In uscita il 22/12/2017 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre e inizio gennaio 2018 ( ,99 euro)
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STEFANO PASQUINI
GIORNO E NOTTE
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni
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GIORNO E NOTTE
Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-157-0 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Dicembre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
A Teresa
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1. GIORNO
Alla riunione plenaria del lunedì pomeriggio, Enrica stava riassumendo alla lavagna luminosa, con la consueta precisione, il programma settimanale di lavoro. Il tavolo ovale conteneva lo studio al completo. Lo sguardo di Giorgio, però, si era fermato sui lunghi capelli neri di Daniela. La vedeva di spalle con la sua chioma fluente che si adagiava sul vestito blu cobalto. Si teneva la testa con la mano destra, come assorta. Le dita affusolate si allungavano fra i capelli luminosi, lasciando scoperto il collo di colore lievemente ambrato. Portava due anelli: la fede e un altro con una piccola pietra rossa, probabilmente un rubino. La pelle della sua nuca delicata sprigionava l’energia delle cellule luminose, convogliando tutti i sensi di Giorgio in quell’unica direzione. L’attrazione fluttuava nell’aria che lo separava da quel corpo, abbandonato sulla sua sedia dallo schienale nero. Avrebbe voluto avvicinarsi, carezzarle il collo, massaggiare i lunghi capelli. Anche girata, Daniela sprigionava il suo intenso fascino di donna, bellissima e matura al tempo stesso. Pure lei era una sua creatura, lavorativamente parlando, come tutto lo studio del resto. Quasi venti professionisti, di varie generazioni, fra i migliori avvocati di Milano, ormai lavoravano lì, con grande dedizione e affidabilità. Il suo merito maggiore era stato quello di aver costruito un gruppo affiatato. Pochi litigi, scarse rivalità, spirito di collaborazione, perché Giorgio era riuscito a valorizzare tutti, attribuendo a ciascuno i propri meriti, senza privilegi né favoritismi. Nessuno poi mancava alla riunione del lunedì, dove ci si confrontava sulle questioni più spinose. Era un appuntamento che aveva voluto fortemente lui, per “cementare lo studio”, così diceva. Per creare uno spazio di confronto collegiale, ma anche per avere sotto controllo l’intera attività, in modo che niente di rilevante potesse sfuggire alla sua vigilanza. Tutto era sospinto dal suo impulso, nessuna decisione importante poteva essere presa senza di lui.
6 Prese la parola Luciano, uno dei nuovi arrivati, e cominciò a parlare dell’impostazione di un’udienza che si sarebbe tenuta l’indomani. Si era preparato in modo serio e meticoloso. Solo allora Giorgio si accorse che lo studio non era realmente al completo: mancava Christian Giannoni. Ti pareva! Sicuramente aveva fatto tardi a causa del tennis, oppure per un pranzo che si era prolungato! Christian lavorava nello studio da quasi tre anni, ma non si era conformato all’etica dominante. Questo irritava fortemente Giorgio. Lo Studio Merani, Passaggi & Partners non era diventato per caso uno dei più in vista nel settore del diritto commerciale, forse addirittura il migliore. Giorgio Merani e il suo collega Giuseppe Passaggi avevano dedicato la loro intera esistenza alla creazione di quello studio, con costanza, pazienza e soprattutto con grande dedizione. Nessuno aveva regalato loro qualcosa. Giorgio veniva da Lambrate, periferia milanese, famiglia povera e numerosa. Aveva lavorato sempre sodo per mantenersi gli studi. Qualcosa dentro di lui gli aveva sempre detto che la sua vita stava in piedi solo perché le dedicava il massimo della dedizione. Sarebbe bastato un attimo di distrazione, una minima défaillance, per far crollare tutto. Per questo si era scelto collaboratori altrettanto seri e impegnati. Persone come lui, sempre dedite al lavoro, intelligenti, ma soprattutto dotate di grandi capacità produttive. Solo adesso si rendeva conto che, con Christian, per la prima volta, era stato introdotto nello studio un personaggio sbagliato. Perché, si chiedeva adesso, guardando la sedia vuota, mentre Luciano proseguiva nella sua illustrazione, era stato così sprovveduto da inserire un corpo estraneo di tal fatta? Gli risultò evidente l’estrema pericolosità di tale errore: il comportamento di quel giovane avrebbe potuto produrre la disgregazione dell’intero studio. Intendiamoci, Christian era un avvocato intelligente e preparato. Solo che non si impegnava a sufficienza. Così almeno pensava Giorgio. Faceva la vita del single. Serate nei locali fino a tarda ora, partite di tennis, continue vacanze. Tutto questo strideva con l’etica produttiva della Merani, Passaggi & Partners. Era insopportabile. «Ma perché Christian è finito nel mio studio?» si chiese ancora. Non riuscì però a ricordarsi se qualcuno glielo avesse presentato oppure se fosse stato il prodotto di una qualche selezione.
7 Enrica riprese la parola e portò a termine la sua relazione, chiedendo ai presenti se fosse tutto chiaro. Cominciarono così le domande di approfondimento sulle varie udienze. Da poco era entrata a far parte dello studio anche sua figlia Elisa. Alle riunioni era molto attiva, poneva molte domande. Forse troppe, ma Giorgio non voleva inibirla. Di nuovo il suo sguardo si posò sul collo di Daniela. Delicatamente piegato verso destra, lasciava apparire una collanina, dalla quale pendeva un ciondolo, che sulle prime gli parve come una piccola bara, ma poi, guardando meglio, si rivelò invece un medaglione a forma di rombo con un’iscrizione. Quando la riunione terminò, tutti si alzarono, visibilmente soddisfatti, per tornare ai propri uffici. Proprio in quel momento la porta si aprì e fece capolino Christian, con la sua chioma biondo oro e la solita improbabile cravatta a pallini rosa. «È questa l’ora di arrivare?» lo apostrofò Giorgio in modo brusco. «Era in udienza. Non ricordi?» gli disse Giuseppe. «Sì, purtroppo è finita da poco» aggiunse Christian. Giorgio se ne andò senza replicare. Era in udienza? Lui non se lo ricordava. Comunque cambiava poco se quella volta poteva avere una scusa valida. Sta di fatto che spesso arrivava in ritardo alle riunioni. Per un piccolo errore non era certo il caso di scusarsi. Così magari il ragazzo si sarebbe sentito autorizzato a proseguire nel suo comportamento d’ora in poi. Si diresse verso il suo ufficio, intenzionato a liberarsi di un po’ di pratiche. Percorse il lungo corridoio senza guardare nessuno. La segretaria tentò di fermarlo per dargli alcune comunicazioni, ma lui la bloccò con la mano. «Più tardi. Devo fare delle cose urgenti». Il suo ufficio era invaso dalla luce solare. La stanza all’ultimo piano si apriva su Piazza Cordusio con un’ampia vetrata. Dovette aumentare l’effetto oscurante dei vetri, precipitando così in un’atmosfera irreale. La piazza pareva stretta nella morsa del sole e invece lui se ne stava nel suo ufficio quasi in penombra. Si mise a sedere alla sua ampia scrivania a forma di chiglia di una nave del seicento, disegnata dall’architetto Buonvini, suo cliente e noto designer. Una pratica lo preoccupava particolarmente: la fusione fra produttori e importatori di biocarburanti. Era un affare di miliardi che poggiava però
8 su basi fragili. Infatti, l’Autorità Antitrust avrebbe potuto bloccarlo come intesa restrittiva della pubblica concorrenza. Per questo i due colossi si erano rivolti a lui: «avvocato, dobbiamo fare questa fusione ma non vogliamo problemi. Ci pensi lei». Era una parola! All’Antitrust non erano più i bei tempi del Baggeri, professore di economia aziendale di Milano, che conosceva fin da quando era ragazzo. Anche lui era venuto dal niente, fino a diventare Segretario Generale dell’Autorità antitrust. Con lui almeno c’era un dialogo e le cose erano chiare. Questo si può fare, questo non si può fare. Così riusciva a dare certezze ai clienti e molta della sua fortuna era stata costruita su questo. Tre anni prima, però, Baggeri era andato in pensione. Certo, ancora conosceva tanti dirigenti e poteva anche intervenire, ma non era la stessa cosa. Alla Direzione Energia poi avevano messo a capo una signora che, per non assumersi responsabilità, sapeva solo dire di no. Tutto era vietato, tutto appariva contrario alla legge. Cominciò a consultare le banche dati per cercare i provvedimenti dell’Autorità su casi simili. In quel momento però il computer gli segnalò l’arrivo di una mail. Non poté resistere e l’aprì. Una multinazionale farmaceutica scriveva per segnalare il ritardo nell’invio di una loro relazione urgente. Chiamò Giuseppe. «Scusa, ma non dovevi fare tu quella relazione sui prezzi dei farmaci?». «Certo. Entro giovedì, no?». «Ci hanno appena scritto che siamo in ritardo». Giuseppe si era sbagliato, era il giovedì passato. Giorgio andò su tutte le furie. Dovette però staccare perché sul cellulare comparve il nome di Calieri della Consob1. «Giorgio, scusami, ma ho bisogno di un parere urgente».
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La Commissione nazionale per le società e la Borsa (meglio nota con l'acronimo Consob), è un'autorità amministrativa indipendente, che opera per la tutela degli investitori, dell'efficienza, della trasparenza e dello sviluppo del mercato mobiliare italiano. Vigila sulla Borsa Italiana.
