffè in questo paese è tremendo, faccio fatica ad abituarmi.» Il viso di Benaski si aprì in un sorriso sincero. «Perfettamente d’accordo amico. Uhm, dal suo accento direi qualche Stato del Nord?» «Eh, direi proprio di sì. Provengo dalla terra dei Padri Pellegrini, il New England e più precisamente Boston» confermò lo sconosciuto allungando la mano «sono Peter Hawking, ma andrà benissimo Pete.» «Oh bene, qualcuno della Costa Est!» esclamò l’agente americano contraccambiando la stretta di mano e presentandosi. «Devo dire che dalle tue parti ho assaggiato le migliori aragoste della mia vita; veramente eccellenti!» aggiunse. «Uh… io non amo certe prelibatezze piene di zampe. In ogni caso mi scuso per il disagio che ti ho creato, ma ho sempre pensato che non c’è posto più


9 segreto di un luogo affollato» sogghignò Hawking rivolgendo un vago gesto alla confusione circostante. «Infatti non usavo quelle procedure da anni» confessò Benaski lisciandosi il viso rasato di fresco. «Be’, ammetto di essermi divertito» Peter sorrise «okay, hai già letto la mia scheda, vero?» L’uomo proseguì senza attendere una risposta. «Immagino tu sappia già che collaboro con l’agenzia da cinque anni. In precedenza ho lavorato in qualità di bioingegnere presso la Rendox Laboratories. Mi occupavo di progettazione e sviluppo di biochip, sai, quei componenti utili alla diagnostica clinica, per l’analisi delle sostanze dopanti negli atleti, e un sacco d’altra roba. Insomma, un lavoro di ricerca gratificante. Ma a me non bastava.» Hawking fece una pausa, approfittandone per inghiottire ancora un po’ di quel delizioso caffè, mentre un ragazzo sfiorava la coppia americana spingendo un carrello ondeggiante colmo di pacchi e infilandosi in un negozio di libri lì accanto. «È soltanto nei laboratori della Divisione Ricerca della CIA, che ho potuto realizzare il mio sogno, però…» Peter proseguì nella spiegazione, cercando nel frattempo di scansare due ragazzini che gli stavano venendo addosso. «Conosci già il progetto Minerva? Be’, certo che sì. In pratica abbiamo messo a punto un dispositivo che migliorerà enormemente le prestazioni di soldati, agenti… guarda, potrebbe diventare l’equipaggiamento standard del terzo millennio!» esclamò entusiasta Hawking allargando le sue lunghissime braccia. «Sì, ho letto il file» ammise Benaski impassibile «devo dire che mi ha parecchio incuriosito il laboratorio di Francoforte…» «Ah! Il nostro gioiello!» fece con enfasi l’ingegnere sistemandosi la giacca da grandi magazzini sulle spalle ossute «l’abbiamo chiamato Boutique. È di proprietà della IntelReader Technologies Ltd, una società con sede legale negli Stati Uniti. Il mio team si è spostato qui due anni fa, separandosi dal lavoro della Divisione Ricerca e sviluppando il dispositivo… diciamo in autonomia… ehm, dico una fesseria se affermo che ti hanno spedito qui per controllare che tutto fili liscio?» Con un movimento che sembrava dettato più dal nervosismo che da una reale necessità, Hawking sistemò il nodo della cravatta, allungando il collo prima verso destra e poi a sinistra per agevolare l’operazione. Poi spinse con il dito indice i suoi occhiali verso il viso, nella posizione ben delimitata dagli incavi che si erano formati sul dorso del naso. Benaski notò che lo faceva continuamente. «Be’, saprai già che Jenkins e Thunder si sono parlati, a riguardo» annuì l’agente.


10 Thomas “Thunder” Bowder, generale a tre stelle in pensione, rappresentava un’autentica leggenda per la sua capacità di rendere invisibile un’intera operazione; ufficialmente il suo incarico non esisteva, esattamente come il progetto di cui si stava occupando in quel momento. Per questa sua caratteristica era stato scelto dal vicedirettore della Divisione Ricerca, Scott Jenkins, affinché coordinasse la Boutique e il suo personale in tutte le funzioni logistiche e operative di Minerva. Per un attimo le camicie bianche dei due uomini si tinsero di luce rossa, passando sotto un’enorme insegna di McDonald’s. Anche il viso tirato di Peter assunse finalmente un colore diverso dal suo solito tono pallido; era evidente che l’ingegnere, immerso completamente nel suo lavoro, dimenticava di stare all’aria aperta, di avere una vita sociale e sicuramente anche di dormire. E lo sguardo palesemente interessato che dedicava alla lavagna luminosa del fast food era un sicuro indicatore dei suoi gusti alimentari. «A ogni modo il fine di Minerva è relativamente semplice» Hawking riposizionò di nuovo gli occhiali sul naso «sappiamo benissimo che l’agenzia ha sempre cercato di ottenere il controllo della mente e delle relative emozioni, a partire dal semplice condizionamento. Per esempio quello a cui sei stato sottoposto anche tu. Insomma, si tratta di una risposta comportamentale a uno stimolo ben preciso» chiarì Peter continuando a camminare. Benaski fu colpito da quell’affermazione; qui non si trattava di chiacchiere da pausa alla macchinetta del caffè, ma di un principio che non avrebbe dovuto coinvolgere lui stesso in prima persona. Tutto l’addestramento che gli era stato imposto non rispondeva forse a una precisa richiesta di “democrazia” del pianeta che coincideva esattamente con gli interessi americani? Che c’entrava il condizionamento, allora? «Uhm, e dunque?» Hans respirò a fondo, manifestando una palese insofferenza. Hawking tolse gli occhiali e si massaggiò lentamente le palpebre. «In ultima analisi, l’agenzia ha sempre operato sull’individuo a prescindere dalla tecnologia, nel senso che processi mentali e informatici non sono mai stati elaborati assieme. Noi l’abbiamo fatto, e funziona! Immagina, una nuova generazione di piloti connessi direttamente al loro aeroplani; oppure un’elite di agenti infiltrati in territorio nemico, sempre collegati alla base operativa e informati in tempo reale di tutti gli sviluppi. Stiamo parlando di un’efficacia infinitamente superiore a quella attuale!» L’ingegnere allargò di nuovo le braccia, rischiando di abbattere le persone che gli venivano incontro. «Okay, okay. Non ho certo intenzione di mettere in discussione le politiche aziendali della Ditta» si schernì Benaski, usando l’appellativo adoperato da un gran numero di dipendenti nei confronti dell’agenzia e sollevando le mani in segno di resa; lui non bruciava esattamente dal desiderio di evolversi in un agente d’élite, gli stava bene lavorare così com’era.


11 «Non si tratta soltanto di questo, in ogni caso» Hawking indossò lentamente gli occhiali «in passato alcuni episodi hanno poi condotto alla chiusura di alcuni progetti, e qui vogliamo a tutti i costi evitarlo» affermò l’uomo fissando le nuvole che scorrevano attraverso l’enorme vetrata della stazione. «Cosa vorresti dire?» “Ecco” rifletté Hans “siamo arrivati al punto cruciale.” Come sempre c’erano un mucchio di soldi in ballo e nessuno voleva perderli, anche se il denaro speso per progetti come quello non figurava di certo nel bilancio annuale dell’agenzia, almeno non in quello ufficiale. «Immagino ti abbiano istruito a dovere, ma ti chiedo di valutare correttamente il nostro lavoro. Noi lo stiamo facendo per la patria, esattamente come te, giusto?» L’ingegnere fissò Benaski, nella ricerca di un cenno d’approvazione per quella frase intrisa di retorica. L’agente annuì. Lui era stato scelto per quell’incarico personalmente da Scott Jenkins. Il suo stato di servizio era notevole. Numerose azioni svolte in Europa sotto la copertura della lotta al terrorismo, avevano portato Hans a identificare membri appartenenti a presunte cellule terroristiche e persino agenti di Paesi ostili; molto spesso quegli individui erano fatti sparire in silenzio, oppure costretti all’interno di campi di detenzione al di fuori della legalità. L’uomo perfetto per quell’incarico, con una discreta dose di cattiveria e brutalità. Al servizio della Patria, appunto. I due americani giunsero vicino all’uscita della stazione centrale, e un ragazzo barbuto di evidenti origini arabe porse a Hawking la copia di un quotidiano che stava distribuendo gratuitamente, prelevandolo da una pila accatastata sul pavimento. Peter con gesto automatico prese il giornale, rompendo il silenzio. «Okay, teniamoci in contatto tramite la messaggeria di Facebook, usando le solite regole di scrittura dell’agenzia. Va bene?» chiese l’ingegnere precedendo Benaski verso il piazzale esterno della stazione. «Certo Pete, conosco già la procedura» rispose l’agente, rammentando che la CIA non soltanto deteneva una quota importante del social network più famoso del pianeta, ma lo utilizzava per reclutare, consultare archivi e creare profili da impiegare in operazioni sotto copertura. Fuori il sole riluceva sui vetri delle autovetture creando lame accecanti che trafiggevano l’aria, mentre il consueto chiasso cittadino aveva sostituito i suoni ovattati della stazione. Attraverso gli occhiali da sole Benaski osservò pigramente le nubi che fuggivano verso l’orizzonte, quindi soffermò il suo sguardo sulla stupenda facciata della stazione centrale. Il sole ne stava mettendo in evidenza lo stile rinascimentale, illuminando il grande orologio sostenuto da due figure femminili


12 che allegoricamente rappresentavano il giorno e la notte, e il tutto era accessoriato da un numero adeguato di capitelli e decorazioni assortite. Hawking fissò il suo bicchiere del caffè, ormai desolatamente vuoto. «Bene, allora a domani.» L’ingegnere fece per allontanarsi, ma ci ripensò quasi subito, muovendosi di nuovo in direzione di Hans con le mani che torturavano senza sosta il povero nodo della cravatta. «Ah, senti… non so cosa abbiano detto nei tuoi briefing, ma qui io sono il direttore e le decisioni le prendo io. Lo dico perché domani non saremo più soli, e preferirei non essere contraddetto» Peter esitò un attimo, poi esibì un sorrisetto nervoso «insomma, se tutte le teste si mettono a pensare… be’, non si va da nessuna parte, e io devo rendere conto dei progressi, capisci cosa voglio dire?» «Certo, sei stato chiarissimo.» Benaski sollevò perplesso un sopracciglio, valutando se questo atteggiamento avrebbe agevolato il suo incarico. Sì. Probabilmente sì. *** Sandwich Restaurant - Kaiserstraße - Francoforte sul Meno (Germania). Mercoledì 1 settembre 2010, ore 11:15 a.m. «La puntualità è il ladro del tempo, diceva un grande scrittore inglese» affermò l’uomo accomodandosi sulla sedia color arancio. «Dottor Hawking, guardi che ha sbagliato scrittore» replicò la ragazza sorridendo «il grande Oscar Wilde non era proprio un modello morale, e alla fine si è persino convertito al Cattolicesimo, ricorda?» «Touché» ammise l’ingegnere. Peter era conosciuto nel suo ambiente per essere un fervido denigratore della religione Cattolica e dei suoi cosiddetti principi morali. Ma certe frasi - ripeteva spesso - non appartengono all’autore ma all’intera umanità. «E poi lei sa perfettamente che io adoro la puntualità» chiarì Helen soffermando lo sguardo sulla povera cravatta di Hawking. Nata ventinove anni prima a Providence, nello Stato americano del Rhode Island, Helen Vidali era stata spinta da suo padre a entrare nell’Accademia Militare degli Stati Uniti a West Point, uscendone quattro anni dopo con il grado di Tenente e un incarico presso la base americana di Wiesbaden, in Germania. Durante quell’ultimo periodo era precipitata in un baratro di cui non ricordava nemmeno l’inizio; la maledetta droga aveva blandito, aggredito e quasi distrutto una vita densa di aspettative, regalandole soltanto il sollievo di un’altra possibilità.


13 Le tipiche nuvole scure di quella latitudine stavano cedendo il passo a un timido sole che stava acquistando luminosità, preparandosi a entrare nella giornata in modo prepotente. Entrambi erano seduti davanti al miglior sandwich bar della zona, all’ombra di un parasole arancio che dipingeva sui loro visi un riflesso dello stesso colore. Una graziosa cameriera con cappellino aziendale lasciò sul tavolo due menù, dileguandosi subito in direzione di una corpulenta signora che si stava sbracciando. «Come sta Garrison?» chiese Hawking asciugandosi la fronte sudata con un fazzoletto. «Non bene.» Il sorriso sulle labbra di Helen si spense. «Cos’ha stavolta?» «Non lo so. Probabilmente qualche tipo di infezione.» «E cosa pensi di fare?» «Ordinare qualcosa da mangiare, sto morendo di fame.» La ragazza prese un menù, quindi fece scorrere l’indice sulla prima pagina fermandosi esattamente in corrispondenza di un panino a forma di ciambella, che aveva attratto la sua attenzione per il curioso nome: Bread Pitt. “Uhm, niente male.” No, niente da fare, conteneva paprika e lei non la sopportava. «Allora hai deciso?» chiese impaziente l’ingegnere. «Ah, ho scelto. Ecco, prendo il pollo Sunrise e succo d’arancia.» «Va bene, prenderò anch’io lo stesso.» La coppia riuscì ad attirare l’attenzione della cameriera e infine ordinarono. Dopo aver armeggiato un paio di minuti, Peter decise che a quel punto andava bene una qualunque forma per il nodo della sua stupida cravatta. «Come stai tu, invece?» «Tutto okay, dottor Hawking. Sono molto più preoccupata per Garrison.» «L’hai fatto vedere da qualcuno?» «Magari lo farò oggi.» «Sì, forse è meglio. Be’, che diamine, in fin dei conti è soltanto un gatto!» arrischiò l’ingegnere facendo spallucce. Nello stesso istante in cui ebbe pronunciato questa frase disgraziata, sentì l’imbarazzo che si impadroniva di lui. Ed era lieve come una martellata sulla testa. Helen ruotò sulla sedia di tela e lanciò uno sguardo furioso in direzione dell’uomo con un’eloquenza tale da fargli sollevare le mani. «È evidente che lei di sentimenti ne capisce meno dei suoi dannati computer!» sentenziò scuotendo la testa. Quindi afferrò rabbiosamente la sua borsa e ne estrasse le sigarette. La ragazza inspirò a fondo la prima boccata, osservando le sinuose evoluzioni del fumo che fuggivano verso l’alto, poi chiuse un momento gli occhi, riflettendo sulle vicende che avevano rischiato di annientarla.