9 Gli chiese un approfondimento sui requisiti di legge degli agenti di borsa. Mentre riattaccava, gli venne in mente che stava per scadere il ricorso Ageinor, ma non ci aveva ancora messo mano. Suonò di nuovo il cellulare. Era ancora Calieri. «Scusa, mi sono scordato di dirti una cosa». Quando riattaccò tornò alle banche dati. L’unica possibilità per salvare l’operazione di fusione gli appariva quella di sostenere che il mercato dei biocarburanti era ormai divenuto di dimensioni mondiali e quindi l’intesa non poteva avere effetti significativi sulla concorrenza. Doveva però verificare la sostenibilità della tesi cercando dei precedenti. Sul telefono si accese la luce rossa della segretaria. «Le avevo detto che non volevo essere disturbato!» rispose in modo sgarbato. «C’è qui il dottor Antieri che vorrebbe parlare con lei urgentemente». Antieri era un funzionario della Camera di Commercio, non poteva respingerlo. «OK. Fallo entrare». Mentre dava la mano ad Antieri sul cellulare comparve nuovamente il nome di Calieri. «Scusa, mi sono scordato di dirti un’altra cosa». Solo nel tardo pomeriggio riuscì a smaltire un po’ di questioni. Si era formata una strana quiete. Finalmente poteva permettersi il lusso di consultare la banca dati per cercare i precedenti sulla dimensione dei mercati ai fini della valutazione della fusione fra imprese. Alzò gli occhi e si accorse che era ormai sera. Le luci dei palazzi di fronte si riflettevano sulla vetrata. Fu allora che notò su uno scaffale dell’ampia libreria una statua nera. Era il Buddha nella posizione della meditazione, con le ginocchia incrociate e le mani in grembo. Non aveva la pancia, anzi era di aspetto giovanile. Il suo sguardo intenso, fisso nel vuoto, pareva diretto verso di lui. Chi aveva messo lì quella statuetta? Qualcuno si era permesso di collocare quell’oggetto nella sua libreria a sua insaputa? Oppure ce l’aveva messo proprio lui e poi se ne era dimenticato? Ultimamente si scordava sempre più cose. Il suo cervello era troppo pieno di informazioni.
10 Fu così investito da ricordi dell’Oriente. Gli parve di avvertire l’odore dell’aria umida e calda tipica dell’Indocina. Chiuse gli occhi, ma riapparve comunque il volto fisso del Buddha, quasi volessi dirgli qualcosa. Gli tornò in mente dove aveva visto quelle statuette. Davanti al Palazzo Reale a Bangkok. Una folla ordinata sotto la pioggia. Il sapore dolciastro che si univa a quello dell’asfalto. La melodia vagante, appena percepibile, di un coro muto. Un’enorme cupola con la guglia completamente dorata. La porta di ingresso, anch’essa dorata, dove ci si poteva riparare dalla fine pioggerella che cadeva incessante sul lastricato. Forse l’aveva comprata proprio lì quella statuetta? Era probabile ma non riusciva a ricordarselo esattamente. Aprì gli occhi, come riemergendo da un lungo sonno. L’oscurità della stanza era divenuta completa. Dovette accendere la lampada. Erano le 20,15. Poteva andarsene. Prese il cellulare e vide che gli era arrivato un messaggio. Glielo aveva mandato la sua collaboratrice più fidata, Enrica Benevieri. “Sono tre ore che ti cerco ma sei sempre impegnato. Stamani in cancelleria ci hanno detto che abbiamo perso la causa Kreutzer/Vilnovo. La sentenza sarà pubblicata domani. Ciao”. No! Era impossibile! Giorgio sentì una fitta al cuore, un dolore acuto e insopportabile. Lesse e rilesse quelle parole, “abbiamo perso la causa Kreutzer/Vilnovo”, sperando di aver interpretato male o cercando gli indizi di un errore. Avrebbe potuto essere “hanno perso” oppure “abbiamo vinto”. Niente però autorizzava simili deduzioni. C’era proprio scritto “abbiamo perso”. Com’era possibile? La causa appariva scontata. La ditta austriaca Kreutzer si era rivolta al loro studio per difendersi da una citazione civile per contraffazione di brevetto promossa dalla ditta concorrente, l’italiana Vilnovo. Era del tutto evidente però che la contraffazione non c’era stata e quindi l’esito della causa era parso a tutti scontato. Giorgio aveva rassicurato il cliente fin dall’inizio: «Non vi preoccupate. Non ci saranno problemi». Adesso invece questa incredibile sconfitta. Nonostante l’orario, telefonò a Enrica, che rispose e confermò la notizia. «Ma come te lo spieghi?».
11 «Non so. Non so davvero. Roba da matti». Pensò alla dottoressa Schintz, direttrice della Kreutzer. Cosa gli avrebbe detto? Come giustificarsi? Si alzò e prese l’impermeabile. Era la prima causa che la Kreutzer aveva affidato al suo studio. Per questo era molto importante. Avrebbe potuto significare l’inizio di una collaborazione con un grosso cliente, leader mondiale del taglio di diamanti, capitalizzata per sessanta milioni di euro. Adesso, invece, addio collaborazione. Anzi: la sconfitta avrebbe portato all’ufficio un gravissimo danno all’immagine. Lo Studio Merani, Passaggi & Partners aveva perso una causa così facile? Vuol dire che non aveva più credibilità in Tribunale, o, peggio, che era inviso ai giudici. Evitò l’ascensore. Scese le scale di corsa per sfogare il nervosismo. Alla seconda rampa di scale inciampò e si riprese a malapena sul corrimano. Batté il ginocchio sotto la rotula. Sentì una fitta, ma riuscì a terminare le scale. Fuori tirava un vento forte. In fondo la sagoma del duomo illuminato gli infuse un po’ di serenità. Poteva aspettarsi il tracollo dello studio? No, stava esagerando. Ma era un brutto colpo, molto brutto. Dopo un centinaio di metri, fermo a un incrocio, gli venne in mente chi seguiva nello studio quella causa: Christian Giannoni!
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2. NOTTE
Una pioggerellina fredda cadeva lieve nella buia strada di periferia. Il posto appariva isolato e poco raccomandabile. Eppure l’indirizzo era quello, ma Michele, come al solito, era in ritardo. Sentiva l’irritazione bucargli il petto. Aveva resistito a telefonare a Christian a quell’ora di sera, anche se era stato più volte sul punto di farlo. «Pronto? Lo sai che abbiamo perso la causa Kreutzer/Vilnovo? Ah … no, eh? Bel risultato! Complimenti! Pensavi di vincere le cause giocando a tennis?». Invece si era trattenuto. Non voleva essere troppo precipitoso. In realtà avrebbe voluto prenderlo a sberle quel bamboccio presuntuoso, sempre elegante e con i capelli lunghi. E non riusciva a ricordarsi chi l’aveva preso in studio! Poi ci si era messo anche Michele con quell’appuntamento assurdo. «Se vuoi ti presento Stefano Scanio» gli aveva detto un giorno in piazza degli Affari. «Ah, grazie. Certo!». La Scanio Building Spa era la quinta impresa italiana di costruzioni, un impero in mattoni, titolare di grandi commesse edilizie anche nel milanese. Giorgio aveva tentato più volte di entrarci in contatto ma senza esito. «Ti avverto però. Devi venire in un posto strano». «Strano?». «Sì, io ti conosco. Sei capace di incazzarti. Quindi ti avverto prima». Michele Passani lo conosceva da anni ormai. La sua impresa di forniture idrauliche era stata uno dei suoi primi clienti. In studio si faceva bistrattare da Giorgio, che spesso lo rampognava, rimproverandogli la sua faciloneria. Per lui era sempre tutto semplice, eccessivamente semplice. «Ma dove?». «Ne vuoi sapere troppe. Lo vuoi conoscere, sì o no?».
13 Così aveva accettato, al buio. E ora si trovava in quella strada grigia a Paderno Dugnano. Che posto assurdo! Palazzoni, spiazzi con erbacce, rampe sgretolate. Un grande imprenditore come Scanio sarebbe venuto lì? Forse era uno scherzo. Giorgio avrebbe potuto anche sopportarlo, ma non quella sera. Un gruppo di motociclisti spuntò dal fondo della strada. Il rombo aumentava di intensità via via che le moto si avvicinavano. Giorgio si ritirò da parte, sull’ingresso di un edificio. Il rumore delle moto divenne ancora più potente fino a parergli insopportabile, mentre il volto di Christian con un sorriso beffardo, fra le sue basette bionde, si materializzava di fronte a lui. Fu un attimo. Poi le moto si allontanarono e la strada riprese il consueto aspetto grigio con la pioggerellina fredda che cadeva sempre più fitta. «Ehi, ti sei nascosto?». Michele con la sua andatura dondolante era spuntato all’improvviso. «Dico, ma che razza di posto …». «Sei sempre il solito rompicoglioni, Giorgio! Te l’avevo detto che era un posto strano» rispose seccato, anche se, con il suo aspetto grasso e serafico, non riusciva a mostrarsi incazzato veramente. «Sì, ma non mi avevi detto che avrei dovuto attendere i tuoi ritardi sotto la pioggia». «Eh, va be’ …!» disse Michele allargando le braccia in modo sconsolato. Forse era riuscito a farlo incazzare davvero. «Vieni, dai». Si girò e prese a camminare dondolando il suo grasso sedere. Dopo pochi metri si fermò di fronte a un edificio basso, con la facciata senza finestre e piena di crepe. Suonò al campanello di una piccola porta nera di ferro. Subito fu aperto e Michele entrò. Giorgio invece rimase fuori perplesso. «Muoviti!» sbottò Michele afferrandolo per un braccio. «Ma cosa …». «Vuoi star zitto, per favore?». Giorgio fu sul punto di andarsene, poi ripensò alla Scanio Building. Si ritrovarono all’interno di una stanzina bassa, appena illuminata da una lampadina opaca che penzolava dal soffitto. Al bancone di ricevimento un giovane grasso con la barba esaminò i documenti. Poi fece loro cenno di entrare.
14 «Questo è un circolo privato. Un locale notturno, ma privato» disse Michele. Giorgio annuì poco convinto. «E cosa c’entra Scanio?». «C’entra, c’entra. Anche lui è socio, come me». «Non si poteva trovare un altro posto?». «Io l’ho sempre incontrato qui». Percorsero un lungo corridoio stretto, appena intonacato. «Aspetta un attimo». Michele aprì una porta ed entrò, lasciandolo da solo sul corridoio. L’irritazione montava sempre più, Michele non si rendeva conto che stava rischiando grosso quella sera. Si voltò indietro a guardare il lungo e spoglio corridoio, avvertendo un senso di ridicolo che aumentò la sua frenesia. Michele tornò con un’aria impacciata. «Ehm … Giorgio, mi dispiace ma Scanio non è ancora arrivato …». «Ti pareva …». «Sì ma … dovrebbe stare poco. Intanto vieni». «Dove?». «C’è una partita a poker». «Ma …». «Dai. Vieni. Fra poco arriverà». Entrarono in una piccola stanza con il soffitto basso, dove c’era un tavolo verde con quattro persone a sedere, che si alzarono per salutarlo. Fu colpito subito da un giovane alto, con la barba e i baffi neri, che gli strinse la mano calorosamente. «Prego». Un signore di mezza età con la faccia quadrata e l’aspetto poco rassicurante, quasi da gangster, gli fece cenno di accomodarsi al tavolo. Giorgio guardò Michele. «No … non ho voglia …». «Scusatemi, ma Giorgio non gioca. Si mette qui. Non darà noia. Stiamo aspettando una persona». Così facendo scostò una sedia dal tavolo e la offrì a Giorgio. Gli altri si sedettero nuovamente con aria perplessa. Anche Giorgio si mise a sedere e lanciò un’occhiataccia a Michele: dove l’aveva portato? In che situazione l’aveva messo?
15 Erano quasi trent’anni ormai che non giocava a poker. Lo aveva fatto quando era studente universitario con un gruppo di amici. Uno di loro, un suo compagno di corso, si era fissato col tavolo verde e, alla fine, aveva coinvolto tutti. Andavano nella villetta in campagna di uno di loro, figlio di uno psichiatra famoso in città, dove nessuno poteva disturbarli. All’inizio si era divertito. Poi la storia era finita male. Gianluca, il suo migliore amico, si arrabbiò sostenendo che Giorgio giocava sempre contro di lui, che si accaniva solo quando era lui a puntare. Una sera addirittura rovesciò il tavolo e se ne andò. Si ricordava ancora quell’episodio con dispiacere. In realtà dietro alla vicenda c’era una ragazza, Alice, che in quel momento stava uscendo con lui, ma piaceva anche a Gianluca. La loro amicizia terminò così, con quel tavolo rovesciato. In seguito non uscirono più assieme. Gianluca declinò sempre i suoi inviti e si allontanò da tutti. Dopo pochi mesi lui e Alice si lasciarono e così capì di aver perso un amico vero per un capriccio sentimentale senza alcun valore. Da tanto non aveva pensato più a quell’episodio. Forse era per quello che non aveva giocato più a poker? Ogni tanto gli capitava di incrociare Gianluca in tribunale. Faceva il commercialista. Non si erano più parlati ma, negli ultimi anni, si facevano dei saluti molto calorosi, segnali che la querelle ormai era finita e restava solo il ricordo piacevole dei momenti passati assieme in gioventù. Guardò Michele, assorto a seguire il gioco. Gli fece pena, era l’eterno disorganizzato e pasticcione. Cosa gli era saltato in mente di portarlo in un locale come quello? La stanza aveva un aspetto bizzarro, fra lo squallido e l’elegante. Le mura non erano rifinite, come in un garage. Le sedie invece erano di stoffa giallo ocra. Una colonna bianca, dietro la porta, reggeva la statua di un putto che mostrava un grappolo d’uva con un sorriso sardonico malriuscito. Gli venne in mente la figura scanzonata del suo Christian, che in quel momento stava sicuramente gozzovigliando allegramente in qualche pub, mentre lo studio era oppresso dalla perdita di una causa a lui incautamente affidata. D’improvviso intuì che l’atmosfera del gioco si stava facendo tesa.
16 Il giovane con la barba puntava spesso e stava perdendo molto. L’uomo di mezza età con la faccia da gangster, invece, puntava raramente ma spesso vinceva. Giorgio stava dietro un signore anziano, secco e alto, che invece non puntava quasi mai. Gli vide cambiare le carte tenendosi un tris di sette. Gli entrò una coppia di nove: full. Allora cominciò a puntare. Restarono in gioco solo lui e il gangster. Ci fu una sequela di lanci e rilanci. Alla fine il signore anziano evitò l’ulteriore rilancio e andò a vedere le carte dell’altro, che aveva un poker di cinque. Sul tavolo dovevano esserci almeno duemila euro. Allora il signore anziano perse il suo aplomb e si alzò. «Basta! Non posso giocare con gente che mi sta alle spalle!». Tutti si girarono a guardare Giorgio, che capì di essere stato tirato in causa. L’offesa poteva essere grave, ma si ricordò che anche lui non aveva mai potuto sopportare la presenza di spettatori durante le partite. «Scusatemi se vi ho disturbato … Michele …» disse Giorgio, facendo un cenno col capo che significava l’invito a uscire da quella stanza. «Va bene. Entriamo anche noi» rispose Michele. «Ma…». «Prego». Le loro sedie furono avvicinate al tavolo. «Dai. È solo per poco» disse Michele per superare le esitazioni di Giorgio. «Fra poco arriva Scanio e ce ne andiamo». «Per entrare bisogna cambiare minimo diecimila euro. Questo è l’iban. Fate un bonifico con il cellulare. Poi, quando uscirete, riceverete il corrispondente bonifico con la vostra somma di fine gioco». Giorgio fece il bonifico controvoglia. Si mise a sedere pensando di puntare il minimo indispensabile. Giocavano in sei, ma il più attivo era sicuramente il giovane con la barba che puntava quasi sempre, qualsiasi mano avesse. Aveva alle spalle la statua del putto. Si girò a guardarla. Magari avevano messo degli specchi lì, per poter vedere le carte di chi si fosse seduto al suo posto. Il sorriso smaccato del putto lo disgustò. Era un oggetto di pessima fattura. Le prime mani passò quasi sempre. Non gli vennero grandi carte. Solo una volta gli entrò una doppia coppia agli assi, ma decise di non giocare neppure quella.
17 Si stava annoiando e la sua mente era tornata a pensare alla causa persa, quando gli entrò un tris di donne. Fu un puro caso perché aveva cambiato cinque carte. Quelle tre donne gli fecero uno strano effetto. Sopra tutte stava la Donna di Picche con il suo leggero sorriso. Gli parve uno spreco buttare quel tris. Così puntò cento euro. Si ritirarono tutti tranne il giovane, come al solito. Cosa aveva in mano? Non ricordava quante carte avesse cambiato. Forse tre. Guardò le sue carte, le aprì meglio. La Donna di Fiori aveva un’espressione grintosa, quasi di irritazione. Allora fu spinto a puntare cento e poi a rilanciare di altri cento. Il giovane fece altrettanto. Con le puntate della prima mano sul piatto c’erano ormai quasi mille euro. Gli venne il dubbio di avere sbagliato. Con un misero tris si era impegnato per quattrocento euro. Non era per lui una cifra significativa, ma la sua difficile infanzia gli aveva insegnato a rispettare il denaro. Oggi c’era, ma domani avrebbe potuto mancare di nuovo. Fu sul punto di abbandonare il gioco. Poi capì che per altri cento euro ormai valeva la pena tentare e andò a vedere le carte del giovane. Aveva una doppia coppia ai re. Giorgio calò con soddisfazione le sue tre donne e tirò a sé tutto il piatto. Subito partì la mano successiva. Quella vittoria gli diede una strana euforia. Cosa era successo? Aveva guadagnato più di cinquecento euro grazie a quelle tre carte di donna. Cosa gli importava di quel denaro? Nulla, era insignificante, eppure si rese conto che il suo umore era cambiato. Nelle mani successive non ebbe grande fortuna. Con piccole puntate perse quasi tutto quello che aveva guadagnato. Il panno verde sul tavolo era particolarmente felpato. Forse velluto? Avvertiva un sottile piacere ad accarezzarlo. Il tatto gli trasmetteva un’idea di giustezza, come se le cose stessero a posto. Il gioco ebbe un’impennata con il duello fra il giovane e il gangster, che aveva anche cominciato a fumare un sigarino dall’odore dolciastro. Giorgio era infastidito, ma non poteva dire nulla, essendo l’ultimo arrivato.
18 Fra lanci e rilanci ormai sul tavolo ci dovevano essere, a occhio e croce, più di cinquemila euro. Il giovane calò un bel full di re. Allora il gangster buttò via le carte senza mostrarle. Forse aveva tentato un bluff? Il giovane apparve rinfrancato, aveva recuperato un po’ di soldi, anche se era ancora in forte perdita. Aveva la fronte sudata e le guance rosse. Si vedeva che soffriva quella partita, mal sopportava il duro confronto col gangster, che giocava poche volte, ma sempre in modo pesante. Giorgio si era reso conto che nelle sue carte comparivano spesso le donne: coppie, tris. Poteva esserci una spiegazione? Si riprese: quale spiegazione! Era solo un caso. Comunque la presenza femminile lo rassicurava; si sentiva accolto, cullato. Questo lo rilassò e lo predispose favorevolmente. Con un tris di assi andò allo scontro col gangster e perse trecento euro. Quello aveva una scala semplice. Ormai anche lui era finito in perdita: circa mille euro. Poi ecco l’ennesima mano con un tris di donne: fiori, quadri, picche. Cambiò due carte. Gli venne un due di fiori e poi apparve la faccia con le occhiaie della Donna di Cuori. Poker! Ebbe un sussulto e si rese subito conto di aver fatto un grave errore. Prima regola del poker non mostrare le proprie emozioni. Si guardò attorno, forse nessuno lo aveva notato. Quella volta rimasero in gioco in quattro: Giorgio, Michele, il giovane e il gangster. Poteva essere una fortuna se lui aveva la combinazione più alta. Viceversa c’era da svenarsi. Il gangster cominciò subito a puntare forte. Bluffava? Gli altri dietro. In pochi minuti sul piatto c’erano già circa diecimila euro. Forse sarebbe stato saggio ritirarsi. Michele a un certo punto si bloccò e cominciò a pensare. «Muoviti!» gli urlò il gangster in modo violento. Michele puntò ancora. Il giro dei rilanci pareva non fermarsi. Giorgio ormai andava sempre a vedere ma gli altri proseguivano la folle rincorsa. Pensò per un attimo di lasciare ma le sue donne glielo impedirono. Il velluto del panno lo rassicurò sulla giustezza del suo gioco.
19 Finalmente, come per incanto, la spirale dei rilanci terminò. Tutti si guardarono negli occhi. Non era possibile sapere quanto c’era nel piatto. Ventimila? Forse più. Michele mostrò le carte: full di Jack. Il giovane aveva un colore di cuori. Stava a lui e calò le sue quattro donne. Finora era la combinazione migliore. Restava però il gangster con il suo ghigno animalesco. Guardò Giorgio a lungo, sorrise beffardo. Poi buttò via le carte. Aveva bluffato? Chissà! Così Giorgio vinse: ventitremila e duecento euro. Le sue donne lo avevano protetto. Si sentiva come se stesse volando. Michele gli fece un cenno di congratulazioni. Il gioco continuò poi senza grandi scosse. A Giorgio non vennero più grandi combinazioni. Solo i tris di donne si ripetevano inquietanti. Perse quasi sempre piccole somme. La donna di picche lo guardò negli occhi, con il suo atteggiamento comprensivo. Il viso timido e austero gli ricordò sua nonna, che lo aveva sempre amato con dolcezza. Lo chiamava Giorgino. Nel volto della carta nera parve quindi materializzarsi lo spirito della nonna, che, dopo tanti anni, si rifaceva vivo. Ricordi, ormai lontani, gli affluirono alla mente. «Giorgio» lo chiamò a un certo punto Michele. «Che c’è?». «Sono le tre di notte». «Che?». Guardò l’orologio, poi gli astanti. Non si sa da quanti anni non faceva un’ora come quella! E l’ultima volta era stato sicuramente per lavoro. Rimase attonito. Il tempo era volato. Neppure il ricordo della causa persa era riuscito più a disturbarlo nella sua totale immersione nel gioco.