14 La sua dipendenza dalla cocaina risaliva fin dai tempi di West Point, ma Helen era riuscita a nasconderla anche a Wiesbaden grazie alla complicità del suo diretto superiore, il capitano Richard McConnell; costui si era esposto, coprendo molti dei comportamenti paranoici della ragazza in virtù dell’amicizia sua e dei suoi genitori con la famiglia Vidali. Non era una novità che circolassero sostanze stupefacenti fra i militari americani, anche tra i ranghi degli Ufficiali di grado elevato; del resto in quasi tutte le settecento basi statunitensi dislocate sul pianeta c’era una sezione dedicata all’abuso di droghe, ma Helen ovviamente non aveva mai avuto intenzione di rientrare in qualche fottuto programma di recupero dell’esercito. “Nossignore” pensò la ragazza riaprendo i suoi occhi verdi “nossignore.” La cameriera depositò sul tavolo un vassoio contenente i due piatti ordinati e qualche bustina di salse assortite. Helen fu tentata dal desiderio di proseguire a fumare, poi decise che era inutile perpetuare gli stessi meccanismi, producendo inevitabilmente gli stessi identici risultati. «Vediamo un po’ se questo piatto è degno del nome che porta» dichiarò infine addentando il pollo. Lei aveva conosciuto Peter Hawking nell’ambito del Comando U.S. Army di Wiesbaden, a pochi chilometri da Francoforte, dov’era aggregata ai servizi di supporto e logistica. Quando la sua tossicodipendenza aveva raggiunto un livello non più sostenibile e in ogni caso incompatibile con le sue mansioni, aveva accettato il consiglio dell’amico di famiglia Richard McConnell, suo diretto superiore, entrando a far parte del team di Peter Hawking. L’alternativa sarebbe stata un maledetto programma di recupero per tossicodipendenti, oppure la radiazione con disonore dall’esercito. “Porca puttana, c’era mai stata una possibilità di scelta?” Un prolungato colpo di clacson la risvegliò quasi di soprassalto. Helen si ritrovò tra le dita un pezzo di pollo Sunrise, che portò automaticamente alla bocca. Masticando con lentezza si voltò a osservare Peter, anche lui intento a scrutarla e impegnato a carpirle dubbi e sospetti racchiusi nel suo sguardo. «Be’, davvero niente male questo pollo!» esclamò con entusiasmo posticcio l’ingegnere. «Delizioso. Sa, alla fine ho deciso di seguire il suo suggerimento.» «Uhm … a proposito di cosa?» «Garrison. Più tardi lo porterò da qualcuno, conosco appunto un guaritore che…» «Helen, per favore!» Peter ebbe un moto d’insofferenza più teatrale che autentico «e devi ancora spiegarmi il perché tu abbia chiamato in questo modo un gatto.» La ragazza aveva preso spunto dal nome con cui era definita la base dell’U.S. Army a Wiesbaden, cioè Garrison. Quel nome stava lì, inchiodato nella testa, a rammentarle i momenti peggiori della disintossicazione, e l’aver chiamato


15 il suo gatto in quel modo era stato come esorcizzare quel periodo, scongiurando la possibilità di ricadere negli stessi errori. Lei voleva ricordare. «Mi sembrava patriottico chiamarlo in questo modo…» affermò con sarcasmo Helen, accavallando le gambe. «Hai davvero una vena inesauribile di battute» annuì Peter «a proposito di patriottismo, è molto che non senti tuo padre?» Michael Vidali era virtualmente in pensione, ma continuava a esercitare la sua professione di sergente istruttore dell’esercito presso l’accademia militare di West Point. Era davvero difficile stabilire dove finissero le responsabilità di suo padre, in merito alle scelte fatte da Helen. Fin da piccola era stata oggetto di occulta persuasione affinché sostenesse l’esame di ammissione all’accademia ed inoltre Michael non tralasciava neppure le percosse per ottenere quello che si poteva definire un suo obiettivo personale: proiettare sulla figlia la sua mai sopita ambizione di vestire i panni di un ufficiale con le stellette, un’autentica ossessione per lui. «Dottor Hawking, sa bene che mio padre si crede un duro» disse Helen stancamente. «Se non lo chiami, evidentemente anche tu credi di esserlo, non trovi?» «No. La mia è solo debolezza. In realtà non mi sento pronta ad affrontarlo.» «E tua madre? È molto che non la senti?» «Mia madre!» ripeté Helen accompagnando l’esclamazione con un gesto eloquente della mano, come per allontanare fisicamente quel pensiero. “Okay, questo è il momento giusto per accendere un’altra sigaretta.” Sua madre Brigit, pur avendo sangue irlandese nelle vene, non era mai riuscita a opporre una valida resistenza all’impetuoso carattere italiano di Michael. Semplicemente non erano attratti allo stesso modo dall’amore per Helen; sua madre aveva cercato, almeno negli intenti, una collaborazione educativa che invece suo padre non ravvisava all’interno del suo ruolo. Lui aveva sostituito all’educazione, l’istruzione, nel senso militare del termine, emarginando altrove i sentimenti; non c’era posto per loro all’interno di una divisa da ufficiale. “Mi chiamava occhi di gatto, mia madre… lei sì che era bella. Forse mio padre l’ha sposata solo per quello, chissà.” Helen si portò la sigaretta alla bocca con studiata lentezza e cercò di esplorare quella congettura per l’ennesima volta. «Be’, se proprio lo vuol sapere, è un po’ che non la sento» la ragazza piegò la testa da una parte «del resto mia madre è abituata a lunghi periodi di silenzio. Lei sta bene nel silenzio. È stata praticamente in silenzio per tutta la mia vita» concluse senza smettere di annuire, come se non trovasse le parole ma la sua mente continuasse a elaborare quell’agghiacciante considerazione. «Ho la sensazione che metterai da parte le tue riserve e cercherai di perdonare.»


16 «Porca puttana! No, dottor Hawking, io non credo!» interruppe Helen scuotendo la testa e facendo ondeggiare vorticosamente i suoi orecchini pendenti. «Guarda che il perdono, in ultima analisi, non sarebbe nemmeno per loro, ma per te; in questo modo potrai liberarti dal risentimento e dai pensieri ossessivi. Nelson Mandela, dopo quasi trent’anni di galera trascorsi ingiustamente, disse che provare risentimento è come bere del veleno e attendere che i nemici muoiano. Pensaci.» «E questo cosa sarebbe un saggio della sua psicanalisi?» replicò la Vidali in tono beffardo. Peter sorrise. «No, figurati. In questo campo mi sento un dilettante, diciamo così.» Peter tastò la sua cravatta e risalì con le dita fino a ciò che restava del nodo; la sensazione tattile confermava che non erano presenti forme definite riconducibili a quest’accessorio maschile. «Sei passata a ritirare la tua nuova carta di credito?» soggiunse. «Sì, stamane» Helen con un cenno attirò l’attenzione della cameriera, chiedendo il conto. «Vado a comprare qualcosa per Garrison» la ragazza espose timidamente il viso alla luce del sole, fuori della protezione offerta dal parasole «e grazie per avermi offerto il pranzo!» ammiccò con fare malizioso, preparandosi ad attraversare la strada. Camminando lungo i negozi, la ragazza osservò il suo profilo slanciato riflesso su una vetrina, quindi si riavviò i lunghi capelli biondi scompigliati dal vento. Più avanti la strada assunse le sembianze di un viale alberato che profumava di glicine, con i larghi marciapiedi di pietra già coperti dalle prime foglie secche. Helen osservò il fumo della sua sigaretta dissolversi nell’aria frizzante di quel mattino, mentre scorreva le pagine dei suoi pensieri alla ricerca delle ragioni che le avevano permesso di non soccombere di fronte al destino. “Il destino. Una maledetta cosa che esiste soltanto nella testa.” Helen lasciò che quella congettura le attraversasse la mente mentre aspirava un’altra boccata, probabilmente l’ultima di quella sigaretta. Poi spense il mozzicone e quel flusso di inutili speculazioni, osservando una vetrina traboccante di articoli di profumeria e bigiotteria. Con una carta di credito da inaugurare, qualunque posto sarebbe andato bene. *** Mainlustraße, Francoforte sul Meno (Germania). Giovedì 2 settembre 2010, ore 10:20 a.m. Dopo aver letto il messaggio su Facebook di Peter Hawking, Benaski si trovò a fissare la scritta “IntelReader Technologies Ltd” incisa su una targa


17 d’alluminio. Vicino all’ingresso corrispondente non c’era traccia di citofono, ma Hans non dubitò del fatto che la telecamera collocata più in alto l’avesse già ripreso. L’incontro avuto il giorno precedente aveva innescato in Hans una spontanea diffidenza verso l’ingegnere, soprattutto a causa di una malcelata smania di dominio; come avrebbe detto William Shakespeare, a Peter piaceva l’idea di circondarsi di asini per poter fare il leone. La porta di legno scuro si aprì con uno scatto che sembrava di origine elettrica e la faccia di Hawking emerse dall’uscio; nello stesso istante in cui l’agente entrò, quello gli mise in mano una tazza con l’effigie di Gatto Silvestro. «Questo è il caffè della casa» affermò l’uomo sorridendo «non farti troppe illusioni, lascia molto a desiderare, ma bevilo ugualmente. Ah, un’altra cosa. Se devi usare la toilette fallo adesso, perché nel posto in cui andremo non ci sono servizi igienici.» Hawking si voltò, incurante di un’eventuale replica del suo ospite. “Cazzo, adesso mi tocca bere e pisciare a comando e quest’uomo è come un treno che tira sempre dritto” meditò Benaski perplesso, senza rendersi conto di avere la tazza di Gatto Silvestro già sulla labbra, con quel liquido scuro che gli stava impestando la bocca. Hawking indicò con un gesto vago della mano l’intera stanza. La superficie di circa cinquanta metri quadrati era occupata soltanto da due grosse scrivanie, parzialmente ingombre di attrezzatura informatica e classificatori impilati. Un armadio metallico e un paio di poltrone con le ruote completavano l’arredamento. «Questo è l’ufficio dell’IntelReader.» «Be’, non me l’aspettavo così minimalista» fece Benaski osservando distrattamente l’abbigliamento informale dell’ingegnere; jeans, un dolcevita nero e un cappellino dei Boston Celtics. “Nessuna cravatta da torturare, oggi” pensò l’agente ridacchiando sotto i baffi. «La Boutique è nel sotterraneo. Vogliamo andare?» Peter indicò l’unica porta interna di quella stanza, precedendo il suo ospite lungo un corridoio dalle pareti chiazzate e l’intonaco rigonfio. Discesero una rampa di scale e giunsero in un seminterrato composto di un unico ambiente male illuminato dove disordine e ragnatele la facevano da padrone. «Questo posto dovrebbe ricordarti qualcosa» mormorò Hawking armeggiando attorno a un quadro elettrico grande quanto una porta. «Sì, certo. È un black hole, uno di quelli inaugurati durante la guerra fredda» confermò l’agente, riferendosi a un sito che semplicemente non esisteva in nessuna mappa e infilarci un ficcanaso sovietico equivaleva a farlo scomparire, esattamente come in un buco nero.


18 «Giusto Hans. Prima che la IntelReader Technologies ne facesse un laboratorio, sembra sia stato usato di recente per corrieri della droga e presunti terroristi. Ecco, ora entriamo…» L’ingegnere digitò un codice su una tastiera spuntata come per magia dal quadro elettrico, provocandone l’apertura proprio come in una comune porta. «Come avrai già compreso, questo residuato non vede corrente elettrica da una vita» sogghignò, invitando l’agente a seguirlo attraverso quel passaggio. Una volta superata la porta celata dal quadro elettrico, si ritrovarono in una sorta di galleria, angusta e rivestita di mattoni. «Qui è stato sfruttato un passaggio costruito negli anni sessanta» Peter indicò il tunnel davanti a sé con il fascio luminoso di una torcia elettrica «questo era un collegamento funzionale alla realizzazione della U-Bahn, la famosa e super efficiente metropolitana di Francoforte. Una volta terminate tutte le linee questi passaggi vennero chiusi, ma non definitivamente perché potevano servire per la manutenzione o cose del genere.» «Non viene mai nessuno qui?» Benaski avanzò circospetto, facendo attenzione a non strofinare la giacca su quelle pareti umide. «Non più adesso. L’agenzia ha isolato questo tratto di galleria. Ecco, siamo quasi arrivati.» Hawking proseguì, restando leggermente piegato. Nel percorrere quel breve tratto di galleria si percepiva un costante brontolio sommesso, a tratti più marcato, dovuto al continuo passaggio dei convogli, che provocava un’interminabile precipitazione di pulviscolo umido dal soffitto. E poi c’era quell’odore. Hans credette di non poterlo sopportare ancora per molto. Tossì soltanto per mettere la mano davanti alla bocca, illudendosi di filtrare in qualche modo quel fetore. “Cristo, i maledetti topi ci saranno anche abituati, ma come fanno a lavorare delle persone qui sotto, con questa fottuta fragranza di merda secca?” Peter aveva previsto quella reazione. «All’interno della Boutique l’aria è ovviamente depurata, non preoccuparti» ghignò fermandosi vicino a un apparato fissato al muro, opportunamente occultato da uno sportello mezzo scrostato. Si trattava di un dispositivo di scansione vascolare della mano, ultima verifica prima di accedere alla Boutique attraverso una porta laterale, lasciando fuori topi e fetore. ***