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3. GIORNO
“Daniela Trini”. Solo a vedere quel nome, lì, a fianco della porta, in stampatello, gli si accapponava la pelle, sentiva l’eccitazione salire in modo disordinato dalla bocca dello stomaco. Quella donna rappresentava per lui un modello insuperabile di seduzione con classe. La sola sua visione era capace di risollevarlo da giornate melmose, insopportabili, piene di urli e squilli di telefono. Era la coordinatrice dello studio, per via delle sue doti da organizzatrice. Pur essendo avvocato, aveva preferito riservarsi un ruolo di supervisione e direzione, aiutata in questo dalla sua prodigiosa memoria. Era capace di ricordarsi un particolare di una causa a distanza di anni. Bussò. «Avanti!». Giorgio aprì la porta con l’animo in subbuglio. Daniela stava seduta dietro la sua scrivania molto ordinata, vestita con un tailleur blu elettrico sul quale cascavano i suoi fluenti capelli neri. Gli rivolse uno dei suoi sorrisi radiosi, carichi di intensa ed elegante sensualità. «Ti disturbo?». «No … non ho molto tempo … devo andare in tribunale. Ma accomodati». Giorgio si mise a sedere cercando di vincere l’imbarazzo che sempre lo paralizzava all’inizio delle loro conversazioni. Possibile che non si fosse accorta della sua passione, possibile che una donna così intelligente non avesse mai colto le sue strane titubanze, le sue insolite incertezze? Daniela era la moglie di uno dei più importanti clienti storici dello studio, un grande imprenditore dell’acciaio. Lavorava da loro ormai da cinque anni e si era distinta per il suo comportamento integerrimo. Sempre molto cordiale e gentile, ma impossibile da cogliere in una défaillance o, tanto meno, in un atteggiamento di disponibilità.
21 Abilissima a tenere gli uomini a distanza siderale con squisita cortesia e simpatia. «Lo sai che abbiamo perso la causa Kreutzer/Vilnovo?». «Me l’ha detto ieri Enrica» rispose facendosi seria. «È una cosa incredibile. Ti rendi conto?». «Eh sì. Era una causa dall’esito scontato. Forse un errore del giudice…». «Ma… non so. Era affidata a Christian, vero?». «Sì» rispose lei, tornando al consueto sorriso. Solo a rammentare Christian le tornava il buon umore? Ma no! Perché aveva questi dubbi. Daniela non era disponibile per nessuno, neppure per il bel Christian. Era talmente algida che non riusciva neppure a immaginarla fare sesso col marito. «Ti ricordi per quale motivo l’abbiamo affidata a lui?». «Perché?» gli chiese, fissandolo con i suoi occhi verdi. «Come perché? Una causa così importante affidata a uno dei più giovani?». «Ma… era una causa dall’esito scontato… comunque lo decise Giuseppe». «Giuseppe? E perché?». «Perché mi fai tutte queste domande? Pensi che sia colpa sua?». «Questo lo vedremo. Certo non mi sembra uno che si impegna molto in studio». «Credo che tu abbia una visione distorta. Christian lavora tantissimo» disse lei, assumendo un’espressione preoccupata che le conferiva un aspetto da cerbiatta smarrita. «Non credo. È sempre in ritardo. Mi sembra molto più interessato alle partite a tennis e a correre dietro alle ragazze che al diritto». «Non voglio litigare con te, Giorgio, ma lascia che ti dica che sei ingiusto. Ricordo quella volta che arrivò tardi a un’udienza, ma si è trattato di un episodio verificatosi quando Christian era appena arrivato». Daniela portò il busto in avanti e gli chiese, quasi in tono di sfida: «Mi sai dire un altro episodio di ritardo?». A lui non veniva in mente nulla. Era sicuro che c’erano stati tanti altri ritardi, ma non riusciva a ricordarseli. Perché? Daniela lo metteva in confusione, le sue facoltà mentali perdevano lucidità. Lo sguardo di Giorgio era finito da solo dentro il suo scollo vertiginoso e questo non aiutava certo la sua memoria. «Non so … ma credo sia avvenuto altre volte …».
22 «Io non ne sono a conoscenza». «Ti ricordi come è entrato in studio?». «Sì, ce lo ha raccomandato Denvieri, il sottosegretario». «Cosa? Io non ne sapevo niente». «Credo che Denvieri abbia parlato con Giuseppe. Infatti Christian fa parte del suo staff, no?». Lo studio era diviso per gruppi. I due soci maggiori, che erano lui e Giuseppe, avevano nutriti staff di collaboratori. «Sai che non me lo ricordavo? Viene fuori che questo studio è per me una realtà sconosciuta». Daniela rise trascinando Giorgio in un vortice di ilarità riflessa, che per un istante gli parve intensa come un orgasmo. «Ti ricordi questa causa?». «Sì» rispose sicura Daniela. «Sono due ditte che producono laser per il taglio dei diamanti. La ditta italiana Vilnovo è titolare di un brevetto di laser a luce rossa e ha fatto causa alla danese Kreutzer perché ha commercializzato un laser a luce verde». Daniela si confermava nelle sue doti mnemoniche. «Mi ricordo che l’abbiamo sempre considerata una causa dall’esito scontato». «Sì» confermò lei. «La Cassazione ha sempre affermato che l’oggetto della protezione del brevetto non è la funzione realizzata, ma la tecnica che consente si realizzarla. È quindi possibile che esistano due o più brevetti per invenzioni che raggiungono lo stesso risultato ma con tecniche differenti». «Ora mi ricordo» disse Giorgio, mettendosi una mano sulla fronte. «Il laser a luce verde costituisce una tecnica innovativa e, anche se serve sempre per tagliare i diamanti, non può essere confuso con la tecnologia più datata a luce rossa». «Esatto. Quindi l’esito della causa appariva certo, visto l’orientamento consolidato della Cassazione». Squillò il telefono di Daniela. «Pronto?». Mentre lei parlava Giorgio si interrogava sul mistero di questa causa. Si immaginò scritti difensivi sciatti, memorie scritte male, udienze condotte in modo disordinato. Restava comunque inverosimile che un giudice avesse potuto prendere un simile abbaglio. Daniela riattaccò.
23 «Ti ricordi se era stata assunta una consulenza tecnica d’ufficio?». «Mi sembra di sì» rispose Daniela, un po’ distratta dalla telefonata. «Cioè, sì, certo. Il consulente era un certo ingegner Gabrielli, se non ricordo male». Gabrielli? E chi era? Giorgio non l’aveva mai sentito. «Scusami, ma il dubbio che la causa sia stata condotta male mi è rimasto». «Sei ingiusto». «Vedremo. Parlerò non Christian». Così dicendo si alzò, dirigendosi verso la porta. «Giorgio» chiamò lei con tono basso. Lui si voltò. «Ti conosco. Non partire in quarta. Aspetta prima di aggredire Christian». Giorgio annuì. Quel “ti conosco” pronunciato in modo così confidenziale l’aveva turbato. «Ah!» aggiunse lei. «Comunque parlerei prima con Giuseppe. È lui il responsabile dell’attività di Christian, che è solo un suo collaboratore». «Va bene, va bene» rispose Giorgio e uscì. Il vuoto del corridoio gli parve insolito a quell’ora. Doveva seguire i saggi consigli di Daniela? Ogni affermazione che usciva da quella bocca pareva così naturale, ovvia, da non soffrire smentite. Mentre si dirigeva verso l’ufficio di Giuseppe, squillò il suo cellulare. Era un numero sconosciuto. Poteva non rispondere? Magari era un nuovo cliente. «Pronto? Sono Inge Schintz della Kreutzer. Si ricorda?». Giorgio rimase interdetto. «Mi hanno detto che abbiamo perso la causa. Lei lo sa?». «Ehm… sì… mi hanno detto qualcosa… ma non c’è niente di ufficiale…». «Ufficiale o no abbiamo perso» replicò la signora con voce alterata. «Sì, ma non sappiamo per quale…». «Questo è importante, ma non così essenziale» lo interruppe la signora. «Siamo rovinati». «Non…». «Non cosa? Lei mi aveva assicurato che non ci sarebbero stati problemi».
24 La signora parlava con accento tedesco e tono perentorio. Giorgio capì che avrebbe dovuto alzare la voce e quindi si rifugiò nel suo ufficio. «Allora? Cosa è successo?». «Non glielo so dire. Se non vediamo le motivazioni …». «Non conosce bene questa causa, vero? Scommetto che l’ha seguita un suo collaboratore. Qualche giovane neolaureato, magari un po’ svogliato». «Le chiedo di ragionare. Non posso accettare offese allo studio. La difesa è stata svolta con il massimo impegno. Posso dimostrar…». «Storie! Sa cosa penso?». «Cosa?» chiese Giorgio, mentre la sua attenzione visiva fu catturata da uno stormo di uccelli che svolazzava a bassa quota sul tetto del palazzo di fronte. «Penso che per lei è stato facile vendersi a un’impresa italiana». «Cerchi di controllarsi. Non posso ammettere simili…». «Quanti soldi ha preso avvocato?». Giorgio sapeva che doveva reprimersi. Quando un cliente perdeva una causa importante potevano succedere le cose peggiori. Si doveva essere comprensivi, cercare di attutire il colpo, per non perdere il cliente. Questo era ancora più vero nel caso di una grande azienda come la Kreutzer. La Schintz però lo stava mettendo a dura prova. «Non posso accettare simili insinuazioni. Questo è uno studio serio. Attendiamo le motivazioni. Poi ci incontreremo immediatamente». «Arrivederci» disse lei e riattaccò. Giorgio rimase scosso da quella telefonata. La sua stanza pareva ondeggiare, come se ci fosse un terremoto. La reputazione dello studio veniva messa a dura prova. Si accasciò sul divano. Sapeva di dover razionalizzare ma per il momento appariva un’impresa impossibile. Gli scenari peggiori si aprirono nella sua mente. Una causa contro lo studio per responsabilità professionale? Se la Kreutzer era davvero rovinata c’era da aspettarsi di tutto. La belva morente è la più pericolosa. La signora Schintz era stata odiosa. Si alzò in piedi e andò alla finestra. E se invece avesse ragione? Qualcuno in studio avrebbe potuto vendere la causa alla Vilnovo? Ma no! Qui c’era di mezzo solo l’insipienza di Christian. Chissà che memorie difensive aveva fatto. Se le aveva fatte! Uscì furioso diretto verso l’ufficio di Christian.
25 Il corridoio era adesso pieno di gente che lo salutava, ma lui non vedeva nessuno. Arrivato alla porta, aprì senza bussare. Christian alzò gli occhi dal computer. «Buongiorno» disse con fare gentile, sorvolando sulla scortesia. «Sai che abbiamo perso la causa Kreutzer/Vilnovo?» chiese Giorgio mettendosi a sedere. «Sì, l’ho detto io a Enrica. L’ho saputo ieri in cancelleria civile». «E come te lo spieghi?» chiese Giorgio con tono di sfida. «Cosa?». «Come cosa? Il fatto che abbiamo perso, no?». «Non so. Ancora non abbiamo le motivazioni» Christian parlava in modo rilassato, come se si fosse svegliato appena allora. «Lo so, lo so. Ma tu cosa ne pensi? Hai seguito tu la causa, no?». «Sì, sì… non mi rendo conto… il giudice deve avere adottato qualche strana linea interpretativa». «C’è stata una CTU?». «Sì, l’ingegner Gabrielli». «E cosa diceva?». «Niente. Ci dava ragione. Diceva che il laser a luce verde è costituito da una tecnologia completamente diversa da quello a luce rossa. E quindi non poteva parlarsi di contraffazione del brevetto». «E poi cosa è successo?». «Non so… non… saprei…». «Ma come non saprei?!» disse Giorgio, alzando la voce. «Se io seguo una causa e perdo, so sempre quali potrebbero esserne i motivi. Conosco le tesi a me avverse, no?!». «Non si arrabbi» replicò Christian, con un’aria da ragazzo smarrito. I suoi lineamenti perfetti stavano perdendo smalto, la testa bionda ondeggiava irresoluta. «In generale ha ragione lei, ma in questo caso non so cosa dirle. Presumo che il giudice abbia concluso che si trattava di una tecnologia simile. Non c’è un’altra possibilità. Anche se è strano che abbia potuto commettere un tale errore». «Ma chi è il giudice?» chiese Giorgio, stupito di non essersi ancora posto quella domanda. «Calvari».
26 Calvari? Non gli diceva nulla. Doveva essere uno nuovo. «E come ti è sembrato?». «Sinceramente un po’ inesperto». Christian voleva scaricare sul giudice le sue responsabilità. «Mi ha chiamato la signora Schintz. Rischiamo una causa per responsabilità professionale». «Addirittura! Ma su quali basi? Non ci sono errori da parte nostra». Nonostante l’aggressione, Christian era rimasto lucido e gli stava dando delle risposte più che plausibili. «Era una causa che non si doveva perdere!» urlò Giorgio. «Lo… so… ma…». «Questa cosa non resterà senza conseguenze». «È ingiusto, avvocato. Prima di accusarmi, almeno esamini il fascicolo!». «Certo, lo farò. Ciò non toglie che questa causa avrebbe meritato una maggiore dedizione. La Kreutzer poteva diventare un cliente importante». «Lo so. Infatti mi sono impegnato». «Ma che impegnato! Fammi il piacere!» replicò Giorgio alzandosi. «Se tu ti fossi impegnato non sarebbe finita in questo modo. Christian, da un po’ ti tengo d’occhio. Mi sembra che per te la professione sia un hobby, al pari del tennis, se non peggio». Lo fissò negli occhi con sguardo vitreo. «Anzi! Sicuramente peggio!». «È ingiusto avvocato» ripeté Christian con tono basso. Pareva colpito, quasi come se stesse per piangere. La vista delle sue guance lisce e pulite irritava Giorgio a dismisura. Avrebbe voluto prenderlo a schiaffi, umiliarlo di fronte a tutti, costringerlo a lasciare lo studio con ignominia. «Sarà uscita la sentenza?». «Ancora penso di no. Sto monitorando la cancelleria telematica». «Appena esce mandamela per mail. Intesi?». «Certo». Uscì dalla stanza sbattendo la porta.
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4. NOTTE
«Pronto?». «Giorgio, dove sei?». «In ufficio». «Alle nove e mezza di sera?». «Devo finire una cosa urgente. E poi cosa ti importa?». «Non ci eravamo dati appuntamento qui al locale?». «No». «Sì. Ieri sera… Ma tu eri di fuori: erano le tre ed eri ubriaco per la vincita». «Michele!». «Ti dissi che ci saremmo rivisti qui alle nove e trenta di oggi. Non te lo ricordi, vero?». «No». «Comunque vieni, dai. Stasera arriva anche Scanio». «No. È già tardi». «Macchè tardi! Dai: prendi un taxi. In venti minuti sei qui». «No, devo finire una cosa. E poi non ne ho voglia». «Non volevi conoscere Scanio?». «Va bene. Arrivo. Ma non prima di mezz’ora, quaranta minuti». «OK. Sbrigati». Riattaccò e si chiese per quale motivo avesse accettato. Sì, sì, Scanio, ma il posto era senza dubbio molto discutibile. La sera prima aveva vinto, ma alla sua età comunque non poteva perdere tempo a quel modo. Aveva fatto le tre di notte e tutto il giorno si era sentito come inebetito. Era un lusso che non poteva permettersi. Al lavoro doveva essere sempre al massimo della forma. Era uno degli avvocati più importanti di Milano. Non poteva rilassarsi? No. Ricordava ancora una delle prime cose che gli aveva detto il vecchio avvocato da cui aveva fatto praticantato: «Ricordati. In questa professione non si è mai arrivati. Basta una pratica storta per mandarti in rovina».
28 Suo padre poi gli rammentava spesso un vecchio detto riguardante i commercianti, che però, a suo avviso, valeva anche per i professionisti: «La bottega vuole l’uomo morto». Significava che condurre un’attività in proprio esigeva una dedizione totale, per cui la persona doveva “morire” per essa. La conoscenza di Scanio era sicuramente un obiettivo importante, ma Michele era inaffidabile. Era capace di farlo andare di nuovo in quel locale assurdo a fargli perdere un’altra serata senza che poi Scanio si facesse neppure vivo. Aveva recuperato il fascicolo della causa Kreutzer/Vilnovo e lo stava studiando nella pace dello studio vuoto. Anzi non proprio vuoto perché ogni tanto sentiva dei rumori venire da lontano. Come un battere di tasti ma forse era un’allucinazione sonora. Comunque quel ticchettio lo urtava, come se qualcuno volesse turbare la sua quiete, intromettersi nella sua mente anche in quell’ora tarda. Ormai era diventato un esperto di laser, sapeva tutto sugli infrarossi e sulle frequenze della luce verde. Nonostante l’attesa, la sentenza non era uscita neppure in quella giornata. Verso le diciannove aveva chiamato la signora Schintz. «Abbiamo controllato in cancelleria telematica. La sentenza non è stata ancora pubblicata». Aveva riattaccato senza neppure salutare. Per placare il nervosismo, aveva adottato la consueta strategia: pensare a Daniela. L’atmosfera della sua mente cambiava immediatamente, così come la temperatura del suo corpo, e lui entrava in un mondo magico, illuminato dalla luce di quegli splendidi occhi verdi, capaci di ammaliarlo come delle pietre preziose di un tesoro inarrivabile. Spesso si era chiesto se Daniela gli piacesse proprio in virtù della sua irraggiungibilità. Era un amore irrealizzabile e per questo innocuo, non compromettente, incapace di smuoverlo dalle sue rigide abitudini da vecchio single incallito. Di nuovo il ticchettio ricomparve, lontanissimo, quasi impercettibile. Non riusciva a capire quella donna, così imperturbabile. Forse era frigida? Oppure omosessuale? Si faceva queste domande non tanto perché stupito dalla mancanza di interesse nei suoi confronti, quanto perché gli sembrava impossibile che una donna così bella non fosse stata mai sfiorata da alcun sospetto di infedeltà, neppure minimo.
29 Giorgio alzò gli occhi. Un elicottero volteggiava lontano, emettendo una luce intermittente, rossa come quella dei laser che stava studiando. Basta. Poteva andarsene. Tanto senza la sentenza era possibile fare solo congetture senza senso, inerpicarsi nelle scoscese vette dell’ansia, in bilico perpetuo sui burroni della disperazione. Chiuse il fascicolo e chiamò un taxi. Scese di fronte al locale e il taxi ripartì immediatamente. Chiamò Michele al cellulare, ma non rispose. Ti pareva! L’aveva fatto arrivare fin lì alle dieci e mezzo di sera e neanche si faceva trovare! Era veramente inaffidabile! Fu sopraffatto da un conato di rabbia tale che l’avrebbe preso a schiaffi se se lo fosse trovato davanti. Il viale grigio era assolutamente deserto, il silenzio totale. Si ricordò del ticchettio di tasti sentito in studio e gli sembrò quasi di avvertirlo anche lì. Davanti a lui la porta di metallo dell’ingresso al locale era chiusa. Faceva molto freddo. Aveva il naso gelido. Era meglio andarsene? Chiamò di nuovo Michele senza esito. Che cretino! Provò a bussare ma nessuno rispose. Guardò dal basso i palazzoni che lo attorniavano. Era finito in quel posto contravvenendo a tutte le regole di comportamento che si era dato da più di vent’anni. Sentì un clic alle sue spalle: la porta si era aperta. Entrò e si diresse risolutamente al bancone di accettazione. «Buonasera» gli sorrise allegramente un signore grasso con baffetti neri. «Lei è l’avvocato?». «Sì». «Venga con me. Michele mi ha detto di accompagnarla». Si rilassò. Michele non era completamente scemo come aveva pensato. Il signore lo condusse lungo il corridoio. Passò davanti alla porta della stanza nella quale aveva giocato a poker la sera precedente, ma tirò dritto, provocandogli un leggero dispiacere. Il tragitto fu lungo. Incontrarono un altro dipendente del locale che veniva dalla parte opposta. I due si misero a parlare. Giorgio si fermò davanti a uno specchio e gli apparve la sua distinta figura di uomo maturo. I capelli e i baffi curati, entrambi di un biondo appassito, il cappotto di cammello marrone, le scarpe lucidate.