19 Seduta sulla sua poltrona, Helen Vidali si sentiva perfettamente a proprio agio. Il piccolo casco semitrasparente che le avvolgeva la testa la faceva sembrare un bizzarro alieno in jeans e maglietta rosa nel centro di quella stanza spoglia, rivestita soltanto di mattoni bianchi. Ognuna delle due postazioni collocate ai suoi fianchi era occupata da un operatore. Carmen Gonzales de la Cuesta era l’addetta alla postazione bioinformatica. Originaria di Santa Cruz de Tenerife, un comune spagnolo delle isole Canarie, questa ragazza dai capelli corvini si era laureata in ingegneria informatica al MIT, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology, dove aveva anche seguito un programma di specializzazione post-laurea tenuto dal Laboratorio di Intelligenza Artificiale, ponendo le basi per un futuro da ricercatrice. Proprio sul più bello, il giocattolo si era rotto; un bastardo in camice bianco le aveva usato violenza, approfittando della confidenza che di solito ci si concede tra colleghi. Ormai il seme della sfiducia era stato piantato e nessuno, in quell’ambiente dichiaratamente maschilista, l’aveva difesa; Carmen aveva preferito dare le dimissioni e dedicarsi a qualche occupazione occasionale, entrando nel giro degli hacker. I mille tentacoli di Thunder, il generale che intendeva formare una squadra per il progetto Minerva, avevano blandito e infine catturato questa trentenne spagnola tenace e dall’animo indurito. «Bene ragazzi, sono tornato!» annunciò con un sorriso Hawking, poggiando la mano sulla spalla di Steve “Speed” Henderson, l’addetto ai biosistemi, il quale farfugliò un “bentornato Zio”, usando il soprannome con cui era abitualmente chiamato Peter dai suoi collaboratori. Henderson, un corpulento quarantenne con forte accento del Sud degli Stati Uniti, si era laureato in biomedicina all’Università della Florida a Gainesville, anche sua città natale, quindi aveva partecipato a un corso post laurea sulle nanotecnologie applicate alla medicina, entrando infine nella Divisione Ricerca della CIA. Un vero topo di laboratorio che evitava come la peste qualunque attività fisica, meritandosi l’appellativo Speed, dovuto appunto alla velocità da bradipo del suo corpo, in netto contrasto con la rapidità della sua mente. La sua presenza nella Boutique era giustificata dalla richiesta espressa dal generale Bowder, che aveva spinto la CIA, finanziatore unico della IntelReader, a “prestare” Henderson in funzione del progetto Minerva, confermando un modus operandi consueto all’agenzia. Hawking presentò Benaski come un osservatore della CIA autorizzato a esaminare le procedure operative, quindi gettò uno sguardo irritato verso la postazione di Speed, limitata a un monitor e poco altro; diverse confezioni di snack e biscotti erano raccolte sotto alla poltroncina fissata al pavimento, of-


20 frendo un’impressione di disordine che contrastava con tutto il resto, pulito e bianco. «Steve, dopo questo turno di lavoro sei pregato di eliminare tutta la sgradevole collezione di pattume che hai raccolto sotto il sedile.» Hawking fece per voltarsi, non dimostrando interesse per un’eventuale replica del tecnico. «E non è soltanto quello, por favor» aggiunse Carmen, toccandosi più volte il naso con l’indice e alludendo chiaramente alla poca propensione di Speed a lavarsi. Peter stroncò sul nascere la prevedibile reazione di Henderson, che si era già alzato in piedi, un’attività fisica decisamente inconsueta per lui. «Va bene, adesso basta!» L’ingegnere prese una sedia, invitando Benaski a fare altrettanto. «Hai mai sentito parlare di Dna-Computer?» chiese a bruciapelo, accomodandosi quasi in fondo alla stanza larga appena cinque metri ma lunga ben venti, con il soffitto a volta; qui risultava evidente l’origine del laboratorio, ricavato da una vecchia galleria di servizio che ufficialmente non esisteva più. «Uh… la Ditta non ha approfondito tutti i dettagli con me.» Hans non pronunciava quasi mai il nome dell’agenzia, ma preferiva il suo appellativo. «Lo immaginavo. Be’, noi usiamo le molecole di Dna perché possiedono la capacità di immagazzinare e duplicare quantità enormi d’informazioni. Combinandole con nanostrutture di carbonio si ottengono microcircuiti da applicare sui biochip. Stiamo parlando di grandezze dell’ordine di milionesimi di millimetro, te lo ricordo.» Hawking mise sotto il naso dell’agente l’indice e il pollice che quasi si toccavano, cercando di enfatizzare il concetto. «I Dna-Computer che Carmen e Steve stanno usando alle loro postazioni non hanno bisogno di memoria RAM e nemmeno di hard disk» l’ingegnere fece un gesto vago in direzione dei due tecnici «tutte le informazioni sono memorizzate a livello molecolare e disponibili istantaneamente. Nelle poche occasioni in cui si rende necessaria una tastiera, ne compare una virtuale alla base dello schermo.» «Quindi stiamo parlando di una potenza di calcolo enormemente superiore a quella abituale» annuì Benaski aggrottando la fronte. «Naturalmente!» Hawking divenne all’improvviso impaziente, lo si arguiva dall’incessante movimento del suo dito che spingeva gli occhiali. «Ti incuriosisce il casco di Helen, eh?» Come il solito l’ingegnere non attese la risposta. «Allora, un pensiero generato nel cervello si propaga utilizzando campi bioelettrici, giusto? Be’, non abbiamo fatto altro che miniaturizzare un Dna-


21 Computer nel Dispositivo che le abbiamo impiantato nella testa, permettendole di tradurre questi impulsi e convertirli in linguaggio riconoscibile da un altro apparato simile, capisci?» L’uomo allungò le gambe, alla ricerca di una posizione più comoda. «Perciò lei pensa una cosa e qualcuno davanti a un computer legge i suoi pensieri?» Benaski aprì i palmi delle mani, fissando negli occhi Peter. «Uh, manchiamo d’immaginazione, vedo» ghignò l’ingegnere «si può fare di meglio, naturalmente. Perché Helen dovrebbe dialogare soltanto con un computer, quando potrebbe farlo anche con un collega attrezzato con il suo stesso Dispositivo?» «Certo. Utilizzando un collegamento satellitare, mi sembra ovvio» pensò a voce alta l’agente. «Esatto Hans. E il Dispositivo può dialogare con il sistema nervoso nei due sensi; possiamo dunque ricevere informazioni, ma anche stimolare a nostra volta il soggetto, collegandoci direttamente al suo cervello senza bisogno di passare prima dalle sue orecchie o dagli occhi» dichiarò Hawking. «Molto utile, se si vogliono impartire ordini diretti» ridacchiò Benaski, impegnato a perlustrarsi accuratamente l’orecchio con il mignolo «com’è alimentato il Dispositivo? Non mi dirai con delle batterie, giusto?» «No, che dici? Be’, sfruttiamo il differenziale elettrico a livello molecolare del suo corpo, una fonte veramente inesauribile d’energia!» si entusiasmò l’ingegnere. Helen mosse percettibilmente la testa, continuando a fissare l’interno della visiera del suo casco. «Dottor Hawking, bersaglio inquadrato. Novanta secondi al riconoscimento. Piano di volo confermato.» Peter sollecitò Hans ad avvicinarsi al centro della Boutique. «Con il Dispositivo che ti ho appena descritto lei interagisce direttamente con un aereo che in questo preciso momento sta volando a una cinquantina di chilometri da qui. Diciamo pure che si tratta di una guida cerebrale a distanza, con l’ausilio del suo casco che in questo caso è parte integrante del Dispositivo» spiegò l’ingegnere alludendo a un drone, cioè un piccolo velivolo senza pilota di solito telecomandato a distanza. Benaski restò perplesso. Stava realizzando che quelli non erano dettagli di poco conto, e nessuno gliene aveva parlato. Non era mai stato presente a una missione con quel tipo di aereo, ma un paio di suoi colleghi si vantavano di aver “premuto il grilletto” da un altro continente, eliminando fisicamente bersagli distanti migliaia di chilometri, mentre un pilota manovrava il drone dalla base operativa. Hawking si chinò sul monitor di Carmen esaminando i dati che vi scorrevano. «Tra un attimo vedremo le immagini che la sua telecamera ci trasmette.»


22 «Quindi Helen è un pilota e le istruzioni le arrivano direttamente, senza intermediari. Davvero non male!» esclamò Benaski. Lui sapeva con certezza che l’impiego di un drone avrebbe richiesto la presenza di un analista della CIA e un graduato appartenente al corpo titolare della missione; in questo modo, invece, tutte le informazioni necessarie potevano essere intercettate - e manipolate - direttamente alla fonte, da funzionari dell’agenzia e dalle Forze Armate. «No, Helen non è un pilota, ma ha imparato bene. Scusami un attimo…» L’ingegnere si avvicinò minaccioso a Speed. «Valore d’intensità?» gli chiese a un centimetro dalla faccia. «È tutto okay, Zio» farfugliò Henderson ingurgitando l’ennesimo biscotto e consapevole che la sua golosità prima o poi gli avrebbe procurato dei guai. Probabilmente il valore d’intensità rappresentava il parametro clinico più importante per Helen; tutti gli input che lei elaborava creavano un flusso di natura elettrica pressoché ininterrotto nel sistema nervoso e aggiuntivo alla normale attività del suo corpo. Per evitare un sovraccarico esisteva un limite all’intensità d’utilizzo, raggiunto il quale il suo Dispositivo provvedeva alla riduzione del rilascio di ormoni - come per esempio l’adrenalina - mantenendo nella norma i suoi valori. Un grande schermo si illuminò di fronte alla poltrona dell’ex tenente, riproducendo la panoramica offerta dalla telecamera del drone denominato Fat Boy, il tozzo ma efficiente aereo che stava pilotando a distanza; in pratica si trattava dell’identica visuale che lei vedeva direttamente nel cervello, senza bisogno degli occhi. La stessa trasmissione via satellite era intercettata da Thunder, il generale a capo della Boutique; lui avrebbe seguito tutta l’operazione dal suo hangar situato nella base dell’Aeronautica Edwards, in California, riservandosi la possibilità di impartire ordini alla ragazza dialogando direttamente con il suo cervello. Sullo schermo apparve l’immagine di un SUV Mercedes nero. «Okay. Ho designato il bersaglio Alpha Uno.» Sembrava insolito ascoltare la voce vellutata di Helen in quel silenzio, mentre assegnava un nome in codice all’obiettivo per definirlo in modo univoco, senza possibilità di confonderlo con altri. L’automezzo stava percorrendo un tratto di strada provinciale in direzione di Weilburg, a circa cinquanta chilometri da Francoforte, tagliando in due quella fitta foresta di tigli e faggi. Helen pensò di ingrandire il finestrino del lato guida del SUV e la telecamera di Fat Boy eseguì lo zoom desiderato, senza bisogno di altri comandi; la scansione di quel volto, ora a pieno schermo dopo essere transitata dal cervello della ragazza, aveva confermato che la faccia grassoccia del bersaglio, contornata da un sottile pizzetto, era quella di Henning Fitch.


23 Si trattava di un contabile legato a consistenti importazioni di stupefacenti nella Bassa Sassonia e la missione consisteva nel “riconoscerlo” e tracciare i suoi movimenti per i trenta minuti successivi. Le intercettazioni telefoniche giunte all’Agenzia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti davano per certo un suo imminente incontro con un contatto considerato importante, ma dall’identità ancora misteriosa. Nella Boutique regnava un assurdo silenzio; gli unici ordini da impartire provenivano silenziosamente da Thunder, mentre i due tecnici facevano scorrere le dita sui loro Dna-Computer richiamando in modo impercettibile dati e parametri. Benaski si adeguò, cercando a sua volta di apparire impassibile; come gli diceva sempre sua moglie Elizabeth, lui sarebbe riuscito a tenere un master sull’impassibilità, e il guaio era che lo prendeva come un complimento. Poi l’agente incrociò le braccia sul petto e cambiò piede d’appoggio. Osservando Carmen non l’avrebbe certamente definita una bella ragazza; con il suo naso aquilino e gli occhi ravvicinati, sembrava uscita direttamente da un film di Pedro Almodòvar. Il suo sguardo indugiò infine su Helen, il punto d’origine del progetto Minerva. “Così questa ragazza bionda sarebbe il famoso ‘soggetto’ di cui si parlava nei briefing. La famosa donna ibrida. Molto più bella dal vero che nelle foto” giudicò l’uomo. «Okay, forse ci siamo.» La voce dell’ex tenente precedette di un attimo l’immagine sullo schermo, interrompendo quel breve intervallo di silenzio. La telecamera di Fat Boy aveva ridotto l’ingrandimento ed era passata a una prospettiva più ampia, che comprendeva anche il tratto di strada precedente la posizione di Alpha Uno. Il traffico era pressoché inesistente a quell’ora e il SUV procedeva veloce, affrontando in modo aggressivo le curve quasi fosse in ritardo al suo appuntamento. In prossimità delle prime case di Weilburg una berlina scura sembrava in attesa, con il motore acceso e nello stesso senso di marcia di Alpha uno. All’improvviso ne uscì un individuo con un binocolo, che cominciò a osservare la strada in direzione del SUV, distante ormai meno di un chilometro; lo sconosciuto teneva un piede dentro all’abitacolo e uno sul terreno, sembrando in procinto di ripartire da un momento all’altro. Helen designò il nuovo bersaglio Sierra Uno e allargò la panoramica; sullo schermo della Boutique comparve la distanza tra i due automezzi, in quel momento pari a novecento metri. Thunder chiese all’ex tenente il dettaglio del nuovo obiettivo, e subito un riquadro si aprì sullo schermo, mostrando una berlina Audi e la sagoma dell’individuo, che indossava un berretto dei Los Angeles Lakers. La distanza si era ridotta a ottocento metri.