30 L’altro era già ripartito e così dovette congedarsi dalla sua immagine, anche se controvoglia. Improvvisamente si rese conto di non avere visto se stesso allo specchio da molto tempo; tranne la mattina per farsi la barba, si intende, ma quello non contava, era solo un fatto tecnico, scrutava solo il viso per passare il rasoio senza fare danni. Invece adesso aveva visto la sua figura intera, vestita di tutto punto, e l’aveva colto una sensazione acuta di auto estraneità. Daniela lo vedeva così? Finalmente il suo accompagnatore aprì una porta e lui si ritrovò in un’antisala dove Michele stava passeggiando nervosamente. «Finalmente!» gli urlò vedendolo. «Ti sembra l’ora?». Giorgio fu colto di sorpresa: pensava di essere lui quello incazzato. «Perché?». «Ma come perché? Sono quasi le undici. I tavoli da poker sono tutti pieni. Scanio è stato in sala fino a mezz’ora fa. Adesso è sparito. Non so dove sia andato». Ti pareva! «Vieni. Dai». Lo condusse a una porta bassa con un pomello di colore rosso. Entrarono in un’ampia sala da gioco con molti tavoli, piena di persone. Giorgio restò sorpreso, non si aspettava un ambiente così vasto e chic. Riconobbe tavoli da blackjack e da roulette, il pavimento era rivestito di moquette e sembrava di scivolare lievemente, alle pareti eleganti boiserie sormontate da tende di velluto rosso. Dal soffitto, decorato con motivi floreali, pendevano giganteschi lampadari di vetro che illuminavano quasi a giorno la grande sala. Michele si mise a girare freneticamente lungo tutta la sala e Giorgio faticava a stargli dietro. Controllò tutti i tavoli, scrutò tutti i gruppi di persone, sia in piedi sia seduti. Alla fine si arrestò. Aveva la fronte sudata. «Scanio non c’è più» disse allargando le braccia. «Dove sarà andato?». Era veramente rammaricato o stava recitando una scena? Non sapeva come giustificare l’assenza di Scanio per la seconda sera consecutiva? «Lo sapevo che non sarei dovuto venire» disse Giorgio in modo secco. Michele si irritò oltre misura. «Aaaah … allora arrangiati!». Così dicendo se ne andò, lasciandolo disorientato. Era così irritato che non tentò neppure di seguirlo.
31 Che se ne andasse al diavolo! Dov’era l’uscita? Doveva andarsene immediatamente. Non poteva sopportare la propria presenza in quel posto insensato, frequentato da perditempo, gente che aveva avuto la vita facile, che vagava nel mondo senza alcuna consapevolezza dei prezzi da pagare; oppure era disposta a pagare un prezzo molto salato. Ma lui no! Al tavolo della roulette, che aveva di fronte, una robusta signora cinese stava scandendo parole incomprensibili, ma sicuramente offensive, a un croupier che le sorrideva in modo beffardo. Un signore corpulento intanto piazzava le proprie fiche in tutti i numeri, anche in misura doppia e tripla. Che assurdo! Puntare su tutti i numeri! Quella gente gli dava il voltastomaco. A un tratto un boato giunse dal tavolo alle sue spalle. Istintivamente si avvicinò. «Che succede?» si chiese ad alta voce. «È la terza volta consecutiva che esce il quattro» gli rispose un signore biondo di mezza età, vestito elegantemente, con un farfallino blu. «Ma lei… è l’avvocato Merani. L’ho vista in televisione», così dicendo gli tese la mano. «Piacere. Sono il Conte Augusto Derinis». Parlava con un ritmo lento ma accattivante, cadenzato da una leggera erre moscia. «Anche lei ha la febbre del gioco, eh?». «No, guardi, sono qui per caso. Un caso sfortunato per la precisione». «All’inizio tutti la pensano così. Ma non è mai un caso». Giorgio sorrise per non contrariare il Conte, non voleva iniziare una conversazione troppo impegnativa. «Lo sa che il quattro è per i cinesi un numero sfortunato? Perché la parola quattro in mandarino è molto simile alla parola morte». Giorgio lo guardò colpito. «Invece quel signore anziano che vede seduto in fondo ci ha fatto un sacco di soldi. Vede? Ha puntato ancora sul quattro». «Rien ne va plus» urlò il croupier. Nonostante ciò alcuni giocatori continuarono a puntare, fino a quando il croupier dovette passare la propria mano sopra la tavola in segno di interdizione. La pallina stava girando a folle velocità. Tutti guardavano in silenzio. Poi la velocità si attenuò e la sfera ricadde verso l’interno della ruota. Cominciò a schizzare nella parte bassa, urtando nei piccoli pezzetti di
32 plastica che separano un numero dall’altro. Perse ancora velocità fino ad avvicinarsi al quattro. Entrò nella casella del 19, ne uscì ed entrò in quella del 4, ma uscì anche da questa per fermarsi in quella del 21. «Ventuno rosso!» urlò il croupier. «Conosce Bonaparte?». «Napoleone?». «No» rispose il Conte ridendo. «Charles Lucien Jules Laurent Bonaparte». «Chi?». «Il nipote di Napoleone, Principe di Canino» rispose il Conte, facendogli cenno di allontanarsi dal tavolo. «Era un ornitologo, grande esperto dell’avifauna collinare europea». Giorgio pensò che il Conte doveva essere un po’ svitato. «Una notte una civetta gli disse di andare a puntare al Casinò di Bad Homburg. Sa, in Germania». «Una … civetta … gli disse?». «Sì, in sogno». «Ah!». Erano arrivati all’ingresso di una stanza di vetro riservata ai fumatori. «Le dà noia se entriamo? Vorrei fumare un sigaro». Giorgio annuì. Ma non doveva andarsene? Sì, sì, fra poco se ne sarebbe andato, ma adesso quello strano personaggio lo incuriosiva. «Insomma le dicevo, una civetta gli disse di puntare quaranta volte consecutive sul rosso e sul nero alternativamente. Prima il rosso e poi il nero, poi ancora il rosso e così via. Capisce?». «Sì, sì. E lui che fece?». «Andò a Bad Homburg. Si presentò al Casinò alle 21,40 del 26 settembre 1852. Quella sera c’era anche il mio bisnonno ai tavoli, il Conte Edoardo Derinis. Riconobbe subito Lucien Bonaparte perché lo aveva visto a Roma, ai tempi della Seconda Repubblica». «E cosa successe?». «Puntò i massimi per quaranta volte consecutive sul rosso e sul nero alternativamente. Vinse quasi sempre. Poi continuò a puntare sempre ai massimi sul rosso e sul nero. In quattro giorni sbancò il Casinò. Dovettero chiudere». «No!». «Sì, quaranta è quattro per dieci. Capisce? La maledizione del quattro!». «La benedizione!».
33 «Nel caso di Bonaparte sì, ma lo sa perché?». Giorgio seguiva l’eloquio del Conte, che intanto si era acceso un sigaro marrone, piccolo e lungo. Parlava in modo che tutto sembrasse semplice e piacevole. Si rese conto che avrebbe potuto parlargli di qualsiasi cosa e che lui sarebbe potuto stare lì ad ascoltarlo per ore. «Ci fu una riunione della dirigenza del Casinò. Si parlò di ridurre i massimi di puntata o addirittura interdire l’accesso ai tavoli a Lucien Bonaparte. Alla fine invece fu deciso di prendere un grosso prestito in banca e riaprire il Casinò, per non rischiare un ritorno negativo di immagine. E sa cosa successe?». «No». «Quando il Casinò riaprì, Lucien Bonaparte non si presentò. Se n’era andato. Ecco la mossa geniale! Se fosse tornato a giocare sicuramente avrebbe perso tutto. Nella roulette alla lunga le probabilità sono sempre a favore del banco. Si può vincere solo in sessioni limitate di gioco». «Sì, sapevo della probabilità favorevole al banco». «Comunque Lucien vinse su una sequenza discontinua. Rosso, nero, rosso, nero e così via. Cosa le dice questo?». «Non so». «Che l’andamento è discontinuo. Bisogna puntare sulla discontinuità?». «Questo in apparenza» rispose Giorgio. «Perché lui sapeva della sequenza di discontinuità dalla civetta. Sapendolo in anticipo non è più discontinuità, ma una forma di continuità». «Ottima osservazione. La discontinuità esiste solo se percepita a posteriori. Quindi tutto dipende dal modo in cui gli eventi vengono da noi conosciuti e valutati». La parlata del Conte aveva qualcosa di magico. Improvvisamente Giorgio si era rilassato. Aveva dimenticato Christian, il laser verde, Scanio e l’inaffidabilità di Michele. Quei discorsi sul quattro e su una civetta parlante lo avevano trascinato in un’altra dimensione. «Ma non è sempre così» rilanciò il Conte. «Cosa?». «Conosce il caso di Charles Wells? Un truffatore inglese vissuto pochi anni dopo Lucien Bonaparte. È molto famoso». «No, non lo conosco». «Si presentò al Casinò di Monte Carlo per puntare un po’ di soldi che aveva sicuramente ricavato da qualche truffa. Puntò per cinque round consecutivi sul numero cinque. Cinque sul cinque. Si rende conto?».
34 «Sì. E allora?». «Uscì il cinque per cinque volte consecutive». «Cavolo!». «Questa storia depone a favore della continuità e devo dire che è la linea che personalmente preferisco». «In che senso?». «Non mi chieda perché, ma i numeri si ripetono e così anche i colori e il resto. C’è una tendenza naturale alla ripetizione. L’ho riscontrato con l’esperienza, giocando molto». Sembrava che tutto quello che diceva il Conte fosse una verità evidente, incontestabile. Giorgio non poteva che convenire. «Basandosi su quella enorme vincita Wells continuò a giocare e se ne andò avendo accumulato una fortuna. Però non fece come Lucien Bonaparte. Due mesi dopo tornò a Montecarlo a bordo di un lussuoso yacht. Andò al casinò e perse tutto». «Bisogna saper smettere dunque». «Sì, ma è veramente difficile. Il caso di Bonaparte è raro». Giorgio pensò, infatti, che, venendo al locale, aveva sperato di tornare al tavolo del poker, dove aveva vinto la sera prima. «Questo perché il gioco diventa più importante del risultato. La mente umana è portata a sfidare la sorte. Ci immedesimiamo in quella pallina che rimbalza, fino a sentire quasi sulla nostra pelle i suoi urti, la sua velocità, la placidità con la quale alla fine si accomoda in una casella. Lasciare il tavolo per sempre è un po’ come morire. È il quattro della nostra vita». La stanza si era riempita di molti fumatori, che aspiravano le proprie sigarette in modo nervoso. Chissà quanto avevano perso. Giorgio guardò l’orologio. Erano passate le due. Anche qualla sera aveva fatto molto tardi. Salutò il Conte e si diresse verso l’uscita. All’ingresso gli fu consegnato un biglietto. «Domani sera appuntamento con Scanio alle 21,30. Sala verde. Michele. PS: scusa per stasera».