24 Hawking inarcò un sopracciglio nel vedere quell’odioso cappello, proprio della squadra che aveva battuto i suoi amati Celtics nell’ultimo campionato. Seicento metri. Cinquecento. All’improvviso nel centro dello schermo, proprio dove un attimo prima c’era Alpha uno, si aprì un gigantesco fiore, arancio al centro e con i petali neri. Il SUV era esploso. «Ma che diavolo…» Hawking impallidì, le mani che annaspavano nell’aria. «Madre de Dios!» Carmen Gonzales si tolse le cuffie e le depositò piano piano sul pavimento, come fosse stata in trance, mentre gli occhi di Henderson seguivano le traiettorie dei rottami di Alpha Uno sullo schermo. L’esplosione strappò l’aria dai polmoni di Henning Fitch e in seguito gli tolse anche la vita. L’onda d’urto si dilatò nell’aria circostante, frustando i rami degli alberi più vicini e provocando la fuga di una quantità di uccelli spaventati; fumo e detriti parvero essere risucchiati nel centro dello scoppio, per essere poi finalmente rilasciati dovunque lì intorno. Rottami infuocati e fumosi giacevano in ordine sparso attorno ai due tronconi in cui si era diviso il potente SUV; da una parte il motore e poco altro, dall’altra le sospensioni posteriori, ancora collegate a ciò che restava del telaio. «Via, via, muoversi! Speed, verifica sottosistemi e datalink. Tu, Carmen, rimetti quelle dannate cuffie!» Hawking allontanò dalla mente gli ultimi, incredibili istanti appena passati «Helen, ci sei?» chiese con apprensione. «Okay, okay. Ci sono, porca puttana!» La ragazza restò immobile sulla poltrona e soltanto i pugni serrati a tal punto da sbiancare le nocche denunciavano la tensione che stava provando. Attraverso il suo Dispositivo, Thunder le stava ricordando che c’era ancora un obiettivo da seguire: Sierra Uno. “Trovare e identificare”, era l’ordine. «Non c’è… Sierra Uno non c’è più!» Helen si sentì più stizzita che realmente preoccupata. Si era concentrata per lunghi istanti sull’esplosione, perdendo visivamente contatto con la berlina Audi e ora la telecamera restituiva una panoramica desolatamente vuota, a eccezione di ciò che restava del SUV. Nel silenzio carico d’attesa del Laboratorio, l’ex tenente impartì rapidi ordini neurali, aprendo una finestra sullo schermo della Boutique in cui iniziarono a scorrere gli ultimi novanta secondi filmati dalla telecamera di Fat Boy. Con il solo pensiero Helen bloccò il filmato sul punto desiderato. Ferma l’immagine. Purtroppo quel maledetto binocolo mantenuto davanti agli occhi impediva una scansione decente del viso di Sierra Uno. «Ma è un dannato militare!»


25 La ragazza percepì l’immagine direttamente nel cervello, prima che tutti la vedessero nella finestra aperta sullo schermo della Boutique. Ingrandisci. Lo sconosciuto indossava una sorta di k-way sopra quella che appariva come una divisa di sottufficiale dell’U.S. Army, sottraendo in questo modo alla vista gradi e mostrine. Helen avrebbe ricevuto l’ordine di identificare in ogni caso Sierra Uno? Nessuno dei presenti aveva l’autorità per farlo, soltanto Thunder, distante migliaia di chilometri da quel luogo, poteva autorizzare il proseguimento della missione. Avanti piano. “Dai, non farti pregare” pensò la ragazza arricciando curiosamente le labbra “mostra il tuo bel faccino e fai un bel sorriso.” Niente. Il militare aveva mantenuto il binocolo incollato al viso fino al momento in cui era stato illuminato dall’esplosione di Alpha Uno, quindi era rientrato nell’abitacolo senza mostrare mai una porzione di viso sufficiente per una scansione. No! Lo sconosciuto era sceso nuovamente prima di ripartire e l’aveva fatto senza binocolo e cappellino. Dunque Thunder era interessato a svelare l’identità del misterioso militare, se permetteva a Helen di proseguire nella missione. Ferma. I pochi istanti in cui il militare mostrò il suo viso - chiaramente maschile bastarono per ottenere la scansione desiderata, ma non solo; l’uomo era sceso per togliersi il k-way, mettendo in mostra i gradi di sergente dell’U.S. Army. Era chiaro che non aveva usato nessuna precauzione, evidentemente non si aspettava di essere sorvegliato. All’improvviso la finestra si chiuse, senza nessun preavviso. Riapri finestra. Niente. Riapri finestra. Nulla da fare. Sullo schermo scorrevano soltanto le inutili immagini in tempo reale della panoramica, con le prime automobili che si fermavano sul luogo dell’esplosione e i cellulari attaccati alle orecchie. «Mierda! Ci hanno scollegati!» esclamò furiosa Carmen alzando le braccia al cielo. «Be’, ho l’impressione che non vogliano farci conoscere Mister X.» Benaski prese atto della situazione quasi imbarazzante che si era creata e incrociando lo sguardo perplesso di Hawking ebbe l’impressione di condividere l’unico pensiero che aleggiava nella Boutique. Tutti sapevano che il generale Bowder avrebbe avuto il controllo, ma ora che quel controllo era stato esercitato, spazzando via ogni traccia di ambiguità, l’amaro in bocca aveva un sapore insopportabile. «Riporto a casa Fat Boy, dottor Hawking. Ho ricevuto l’ordine adesso.»


26 Il tono svogliato di Helen manifestava chiaramente la delusione che stava provando. Ma il suo non era biasimo per l’esito della missione appena conclusa e nemmeno frustrazione per non aver potuto condividere l’identità di Sierra Uno. Con una pelle d’oca che la fece rabbrividire, Helen dovette ammettere di non aver bisogno di quell’informazione per identificarlo. Lei conosceva già il sergente con la berlina Audi. *** L’aspetto più noioso per Tom Stalker sarebbe stato sopportare cento chilometri in automobile, anche se la giornata soleggiata invitava a godersi lo stupendo panorama. La strada si snodava nelle ampie zone boschive fuori dell’area metropolitana di Francoforte, in direzione Weilburg. Tom osservò per l’ennesima volta l’orologio al polso, senza guardare veramente l’ora; si sentiva nervoso come non mai e tutte le sigarette che aveva fumato fino a quel momento erano servite soltanto ad accrescere la sua ansia. Ripassò a mente le istruzioni che aveva ricevuto, ormai le conosceva a memoria esattamente come il percorso che gli era stato indicato. “Va tutto bene. Fai qualche respiro profondo e ignora quello stupido tremore alle mani.” Stalker serrò le mascelle e frugò nella mente alla ricerca dei motivi che l’avevano condotto su quella strada. Tre anni prima era stato trasferito alla Logistica & Trasporti dell’U.S. Army Garrison di Wiesbaden e tutto sembrava andare per il meglio. La mansione assegnata gli piaceva e aveva l’opportunità di lavorare al fianco di una bella collega di reparto che era diventata suo diretto superiore: il tenente Helen Vidali, proveniente dall’Accademia di West Point. Il lavoro di Tom consisteva nello smistare una parte dell’enorme mole di ricambi del parco automezzi della base, assegnandoli in seguito alle officine interne che ne avevano fatto richiesta. Ciò gli permetteva di muoversi in assoluta libertà dentro alla base, ma anche all’esterno di essa, perché alcuni ricambi erano acquistati direttamente nei magazzini locali senza attendere l’aereo delle consegne. Il tenente Helen Vidali fungeva invece da ufficiale di collegamento con il direttore della logistica, il capitano Richard McConnell, e doveva rendere conto del budget assegnato alla Sezione Automezzi Leggeri. Quindi i contatti fra Helen e Tom erano diventati pressoché giornalieri e si era instaurata una certa confidenza tra loro, al punto che lui aveva ritenuto carino invitarla a una sorta di festino, che si sarebbe svolto pochi giorni prima del Natale 2007. Lei si era sentita lusingata dall’invito e aveva accettato; era implicito che sarebbero circolate canne e, chissà, magari qualche tiratina di coca. Il numero


27 dei partecipanti era limitato e il massimo grado accettato quello di tenente, ma Helen era convinta che lui l’avrebbe invitata in ogni caso. Stalker si accese l’ennesima sigaretta e gli scappò da ridere. “Cristo! Quante risate, con lo spettacolo del caporale Butler che imitava il comandante della base!” John Butler si era imbottito gli indumenti con carta igienica per imitarne le sembianze ed era salito sul tavolo, mettendo in scena una delle tipiche sfuriate del comandante Tyler. L’alcol scorreva a fiumi in quello scantinato e dopo la mezzanotte il numero dei partecipanti si era ridotto a una decina di militari, che si passavano bicchierini di superalcolici e spinelli. Il cartello stradale che Stalker superò, indicava venti chilometri per Weilburg. “Quand’è che ho cominciato a perdere il controllo?” Un brivido gli percorse la schiena, nonostante fossero passati quasi tre anni. Helen non aveva nessuna intenzione di farsi con le canne quella notte, ma si era appartata con un paio di colleghi in un’altra stanza, invitando anche Tom a quella che lei aveva sempre ritenuto la vera festa. Per lui era la prima volta in assoluto; non aveva mai tirato coca, ma lo sguardo seducente di lei prometteva grandi cose per il proseguo della festa. Pochi minuti dopo Helen era completamente fatta e con movenze feline si consegnò nelle braccia di un eccitato Tom, il quale non si era fatto pregare per possederla sul posto, anche se sospettava che non era stato esattamente il suo appeal l’artefice di quella scopata, ma l’effetto dello stupefacente. Come avrebbe scoperto nel corso dei mesi seguenti, si stava sbagliando. Quattordici chilometri a Weilburg. “Cazzo, da quella sera era cominciato l’inferno.” Dopo quel primo festino ne erano seguiti altri, con le stesse strisce bianche e stesso finale. Soltanto che a quel punto le bustine con la roba bisognava portarle a turno e costavano più di quanto Tom poteva permettersi. Come non bastasse, doveva provvedere anche alle dosi di Helen; ora che facevano coppia fissa lei la riteneva una sorta di contropartita, in cambio del piacere che gli procurava non soltanto a letto ma anche dall’appagamento di poter esibire una bionda strepitosa al proprio fianco. Con il solo aspetto fisico non sarebbe mai riuscito ad averla; statura media, magrissimo e con corti riccioli neri, non rappresentava certo il prototipo del rubacuori. Il tutto abbinato a un’eloquenza decisamente banale, che lo costringeva a ignorare le occhiatine sarcastiche dei colleghi, per non parlare dei feroci commenti dettati soprattutto dall’invidia. Otto chilometri. “Quella sgualdrina stava con me soltanto per sfruttarmi. Che deficiente sono stato!” Quando lo stipendio aveva cominciato a non essere più sufficiente, Tom aveva iniziato a sottrarre una piccola parte dei ricambi della base, rivendendoli


28 sottobanco a un’officina compiacente situata a debita distanza da Wiesbaden. Ma era diventato sempre più difficile impossessarsene senza destare sospetti e tuttavia lui non voleva rinunciare a Helen. Alla fine si era lasciato convincere dal contabile dell’officina con cui contrabbandava i ricambi ad acquistare le dosi direttamente da lui perché, a sentirlo, riforniva già parecchi ufficiali della base ai migliori prezzi della Bassa Sassonia. Il suo nome era Henning Fitch e non si sarebbe mai mosso per così poco; in realtà il suo obiettivo era diventare il principale fornitore di Wiesbaden. La situazione stava diventando pesante per Tom. Helen sembrava una sanguisuga e non ne aveva mai abbastanza, mentre Henning Fitch lo marcava stretto, riuscendo alla fine a convincerlo a fare un viaggio settimanale come corriere all’interno della base. Cinque chilometri. “Cristo! Ho provato con tutte le mie forze di smetterla con quella vita di merda.” Dopo un paio di viaggi, Tom non ne poteva più; Helen ormai si era lasciata andare e aveva un aspetto pessimo, mettendo continuamente in imbarazzo lui e se stessa. Henning Fitch aveva smesso di chiedere e ora cominciava a pretendere. Nuovi clienti, consegne più frequenti e soprattutto incassi in euro. Tom aveva detto basta. Il suo stipendio di tremila dollari al mese si polverizzava sotto i suoi occhi e in ogni caso tutto quel movimento non poteva passare inosservato; dopo l’estate 2008 era stata avviata un’indagine interna, culminata con la sospensione dal servizio di cinque sottufficiali, compreso lui. Tom era perfettamente consapevole che se fossero riusciti a provare lo spaccio di coca e il contrabbando di ricambi, sarebbe stato arrestato e privato del suo grado di sergente, oltre alla radiazione dall’U.S. Army con disonore. Si era quindi rassegnato a perdere Helen ed essere inserito in un programma di recupero della durata di diciotto mesi. Tra gli ufficiali c’erano invece stati un paio di trasferimenti ad altra sede mentre Helen, fino allora protetta dal capitano Richard McConnell, era entrata senza chiasso nel progetto Minerva, che comprendeva ovviamente anche un doloroso percorso disintossicante. Stalker arrivò a Weilburg alle 11:30. Si voltò e diede un’occhiata al binocolo poggiato sul sedile del passeggero, quindi parcheggiò l’autovettura alla fine di un lungo rettilineo, vicino alle prime case del centro abitato. Guardò con apprensione l’orologio al polso e aprì il cassetto del cruscotto, estraendone un k-way di plastica azzurra e un cappellino dei Lakers. Indossò subito i capi di vestiario, quindi scese senza spegnere il motore, mantenendo un piede sul pavimento dall’autovettura e l’altro sul terreno, quasi volesse essere pronto per una fuga precipitosa. “Ero sicuro d’essere riuscito a voltare pagina, ma era davvero così?”


29 Da allora non aveva più rivisto Helen e nemmeno Henning Fitch. Dopo la disintossicazione si era sentito di nuovo libero, soprattutto dentro; aveva affrontato i test psicologici con autentico entusiasmo e finalmente era stato reintegrato con il suo grado. Ma il destino non era in sintonia con Stalker. Poche settimane dopo il suo reinserimento, una voce agghiacciante aveva ripreso a perseguitarlo al telefono, minacciando di rivelare tutte le vicende non emerse in occasione dell’indagine precedente, se non avesse accettato di riprendere in mano la vecchia agenda dei clienti e le bustine da consegnare. “Henning Fitch. Aveva aspettato quasi due anni, che bastardo figlio di puttana!” Tom si trovava di nuovo sull’orlo di un baratro, ma proprio quando la disperazione sembrava aver preso il sopravvento, un intermediario lo aveva contattato. Parlava in nome di tre ufficiali della base, intenzionati a eliminare fisicamente Henning Fitch. Anche loro avevano un passato da nascondere e quella carogna li stava minacciando; messe da parte le iniziali incertezze, avevano deciso di collocare sotto il sedile del SUV appartenente al trafficante una quantità adeguata di esplosivo civile, con detonatore attivato da un radiocomando a segnali codificati, giusto per ridurre al minimo la possibilità d’errore. Sarebbe sembrato un regolamento di conti, oppure una vendetta consumata all’interno dell’ambiente dello spaccio. Uno degli ufficiali aveva telefonato a Henning Fitch, fissando un appuntamento a Weilburg e parlando anche in nome dei suoi colleghi si diceva pronto a sborsare una somma di denaro per ripagarlo del danno subito e chiudere la partita. Il binocolo che Tom Stalker afferrò, per puntarlo sul rettilineo vicino a Weilburg, integrava anche il radiocomando che avrebbe messo fine a minacce e sofferenze. Sarebbe bastato attendere il SUV e accertarsi che alla guida ci fosse proprio quel bastardo, quindi la semplice pressione di un tasto avrebbe chiuso i conti definitivamente. Eccolo. Nel binocolo era comparsa la sagoma del potente automezzo, che ora aveva circa un chilometro di rettilineo davanti, proprio in direzione di Tom. Nessun altro nei paraggi, per fortuna. Tutta l’ansia e la tensione accumulati nelle ultime settimane sembrarono racchiuse in ogni singolo istante, pronte a liberare corpo e mente di Tom. Il tremore dei minuti precedenti abbandonò le sue mani e soltanto la fronte leggermente perlata di sudore rivelò il turbine d’ansia misto ad angoscia che lo stava attanagliando. Sarebbe bastato soltanto un attimo di lucidità, ma lui non riusciva nemmeno a mettere a fuoco il SUV nel binocolo.


30 Dicevano che per un soldato soltanto la prima uccisione era la più difficile, tutte le seguenti sarebbero state in un certo senso “private” dell’aspetto puramente emotivo, sempre più con il crescere dei nemici abbattuti. Ma il sergente Tom Stalker non aveva mai ucciso nessuno. Non aveva mai partecipato ad azioni di guerra. Quello che più si avvicinava a una situazione bellica cui aveva partecipato, probabilmente erano state le esercitazioni antincendio della base. Tom si ritrovò con le mani sudate, senza rendersene conto. “Devo mantenere il controllo. Devo mantenere il controllo!” Il suo pollice esitò, quasi carezzando quel tasto ed esplorandone la fitta zigrinatura. Il momento ideale per premere il pulsante del radiocomando e attivare il detonatore, era già passato. D’ora in poi avrebbe corso dei rischi, chissà, forse anche di beccarsi qualche rottame sulla testa. Il display del binocolo indicava quattrocento metri di distanza tra lui e il SUV. Incredibilmente lui cercava ancora di decidere se quella era la cosa giusta. Trecento metri. “Cristo! Non devi decidere, devi premere quel maledetto pulsante! Adesso!” Tom cacciò un urlo terrificante e premette il pulsante. *** Tapas Bar “Don Esteban” - Francoforte sul Meno (Germania). Venerdì 3 settembre 2010, ore 10:45 a.m. Il cellulare di Helen emise una leggera vibrazione e lei si affrettò a estrarlo dalla tasca dei suoi jeans. Contrariamente a quasi tutte le donne, lei preferiva avere il telefono a portata di mano, senza essere obbligata ogni volta ad aprire la borsa e cercarlo. Sul display era presente una notifica di Facebook; con rapidi movimenti delle dita apparve un messaggio di Peter Hawking. Due sole righe in cui era scritto “Lo zio offre un party. Don Esteban 11:00”. La Vidali sorrise fra sé, perché amava la cucina mediterranea e in particolar modo le tapas, piccoli assaggini nati nell’Ottocento in Andalusia per riempire il piattino - la tapa, appunto - posto sopra il bicchiere di sherry per tenere lontane le mosche. E il Don Esteban offriva le tapas migliori di quel sobborgo, rammentò la ragazza. Come il solito lei preferì camminare, procedendo lungo la strada che costeggiava il Meno, il fiume che tagliava Francoforte in due metà. Abituata ormai a recarsi al lavoro senza utilizzare mezzi pubblici, con gli orari da rispettare e tutta la gente che spintonava, Helen si alzava presto e sceglieva un percorso


31 attraversando uno dei numerosi giardini pubblici della città oppure, con uno zaino in spalla, correva in bicicletta. L’attività fisica le aveva modellato un fisico mozzafiato ed era funzionale al completo recupero dalla tossicodipendenza, eliminando gli ultimi residui di cocaina dai tessuti adiposi. Sotto questo aspetto l’impianto del Dispositivo si era rivelato decisivo, annullando la dipendenza grazie all’attivazione di recettori neurali ed enzimi specifici. Quando due anni prima l’ingegner Hawking le aveva proposto di entrare a far parte del progetto Minerva, assicurandole la totale disintossicazione e uno stipendio di cinquantamila dollari l’anno, Helen non ci aveva pensato un attimo e aveva accettato, ben felice di scordarsi Tom Stalker. “Non ne ero certamente innamorata. In quel periodo ci siamo usati a vicenda, ecco tutto.” Lei ci aveva pensato parecchio e quell’estrema sintesi rappresentava tutto ciò che le era restato di quel periodo. Nient’altro che questo. Nessun rimpianto e nessun rimorso. Ma nemmeno un sostegno o qualche amicizia vera. Helen fece una smorfia e osservò il lento fruscio del fiume, indispettito soltanto dai massi che emergevano a ridosso delle sponde. “Papà non voleva sapere, mamma non pervenuta; ecco il mio sostegno, porca puttana.” Negli ultimi due anni suo padre non le aveva mai telefonato direttamente, ricorrendo piuttosto alle informazioni di seconda mano dell’amico di famiglia Richard McConnell. Sua madre invece aveva riempito sessanta secondi di telefonata con un pianto ininterrotto, inducendo Helen a interrompere la comunicazione. Nessuno dei due era ovviamente informato sulla nuova attività della loro figlia; in ogni caso lei risultava semplicemente impiegata come consulente della IntelReader Technologies Ltd. “Uh, stavo quasi per sbagliare strada, il Don Esteban dovrebbe essere qui dietro.” Helen svoltò rapidamente in una via laterale e dopo un’occhiata al suo orologio ebbe la conferma di essere in anticipo. Bene, c’era il tempo per la prima sigaretta della giornata. «Hola querida!» Carmen Gonzales salutava sempre così Helen, chiamandola tesoro. «Hola Carmen. Ti va una sigaretta?» L’ex tenente era certa della risposta affermativa e le porse direttamente il pacchetto semiaperto. «Natural, una sigaretta non si rifiuta mai. Allora, cosa pensi a proposito di ieri?» Carmen accennò direttamente al motivo della riunione che si sarebbe svolta da lì a pochi minuti. «Be’, c’eri anche tu» abbozzò Helen con un sorriso malizioso.


32 «Sei stata l’unica a non sembrare sorpresa. Mi sbaglio?» «E infatti non lo ero, per certi versi.» «Sapevi già come sarebbe andata a finire, vero?» «No, quello no. Però conoscevo i due bersagli.» «Madre de Dios! Allora il briefing prima della missione non serve a un cazzo!» Il fumo della sigaretta di Carmen disegnò un ampio cerchio nell’aria, esattamente come la sua mano, manifestando un’insofferenza più teatrale che autentica. Helen attese qualche attimo, poi aspirò una boccata e rivolse il viso verso il sole, godendo del gradevole tepore dei suoi raggi. «Insomma, a te l’avrei detto in ogni caso. Il maiale che guidava il SUV, cioè Alpha Uno, era un trafficante di droga che mirava a espandere i suoi maledetti traffici all’interno della base in cui lavoravo. Sì, sto parlando di qualche anno fa.» «Uhm … voleva usare te come corriere?» «Non direttamente. Il suo contatto principale, all’epoca, era il guidatore dell’Audi.» «Vuoi dire Sierra Uno?» «Già.» «E tu lo conosci perché…» «Diciamo che… ci frequentavamo.» Helen proseguì, informando Carmen degli ultimi eventi prima delle sue dimissioni forzate dall’U.S. Army. «Quando ci siamo conosciute però ne eri già fuori, vero?» Carmen sembrò sinceramente colpita dal breve racconto. L’ex tenente sorrise. «Sì, certo! Nell’esatto momento in cui sono entrata alla IntelReader e mi hanno inserito nel progetto Minerva, è iniziata la mia cura. L’impianto del Dispositivo che ho dietro all’orecchio è servito inizialmente per eliminare la mia dipendenza e in seguito ho lavorato dodici ore il giorno per due anni, durante i quali mi hanno addestrato a pilotare Fat Boy, il drone che ormai conosco meglio di chiunque altro.» Carmen gettò il mozzicone della sua sigaretta lontano, proprio in mezzo alla strada. «È stato difficile?» «Guarda, in ultima analisi pilotare Fat Boy è la parte più semplice del lavoro.» «Fammi un po’ indovinare dove cominciano le difficoltà…» «L’hai già capito, credo. Per imparare a gestire il Dispositivo ci ho messo due anni, ma non è ancora finita.» «Bueno, lo immaginavo. Premere pulsanti mentali non è esattamente lo stesso che farlo su un computer, vero?»


33 Le due donne si guardarono negli occhi. Per la prima volta il loro rapporto non si limitava a uno scambio di dati, ma il dialogo che si stava sviluppando sembrava l’embrione di un’amicizia. «Sì, non è semplice. Ma sono entusiasta di quello che io e il mio Dispositivo riusciamo a fare. Sul serio.» Helen annuì, sottolineando l’autentica convinzione con cui aveva elaborato quel concetto. «Excusa se te lo chiedo, ma non hai provato più il desiderio di… insomma, il tuo problema precedente, ecco.» «No, figurati! Be’, le prime due settimane sono state tremende, ma dopo l’impianto non ci ho pensato più e ho potuto dedicarmi al cento per cento al progetto.» «Sembrerebbe quasi un toccasana. Chissà perché non lo autorizzano sui tossici.» «Carmen, non fare l’ingenua. Già oggi si realizzano biochip piccolissimi a basso costo. Applicarseli allo scopo di aggirare un impianto sottopelle diventerebbe troppo semplice e prevedibile.» Anche Helen spense il suo mozzicone di sigaretta, schiacciandolo sotto la scarpa. Con una mossa inaspettata l’ex tenente prese sottobraccio Carmen, avviandosi in direzione del Don Esteban, dove l’alta figura di Peter Hawking già troneggiava davanti all’ingresso. «Non hai avuto altri ragazzi dopo quello, vero?» La spagnola voleva sfruttare ancora gli ultimi istanti da sola con Helen, prima di entrare nel Tapas Bar. «Uh, non ne ho avuto proprio il tempo! E tu hai qualcuno?» «Scherzi! Lo Zio me lo impedisce per contratto! E dico sul serio!» «Perciò anche tu hai abbassato la saracinesca, eh?» La Vidali sentiva la necessità di aggiungere ancora qualche mattone, per costruire e rafforzare quella possibile amicizia. «Sì, e in ogni caso… non sono ancora pronta.» Un percettibile lampo di tristezza passò sul viso di Carmen. «Scusami, la mia voleva essere soltanto una battuta…» “Sì, una battuta che potevo risparmiarmi” pensò Helen ricordando l’episodio di violenza che la sua collega le aveva confidato. «Non dartene pensiero querida. Verrà anche il nostro momento, vedrai!» Una larga bandiera spagnola incorniciava l’insegna esterna del Don Esteban, offrendo un perfetto stereotipo di nazionalismo gastronomico. Davanti all’ingresso, Hawking invitò le due ragazze a entrare e unirsi al resto del team Boutique. L’interno del chiassoso locale era strutturato per spuntini veloci, da consumare su alti tavolini circondati da sgabelli oppure in piedi, davanti a un ban-


34 cone con ante di vetro in cui erano disposte una quantità fiabesca di gustose e attraenti tapas. «Mi sono permesso di ordinare per tutti, spero vada bene un assortimento della casa» annunciò l’ingegnere. «Del resto non siamo qui per mangiare, vero Speed?» aggiunse ammiccando in direzione dell’addetto ai biosistemi, vestito con la stessa puzzolente maglietta dei Ramones del giorno prima. «Va bene Zio, allora aspetteremo che tu ci dica perché siamo qui» brontolò Steve allungando una mano per accaparrarsi il contenuto dei primi piatti che stavano arrivando sul tavolo; si trattava di condimento a base di gamberi adagiato su fettine di pane bianco, le sue tapas preferite. Benaski, piuttosto silenzioso, attese che tutti prendessero una porzione di quella pietanza, quindi afferrò con le dita una delle tapas portandola direttamente alla bocca, esattamente come vide fare agli altri. Da buon americano non aveva molta dimestichezza con le usanze del Vecchio Continente, ma era disposto ad apprendere, se il prezzo da pagare sarebbe stato gustare simili delizie. Una coppia di anziani, seduta poco distante, aveva attirato l’attenzione dell’agente americano. I due stavano commentando a voce piuttosto alta la notizia riportata sul giornale che uno dei due teneva aperto, circa una presunta esplosione che aveva distrutto un SUV Mercedes e ucciso il suo occupante. Tutti i membri del team ostentarono indifferenza, cercando disperatamente di sembrare occupati in qualcos’altro. Benaski prese la parola mentre si asciugava le dita con un tovagliolo di carta: «Bene. Desidero ribadire un concetto che dovreste già conoscere. La IntelReader Technologies è una società privata che fornisce servizi, e in quanto tale non è previsto che i dipendenti conoscano più dettagli di quanto sia necessario, okay?» L’agente sorseggiò un po’ d’acqua da un bicchiere, osservando le reazioni del team Boutique. Era sottinteso che, essendo la CIA l’unico finanziatore della società, ogni collaboratore si trovava di fatto alle dipendenze dell’agenzia. Hans osservò il sudore sul viso dell’ingegnere, quindi studiò con attenzione la donna ibrida. “Be’, sta mangiando regolarmente” annotò l’uomo, quasi sorpreso. Poi si spostò di lato per consentire a una ragazzona bionda di servire altre portate. «Dal briefing di ieri, già sapevate che si trattava di una questione di droga e io aggiungo che riguarda una base dell’U.S. Army» proseguì Benaski «il fenomeno pare più esteso di quanto non sembri, e il Dipartimento della Difesa intende trattare questo problema, diciamo senza… chiasso. Potete facilmente immaginare cosa succederebbe se questo tipo di indagini venisse svolto in via ufficiale; i media ci sguazzerebbero e il Congresso comincerebbe a porsi un mucchio di domande. Ad esempio sulla moralità e la rettitudine del per-


35 sonale militare e cazzate del genere; il risultato porterebbe a qualche taglio nel settore della Difesa e ovviamente noi non lo vogliamo, giusto?» Helen alzò un sopracciglio, ignorando la domanda retorica dell’agente. «È solo questo che faremo? Inseguire delinquenti da quattro soldi perché spacciano roba ai nostri militari?» L’agente scelse di ricorrere a un po’ di ironia condita da un sorrisetto idiota. «Be’, la tecnologia disponibile potrebbe permettere ben altri usi, ma è necessario un periodo di test con obiettivi reali. Del resto lo hai visto anche ieri, che le sorprese non mancano!» L’ex tenente scosse la testa, gettando stizzita nel piatto il boccone che si stava preparando a inghiottire. «Perciò noi dovremo limitarci a eseguire un oscuro lavoro del cazzo senza nemmeno sapere che cosa stiamo facendo, vero?» «Senti. La situazione è questa, che ti piaccia o no. Se volevi stellette e onorificenze dovevi restare nell’esercito, perciò continuerai a fare il tuo oscuro lavoro del cazzo, va bene?» ringhiò Benaski cercando di controllarsi, anche se quella bionda petulante cominciava a dargli sui nervi. Helen trattenne la collera soltanto perché il Don Esteban traboccava di gente. «E tu saresti uscito dal tuo buco e venuto fin qui soltanto per dirci questo?» «Esatto. Ci sono problemi?» replicò Hans girandosi sullo sgabello in direzione dell’ex tenente. Hawking allargò le braccia come per dividere fisicamente i due contendenti; lui desiderava evitare uno scontro frontale che, ne era certo, avrebbe prodotto spiacevoli ripercussioni sulla Boutique. Con uno sguardo feroce riuscì a chiudere la bocca a Helen, poi tentò di decifrare la smorfia dipinta sul viso di Benaski, senza risultato. «Okay. Non ci sono problemi, davvero!» Carmen deglutì più volte, pensando che quello stronzo di agente era riuscito a rovinarle il pranzo e in più stava maltrattando la sua probabile e unica amica, mentre Henderson continuò imperterrito a mangiare; in quel momento nemmeno Miss Universo in groppa a un cavallo bianco lo avrebbe distolto dal piatto. Helen continuò a fissare ogni dettaglio del viso di Hans, per imprimere nella memoria le sembianze di un altro di quei bastardi. Se li ricordava bene, quei due che l’avevano prelevata dalla sua abitazione un paio di anni prima, scaricandola in una stanzetta buia della IntelReader, maltrattandola e coprendola di insulti. In seguito avrebbe saputo che erano due figli di puttana della CIA, una coppia di cani da guardia che le stavano addosso “per valutare i progressi”. Avevano l’odiosa abitudine di fischiettare delle canzonette in voga all’epoca mentre la trasferivano da un posto all’altro e quando le inserivano l’ago nel braccio per iniettarle farmaci.


36 Lei li aveva soprannominati Blues Brothers, non soltanto per le loro discutibili doti canore, ma anche per la mania di vestirsi con abiti scuri e portare occhiali da sole anche negli ambienti chiusi; dopo l’impianto del Dispositivo, Peter Hawking aveva sempre tenuto sott’occhio l’ex tenente, cercando di evitare che i Blues Brothers interferissero con l’andamento del progetto Minerva. Erano le 13:00 e il locale era pieno di gente; in parecchi erano nell’attesa di occupare subito i posti che si stavano liberando, e infatti non appena Benaski si alzò dallo sgabello i tavoli furono prontamente requisiti da una banda vociante di ragazzini. Mentre l’ingegnere si occupava del conto, Hans accompagnò fuori il resto del team e all’improvviso afferrò un braccio di Helen. «Posso parlarti un attimo?» le sussurrò in un orecchio con malcelata irritazione. «Naturale che puoi. Non sei il Padreterno, tu?» replicò acida la ragazza osservando la mano che le ghermiva il braccio. «Va bene Miss Simpatia. Non sei nelle condizioni di dettare regole, lo sai vero?» «Che cosa vorresti dire?» «Conosco ogni dettaglio del tuo passato. Non sfidare la fortuna.» «Cristo! Ci sarà un motivo se si chiama passato, non trovi?» ribatté Helen mimando con le dita delle virgolette nel pronunciare quella parola. «La bambina che c’è in te vorrebbe rimuoverlo, giusto?» «Guarda che per me il passato è una ricchezza.» «Anche Sierra Uno alias Tom Stalking fa parte di questa “ricchezza” immagino!» «Non rinnego nulla e puoi credermi sulla parola.» «Va bene. Basta cazzate. Non abbiamo investito su di te per essere ripagati con i tuoi capricci.» Benaski indossò gli occhiali da sole, non tanto per proteggersi dai tiepidi raggi solari quanto per eludere gli occhi che lo stavano fissando. I componenti del team Boutique si disposero a ventaglio dietro a Helen, manifestando chiaramente l’intenzione di proteggerla. L’agente sollevò le mani in segno di resa, arretrando di un passo. «Okay, diamoci una calmata. Tanto vale che ve lo dica subito. Ne stavo parlando appunto con Thunder» temporeggiò l’uomo, togliendo gli occhiali da sole e strofinandoli sulla camicia bianca «non siamo certi che la Divisione Ricerca rinnovi i finanziamenti per la Boutique» disse, senza cercare di ammorbidire quella pessima notizia. «Cosa…?» Hawking sembrò quasi barcollare, e il continuo movimento del suo indice che premeva gli occhiali contro il viso tradiva tutta la sua ansia «ci era stato assicurato dal generale Bowder che…»


37 «Non importa quello che vi era stato assicurato» Benaski indossò di nuovo gli occhiali cercando di evitare lo sguardo dell’ingegnere «come già avrete intuito, la stessa tecnologia che ha permesso la missione di ieri consente anche valutazioni in tempo reale. E se qualcuno deve decidere, probabilmente lo sta già facendo» affermò, terminando la frase con l’indice puntato verso il cielo, come se chi avrebbe dovuto decidere il destino del team Boutique risiedesse direttamente nell’Olimpo. «Guarda che se si tratta di Helen, ti assicuro che…» Peter non riuscì a terminare la frase. «Secondo me lei dovrà cambiare atteggiamento, se non vorrà buttare nel cesso anche quest’occasione.» Hans stavolta puntò l’indice direttamente sulla Vidali. «Io… parlerò con…» «Non sarà necessario che tu parli con qualcuno. L’ordine è arrivato direttamente dalla Divisione Ricerca.» «Perché? Dimmi perché vogliono chiudere qui!» si infuriò Hawking avvicinandosi minaccioso a Benaski. «Non lo so. Forse non gli servite più, oppure hanno raggiunto il loro obiettivo. E che cazzo ne so io!» Anche l’agente avanzò di un passo, poi entrambi si accorsero di attirare l’attenzione dei passanti e di offrire uno spettacolo indecoroso agli occhi del team Boutique. Benaski si mise a osservare in modo provocatorio il cielo luminoso macchiato da poche nuvole bianche, quindi mise le mani sui fianchi respirando a fondo. «Io credo che verrete contattati a breve dal generale» sbuffò, osservando le macchie di sudore sulla sua camicia. L’uomo fece per andarsene, ma ci ripensò. «Ah, ancora una cosa» soggiunse corrugando la fronte «sarebbe meglio che fino a lunedì nessuno entrasse nel Laboratorio. Sapete, vogliamo solo proteggere l’attrezzatura da un uso… improprio. A ogni buon conto c’è uno dei nostri uomini davanti all’ingresso della IntelReader. Soltanto per garantire l’integrità delle nostre attrezzature, ovviamente.» Quindi Hans si allontanò con passo lento. Carmen si stava riprendendo lentamente dallo shock, riavviandosi i lisci capelli all’indietro. «Hijo de puta, è venuto qua per chiudere tutto!» «Senta dottor Hawking… volevo scusarmi per come mi sono comportata con quel deficiente dell’agenzia.» L’espressione mortificata di Helen si scontrò con lo sguardo furioso di Peter e ne uscì fatalmente schiacciata, come una bicicletta investita da una locomotiva.


38 «Ma cosa ti è preso Helen? Devi essere impazzita!» l’ingegnere agitò vorticosamente le braccia, esibendo una vena del collo gonfia da scoppiare «non so se ti rendi conto di cos’hai ottenuto. Dannazione!» Il viso dell’uomo, per sua natura pallido, era diventato paonazzo, con tutti i capelli biondicci attaccati alla fronte sudata. «Calmati Zio, era già tutto deciso, non te ne sei accorto?» La Gonzales cercò di addomesticare il flusso collerico di Peter, il quale non voleva saperne di essere imbrigliato. «Ma come, c’è ancora un sacco di lavoro da fare e quelli chiudono il mio Laboratorio, ma vi rendete conto?» L’ingegnere fissò uno a uno i suoi colleghi, evitando di farlo con Helen. Per Henderson quell’episodio non rivestiva particolare importanza, lui sarebbe in ogni caso rientrato nei Laboratori della Divisione Ricerca prima o poi. «Zio, non saltare alle conclusioni e aspettiamo…» «Forse ieri abbiamo scoperchiato un pentolone, e a nessuno interessa vedere cosa c’è dentro» suggerì la Gonzales, stringendo gli occhi a causa del sole. Poi prese sottobraccio Helen. «Noi andiamo!» disse la spagnola, quindi le due donne si allontanarono in direzione del fiume Meno, restando in silenzio e fumando. L’ex tenente ruppe il silenzio: «Sai, adesso avrei tanta voglia di urlare.» «Fallo, che aspetti?» Carmen ne ignorava il motivo, ma le scappava da ridere. Indecisa sul da farsi mise una mano davanti alla bocca. Helen alzò le mani, e incurante dei passanti si esibì in un urlo prolungato e liberatorio, piegandosi alla fine su se stessa per espellere tutta l’aria dai polmoni. Un istante dopo, con le lacrime agli occhi e senza fiato, fissò negli occhi la spagnola e scoprì all’improvviso un universo mai osservato prima. Entrambe scoppiarono a ridere e Helen capì di aver guardato negli occhi di un’amica. Numerose persone si erano fermate per osservare la scena, ritenendole due turiste già ubriache a quell’ora di pomeriggio; le due amiche non riuscivano a frenare le risate e furono costrette a sorreggersi a vicenda per non cadere. Finirono per sedersi entrambe sullo stesso paletto di cemento, uno di quelli sistemati lungo i marciapiedi per impedire la sosta alle autovetture, dandosi la schiena e disputandosi il poco spazio disponibile. Quindi finalmente ripresero fiato. L’ex tenente prese un fazzolettino dalla borsetta e si asciugò le lacrime, sopraffatta dai singhiozzi. «Cristo Santo, se questa terapia funziona giuro che la brevettiamo!» «Io dico che dovremo farlo più spesso!» «Vedrai che alla fine tutto andrà a posto, noi un lavoro lo troviamo sempre…»


39 «Perché, conosci qualche bar che cerca delle cameriere per caso?» «Io veramente pensavo alla lap-dance!» Helen proruppe in un’altra sonora risata, trascinando anche la sua amica in un altro minuto di “terapia”. Passarono i successivi due minuti a smaltire la sbornia da risata, quindi ripresero a camminare seguendo la sponda del fiume. «Sai cosa diceva Jim Morrison, il defunto leader dei Doors?» la Vidali intendeva condividere un particolare momento, trascorso poco prima, quando aveva guardato negli occhi Carmen «diceva che a volte basta un attimo per scordare una vita, ma a volte non basta una vita per scordare un attimo.» «Quell’attimo in cui ci siamo guardate, dici? Sì, è stato intenso anche per me.» «Come mi hai “etichettata” la prima volta che ci siamo conosciute, durante il primo test nella Boutique?» «Madre de Dios… terribilmente altezzosa!» «Davo veramente questa impressione?» «Io e Speed pensavamo che ti ritenessi superiore, una specie di donna bionica.» «In effetti riconosco di esserlo… un po’ altezzosa, intendo.» «Toglimi una curiosità. In questo momento il tuo Dispositivo è collegato?» «Probabilmente se fossi stata alle dipendenze dirette del governo o dell’esercito, non avrei avuto scampo. Be’, ci sono dei Marines a cui hanno inserito dei microchip, rendendoli perennemente visibili su una mappa elettronica.» Helen riavviò i lunghi capelli all’indietro e mise le mani in tasca, osservando distrattamente lo scorrere lento del Meno. «Tu invece…» «Figuriamoci se quei maiali della CIA non avrebbero voluto fare altrettanto con me. Ma il Dispositivo realizzato dal dottor Hawking è visibile esclusivamente in due modalità; la prima la conosci perché la attivi dalla tua postazione» disse Helen, torturando l’anello di West Point che portava al dito. «E l’altro modo?» «Uso la tecnica dei pulsanti cerebrali, esattamente la stessa con cui mi collego, attraverso il casco, a Thunder e Fat Boy.» «Perciò tu saresti rilevabile soltanto quando indossi il casco. Ci sono altre circostanze in cui scegli di rendere visibile il tuo Dispositivo e quindi te stessa?» Carmen riuscì a distendere i tratti del viso, dopo che una nuvola aveva oscurato parzialmente il sole. «Be’, posso scegliere di essere rintracciabile, indipendentemente dall’uso del casco. Sai, è una sorta di ultima ratio e anche una… garanzia. Nel caso sopravvengano problemi, non soltanto saprebbero dove trovarmi, ma uno dei biosensori segnalerebbe in tempo reale le mie condizioni cliniche.»


40 All’improvviso Carmen guardò il suo orologio e spalancò gli occhi. «Mierda! Devo scappare, mi faccio sentire domattina» sbuffò allungandosi sui piedi e stampando un bacio sulla guancia di Helen. La ragazza americana lasciò la sponda del Meno e si diresse verso la sua abitazione; la attendeva una camminata di oltre un’ora, certamente utile per riordinare i pensieri. Ma prima aveva una cosa importante da fare. *** Stanza n. 311 - Le Meridien Park Hotel - Francoforte sul Meno (Germania). Sabato 4 settembre 2010, ore 9:15 a.m. Hans Benaski era appena rientrato in camera dopo la colazione, quando il suo cellulare suonò. Aspettava quella telefonata e si accomodò sulla poltrona verde sistemata proprio accanto al letto. Distese le gambe usando la valigetta ventiquattrore come poggiapiedi. «Buongiorno signore, che si dice in California?» «Sarà per te un buongiorno, io adesso vado a letto perché è stata una giornata passata a discutere con il tuo capo e ne ho le tasche piene.» Thomas “Thunder” Bowder, seduto alla sua scrivania, allungò le gambe e allentò il nodo della cravatta. Si trovava ancora nel suo ufficio ricavato in un hangar della base Edwards in California, sede operativa del progetto Minerva. «Sì signore, mi scusi. Qui il sole è appena sorto, faccio fatica a immaginarlo già tramontato…» Benaski fu costretto a spostare la testa, per evitare una lama di luce che penetrava dalla finestra. «Naturalmente. Come sta la signora?» Di solito entrambi preferivano non citare nomi, nonostante il telefono in dotazione non fosse rintracciabile. «Sì, tutto bene. Devo riconoscere di avere una moglie dotata di molta pazienza.» Quel riferimento era dettato dal desiderio di ottenere un incarico permanente in Patria, cosa che avrebbe fatto felice anche sua moglie Elizabeth «ha letto il mio rapporto, signore?» Hans si alzò dalla poltrona, dirigendosi verso la finestra del terzo piano dell’Hotel, da dove si godeva di una perfetta visuale della piazza sottostante. «Un ottimo lavoro, davvero» il generale fece una pausa e bevve un sorso d’acqua da una bottiglietta già aperta «be’, senza dubbio tutti gli anni di sperimentazione sono costati milioni di dollari, a prescindere da chi li abbia pagati e risulta chiaro che ogni soggetto per noi è prezioso. Ecco perché resto perplesso quando affermi di non condividere la scelta della ragazza.»


41 Thunder distese la mano aperta sul petto, riuscendo a percepire il battito cardiaco, quindi si spostò leggermente più in alto, in prossimità della clavicola, dove l’anno precedente gli era stato impiantato un pacemaker. Si trattava del capostipite di una nuova generazione di stimolatori; oltre ai tradizionali collegamenti con il muscolo cardiaco, quell’unità poteva autoprogrammarsi secondo parametri prestabiliti e modificabili dal collegamento con un computer remoto, producendo all’occorrenza piccoli elettroshock al fine di ripristinare il battito. «Certo signore, lei allude alla parte dei commenti. In ogni caso ho comunicato al team lo stato d’attesa. Non l’hanno presa molto bene… be’ mi dispiace, ma le direttive del capo erano maledettamente chiare» disse Benaski alludendo ai precisi ordini ricevuti dal padrone assoluto del progetto Minerva, il vicedirettore Jenkins. «Bah! Nemmeno io capisco la decisione di far rientrare tutti nella Divisione Ricerca e chiudere la Boutique…» Il generale Bowder alla fine decise di appoggiare le gambe sulla scrivania, ignorando il massacro di fogli che ciò avrebbe provocato. «Okay, veniamo al motivo che mi ha spinto a chiamarti» annunciò, spostando con i piedi una pila di cartelle e creando uno spazio adeguato per le sue gambe «abbiamo un problema da risolvere. Ne ho parlato tutto il giorno con il tuo capo, e lui ha insistito per affidare a te questo incarico.» Thunder abbassò rumorosamente le gambe, togliendole dal piano della scrivania e provocando il collasso di una pila di scartoffie sistemata proprio sul bordo del tavolo. «Che cos’è stato?» Hans cominciava a preoccuparsi. «Niente… niente, vorrei prendermi del maledetto decaffeinato, quello che mi ha ordinato il medico, così sarò definitivamente certo di non terminare sveglio questa conversazione.» Mentre parlava si alzò in piedi, avviandosi in direzione della macchina del caffè. «Okay, ti spiegherò la nuova situazione e come sempre tutti i dettagli ti saranno comunicati con la solita modalità» proseguì il generale «allora, un ingegnere nucleare iraniano ha scelto di non collaborare più con il suo governo. L’idea originale prevedeva in primis l’espatrio della sua famiglia - vale a dire sua moglie e sua figlia - quindi con un’azione successiva avremmo prelevato anche lui, ricomponendo il nucleo familiare in un luogo segreto. Ma gli eventi sono precipitati e la sua famiglia, dopo il trasferimento fuori dei confini dell’Iran, è scomparsa. I nostri ragazzi hanno intercettato un paio di messaggi di posta elettronica e una telefonata, quindi sono giunti alla conclusione che riceverai a breve. Noi teniamo soprattutto all’ingegnere e a ciò che rappresenta, ma per averlo è indispensabile cercare e trovare sua moglie e sua figlia… aspetta un attimo, vediamo se questa stupidissima macchina ha


42 la decenza di riempirmi la tazza di quello che è chiamato pomposamente caffè…» Quando parlava di intercettazioni, Thunder alludeva ai centri di ascolto della rete Echelon sparsi su tutto il pianeta e coordinati dal Centro di Comando di Fort Meade, nel Maryland. Ogni comunicazione radio, fax, telefonica e cellulare - oltre naturalmente a Internet - era intercettata e selezionata sulla base di parole chiave, quindi Agenzie ed Enti Governativi acquisivano ciò che era ritenuto utile. «Perciò a breve dovrò trasferirmi, signore?» Benaski non era entusiasta di ripartire per una nuova destinazione. Si sentiva esattamente come un pallone da basket; sempre in movimento e a furia di rimbalzare dappertutto gli era venuto un gran mal di testa. «Affermativo. Per il momento è necessario trovare quell’ingegnere iraniano. Dopo penseremo a proseguire la partita con Minerva. Sto già lavorando affinché tu possa farlo da qui.» «Certo signore… splendido. E il team Boutique?» L’agente era stanco della vista sulla piazza e si accomodò nuovamente sulla poltrona verde. «Team e attrezzatura saranno trasferiti. Per il momento non occupartene.» Il generale chiuse la comunicazione, sorseggiando la sua tazza di decaffeinato; a suo parere l’unica cosa decente di quel caffè era il piacevole tepore del contenitore, e una volta esaurito quell’effetto era meglio gettare tutto nel cestino della spazzatura. Nella sua mente riaffiorarono gli avvenimenti di pochi giorni prima, quando era stato costretto a interrompere la connessione con Helen Vidali. Proprio quell’istante lo stava tormentando continuamente e non gli dava tregua, perché sviliva il senso del team e cioè che tutti correvano per lo stesso obiettivo di missione, senza eccezioni. Il generale restò in piedi, ostaggio dei suoi pensieri. Sì, c’era stata un’accesa discussione dopo quell’ordine giunto direttamente da Langley, sede della CIA. Scott Jenkins gli aveva spiegato che la potente lobby ebraica seduta nei banchi del Congresso non intendeva perdere le commesse per la ristrutturazione di una quantità di basi americane sparse sul pianeta. Parecchi di questi contratti erano già stati firmati da imprese israeliane e situazioni decadenti come quella di Wiesbaden si sarebbero prestate a essere usate come vetrina nelle mani dei sempre più numerosi antimilitaristi, portando inevitabilmente a tagli nei bilanci militari. “Era veramente questo il motivo che aveva spinto Jenkins a chiudere la Boutique?” Il generale Bowder sentiva l’urgente bisogno di dormire. Non lo stava facendo da troppe ore e c’era un’altra operazione da seguire.


43 Sarebbe stato quasi un supplizio tornare a casa e restare ancora da solo, ma ce l’avrebbe fatta; in ogni caso sempre meno difficile che allontanare le costellazioni di dubbi che gli ronzavano in testa. *** Mainlustraße - Francoforte sul Meno (Germania). Lunedì 6 settembre 2010, ore 8:00 a.m. Un furgone rosso si fermò nei pressi di un portico lungo la Mainlustraße e ne uscì una ragazza dai tratti asiatici, vestita con un paio di jeans e una felpa grigia con cappuccio. La giovane si diresse verso la parte retrostante del veicolo e ne aprì lo sportello; dopo essersi quasi inginocchiata sul piano di carico, riuscì finalmente a ghermire un borsone nero che trascinò fuori depositandolo pesantemente sul marciapiede. Quindi il furgone si allontanò, lasciandola da sola. Non appena ebbe preso fiato, la ragazza percorse velocemente la breve distanza che la separava da un portico; dieci metri fatti quasi di corsa e in apnea, con la mano avvinghiata alle maniglie del suo pesante fardello. Finalmente arrivò davanti a un ingresso, dove la targa con l’incisione “IntelReader Technologies Ltd” era fissata accanto a un portone di legno scuro. Con le mani sui fianchi prese un paio di profondi respiri, giusto per non entrare con l’affanno. Osservando meglio si accorse dell’entrata socchiusa e la ritenne una fortuna, perché di solito restava in attesa sotto la telecamera di sorveglianza anche qualche minuto. Quando ebbe ripreso fiato e il respiro si fece regolare, entrò fermandosi sulla soglia. «Buongiorno!» la giovane donna si protese verso l’interno dell’ufficio, sempre restando ferma sulla porta «c’è nessuno? Dottor Hawking?» Ancora niente. La ragazza si decise a entrare, trascinando dentro anche il suo borsone; poi lasciò lo sguardo libero di vagare, preparandosi a fare il suo lavoro. La giovane abbassò la cerniera lampo della sua felpa e ne estrasse due auricolari, che introdusse diligentemente nelle orecchie, quindi prese il suo iPod da una tasca interna e avviò la riproduzione casuale delle centinaia di brani contenuti nel dispositivo. Impostò un volume basso, nel caso qualcuno la chiamasse al cellulare, e si dichiarò pronta. Con gesti rapidi prese dal borsone un rotolo di carta industriale e lo poggiò sul pavimento; dopo fu la volta di un paio di flaconi con spruzzatore, che agganciò agli anelli della cintura che portava alla vita. Osservando l’orologio appeso alla parete, calcolò che da quel momento le restavano cinquantacinque minuti per completare le pulizie di quel locale, scale comprese. Poi il furgone rosso dell’impresa di pulizie sarebbe passato a riprenderla, esattamente dove l’aveva lasciata cinque minuti prima.


44 «Io comincio! Ma non c’è proprio nessuno?» insistette la giovane, convincendosi del fatto che probabilmente il dottor Hawking era uscito dimenticando di richiudere correttamente il portone. Si chinò a raccogliere il rotolo di carta e fu allora che notò sul pavimento un paio di occhiali dalla montatura vagamente familiare e scura, in netto contrasto con le piastrelle chiare dell’ufficio. Si diresse verso la scrivania in fondo alla stanza, quella sempre ingombra di scartoffie e attrezzatura informatica, per prendere gli occhiali e riporli da qualche parte, ma la cosa le puzzava perché l’ingegnere non sarebbe mai uscito senza. Non di sua volontà, in ogni caso. La piccola statura le aveva impedito di vedere al di là dei grossi monitor poggiati sul piano della scrivania, ma quando la giovane vi giunse proprio davanti le mancò d’improvviso il fiato. Seduto su una sedia girevole e con la testa appoggiata sulla scrivania c’era un uomo che, in una posa assolutamente naturale, sembrava stesse dormendo. Il suo viso era rivolto proprio in direzione dell’addetta alle pulizie, la quale restò immobile senza nemmeno respirare mentre continuava a fissare il foro nel mezzo della fronte dell’uomo, causa evidente della quantità relativamente scarsa di sangue che sporcava la scrivania. Portandosi le mani sul volto la ragazza iniziò a urlare, con un’assurda musica heavy metal nelle orecchie. Le grida attirarono l’attenzione dell’agente che avrebbe dovuto stazionare in prossimità dell’ingresso e che invece ciondolava attorno a due avvenenti ragazze poco distanti. Continuò a gridare una, due, tre volte, ansimando e arretrando senza riuscire in nessun modo a staccare lo sguardo da quella faccia sbiancata. La faccia di Peter Hawking.


45 Non esistono persone senza paura, solo attimi senza paura. Peter Hoeg

CAPITOLO II

Costa della Toscana in prossimità di Punta Ala (Italia). Martedì 7 settembre, ore 09:00 a.m. «Potevi dirmelo subito, che in realtà avresti sposato il tuo cacchio di lavoro!» Vittoria Spadacci sembrava al culmine dell’esasperazione. Alzò le braccia al cielo e attese invano la reazione dell’uomo che aveva di fronte; alla fine decise di sedersi, cedendo alla voglia di terminare il suo caffè. «Vicky, ti ho spiegato…» Robert Masi non riuscì a terminare la frase, nonostante avesse usato il soprannome preferito da sua moglie. «Oh sì, me l’hai spiegato. Ma non possono mandare qualcun altro, oppure tu sei il più ghiozzo?» Vittoria strinse nervosamente fra le mani la tazzina ormai vuota, fingendo interesse per lo stupendo panorama che si intravedeva dalla finestra. Erano nella cucina della loro casa con vista sul mare, sul litorale toscano. Le poche abitazioni che la circondavano erano ancora in costruzione e quella solitudine piaceva a entrambi, anche se gli impegni quotidiani imponevano spostamenti relativamente lunghi con l’automobile, come per esempio portare a scuola il piccolo Christian, il loro unico figlio. «Vicky, lo so che sono tornato da una settimana. Ma se mi chiamano non posso semplicemente dire di no, lo capisci vero?» Robert era appena ritornato dall’Afghanistan, dove aveva svolto una missione sotto copertura nell’ambito di operazioni Nato. Dopo aver passato oltre dieci anni nell’Arma dei Carabinieri raggiungendo il grado di Sottotenente, Masi aveva colto l’opportunità di passare alle dipendenze dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna, vale a dire il servizio segreto italiano, con l’incarico di operare al di fuori del territorio Nazionale. Di solito per missioni designate “ad alto rischio” gli agenti sposati con figli erano esclusi, ma Robert conosceva il farsi, la lingua ufficiale di un’ampia area centro-asiatica, e aveva imparato a memoria molte frasi del dari, il dialetto che si usa in quasi tutto l’Afghanistan.


46 Vittoria prese in esame la possibilità di alzarsi e andare a fare una doccia, troncando quel discorso improduttivo, fatto fin troppe volte. Fissò gli occhi verde smeraldo di suo marito, apprezzando anche i lineamenti del suo viso abbronzato e i capelli scuri spettinati. Davvero l’opposto di Christian, che aveva ereditato quasi tutto da lei; capelli biondi, occhi scuri e soprattutto il carattere aperto. «Dai raccontami qualcosa…» Vittoria scelse di percorrere la strada del dialogo, perché Robert non l’avrebbe mai fatto per primo; del resto lui parlava molto di più con i suoi contatti sparsi nel mondo, pensò lei ironicamente, sfoderando un radioso sorriso e strizzandogli l’occhio. Quando si erano sposati, dieci anni prima, Robert vestiva ancora la divisa di carabiniere e dormiva a casa quasi tutte le notti. Cinque anni più tardi, dopo essere entrato nei ranghi dei Servizi di intelligence per l’estero, la percentuale si era ridotta a livelli irrisori. Tra missioni, addestramento e riunioni, il tempo dedicato alla famiglia si stava riducendo a vista d’occhio e inoltre la specializzazione della lingua farsi l’aveva reso quasi indispensabile in molte occasioni. «Be’, anche stavolta mi hanno spedito parecchio lontano da casa. Uffa, lo sai che non ne potrei parlare!» Robert aveva stretto un patto con sua moglie, in base al quale le avrebbe raccontato qualcosa di ogni viaggio, tralasciando ovviamente le vicende legate al suo lavoro. Lui lo faceva per ripagare in qualche modo la pazienza e la devozione di Vittoria, ma anche perché riteneva terapeutico descrivere almeno una parte di ciò che aveva vissuto. Purtroppo all’interno della struttura governativa non erano previsti incontri con uno psicologo, probabilmente perché resisteva ancora il vecchio retaggio che associava la figura del militare a una sorta di Iron Man, senza debolezze e stati d’animo che introducano dubbi di natura etica e psicologica. «Be’, ci sarebbe un premio che ti aspetta, se tu fai il ganzo…» Vittoria proseguì il gioco che facevano sempre in quei casi, sfoggiando uno sguardo languido e passandosi la lingua sulle labbra. «Stavolta è stata più dura delle altre. Non si possono semplicemente ignorare le immagini che vedi passare davanti agli occhi, oppure dimenticarle, come non fossero mai esistite.» Robert stette al gioco, consapevole del fatto che a Vittoria interessavano soltanto i pensieri liberi di suo marito e non gli aspetti tecnico-militari. Restarono in silenzio un istante, sufficiente ad allungare le braccia sul tavolo e prendersi le mani. «Leggi i giornali e comincia l’inganno» proseguì Robert fissando gli occhi scuri di sua moglie «non si tratta di una missione di pace ma di vera guerra,


47 questo lo sai già immagino. Non parlo per me Vicky, lo sai che io sono un tecnico e non un soldato.» In effetti il suo incarico di copertura era un generico “addetto alla logistica”, ma naturalmente sua moglie non ci aveva mai creduto. Vittoria aggrottò la fronte e piegò la testa da un lato. «Maremma maiala… non è una missione di pace. Me l’hai già detto un milione di volte, cosa è cambiato stavolta?» «Ho visto gli effetti che producono un proiettile o una corazzatura all’uranio impoverito, quando esplodono. Se la polvere che viene prodotta entra in contatto con le ferite oppure è inalata, gli effetti sono… funesti, ecco» Robert staccò la mano da quella di sua moglie e fece un gesto vago nell’aria «ho visto di persona parecchi bambini nati deformi, cazzo!» Lui si pentì subito di aver pronunciato l’ultima frase e riuscì soltanto a distogliere lo sguardo dal viso di Vittoria, credendo così di alleggerire l’effetto prodotto da quelle parole. Robert era stato aggregato a un reparto di parà italiani chiamato Pantere, una delle tante unità addestrate a operare in profondità nel settore occidentale dell’Afghanistan. Lo scopo del reparto era cercare di intercettare il traffico d’oppio, concentrato soprattutto a ridosso della raccolta del papavero a luglio e agosto. Con i proventi derivanti da questo commercio, i Talebani finanziavano la loro guerra, intensificando gli attacchi e raddoppiando gli attentati. Il compito di Robert era strettamente collegato a questi ultimi aspetti; doveva cercare di scoprire la provenienza degli ordigni utilizzati dagli attentatori e in particolar modo dei famigerati Ied, cioè gli ordigni esplosivi improvvisati. Con la collaborazione di informatori del luogo e una discreta dose di coraggio, aveva ottenuto buoni risultati, permettendo a reparti come le Pantere di arrestare e consegnare agli Alleati più di qualche “tecnico” costruttore di trappole esplosive. La libertà d’azione che Robert poteva concedersi, gli aveva permesso di vedere personalmente alcuni neonati deformi partoriti direttamente nelle case, da madri venute a contatto con l’uranio impoverito. «Dè… ma questi effetti potrebbero colpire anche i militari impegnati in guerra?» Vittoria si rendeva perfettamente conto che queste informazioni erano strettamente riservate, anche se in rete si trovava del materiale in proposito. «Sì Vicky. Però la differenza tra noi e gli anglos è che loro si proteggono con mascherine e abbigliamento specifico, mentre noi no.» Robert aveva usato l’appellativo adottato da vari reparti italiani per definire i militari di lingua inglese. «Che bischeri! E quanto rischi tu?» «Te l’ho detto. In pratica il mio rischio sta tutto nel trasferimento aereo, come qualunque viaggiatore; una volta sceso, la mansione da tecnico non mi fa rischiare quasi nulla» disse l’uomo portando le mani di sua moglie alla bocca e baciandole ripetutamente.


48 «Robby, te ‘un me la racconti…» In effetti Robert se l’era vista proprio brutta quando, un paio di settimane prima, aveva incontrato un informatore che poi si era rivelato un militare afgano addestrato dalla NATO ma simpatizzante dei Talebani. Con il pretesto di fargli vedere un laboratorio in cui si costruivano trappole esplosive, questo militare, che si faceva chiamare Bashir, gli aveva dato appuntamento in una località della provincia di Herat, sede del quartier generale italiano in Afghanistan. Una pattuglia delle Pantere l’aveva accompagnato con un elicottero Mangusta vicino all’edificio indicato da Bashir, restandone a debita distanza. Non appena Robert aveva messo piede all’interno del sito, si era subito reso conto della trappola; troppi uomini armati nell’unica stanza di quel pianoterra e nessuna traccia del fantomatico laboratorio. L’attimo successivo Robert si era sentito spingere da un lato, mentre quattro o cinque Anglos facevano irruzione sparando all’impazzata; dopo avrebbe saputo che si trattava di mercenari, i quali rappresentavano ormai la maggior parte dei militari presenti in Afghanistan. L’elicottero Mangusta delle Pantere aveva poi completato l’opera, inseguendo l’ultimo superstite sfuggito ai mercenari e riportando infine Robert alla base. “Per fortuna quell’azione era stata concordata con gli americani. E non importa che fossero mercenari o no, non so se mi sarei salvato stavolta.” Robert parve ridestarsi e distendendo i tratti del suo viso ispido regalò un sorriso a Vittoria, facendole ricacciare indietro le inevitabili lacrime che ormai inumidivano i suoi occhi. «A ogni modo sono qui, dai, e il prossimo lavoro sarà una passeggiata; non dovrò neppure prendere l’aereo!» L’uomo distese le braccia mimando le ali di un velivolo e alzandosi dalla sedia finse una picchiata, stampando un rumoroso bacio sulla guancia di sua moglie. «Ti va ancora un caffè?» le chiese. «Sì, ancora un caffè…» Lei avrebbe voluto gridare, invece di trattenere lacrime e parole. Quel maledetto gioco la costringeva a nascondere i suoi sentimenti e quella mattina le fece ricordare quanto possa essere dura la vita e di come sia difficile imparare a prendersi cura l’uno dell’altro. Le sfuggì un sorriso ironico perché queiii erano alcuni dei principi che sono citati davanti all’altare, nell’occasione di un matrimonio. “E te li ricorda proprio la persona più adatta, cioè un celibe appartenente a un clero che ha lucrato, manipolato e fottuto nei secoli dei secoli. Amen.” Robert le portò il caffè soffermandosi a osservare le lacrime che scorrevano sulle guance di Vittoria, unite a uno strano sorriso beffardo.


49 Lui era avvezzo ad affrontare nemici armati e a districarsi dalle situazioni più difficili, certo, ma vide in quelle lacrime gli avversari più difficili. Voleva fare la cosa giusta e nell’incertezza sul da farsi restò immobile. Vittoria si alzò in piedi all’improvviso e prese un tovagliolo di carta da una mensola, tamponandosi delicatamente gli occhi. “Idiota! Hai perso l’attimo e adesso lei ti accuserà di essere insensibile.” Robert era furioso con se stesso e tentò la carta della simpatia. «Cosa ne dici se usciamo a pranzo? Noi tre da soli, intendo…» Si sentì uno stupido, se non altro perché aveva ancora in mano il caffè di Vittoria. «Dè… parliamo pure del pranzo» replicò lei con voce stanca, appoggiandosi davanti alla vecchia madia che troneggiava in cucina ed esibendo uno sguardo rassegnato. “Di male in peggio, probabilmente quest’idea di parlare del mio lavoro non è granché, cazzo!” Robert era ancora impietrito davanti a Vittoria, con la tazzina in mano; la frustrazione l’aveva ammutolito e fece l’unica cosa opportuna in questi casi. Poggiò il caffè sul tavolo e abbracciò sua moglie, rigorosamente in silenzio. “Per oggi basta figuracce” rifletté. Si erano conosciuti alla festa di fine 1999 all’isola d’Elba. Lui era un sottotenente dei Carabinieri con la prospettiva di una brillante carriera, lei una laureanda in psicologia all’Università di Pisa. Curiosamente erano nati entrambi il 25 aprile a Montepulciano, in provincia di Siena; Robert nel 1970, mentre Vittoria cinque anni più tardi. Dopo un brevissimo fidanzamento si erano sposati e il giorno di Natale del 2000 era nato Christian, precedendo di poche settimane il trasferimento del Sottotenente Masi ai Servizi d’Informazione per l’estero. In seguito lui aveva iniziato a fare il pendolare a tempo pieno, lavorando nell’Area Centro-Asiatica e soprattutto in Afghanistan, alternando le trasferte a brevi periodi di riposo a casa. Lo stipendio di Robert in ogni caso aveva permesso l’acquisto della loro attuale abitazione, adagiata sullo stupendo litorale centrale della Toscana, vicino a Punta Ala. Vittoria invece gestiva un’agenzia turistica a Castiglione della Pescaia, un piccolo centro poco distante, sede anche della scuola frequentata da Christian. «Ogni volta è sempre più difficile, lo sai vero?» Vittoria aveva asciugato le sue lacrime silenziose sulla maglietta di suo marito e stava cercando di riacquistare la padronanza di sé «quando non ci sei evito di guardare i notiziari alla TV o su Internet, proprio non ce la faccio… ‘un c’è verso!» «Uhm… in ogni caso ho la netta sensazione che alcune destinazioni siano diventate fuori dalla mia portata» Robert si staccò dall’abbraccio e si avvicinò alla grande finestra panoramica, ammirando la vista mozzafiato sul mare «da questa volta in poi, soltanto destinazioni nazionali.» «Maremma bona, davvero! E cosa aspettavi per dirmelo?»


50 Vittoria allargò le braccia in un moto di esasperazione. «Sono in attesa della conferma ufficiale, ma come puoi immaginare la decisione finale spetta a me.» “Un passo indietro sotto il profilo dell’intensità professionale ma un deciso passo avanti per quanto riguarda la carriera” meditò Robert. «Ah be’, io e Christian ne saremo contenti. E quando parti stavolta?» La giornata di Vittoria si era messa al meglio, dopo aver sentito finalmente una buona notizia. «Presto, credo. Sto aspettando una telefonata.» Lui riteneva che a quarant’anni fosse giusto iniziare a pensare di più alla famiglia e del resto frequentare Iraq e Afghanistan aveva certamente messo a dura prova il loro matrimonio, più di quanto lui avesse voluto. In ogni caso era sempre rimasto fedele a sua moglie, rinunciando al sesso nei periodi di missione, nonostante le occasioni per scoparsi qualche prostituta non mancassero mai. Quello era uno degli effetti della cosiddetta democrazia che gli occidentali pretendevano di esportare, assieme ad alcolici e pornografia. In Afghanistan persino le chai khana, le tradizionali sale da tè, erano ormai attrezzate nei retrobottega con parabole satellitari per accedere ai canali pornografici, a beneficio dei soli uomini afgani. «Allora, prima che arrivi quella telefonata, è bene che mi dia da fare…» Vittoria si piazzò proprio di fronte a Robert, infilandogli le mani sotto alla maglietta e solleticandogli la schiena con le unghie. Nell’esatto momento in cui lui si apprestò a fare altrettanto, già pregustando le morbide curve di sua moglie, Christian fece il suo trionfale ingresso in cucina. «Ehi! C’è qualcuno che potrebbe prepararmi la colazione? Ho fame!» annunciò il ragazzino portandosi teatralmente le mani sui fianchi e apostrofando con lo sguardo i genitori, i quali si guardarono negli occhi scoppiando a ridere. La suoneria di un telefono cellulare interruppe brutalmente quell’atmosfera diventata improvvisamente gioiosa, riportandoli alla realtà. Robert attese qualche squillo prima di rispondere, per non dare la sensazione di essere lì ad aspettare. In ogni caso era arrivato il momento di ripartire. *** )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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