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5. GIORNO
Giuseppe era proprio invecchiato, con i solchi nel viso e i capelli sempre in disordine. Gli faceva quasi pena. «Non mi avevi detto niente di Denvieri» disse Giorgio. «Ma come no?!» urlò Giuseppe, sentendosi vittima di una grave ingiustizia. «Tu non mi ascolti. Non ascolti mai». «Va bene. Non ti arrabbiare». Giuseppe si calmò. «Comunque non me lo ricordo. Ci credo che me l’hai detto, ma non me lo ricordo». Alludeva al Sottosegretario Denvieri che Giuseppe asseriva essere stato colui che aveva introdotto Christian nel loro studio. Il suo socio lo guardava attonito. Sembrava fissare qualcosa dietro la scrivania di Giorgio, come ipnotizzato. «Resta il fatto che è stata una pessima scelta». La faccia di Giuseppe si raggrinzò, mettendo ancora più in risalto la sua vecchia cravatta di colore marrone, ornata di piccole lettere G, come la sua iniziale. «Sei ingiusto. Christian è molto bravo. Studia le cause seriamente ed è sempre presente in studio». «Ma cosa dici?» rispose Giorgio, con riso di scherno. «I suoi interessi sono al di fuori dello studio. È sempre a giocare a tennis o a squash, o come diavolo si chiama. Mi dicono che tutte le sere fa tardi a feste private o in discoteca». «Questa è la sua vita privata, non ti deve interessare». «Infatti non mi interessa, se non fosse che la mattina arriva tardi in studio, è spesso assonnato. Il pomeriggio poi mentre tutti gli altri sono qui alle 15, lui spesso arriva alle 15,30 o più tardi perché viene dal Club del tennis». «Non è vero, sarà successo una o due volte. Tu esageri. Sei ingeneroso». «Non esagero affatto. Ti scoccia ammettere che hai preso una persona sbagliata…».
36 «È giovane, Giorgio» rispose Giuseppe con un tono lamentoso. «Anche noi, quando avevamo la sua età…». «Ma non dire cazzate!» urlò Giorgio. «Alla sua età, noi ci facevamo un culo così» aggiunse facendo il verso con le mani. «Non sai neanche cosa dici? Ti sei dimenticato quante serate siamo stati in studio fino a mezzanotte? I sabati? Le domeniche?». «Sì, hai ragione» rispose Giuseppe, abbassando la testa. «Per questo lo studio è diventato importante. Perché qualcuno si è fatto il mazzo. E ora?». Un elicottero della polizia rombava fuori della finestra, facendo tremare i vetri. «Ora arriva un giovinastro e pretende di diventare un grande avvocato lavorando appena sei, sette ore al giorno, passando da una festa all’altra». «Oggi non sono più tempi come i nostri. Chi rifarebbe i sacrifici che abbiamo fatto noi? Nessuno. Non puoi riprendertela con Christian». Il rumore dell’elicottero era diventato talmente forte che dovettero interrompersi. «È diventato il tuo capro espiatorio» volle aggiungere, ma Giorgio lo capì soltanto guardando il labiale. L’elicottero passò. «Tu non ti rendi conto» disse Giorgio, alzandosi in piedi e dirigendosi verso la finestra. Si appoggiò al davanzale, girandosi verso Giuseppe, che era rimasto seduto davanti alla scrivania. «Una persona che dà il cattivo esempio può significare la rovina dello studio. Finora ci siamo retti grazie all’impegno assoluto di tutti. La vita professionale è dura. Lo sai. È una guerra contro tutti: i clienti, i colleghi, i giudici e… chi più ne ha più ne metta. Non si possono prendere le cose alla leggera». Prese a incedere di nuovo verso la scrivania. «Le colpe non sono tutte di Cristian. Lo so bene. Ma lui sta esagerando. È diventato la punta dell’iceberg. È un viziato, abituato alla vita facile. Non è adatto al nostro studio». «Stai divagando però. Oggi Christian va giudicato a partire dalla causa Kreutzer/Vilnovo. Hai letto le memorie difensive? Mi sembrano scritte bene». «Sì, sì…».
37 «La nostra tesi è esposta in modo preciso: un brevetto non protegge la funzione realizzata, ma la tecnica che consente si realizzarla. È spiegato bene. Vengono poi citate le sentenze della Cassazione». «Sì, le ho lette e rilette. Forse non si sofferma abbastanza sulle differenze tecniche fra il laser rosso e quello verde. Non si mette abbastanza in risalto la differenza sostanziale fra le due tecnologie». «Ma dai! Questa è una questione tecnica! L’ha esaminata il nostro consulente di parte, no?». «Sì, ma io comunque ci avrei dedicato più spazio anche nelle memorie giuridiche». «Ti stai arrampicando sugli specchi, Giorgio» disse Giuseppe in modo enfatico, guardandolo negli occhi. «Per capire bene cosa sia successo bisogna aspettare che esca la sentenza. Ma sono sicuro che qualcosa non è andato. Non si può perdere una causa così semplice. Tu non l’avresti mai persa». «Allora chiamiamolo. Diamogli la possibilità di difendersi». «Ci ho già parlato». «E allora?». «Non mi ha detto niente di preciso…». «Insisto per chiamarlo». «Va bene» rispose Giorgio, porgendogli la cornetta che aveva estratto dal telefono. «Faccio prima ad andare a cercarlo nella sua stanza». Così dicendo uscì, lasciando aperta la porta. Giorgio si accasciò sulla poltrona. Era affezionato a Giuseppe e gli dispiaceva discuterci, anche se lo considerava un ingenuo, uno che si fidava troppo degli altri, mentre la direzione di un grosso studio avrebbe necessitato di un altro passo. «Christian non è in studio» disse rientrando. «Immaginavo» rise Giorgio. «Lo chiamo al cellulare». «Come vuoi». Giuseppe compose il numero. «Pronto? Sì, e allora? Ah…». Chiuse la telefonata, restando in silenzio. «Allora?» chiese Giorgio. «Ma…». «Dai! Dimmi!».
38 «È a giocare a tennis». Giorgio fece una risata sforzata. «Non avevamo vista l’ora» aggiunse Giuseppe visibilmente imbarazzato. «Sono le tredici e trenta». «Le tredici e trenta?» replicò Giorgio serio. «Ora ti faccio una domanda: saresti andato a giocare tu dopo avere appena perso una causa come questa?». Giuseppe abbassò la testa. «Allora?». «No» sospirò infine. Fra di loro piombò il silenzio. Giorgio si sentiva come dopo aver vinto una causa. La dimostrazione della superficialità di Christian era ormai evidente. Il suo sguardo incrociò il Buddha nero sulla libreria, preso nella sua posizione della meditazione, con le ginocchia incrociate e le mani in grembo, come se anche lui pensasse a questa vicenda. Sensazioni di oriente invasero la sua mente, confondendosi con l’immagine di Christian e con l’austera figura di Giuseppe. Un antico samurai doveva prendere atto della propria decadenza, salutare l’ultima volta con dignità e accettare la piega degli eventi. Il rito richiedeva il silenzio, un silenzio religioso, denso di tensione, che si poteva espandere fino a inglobare la sua stanza, se non lo studio intero. Lievi fruscii accompagnavano rosei bagliori del sole al tramonto, mentre l’odore dolciastro dell’aria umida riempiva i suoi respiri. Nel pomeriggio arrivò la sentenza. Giorgio aprì il file con trepidazione. Andò subito alle conclusioni: la Kreutzer veniva condannata a pagare più di quindici milioni di euro! Una catastrofe. Cominciarono a venirgli delle palpitazioni. Prese a leggere il testo, ma gli occhi gli si intrecciavano e non riusciva a seguire il filo del discorso. Chiuse le palpebre. Quella sentenza poteva significare la rovina dello studio! Stette alcuni minuti al buio, cercando di concentrarsi su una reazione. Quando aprì gli occhi, cercò di guardare quel documento con più freddezza e notò allora che il testo era lungo appena cinque pagine. Se si toglieva l’intestazione, il dispositivo finale e la ricostruzione dei fatti, restavano poco meno di due pagine. Quella era la sentenza! Si mise a leggere parola per parola lentamente.
39 “La Kreutzer ha realizzato e successivamente commercializzato un laser verde per il taglio dei diamanti. La Vilnovo sostiene che si tratta di una contraffazione del laser a luce rossa della quale detiene il brevetto e chiede un risarcimento del danno nella misura pari a venti milioni di euro, pari al calo di vendite del proprio prodotto verificatosi nel periodo successivo all’immissione sul mercato del laser della Kreutzer”. Alla fine della prima pagina delle motivazioni aveva potuto leggere solo banalità. Girò pagina, quindi, cercando qualcosa di più significativo. “La consulenza tecnica ha dimostrato che la tecnologia di produzione del laser a luce verde è molto simile se non identica, a quella brevettata da Vilnovo, di produzione del laser rosso”. Cosa! La consulenza? La sentenza si concludeva poi con una condanna basata su una valutazione del danno. “In assenza di determinazioni del consulente tecnico, si prende a base della valutazione del danno la relazione prodotta dalla Vilnovo sulla diminuzione del proprio fatturato, basata sui libri contabili. Il venticinque per cento delle perdite può essere imputato a cause fisiologiche ed estranee alle commercializzazioni dei prodotti Kreutzer. Pertanto si determina l’entità del danno da risarcire in misura pari al settantacinque per cento delle somme stimate dalla Vilnovo”. Corse subito a prendere il fascicolo di studio e cercò la relazione del consulente tecnico d’ufficio. Qualcosa gli era sfuggito? Prese la relazione con foga. Andò alle conclusioni. Dalla concitazione non riusciva ad aprire l’ultima pagina. Per quanto provasse, continuava a restare appiccicata alla penultima pagina. Allora diede uno strattone con forza, tanto da lacerare la carta nella parte sinistra. Finalmente però la pagina si aprì. “Per questi motivi si può concludere che il processo di produzione del fascio fotonico di colore verde è tecnicamente differente dalla tecnologia di generazione del laser a luce rossa”. Com’era possibile? Il giudice non aveva letto bene le conclusioni del suo consulente tecnico? Si alzò in piedi.
40 La causa aveva aspetti tecnici di difficile comprensione che avevano portato il giudice a commettere un errore grossolano? Si fermò a guardare fuori dalla finestra. Il tram arancione stava in sosta accogliendo i passeggeri che salivano di fretta. Capì di avere avuto ragione: sarebbe stato opportuno diffondersi maggiormente, nelle memorie difensive, sulle differenze tecniche fra i due tipi di laser. Quanto meno sarebbe servito a richiamare l’attenzione del giudice e rendere più improbabili eventuali errori. Il giudice si era sbagliato a interpretare la relazione del suo consulente tecnico, ma avrebbe potuto accorgersi del suo errore se la difesa della Kreutzer avesse richiamato la sua attenzione sulle questioni tecniche. Riprese nuovamente gli scritti difensivi redatti da Christian e riscontrò che la descrizione tecnica delle differenze fra i due tipi di laser occupava poco più di mezza pagina. Questa carenza aveva sicuramente influito sull’esito finale. Chiamò subito la dottoressa Schintz e le spiegò che il giudice aveva commesso un errore. Quando gli disse l’entità del risarcimento dovuto, lei riattaccò. Giorgio dovette richiamare più volte prima che la signora gli rispondesse. Cercò allora di convincerla che, con un errore così grossolano, c’erano buone possibilità di ottenere la sospensione della sentenza in appello. La Schintz stette ad ascoltarlo in silenzio poi riattaccò, anche stavolta senza salutare. L’estremo abbattimento lo spinse a un gesto estremo. Chiamò la sua segretaria e le disse di convocare una riunione immediata dello studio. Il salone delle riunioni plenarie si riempì velocemente perché tutti sapevano, più o meno, quale sarebbe stato l’argomento e una sottile linea di angoscia percorreva l’atmosfera. Arrivò Giuseppe che si mise dietro al tavolo assieme a Giorgio, mentre tutti gli altri si stavano accomodando nelle file di sedie disposte nella sala. «Ma cosa è successo?» gli bisbigliò subito. «Ora lo vedrai. È arrivata la sentenza». «Potevi avvertirmi prima di convocare la riunione. No?». «È un’emergenza». Giuseppe si mise a sedere palesando la sua irritazione.
41 Entrò Daniela con un incantevole vestito rosso scuro, salutando con la mano. Giorgio avvertì un tuffo al cuore. Poi arrivò sua figlia con la faccia seria; infine anche Christian con un mezzo sorriso. La segretaria chiuse la porta e tutti si misero a sedere. Nel momento stesso in cui doveva iniziare a parlare, Giorgio capì di aver fatto un grave errore. Aveva scelto di indire quella riunione in modo avventato, quando le cose ancora non erano del tutto chiare, rischiando così di sostenere tesi che avrebbero potuto essere smentite, specialmente da coloro che conoscevano la causa Kreutzer/Vilnovo meglio di lui. Si concentrò allora sull’immagine di Christian che stava parlando allegramente, o così almeno a lui parve, con il suo vicino di sedia, placido, sereno, come se la cosa non lo riguardasse. «Ho ritenuto opportuno convocare questa riunione d’urgenza» iniziò con tono alto, ma, nonostante ciò, Christian continuò a parlare imperterrito. «Scusate! Si può fare un po’ di silenzio! Tanto la riunione durerà poco». Il silenzio piombò nella sala consegnando a Giorgio il massimo della responsabilità Illustrò la situazione, parlò della grave sconfitta, del fatto che lo studio rischiava grosso, anche una causa per responsabilità professionale. Fino a lì se l’era cavata ma adesso sarebbe arrivata la parte più difficile: come coinvolgere Christian nel discorso? Giorgio parlò del presunto errore del giudice. «È evidente che un tale errore dipende in primo luogo dal superficiale e negligente operato del magistrato. Eppure in parte è dovuto anche a una carenza delle nostre memorie difensive. In parte minoritaria, s’intende. Tuttavia la questione tecnica delle differenze fra i tipi di laser non appare sufficientemente sviluppata nei nostri scritti. Vista la gravità della situazione tutto questo non potrà restare senza conseguenze. Certo valuteremo attentamente tutti gli atti, non abbiamo intenzione di pervenire a conclusioni affrettate; ci prenderemo tutto il tempo per analizzare la questione, interpellando anche gli interessati». Riuscì a non nominare Christian ed evitò pure di lanciare gravi accuse, come invece aveva avuto intenzione di fare quando aveva deciso di indire quella riunione. Aveva capito che non ce n’era bisogno perché già in quel modo, con precise allusioni, il segnale era stato lanciato, in modo forte e chiaro. «È tutto, vi ringrazio, ci rivedremo presto». Attesero qualche attimo in silenzio. Christian non si mosse.
42 Giorgio invece si alzò, con l’intenzione di uscire, ma Daniela prese la parola. Dovette rimettersi a sedere. Daniela si alzò in piedi e la sua magnifica silhouette attirò l’attenzione magnetica di tutta la sala, anche quella delle donne. «Capisco che la situazione è grave, soprattutto in relazione al rapporto con il nostro patrocinato. La Kreutzer non è un cliente abituale di questo studio e quindi il rapporto fiduciario è debole. È giusto quindi preoccuparsi e hai fatto bene a indire questa riunione. Devo dire però, avendo letto la sentenza, che l’errore del giudice appare evidente. C’è un punto fondamentale nel quale si capisce bene il vero motivo dello sbaglio. A pagina 2, laddove si riepiloga lo svolgimento del processo, è scritto che la relazione del consulente tecnico è stata depositata in data 12 aprile 2015 mentre in realtà la data vera del deposito è il 29 di aprile. Questo è molto significativo perché il 12 aprile il consulente aveva depositato per errore solo la prima parte della sua relazione, che finiva proprio esaminando le similitudini fra i due tipi di laser. Accortosi dello sbaglio, poi il consulente ha depositato la relazione integrale il 29 aprile. Poiché la sentenza cita invece la data del 12 viene da pensare che il giudice abbia basato la sua decisione solo su tale parte di relazione. Questo appare confermato poi proprio dal fatto che in sentenza i due laser vengono giudicati simili, proprio come concludeva tale parte della relazione. Anche alla luce di questo aspetterei a parlare delle responsabilità interne a questo studio. Cercherei di restare uniti in un momento così difficile». Così concludendo si rimise a sedere. Giorgio andò in affanno, avvertì un peso sul petto che lo schiacciava. Era stato imprudente, avrebbe dovuto riparlare con Daniela prima di indire quella riunione. Anche Giuseppe aveva ragione a essere irritato poiché era stato scavalcato da quel suo gesto. La causa era stata gestita da un membro dello studio facente parte del suo gruppo e dunque sarebbe spettata a lui l’iniziativa. I momenti di silenzio che seguirono parvero preludere a una dissoluzione. Christian rideva beato con i suoi capelli dorati, Daniela lo guardava dai suoi bellissimi occhi verdi, Giuseppe si teneva la testa fra le mani. Doveva dire qualcosa. Doveva replicare sennò la sua credibilità sarebbe stata compromessa. Avrebbe trionfato Christian e la sua condotta superficiale e spensierata avrebbe preso il sopravvento, snaturando
43 l’impostazione che aveva dato a quello studio in più di vent’anni di lavoro. Doveva dire qualcosa, doveva, ma non riusciva a reagire. Si sentiva annientato. Ormai era giunto al limite estremo. Se non avesse aperto bocca nei prossimi venti/trenta secondi, tutti si sarebbe alzati per andarsene. Doveva dire qualcosa. Ma cosa dire? Come cominciare. «Ehm...» sussurrò, come a dire: “Sto per parlare. Non andatevene”. A sorpresa invece si alzò sua figlia. «Mi sembra che quello che ha detto Daniela sia molto importante. Io sono una degli ultimi arrivati ma credo di poter dire che non è la prima volta che ci troviamo di fronte a un grave errore del giudice». Portò vari esempi di errori commessi nel passato che le erano stati riferiti in studio. «Conosco Christian», era la prima a fare il suo nome. «Ho avuto modo di apprezzarlo più volte. È un collega scrupoloso e preciso. Sono sicura che ha redatto le memorie difensive nel migliore dei modi. Mi sento dunque di spezzare una lancia a suo favore». Elisa era innamorata di Christian? Con quel gesto si era liberata del suo Edipo? Forse anche Daniela aveva un debole per Christian? L’oppressione aumentò ancora di più, così come la spinta a parlare, a dire finalmente qualcosa. Si alzò in piedi in modo imperioso. «Prendo atto delle vostre precisazioni che sono senza dubbio importanti. Avevo parlato già io della necessità di approfondire le questioni. Tuttavia…», guardò Daniela e poi Christian, «tuttavia non vedo elementi che possano farci cambiare in modo radicale il giudizio. Siamo di fronte a un grave errore del giudice…». Il silenzio era piombato nella sala e tutti erano diventati immobili, come pietrificati. Giorgio sentiva rimbombare la sua voce come l’unico elemento in movimento che reggeva la dinamica del tempo, il motivo per cui tutti ancora se ne stavano lì, fermi ad ascoltare. «Ma non si può negare che se le memorie fossero state scritte meglio, insistendo di più sulle risultanze della consulenza tecnica…». Avvertì un brusio nella sala, pur non riuscendo a identificarne la provenienza. Apparentemente tutti erano ancora fermi nelle loro posizioni, senza aprire bocca, ma, nonostante questo, un mormorio di disapprovazione si stava insinuando come un serpente velenoso che gli
44 rendeva estremamente difficile finire il ragionamento. Eppure Giorgio resisté, si arroccò sulle sue parole, riuscì a terminare il proprio discorso, alzando il tono della voce, per evitare che gli mancasse il fiato e la frase si interrompesse, contrastando il dubbio che quel brusio provenisse anzitutto da dentro di sé. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD