Laura Agosteo
GLI ATTIMI DELLA MIA VITA
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CLI ATTIMI DELLA MIA VITA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2011 Laura Agosteo ISBN: 978-88-6307-365-2 In copertina: Immagine Shutterstock.com
Finito di stampare nel mese di Giugno 2011 da Logo srl Borgoricco - Padova
Laura Agosteo
GLI ATTIMI DELLA MIA VITA
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CAPITOLO 1
Contai lentamente fino a dieci, prima di varcare la porta dell’ufficio direzionale. Non sapevo quello che Hartman voleva dirmi. La sua segretaria mi aveva telefonato la sera prima ed era stata molto vaga nella sua comunicazione. «Il Signor Hartman vuole vederti domani mattina appena arrivata in ufficio. Si tratta del caso Ton Bon. Ora ti saluto, non vedo l’ora di andarmene a casa. A domani». Aveva interrotto velocemente la comunicazione. Povera Sarah. Essere la segretaria di Hartman era un compito veramente difficile. Se da un lato il tipo di lavoro che svolgeva era molto interessante e molto ben retribuito, dall’altro richiedeva molto impegno e dedizione, ignorando i canonici orari di lavoro, che dovevano necessariamente essere molto elastici. Sarah era la segretaria che ci voleva per Hartman. Non era sposata, un’età oltre i quaranta anni e una vita interamente dedicata alla carriera. Le sue mansioni di assistente andavano al di là dei classici compiti di segretaria. Era la persona di fiducia del direttore generale e Hartman ne riconosceva i meriti. La mia agitazione doveva proprio trasparire da tutti i pori, perché Sarah mi disse: «Marina, siediti un attimo. Se vuoi aspetto ad annunciarti.» «No, va tutto bene. Solo vorrei che fosse già tutto finito.» Solo da qualche mese ero diventata la responsabile del mio ufficio, coordinatrice di una squadra di quattro persone, e quello era il mio vero primo mandato. Fino a quel momento, infatti, mi ero limitata a portare a termine quanto aveva lasciato a metà il mio predecessore. Avevo lavorato sodo per riuscire a far assegnare al mio ufficio l’incarico per i suggerimenti pubblicitari del Ton Bon e non sapevo ancora se proprio la mia equipe avrebbe portato avanti il progetto. Dei tre uffici di progettazione uno solo sarebbe stato il prescelto. Una competizione che Hartman aveva espressamente voluto per saggiare le potenzialità e l’affiatamento delle proprie squadre, stimolate in questo modo a offrire la migliore competenza professionale.
6 Avevo preparato tutto il materiale per la prima selezione, che avrebbe effettuato il Direttore Generale in persona. Quel nuovo cliente doveva essere molto importante se Hartman stesso aveva voluto curare la fase preliminare del lavoro. Per questo, quando seppi che Hartman voleva vedermi, non stavo più nella pelle. Quando Sarah mi annunciò, la voce che rispose attraverso l’interfono, artefatta dall’amplificatore, sembrò ancora più austera. Fissando la targa appesa alla pesante porta che mi separava dall’ufficio del Direttore, sospirai profondamente ed entrai. Yaron Hartman era un uomo sulla cinquantina, stempiato e robusto, di nazionalità ebrea. In dieci anni era riuscito a ottenere una reputazione di tutto rispetto in Francia e in molte parti dell’Europa nel campo della pubblicità. I successi sorprendenti avevano galoppato in maniera esponenziale e le agenzie sul territorio francese, e quella di Parigi in particolare, erano molto ambite dalla clientela, che vedeva ormai nel nome della nostra azienda una garanzia di ottimi risultati. La sede principale di Parigi era senza dubbio tecnicamente la migliore. Con stupore mi accorsi che Hartman non era solo. Insieme a lui altri due uomini stavano discutendo, in inglese, e mi sorrisero mentre Hartman mi presentò con parole, notai, inaspettatamente lusinghiere. Dirigenti di una nota agenzia pubblicitaria svizzera, i due uomini erano in visita ufficiale da Hartman per discutere di una collaborazione con la nostra agenzia di Lione che avrebbe potuto costituire una sede di interscambio delle rispettive opportunità di inserimento nei reciproci mercati. L’agenzia di Lione avrebbe potuto ampliare la scarsa operatività dell’ultimo biennio e la nostra azienda avrebbe potuto approfittare di questa opportunità per l’avanzata verso il mercato Europeo, mentre viceversa la società svizzera poteva contare della spinta verso il mercato francese. Se non avevo capito male, qualche amicizia comune tra i dirigenti delle società aveva fatto in modo che si creasse questa associazione virtuale di reciproco supporto. Il mio inglese non era propriamente dei più fluenti, ma seppi sostenere la conversazione quando mi vennero rivolte alcune domande che riguardavano i miei trascorsi professionali e l’attuale occupazione. Dopo un’interminabile mezz’ora, i due uomini se ne andarono e, nonostante gli sforzi, non sapevo come spiegarmi la mia presenza in quella riunione. «Signora La Roche» cominciò Hartman prendendo posto sulla poltrona accanto alla mia «so che lei si starà chiedendo per quale motivo io
7 l’abbia convocata qui alla presenza degli amici svizzeri. Le ruberò un po’ di tempo e mi scuso se sarò prolisso, ma quello che ho da dirle merita un po’ di approfondimento, soprattutto perché lei possa capire e giudicare meglio. Lei ha compiuto un ottimo lavoro con il Ton Bon, che le viene assegnato senza ombra di dubbio. Al di là di questo, tengo a dirle che il lavoro che lei ha svolto fino a oggi e anche prima del Ton Bon è stato buono e degno di merito. Per questo lei è stata promossa a capufficio ed è ora con piacere che ho da farle un’interessante proposta.» Ormai non lo ascoltavo più, o meglio, le mie orecchie sentivano le sue parole ma io ero come paralizzata. Hartman parlò per almeno un’ora e quando uscii dal suo ufficio non sapevo se credere a quello che avevo ascoltato o pizzicarmi per sincerarmi che tutto ciò non fosse un sogno. Sarah mi guardò camminare, sorreggendomi con le mani alle pareti dello stretto corridoio fino all’ascensore. Giunta nel mio ufficio, richiusi la porta dietro di me e mi accomodai sulla mia poltrona, incapace di farmi una ragione di quanto poteva essere accaduto. Presi istintivamente il telefono e composi meccanicamente un numero. «Società La Roche, buongiorno.» rispose una voce squillante dall’altra parte del filo. «Buongiorno, sono Marina La Roche, posso parlare con mio marito, per favore?» «Subito signora; solo un istante.» La musica dell’attesa del centralino mi permise di raccogliere le idee e di pensare a come poter cominciare il discorso. «Ciao amore.» disse una voce profonda e sorpresa «Alain, sono tremendamente confusa. Pranziamo insieme oggi? Ho bisogno di parlare con te, ma non per telefono.» «Mary, io parto tra mezz’ora e torno solo stasera. Devo andare a Digione per quel contratto di cui ti ho parlato ieri sera, ricordi? È davvero così urgente?» Non era urgente, ma avevo bisogno della sua presenza per ritrovare la sicurezza che lui mi infondeva quando qualcosa o qualcuno metteva a dura prova il mio autocontrollo. «Non importa, Alain. Cercherò di sopravvivere fino a stasera. Però torna presto, ho bisogno di te.» «Aspettami amore. Farò prima che posso. Ciao.»
8 Trattenni ancora qualche secondo la cornetta. La sua voce calda e tranquilla mi aveva trasmesso un po’ di sollievo, tanto da riuscire a riordinare le idee e riprendere in pugno la situazione. Tutto quello che ci eravamo detti con Hartman doveva rimanere riservato, almeno fino a quando non avessi preso una decisione. Spalancai decisa la parte intercomunicante con la mia redazione tecnica ed esclamai: «Il Ton Bon … è nostro!» L’entusiasmo dei miei collaboratori e il frenetico inizio della campagna pubblicitaria fecero trascorrere il tempo come in un soffio e accantonai le mie preoccupazioni, ritrovando lo spirito e la grinta di sempre. Comparse, fotografi e sceneggiatori mi avevano intervallato turbinosamente la giornata, permettendomi di congedarmi dal maestoso palazzo “Hartman & Co.” con la certezza di aver trovato una buona impostazione della campagna. Percorsi in un lampo la strada che mi divideva dalla mia accogliente casa alla periferia di Parigi. La villetta che io e Alain abitavamo era la stessa acquistata qualche anno prima da me e Sophie. Quest’ultima, dopo il suo matrimonio con Marcel, si era trasferita sulla costa normanna, dove Marcel aveva un avviato studio tecnico e dove Sophie aveva dato alla luce due splendidi gemelli, abbandonando definitivamente la sua carriera di pubblicitaria, nata insieme alla mia negli uffici della Hartman & Co. Ci sentivamo spesso, io e Sophie. Tra noi c’era un legame che nemmeno i chilometri avevano potuto spezzare. L’amicizia che era nata e che ci aveva aiutate insieme a superare tantissime difficoltà aveva abbracciato anche i nostri due rispettivi mariti. Alain e Marcel si intendevano a meraviglia e inoltre, avendo attività che in un certo modo erano collegate, riuscivano a scambiarsi cortesie di lavoro anche a distanza. Georges era un rampante impresario edile alla direzione di una fiorente ditta di costruzioni che operava ormai in tutta la Francia. Marcel con il suo studio tecnico, specializzato anche in rilevazioni geologiche, collaborava con lui ogni qual volta Alain ritenesse necessari dei controlli sulle zone a lui proposte per edificare. Dal canto suo Marcel richiedeva la collaborazione di Alain quando se ne presentava l’occasione. In casa non c’era nessuno, naturalmente. Era presto e Alain non era ancora rientrato. Ebbi tempo per una doccia e per fare un colpo di telefono a Sophie. Forse saremmo riusciti a raggiungerli per il week-end. Volevo parlare anche con Sophie di quello che mi si proponeva e due giorni di svago avrebbero giovato sia a me che a Alain.
9 Mio marito stava lavorando molto in quel periodo. Non si era concesso pause da parecchi mesi, preso com’era dalla sua attività, e sempre più di frequente avevamo avuto delle discussioni in proposito. Era strano come la nostra vita si evolvesse in un modo sempre più imprevedibile. Prima Alain, Direttore dei lavori della “Construction Dupont” e dal talento imprenditoriale promettente, che, con grossi sacrifici da parte di entrambi, aveva rilevato l’Impresa del defunto proprietario, insieme al modesto passivo dovuto alla cattiva conduzione, riuscendo a farne una impresa di medie dimensioni, ma solida e stimata anche dalla concorrenza. Poi io, dalle mansioni di pubblicitaria di medio livello, ero stata promossa a responsabile del mio ufficio. Avevo dovuto affrontare le inevitabili gelosie di chi avrebbe voluto prendere il mio posto, la responsabilità del nuovo lavoro e il dover, in qualche modo, impartire ordini al gruppo che mi era stato affidato e del quale mi consideravo ancora una collega, piuttosto che una figura direzionale. E ora, che tutto aveva cominciato a prendere il ritmo normale, in un attimo qualcosa poteva sconvolgere la nostra vita. E pensando a questo, accappatoio indosso e asciugamano arrotolato sui capelli, accoccolata sul divano del salotto con il sottofondo del televisore acceso, mi addormentai. Mi destò il rumore della porta che si chiudeva. Sentii i passi di Alain che raggiungevano il salotto, ma non aprii gli occhi. Aspettai che Alain si inginocchiasse davanti al mio viso e che mi desse un tenero bacio sulla guancia. Nonostante tutta la giornata trascorsa fuori casa e in giro per la Francia, aveva sempre un profumo pulito e accattivante. Lo abbracciai con dolcezza, cercando i suoi baci, fatti non più di tenerezza, ma di crescente passione, mentre le mani di entrambi cercavano nervosamente il contatto con la nostra pelle nuda. Facemmo l’amore rotolandoci poi, ancora abbracciati, sul morbido tappeto, sorridendo e continuando a tempestarci di teneri baci. «Sei imprevedibile!» mi disse Alain, cominciando a raccogliere i suoi indumenti disseminati un po’ ovunque. «Sai che ore sono? È mezzanotte passata. E dove ti trovo? In accappatoio sul divano. Da quanto tempo eri lì?» Non mi ero ancora completamente ripresa da quel turbinoso intimo incontro, che le ultime parole di Alain spezzarono l’incantesimo. Mi sembrò un rimprovero e questo mi spinse ad aggredire per non venire so-
10 praffatta. Ero istintivamente permalosa e non ammettevo che mi si criticasse. «A mezzanotte se non altro io sono a casa. Ad aspettarti. E tu arrivi a quest’ora, senza nemmeno avvisare che avresti tardato, mentre sapevi benissimo che avevo bisogno di parlarti. Oggi è successa una cosa in ufficio…» Non ebbi il tempo di finire di parlare. Alain a sua volta, risentito, ribatté: «Certo, perché il tuo ufficio è più importante. Non importa se io ho fatto la strada del ritorno volando per cercare di non mandare a rotoli un affare e contemporaneamente essere a casa il prima possibile per cercare di soddisfare i desideri della mia signora!» La discussione continuò con gli stessi toni fino a quando entrambi spegnemmo la luce dei rispettivi comodini. Il buio e il silenzio misero a tacere quell’ultimo litigio, che come sempre non aveva portato a nulla, se non ad allontanarci un po’ di più.
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CAPITOLO 2
Imboccando l’autostrada che mi avrebbe portata sulla costa, mi chiedevo se la mia fosse stata una decisione giusta. Alain non aveva potuto accompagnarmi. «Quell’impegno di Digione mi prenderà tutto il week-end.» mi aveva detto per concludere il litigio della sera prima. Avevo già combinato tutto con Sophie ed ero ansiosa di vedere i due gemellini. Dovevano essere già cresciuti molto. Per una ragione o per l’altra non eravamo andati a far loro visita dal Natale precedente. Per colpa dei rispettivi impegni di lavoro e dei continui ritardi di entrambi, io e Alain ci vedevamo sempre meno e non ero nemmeno riuscita a discutere con lui dei particolari della proposta di Hartman. Mi consolai pensando che con Sophie avrei potuto parlarne e finalmente prendere una decisione. Accettare avrebbe voluto dire ricominciare daccapo e addirittura cambiare città. Certo, quello che Hartman mi proponeva era un grossissimo balzo in avanti per la mia carriera, ma il dover dirigere una nuova agenzia di pubblicità, della quale dovevo essere interamente e unicamente responsabile era un impegno che richiedeva una lunga riflessione prima di poter essere preso in considerazione. Raggiunsi rapidamente Deauville, prima ancora che il sole spuntasse dall’acqua tumultuosa del mare in burrasca. La spiaggia si era accorciata di qualche metro, risucchiata dalle onde e alzata dal vento che per tutto l’inverno avevano battuto sulla costa. Anche così grigio, il mare mi estasiò, facendomi dimenticare per un momento la ragione per la quale ero lì. Mi fermai, stringendomi nella giacca di tweed, a contemplare l’infrangersi delle onde sugli scogli. Da quanto tempo avevo desiderato rivedere il mare. Alain era un amante della montagna e le vacanze degli ultimi anni le avevamo trascorse sulle Alpi. Non che mi dispiacesse. Il nostro amore era nato lì e grazie alle montagne avevo ritrovato pace e fiducia in me stessa. Ma, indubbiamente, il mare mi era rimasto nel sangue e solo ora capivo quanto mi era mancato.
12 Riavviai la macchina e mi avviai decisa verso la casa di Sophie e Marcel. Mi sarei goduta fino in fondo quei due giorni, del resto ero lì anche per quello. La giornata trascorse velocemente. Io e Sophie avevamo tanto tempo dietro di noi e Marcel, che ci conosceva bene, si offrì di accudire i gemellini per lasciare che ci raccontassimo le rispettive vicende. Dopo cena, però, qualcosa venne a turbare la quiete della nostra intimità, ormai rilassati nel soggiorno a contemplare dalla grande finestra del terrazzo il tramonto sul mare. Adducendo un inverosimile bisogno di parlare a Marcel, Viktor era entrato nel salone; quell’apparizione mi chiuse la gola e, incontrando i suoi occhi, mi sentii gelare il sangue. Viktor salutò rapidamente Sophie, ma indugiò nella stretta quando porse a me la sua mano; mi irrigidii per quel contatto. I due uomini si recarono quindi nello studio di Marcel, dove rimasero per qualche tempo, lasciando me e Sophie allibite a chiederci l’un l’altra che cosa fosse venuto a fare Viktor da loro. Secondo Sophie, tra il marito e Viktor c’erano stati dei contatti di lavoro per l’albergo di Viktor, che doveva essere ampliato e Marcel stava svolgendo delle ricerche per conto suo per quanto riguardava i permessi e i depositi dei nuovi disegni al catasto. Ma nient’altro poteva avere portato nella loro casa quell’uomo, con cui Sophie e Marcel non volevano più avere a che fare per le ragioni che io ben conoscevo e che mi riguardavano. «Spero di non avere disturbato, ma c’erano delle cose importanti che volevo discutere con Marcel per quel lavoro dell’albergo e quindi, dato che passavo da questi parti, sono passato di persona.» «È difficile ‘passare’ da queste parti, visto che la nostra casa è l’ultima della strada. È stato un piacere, comunque, rivederti. Volevo offrirti qualcosa, ma immagino che, visto che eri di passaggio, non potrai trattenerti.» La voce di Sophie era secca e decisa e Marcel la guardò con rimprovero mentre accompagnava Viktor alla porta. Girandosi un’ultima volta, Viktor cercò i miei occhi, che lo seguivano con lo sguardo, magnetizzati dal fascino che sprigionava da quell’uomo. «So che non sono gradito e ne conosco anche il motivo. Tutto quello che è successo, per quanto mi riguarda, fa parte del passato. Non sei d’accordo con me, Marina?» Rivolgendomi la parola, il suo tono di voce si era addolcito e io, ammutolita, riuscii solo a biascicare: «Un passato che preferirei dimenticare.»
13 Smorzando il sorriso che mi stava rivolgendo, Viktor salutò e scomparve dietro la porta che Marcel si era affrettato a richiudere. Sophie sembrava inviperita e se la prese con Marcel che aveva permesso… «…a quell’essere viscido di entrare in casa nostra. Per nessun’altra ragione al modo voglio che quell’uomo metta piede qui.» «Sveglierai i bambini, Sophie.» la rimproverò Marcel e sempre discutendo ritornarono nel salotto. Tra di loro era però sceso il silenzio. Per rompere il ghiaccio, mi scusai e mi ritirai nella mia camera. Non mi fu facile prendere sonno. Avevo sempre saputo che un giorno avremmo dovuto rincontrarci. Viktor abitava lì e Deauville non era una grande città. Tuttavia avevo sperato che ciò non accadesse. E adesso sapevo perché. Una parte del mio cuore aveva continuato a racchiudere il ricordo di quell’amore troppo bello per essere dimenticato e di quella fine, troppo triste per essere ricordata. Pensai alla nascita del nostro amore, un fulmine a ciel sereno, sullo sfondo di quel mare che ci aveva visti bambini e che poi aveva accompagnato il crescendo di sentimenti e passioni che i nostri corpi, ansiosi di toccarci e di scoprire i primi piaceri dell’amore, non si erano negati. I pochi momenti trascorsi insieme erano stati molto intensi, ricchi di indimenticabili giorni e ineguagliabili notti. Ma pensai a quanto mi era stato difficile ritornare alla vita di sempre con il vuoto nel cuore, con l’amarezza e il convincimento che soltanto un miracolo avrebbe potuto farmi dimenticare il passato. Ero seduta sugli scogli, lo sguardo lontano a scrutare l’orizzonte. Il richiamo del mare e i mille pensieri mi avevano costretta ad alzarmi all’alba e dopo una lunga passeggiata in riva al mare, mi ero fermata lì, cercando di raccogliere i miei pensieri. Il mare era stranamente calmo, dopo la burrasca del giorno precedente. Quasi come il mio rapporto con Alain. Liti improvvise si alternavano a giorni di quiete, se non addirittura di indifferenza. All’inizio non era stato così. Alla base del nostro rapporto c’era rispetto e fiducia e difficilmente l’uno cercava di contraddire od ostacolare l’altro. Anzi, spesso e volentieri cercavamo di aiutarci e spronarci a vicenda nel superare e affrontare qualsiasi situazione.
14 Perché avevamo cambiato atteggiamento? Forse era così difficile riuscire a far combaciare i rispettivi bisogni di autonomia? O magari entrambi sentivamo la necessità di allontanarci un po’ e dedicarci alle nostre attività senza paura di trascurare o intralciare la vita dell’altro? Un rumore alle mie spalle mi fece sussultare. «Marcel! Mi hai spaventata.» Cosa ci faceva lì a quell’ora? E come aveva fatto a trovarmi? Quasi mi avesse letto nel pensiero, Marcel mi disse: «Sophie ti ha sentita alzarti presto e uscire. Era preoccupata per te e voleva seguirti. Ma non poteva lasciare i gemelli. Ho pensato che un po’ di aria fresca faceva bene anche a me e non è stato difficile indovinare dove potevi essere andata. Cosa ti succede, Mary?» mi domandò accomodandosi accanto a me. Forse non aspettavo altro che una spalla su cui lasciare sfogare la mia disperazione. Come potevo spiegare a Marcel, che intanto cercava di ricacciarmi indietro le lacrime con affettuose parole, quanti problemi in realtà fino a quel momento avevo finto di ignorare e che, nemmeno io, ero in grado di capire per quale motivo fossero esplosi così tutti in una volta? Quando mi calmai, asciugandomi le lacrime, tentai di trovare le parole per giustificare quel mio improvviso gesto, ma Marcel mi zittì bonariamente. «Non mi devi nessuna spiegazione. Quando lo riterrai giusto, sarò felice di ascoltare ciò che vorrai dirmi. Per il momento sappi che, quando sarà il momento, avrai sempre una spalla su cui contare.» Ci abbracciammo fraternamente e quell’abbraccio valse più di mille parole. «Torniamo a casa?» mi chiese Marcel. «Preferisco fermarmi ancora un po’. Tranquillizza Sophie e dille che tornerò tra non molto. Voglio godermi ancora un po’ il silenzio del mare.» Marcel annuì e si allontanò, mandandomi un bacio con le dita della mano. Dopo quel pianto mi sentivo un po’ meglio. Il tiepido sole luccicava sul leggero incresparsi delle onde e provai un gran senso di pace interiore. Un gabbiano sfiorò l’acqua e riprese velocemente quota, sfiorando ora il cielo con le ali. Al mio ritorno, Sophie non mi chiese nulla e si comportò nel solito modo, allegro e spensierato.
15 Anch’io, coinvolta nei preparativi per il pranzo, non tornai sui miei pensieri e il resto del pomeriggio trascorse all’insegna dell’allegria e del buon umore. Verso le cinque del pomeriggio, mentre erano tutti in giardino nell’ennesimo tentativo di mettere in posa i gemelli per una foto, arrivò una telefonata. «È per te, Marina, è Viktor.» mi annunciò Marcel. Il mio corpo fu percorso da brividi di emozione. Gli stessi che, solo ora ne ero cosciente, mi avevano scossa la sera prima, quando Viktor era passato a far visita agli amici. «Se vuoi, dico che sei già partita.» mi disse in tono di suggerimento Marcel. «No, non ha importanza. Gli parlerò.» Mi diressi verso il telefono del soggiorno, sotto gli occhi increduli di Sophie e Marcel. «Sì?» risposi, cercando di mantenere un tono distaccato. «Ciao!» esclamò una voce dall’altra parte della cornetta. Ricordavo quel tono di voce. Dopo tanto tempo riusciva ancora a turbarmi. «Ho fatto un tentativo e sono stato fortunato. Non parti questa sera?» Prendendo fiato per non smascherare la mia agitazione, risposi: «No, mi fermo fino a domattina. Ripartirò nel pomeriggio. Hai bisogno?» cercai di tagliar corto. «Sì, ho bisogno di vederti. Sai, non siamo mai più riusciti a parlarci e ora, a freddo, credo che dovremmo darci delle spiegazioni, non trovi?» Viktor aveva pronunciato quella frase in un lampo, quasi per paura che potessi interromperlo. Aveva più volte cercato di contattarmi, vedermi, sorprendermi, ma mi ero sempre fatta negare. Avevo voluto dare un taglio netto alla nostra storia e per quanto mi riguardava non c’era bisogno di dirsi altro. «Marina, sei ancora lì?» disse Viktor, non ricevendo risposta dall’altro capo del filo. Stavo pensando. Sarebbe stata dura per me rivederlo: d’altro canto, che cosa poteva volere ora da me? E se non avessi affrontato una volta per tutte Viktor, non avrei potuto tornare a Dauville senza avere paura di rincontrarlo. Senza più riflettere, sentii la mia voce che rispondeva con condiscendenza più che con convinzione: «Va bene, Viktor. Dove vuoi che ci incontriamo?» «Sono contento che tu abbia accettato. Facciamo tra mezz’ora al Normandie Club? Sempre che ti vada una cavalcata sulla spiaggia.»
16 Quest’ultima frase fu sussurrata ma non volli intravvedervi dei sottintesi. Ci salutammo velocemente e, stropicciandomi le mani madide di sudore, raggiunsi gli amici nel giardino, dove il vociare dei gemelli mi riportarono alla realtà. «Tutto bene?» mi chiese Sophie. «Sì certo. Uscirò per un paio d’ore. Viktor mi ha chiesto di vederlo al Normandie Club. Non so cosa voglia, ma a questo punto è meglio che prenda il toro per le corna, non vi pare?» dissi rivolta agli amici. «Come credi, Marina.» mi rispose Sophie. «Sai quello che fai e quindi non sto a farti delle raccomandazioni. Lo conosci bene. Tenterà di farsi perdonare e, per quanto mi riguarda, non merita nessun perdono e…» Marcel la zittì abilmente, coprendo la voce della moglie con la sua: «Vai pure, Marina. Avvisaci solo se pensi di tardare.» Mi congedai dagli amici e andai a indossare qualcosa di adatto per l’occasione. Non avevo con me l’abbigliamento da equitazione. Un paio di jeans mi sembrarono appropriati e chiesi a Sophie di prestarmi gli stivali. Mi diressi con la jeep di Marcel al Normandie Club. L’aria cominciava a essere tiepida in quella stagione. Forse avremmo potuto cavalcare per più di un’ora. Viktor non c’era ancora e mi accomodai seduta sulla staccionata del maneggio, guardando divertita una grassa turista tedesca che prendeva le prime lezioni di equitazione. Una voce mi fece sussultare: «Sono sempre in ritardo, lo so. Sei bellissima come sempre!» Girai la testa di scatto e mi soffermai ad ammirare gli stupendi occhi azzurri di Viktor che mi stavano scrutando divertiti. «Non importa, non ho fretta.» replicai, ignorando la seconda parte del saluto di Viktor. «Vogliamo andare?» Viktor mi aiutò a scendere dalla palizzata e mi condusse verso due splendidi cavalli, già pronti per essere montati. Aveva telefonato avvisando di prepararli. Ci avviammo al trotto, taciturni, verso la spiaggia. Stava per iniziare il tramonto e il profumo del mare era più intenso. Fu Viktor a rompere il silenzio, facendomi notare il vecchio faro sulla scogliera, ormai diroccato, e spiegandomi che presto, insieme a Marcel, lo avrebbe acquistato e rimodernato, trasformandolo in un caratteristico ristorante. Così via discorrendo dei cambiamenti del paesaggio e degli ultimi avvenimenti di Dauville, ci dirigemmo verso la pineta. Gli ultimi raggi di
17 sole stavano quasi per lasciare il bosco, mentre il muro di tensione che avevo alzato tra noi si stava assottigliando. Guardai Viktor, avanti a me, sicuro sul suo cavallo, che spostava con una mano i rami dei pini per permettermi di passare più agevolmente e riscoprivo la virilità che, come sempre, sprigionava in ogni suo movimento. Pensai per un momento a Alain, completamente diverso nel paragone. Indubbiamente un bell’uomo e a suo modo ugualmente affascinante, ma con delle caratteristiche opposte. «Ci fermiamo un momento?» mi chiese Viktor, fermando il cavallo perché potessi raggiungerlo. «Si grazie. Non sono più abituata a cavalcare e una sosta non sarebbe male.» annuii, sorridendo e abbozzando una smorfia divertita reggendomi in piedi sulle staffe. Sorrise anche Viktor e vidi e ricordai benissimo le sue fossette ai lati della bocca. Scendemmo da cavallo e continuammo a camminare, mentre Viktor aveva preso anche le briglie del mio cavallo e guidava entrambi gli animali tra gli alberi. Cominciammo a parlare del nostro lavoro. Il solito quello di Viktor, anche se, dopo la morte del padre, aveva dovuto faticare parecchio per riuscire a mantenere alto il livello dell’albergo. Era nato un nuovo centro di cure termali ed estetiche e il volume dei turisti era salito, richiedendo sempre più sforzi per rispondere alle esigenze del pubblico. Da parte mia gli raccontai la rapida carriera nella Hartman & Co. e la nuova opportunità che mi si proponeva ora. Ne ero orgogliosa e cominciai a parlarne con enfasi, gesticolando come non mi capitava di fare da tempo. Viktor non sembrava annoiato e, anzi, mi stimolava a proseguire e a dare sfogo all’entusiasmo che, con occhio esperto, aveva capito trasparirmi da tutti i pori. Quando ebbi finito, mi sentii spossata per l’energia spesa in quel monologo e trovai una panchina sulla quale sedermi e riprendere fiato. Viktor legò i cavalli a un albero e prese posto accanto a me. Vicinissimo e pericolosissimo. Potevo sentire il calore delle sue braccia accanto alle mie e il mio cuore cominciò ad avere degli inaspettati sussulti. In un’altra occasione, probabilmente, non avrei assecondato questa sensazione, ma ora, ripercorrendo con la mente la profonda incertezza e i rimpianti degli ultimi mesi, non ultima infine la lite con Alain di qualche sera prima, decisi di lasciare che le cose andassero con naturalezza.
18 Così Viktor iniziò sommessamente a parlarmi di come, secondo lui, intendeva spiegare il suo comportamento nel passato, non per giustificarlo, ma per riconoscere che effettivamente la sua condotta era stata riprovevole e il solo fatto di riconoscerlo ora, voleva dire, sempre secondo lui, che qualcosa era cambiato e che ora, con nuove responsabilità e con più maturità, la sua vita era diversa. Mi rivelò inoltre quanti rimpianti avesse per avermi fatta soffrire, disse, senza saperlo. Così dicendo Viktor allungò un braccio dietro le mie spalle, sfiorandomi i biondi capelli legati in una vaporosa coda di cavallo. «Sono sempre bellissimi.» mi sussurrò Viktor, riferendosi alla mia morbida chioma di capelli. «Li ho tagliati qualche tempo fa.» dissi, la voce ormai rotta da un imbarazzato tremito. Viktor era sempre più vicino e sapevo che a quel punto non avrei potuto resistere a quegli occhi, a quella voce e a quelle mani, lunghe e sensuali, dal tocco morbido e deciso nello stesso tempo, quelle mani che mi avevano sfiorata e accarezzata nelle notti d’amore che mai avrei dimenticato. Le stesse mani che giocavano, a mia insaputa, anche sul corpo di altre, venute da lontano, alle quali Viktor non sapeva negare un po’ di compagnia. A questo pensiero mi alzai di scatto voltandomi infuriata verso Viktor, stupito di questo improvviso cambio di umore. «Perché vuoi tornare nella mia vita, ora, Viktor? Che cosa ti fa credere che sia disposta a perdonare le lacrime e la disperazione, che a voler guardare non ti meritavi? Ah, il signore ora è pentito, non lo nego! Ma nessuno potrà mai restituirmi le notti insonni e una parte della mia vita che se ne è andata con te, Viktor. E nonostante gli sforzi, nonostante le tue belle parole, alle quali potrei credere, sai, non riesco a togliermi dalla mente tutto quello che ho sofferto.» Il mio tono di voce si calmò, ora più sommesso. «Ti ho amato tanto, Viktor. Però ti ho odiato allo stesso modo. E credimi, la sofferenza è riuscita a cancellare tutto ciò che di bello c’è stato tra noi.» Mi voltai, con gli occhi pieni di lacrime e cercai inutilmente di slegare il mio cavallo dall’albero, mentre i primi singhiozzi mi chiudevano la gola. Viktor si era alzato in piedi e si diresse lentamente verso di me. Mi fermò le mani, che combattevano inutilmente con le briglie annodate, stringendosele al petto. Lo lasciai fare, appoggiando infine il mio volto rigato di lacrime sul petto di Viktor.
19 «Ti amo, Marina. E se anche non mi vuoi credere, non ho mai smesso di amarti. Ti ho inflitto un altro duro colpo. Come vedi, non riesco, qualunque cosa faccia, a non farti soffrire. Cerca di perdonarmi, se puoi.» Viktor lasciò l’abbraccio e slegò i nostri cavalli. Senza parlare mi invitò a salire in groppa. Montai velocemente e spronai il cavallo al galoppo. Non lo aspettai e lui non cercò di seguirmi. Ti amo, Marina… Ti amo, Marina… queste parole mi risuonavano nella testa, ma soprattutto nel cuore. Avevo percorso in un lampo il ritorno al Club, mettendo a dura prova la resistenza del cavallo, nella paura che Viktor potesse raggiungermi. Solo quando chiusi la porta alle mie spalle trovai un po’ di pace. Nella penombra della mia camera, mi abbandonai sul letto fissando il soffitto in cerca di riparo e sicurezza. Sophie entrò come un tornado tempestandomi di domande. Le raccontai tutto in un soffio. Sophie, attenta, non mi toglieva gli occhi di dosso, cercando ogni tanto di inserirsi per commentare, ma non gliene diedi la possibilità. Al termine, decisi che sarei partita la sera stessa. Non volevo più rivederlo e rimanere lì voleva dire rischiare che Viktor mi cercasse. Mi scusai con gli amici, promettendo una nuova visita a breve, magari insieme a Alain. Alain. Mi stava aspettando? O si era rifugiato, come nei momenti di crisi, sulle sue amate montagne? Parigi e la mia casa, comunque, mi aspettavano. Sulla strada del ritorno concentrai i miei pensieri sul mio lavoro. Dovevo dare una risposta ad Hartman riguardo alla nuova proposta per la filiale di Lione. Non che Hartman mi avesse messo fretta, ma avevo preso ormai la mia decisione e non mi restava che comunicarla a Alain. Dopo quella scenata la sua opinione a questo punto mi pareva chiara ed evidente. E pensare che fino a quel momento non avevo mosso un passo senza consultare Alain. Lui mi aveva guidata e protetta nel migliore dei modi, ma era giunto il momento di camminare con le mie gambe, sbagliando e rischiando a mie spese. Avrei accettato l’incarico e, se ce ne fosse stata la necessità, mi sarei trasferita definitivamente a Lione.
20 Alain, come m’immaginavo, non c’era. Sulla segreteria telefonica la sua voce mi avvisava che per qualsiasi necessità lo avrei potuto rintracciare nella casa di montagna. Non lo avrei avvisato del ritorno anticipato. Sola con i miei pensieri avrei avuto più tempo per riflettere. Fermamente convinta della decisione presa, mentre riordinavo i bagagli, pensavo già a come avrei potuto impostare il mio lavoro. Con Sophie, che comunque mi aveva sconsigliata di accettare, proprio prevedendo che ciò avrebbe messo in crisi il mio rapporto con Alain, avevo già discusso qualche dettaglio tecnico e di immagine per la mia agenzia. Mi preparai del pane imburrato e mi sedetti sulla sedia a dondolo del giardino. Il cielo era stellato e l’aria fresca mi tenne sveglia a lungo. Un turbinio di immagini e ricordi occuparono per parecchio tempo la mia mente finché decisi di coricarmi. Fui svegliata dallo squillo del telefono. Mi ero dimenticata di disinserire la segreteria telefonica e sentii il messaggio che Alain stava lasciando. «Ho chiamato Sophie e Marcel a Dauville e mi hanno detto che sei rincasata ieri sera. Perché non mi hai chiamato? Io comunque sto tornando. Aspettami.» Il click del ricevitore arrivò prima che potessi afferrare la cornetta per parlargli. Non importa, ci saremmo visti fra non molto. Guardai l’orologio. Era quasi mezzogiorno. Mi vestii di tutto punto e andai a comperare qualche cosa per la sera. Mi piaceva cucinare e quando avevo tempo riuscivo a preparare delle cenette deliziose. Alain ne era sempre entusiasta e in quel modo, forse, davanti a un buon bicchiere di vino, saremmo riusciti a intenderci. Io, comunque, ero armata di buoni propositi. Il tempo sembrava trascorrere più lentamente del solito e la cena sarebbe uscita un disastro se Alain non fosse arrivato in tempo. Cominciai ad agitarmi, non vedendolo arrivare, ed erano ormai le dieci di sera. Al numero della casa di montagna ormai non rispondeva più nessuno e al bar del paese mi dissero che Alain era partito verso le cinque del pomeriggio. Non mi persi d’animo e trovai qualche cosa da fare, controllando ogni minuto il trascorrere del tempo. Finalmente, alle undici circa, sentii la chiave girare nella serratura. Gli corsi incontro gettandomi al suo collo, ma il mio entusiasmo fu frenato dallo sguardo serio e ostile di Alain. Pensai che quella era un’altra di quelle volte in cui avrei dovuto mantenere il controllo, se volevo evitare una nuova lite. Ci salutammo, ma il suo tono era freddo e distaccato.
21 Gli accennai alla cena, ma Alain disse di essere troppo stanco e di avere soltanto voglia di andare a letto e si diresse senza ulteriori parole verso la scala che portava al piano superiore, scomparendo oltre la porta della nostra camera. Non mi rimase altro che spegnere tutto, riporre gli avanzi nel frigorifero e raggiungerlo in camera. Quando uscii dalla doccia, Alain si era già assopito ed entrai nel letto cercando di non svegliarlo. L’indomani entrambi avremmo dovuto recarci al lavoro e sarebbero passate altre ore prima che avessimo potuto vederci e parlare. Mi addormentai nervosamente, agitandomi nel sonno per tutta la notte. Albeggiava quando sentii dei brividi lungo la schiena. Alain mi stava accarezzando dolcemente la spina dorsale, cercando un po’ di intimità, lasciando scivolare le mani verso i miei fianchi e le gambe; mi girai accogliendo i suoi baci e le sue tenerezze. Al termine dei nostri giochi d’amore, al culmine del piacere, con gli occhi chiusi mi trovai a pensare a Viktor, quando mi aveva accarezzato i capelli, e sentii ancora quel tremito di passione percorrermi tutto il corpo.
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CAPITOLO 3
Qualche anno prima Guardando dalla finestra della camera del “Beau Soleil”, mi strinsi nelle spalle e un sospiro fece appannare lo spesso vetro azzurrato. Pioveva ormai da parecchie ore e la vista di cui avrei dovuto godere, secondo il depliant dell’albergo, non era certo quella che mi si presentava. Nubi basse si infiltravano tra le cime degli alti abeti che ricoprivano la catena dei monti intorno alla valle. Il fiume scendeva impetuoso, ormai intorbidito dal continuo rimescolarsi delle acque. Chissà perché avevo accettato di trascorrere l’estate in montagna. Da quando ero nata avevo sempre passato le vacanze al mare: tre mesi durante il periodo estivo, senza contare i lunghi fine settimana concessi dalle scuole. Anche quando avevo trovato lavoro non perdevo occasione di lasciarmi travolgere dall’amore per il mare e di precipitarmi nella casa sulla riviera, dove i miei genitori, giunta l’età della pensione, si erano trasferiti. Marina, pensai, era il nome più adatto che mio padre, quasi litigando con la mamma, aveva voluto darmi quando nacqui, sperando che da quel nome avrei attinto e goduto dell’amore per il mare che lui stesso provava da quando era ragazzo. Quell’improvvisa decisione, quasi rabbiosa, di dare un taglio al passato, cambiando completamente abitudini, mi era costata fatica e coraggio. Ma per me era importante più di ogni altra cosa allontanarmi da quei posti che, fino a poco tempo prima, rappresentavano la felicità e che ora, da quando Viktor era uscito dalla mia vita, non facevano altro che risvegliare in me momenti che non avrebbero potuto ritornare. Non era stato difficile innamorarmi di Viktor. Ogni estate ritornavo al mare e ogni anno vivevo lì i momenti più intensi della mia adolescenza. La città non mi dava molto. La scuola e i corsi di nuovo che frequentavo erano i miei unici impegni quando mi trovavo a Parigi. Ma quando cominciavo a respirare aria di mare, mi si risvegliava improvvisamente
23 il desiderio di libertà che il grigiore dell’inverno faceva assopire in una sorta di letargo. Ero cresciuta sulla spiaggia e nelle azzurre acque del mare. Avevo vissuto tutto intensamente, dagli amori nati e subito dimenticati, alle gioie delle serate trascorse a pizzicare le corde della chitarra in una melodiosa e nostalgica serenata alla luna. Una metamorfosi lenta che era esplosa come un fuoco d’artificio quando raggiunsi i miei vent’anni. Fu durante quell’estate, infatti, che lo incontrai. Ero appena arrivata; il primo anno di lavoro alle spalle era stato faticoso; la mia inesperienza mi aveva fatta sentire molto spesso sulla lama del rasoio, tutti i nervi tesi alla scoperta di quel nuovo mondo che mi si apriva. Quello era il posto giusto per scrollarmi di dosso tutte le tensioni accumulate, ma l’eccitazione di trovarmi di nuovo lì non mi aveva fatta dormire. All’alba avevo allora deciso di prendere pinne, maschera e boccaglio e di fare la mia prima esplorazione dei fondali, pregustando già la tranquillità che avrei potuto trovarvi. Sulla spiaggia, quella mattina, c’era già un gruppo di persone, radunate in cerchio intorno a una barca dalle modeste dimensioni, la lampara ancora accesa. Quando, incuriosita, guardai al di sopra delle spalle avanti a me, rimasi colpita da un giovane in muta da sub, il corpo contratto a liberarsi il braccio dai tentacoli di un enorme polpo. Quando l’impresa gli riuscì si voltò e i nostri sguardi si incontrarono. Lo riconobbi solo quando mi si avvicinò e mi rammentò chi fosse. Viktor da tanti anni studiava all’estero per desiderio di suo padre, uno svedese trapiantato da ormai parecchi anni in Francia, proprietario di un albergo di Deauville. Lo avevo conosciuto molti anni prima e non mi meravigliai di non averlo riconosciuto subito. Il nostro fu proprio un colpo di fulmine, pensavo ora a distanza di tempo. Di quegli amori che non ti danno nemmeno il tempo di pensare talmente ti travolgono e ti gettano nei tentacoli dell’oblio. Una passione che si scatenò impedendomi di pensare a fondo a quale diverso tipo di vita appartenevamo e soprattutto aspiravamo. Ma quell’estate volevo per la prima volta farmi trascinare dai sentimenti, lasciare che fossero loro a indirizzarmi, senza più dover anteporre la ragione all’istinto.
24 Quanto avevo sbagliato! mi trovai a pensare nell’intimità della mia camera. Ma ormai, “alea tracta est”, mi suggerì quell’infarinatura di latino che la scuola mi aveva dato. Sophie, l’amica che mi aveva accompagnata, mi distolse dai miei pensieri: «Se almeno smettesse di piovere!» Effettivamente, giusto per aumentare il senso di disagio che ormai mi aveva preso, pioveva ormai dalla sera prima, quando l’ultima corriera ci aveva condotte al capolinea della vallata. Da lì avevamo dovuto procedere in autostop, impresa divertente ma non facile data l’ora tarda e soprattutto la pioggia insistente. Ma il mio aspetto, anche se avvolta da una pratica giacca a vento, jeans e scarpe da tennis, aveva fatto sì che si fosse fermato subito qualcuno. La carnagione chiarissima, i capelli biondi che mi ricadevano a grossi boccoli fino alle spalle, i grandi occhi verdi, un viso dai lineamenti regolari, con il nasino un po’ all’insù, non mi facevano dimostrare i 25 anni che in realtà avevo. L’uomo che ci fece accomodare sull’auto era cordiale e ci sorprendemmo a scoprire più avanti che si trattava del sindaco del paese in cui avremmo dovuto soggiornare. Sophie sperava con tutto cuore che io trovassi nuovi entusiasmi da quella gita che lei stessa mi aveva consigliato. In quegli ultimi giorni i miei occhi non sorridevano più come erano soliti fare. Strane ombre velavano di tristezza quegli sguardi solitamente sprizzanti di gioia. «Vorrei che la smettessi di pensare a cose tristi. Non ti ho portata qui per rimanere incollata a quella finestra. Anche se piove, il soggiorno ricreativo dell’albergo è pieno di altri ospiti che cercano di divertirsi come possono. Potremmo unirci a loro e fare qualche gioco di società. Ti eviterebbe di pensare.» «Odio i giochi di società. E…» mi bloccai quando i miei occhi si soffermarono su Sophie. La vitalità dell’amica rischiava di scoppiare rimanendo chiusa in quella stanza. In fondo Sophie mi aveva portata lì per aiutarmi e così rischiavo di deludere le sue buone intenzioni. «OK, hai vinto tu. Scenderò con te, ma non costringermi a fare quegli assurdi giochi con le carte o cose del genere!» «Brava Mary!» mi urlò Sophie, abbracciandomi talmente forte che credetti di soffocare.
25 Sophie era fisicamente il mio opposto. Struttura decisamente robusta, ricordo dell’aver praticato per anni l’atletica leggera, aveva capelli lisci e nerissimi, come color dell’ebano erano gli occhi leggermente tagliati all’orientale, che risaltavano sulla carnagione bianchissima. Aveva 27 anni, ma il temperamento sempre gioviale e la sua stravaganza nel vestire la facevano apparire una teenager. Da cinque anni lavoravamo insieme in una grossa agenzia di pubblicità di Parigi e tra di noi era subito nata una profonda amicizia. Avevamo più o meno la stessa età e, per quanto fosse incredibile, gli stessi gusti. Da un anno avevamo deciso di lasciare ognuna il proprio appartamento e di trasferirci insieme in una graziosa villetta alla periferia di Parigi, circondata da parecchio verde, dove io mi occupavo del giardinaggio, amore tramandatomi da mia madre, e Sophie di Lizzie, un pastore tedesco che fin da bambina aveva desiderato. Nel lavoro eravamo gomito a gomito indaffarate nel coordinamento delle registrazioni pubblicitarie e nel mantenere nel settore la posizione di prestigio che l’agenzia si era conquistata da qualche anno. Era un lavoro eccezionalmente stimolante per entrambe. Non che il mio diploma di ragioniera potesse servire in quel settore lavorativo, ma la scelta di quell’indirizzo di studio mi avrebbe aperto molte più possibilità di lavoro e non avrei dovuto pesare troppo sui miei genitori che, entrambi operai, facevano già tutto il possibile per me. Nel frattempo seguivo anche dei corsi serali di disegno e pittura, tanto per soddisfare la mia vena creativa e questo mi aveva dato la spinta in più nel settore pubblicitario. Avevo lavorato sodo, ma ero soddisfatta di me stessa. E poi, in città, non avevo altre cose che mi occupavano la mente. Sophie era iscritta da un anno alla facoltà di scienze politiche all’università, ma non era riuscita a dare un esame e aveva rinunciato per sempre all’idea di laurearsi. Il suo diploma in lingue le era servito e le bastava per riuscire a destreggiarsi benissimo nei contatti con l’estero e nel nostro settore era quello che serviva di più. Eravamo una coppia affiatata da ogni punto di vista. Dove non arrivava una, l’altra riusciva a trovare la soluzione e ci compensavamo a vicenda qualsiasi lacuna avessimo in una situazione o nell’altra. Il clou del nostro affiatamento fu evidente quando insieme riuscimmo a creare uno spot per una grossa compagnia alimentare che per la prima volta si rivolgeva alla nostra agenzia, il cui responsabile alle vendite era un tipo veramente esigente e che sembrava volesse metterci alla prova.
26 Nonostante le diffidenze dell’“orco” (così ormai lo chiamavamo nel nostro ufficio), soprattutto dettate dal fatto che a occuparsi del suo spot erano due donne, Sophie e io lo conquistammo, riuscendo persino a fargli fischiettare la colonna sonora mentre si allontanava dopo aver firmato il contratto. In delirio, il nostro diretto superiore ci concesse un lungo fine settimana di riposo e una succulenta gratifica. «Coraggio Mary, affrontiamo l’arena e i leoni!» disse con enfasi Sophie, aprendomi la porta. “Mary” era un diminutivo che Sophie mi aveva affibbiato, sostenendo che il mio aspetto fosse più quello di una damina inglese, piuttosto che quello del “lupo di mare” che io invece sostenevo di essere. Nonostante a Viktor non piacesse e avesse tentato di dissuadere Sophie a usare quel soprannome, la mia amica non aveva desistito dal continuare a chiamarmi “Mary”. Ripensandoci bene, a Viktor non piaceva quasi nulla che non fosse farina del suo sacco. Ma lasciai svanire nel nulla questi pensieri, sentendomi trascinata come in un vortice dall’impetuosità di Sophie, che in men che non si dica mi aveva trascinato a un tavolo e ordinato una cioccolata fumante. «Attenta alla linea, Sophie. La cioccolata è letale per chi, come te, ha sempre problemi di calorie.» dissi all’amica, che di risposta non ebbe di meglio che ricordarmi: «…dovresti riprendere qualche chilo, sarai dimagrita almeno di due chiletti, da quando…» non finì la frase, forse perché il cameriere ci stava servendo, forse perché non voleva risvegliare in me il ricordo dei giorni che avevano preceduto la nostra decisione di svagarci un po’ ai piedi di quelle splendide catene montuose. E illustrandomi un quadro raffigurante uno scorcio caratteristico di quel paese, Sophie riportò il discorso sulle bellezze della natura di quei luoghi. Sophie vi era stata molti anni prima con la famiglia a trascorrervi le vacanze estive. Lei, al contrario di me, adorava la montagna: d’inverno si destreggiava in qualche discesa con gli sci e d’estate adorava seguire i sentieri dei boschi e raccogliere funghi, mirtilli, fragole; insomma, tutto quello che vi trovava. Da parecchi anni non si concedeva delle vacanze in montagna. Dopo la morte di entrambi i genitori, scomparsi in un tremendo incidente stradale quando aveva solo 20 anni, Sophie aveva faticato molto per garantirsi la sicurezza economica che finalmente aveva raggiunto. Aveva quindi rimandato tutte le sue ferie estive a quando il
27 suo portafoglio avesse potuto permetterselo, accettando solo qualche volta di seguirmi alla mia casa al mare, imparando ad apprezzare i pregi della vita balneare, ma serbando nel cuore l’attrazione che non poteva fare a meno di provare per i monti. Sembrava strano quanto una ragazza con la sua vivacità e chiassosità riuscisse ad apprezzare gli ininterrotti silenzi dei boschi. Cercai di interessarmi con tutta me stessa a quanto Sophie mi stava concitatamente spiegando, e mi accorsi con stupore che i suoi sforzi non andavano a vuoto; provavo ora un sincero desiderio di carpire i segreti della montagna, intenso quanto l’irrefrenabile eccitazione che mi coglieva sempre di fronte alle gigantesche onde durante una burrasca. Mi ripromisi che, tempo permettendo, non avrei deluso Sophie e l’indomani mi sarei messa nelle sue mani e buttata anima e corpo in quelle nuove emozioni a me sconosciute, che sì, mi spaventavano un po’, ma che mi incuriosivano. In balia dei miei pensieri, non mi ero accorta che Sophie aveva intavolato un discorso con il vecchio Antoine, uno dei più anziani del paese, che stava ora spiegando all’amica che l’indomani, se non addirittura in serata, il tempo si sarebbe risistemato, dando l’opportunità di scovare addirittura i primi funghi, ai più abili, il giorno successivo. Sophie era fuori di sé dall’eccitazione. Io però, come mi fossi risvegliata in quel momento da un lungo sonno, scuotendomi di dosso tutti i buoni propositi che per un momento mi avevano fatto dimenticare il passato, provai di nuovo un senso di autocommiserazione e, per quanto non volessi ferire l’amica, smorzai gli entusiasmi di Sophie, che già stava programmando la giornata seguente, dicendole: «Per quanto attendibili possano essere le sue previsioni, non credo dovremmo fidarci troppo. Il diluvio universale probabilmente era niente confronto a quello che sta succedendo là fuori e per quanto mi riguarda domani scommetto fortemente che sarà un’altra giornata così.» Un tono di amarezza era trasparso dalla mia voce, ma non fu quello che impedì allo sconosciuto, che mi era improvvisamente apparso alle spalle, di replicare: «Credo che lei sia stata tanto brava a trarre le sue conclusioni riguardo al tempo, quanto lo è stato il vecchio Antoine. Con la differenza che la saggezza del vecchio Antoine lascia sempre sperare nel domani migliore. Lei invece fa delle previsioni troppo pessimistiche: questo non farà altro che rovinarle il resto delle vacanze.»
28 A quelle parole naturalmente si accodò Sophie. «È vero, Marina, speravo di averti in qualche modo convinta a partecipare al mio entusiasmo, ma mi accorgo che niente riesce a smuoverti dalle tue posizioni.» e poi rivolta alla figura davanti a lei continuò: «Glielo dica anche lei che non deve buttarsi giù così. Che in montagna una giornata di temporale non significa pioggia tutta la stagione. Che il tempo quassù muta in maniera impressionante da un’ora con l’altra.» Durante quel lasso di tempo ero rimasta incapace di reagire tanto mi avevano colpita le parole dello sconosciuto che non ero stata capace di voltarmi a guardare. Quando lo feci, lui era lì che mi fissava, aspettando forse una reazione da parte mia. Mi alzai e potei così guardarlo negli occhi; per quello che potevo, perché era più di una spanna più alto di me e tanto vicino da disturbarmi. Gli lanciai un’occhiata poco amichevole mentre sentii le mie parole che in tono seccato gli dicevano: «Se le mie vacanze si rovineranno, è solo ed esclusivamente perché ho deciso, in un momento di sconsideratezza, di passare le prossime settimane in questo paese, non solo abbandonato da Dio, ma dove c’è gente che forse non è abituata a impicciarsi degli affari propri!» E senza dare tempo allo sconosciuto di batter ciglio, mi voltai di scatto e raggiunsi le scale che mi avrebbero portata al sicuro nella mia camera e certamente al riparo dalle considerazioni di quell’uomo che, senza neppure conoscermi, aveva colto nel segno, ricordandomi che stavo affrontando un po’ troppo pessimisticamente quelle ore di maltempo e, lui sembrava saperlo, con quell’umore certamente non avrei migliorato le cose. Ma chi si credeva di essere per parlarmi in quel modo? Forse credeva di potermi insegnare a vivere? Sophie entrò come un razzo nella camera, riportandomi con i piedi per terra. «Che cosa hai voluto dimostrare? Che tu sei superiore a tutte quelle persone che vivono o scelgono questa vita per piacere? Sì, Marina, perché è proprio per piacere che la gente come loro, e mi unisco al coro, amano la montagna e questi luoghi. E se tu non sei in grado di apprezzarla non devi insultare chi di lei è appassionato o ci vive.» Quando Sophie mi chiamava con il mio nome per esteso, voleva dire che era preoccupata o su tutte le furie. Dato il tono della sua performance, dedussi che era sicuramente lì lì per scoppiare.
29 E aveva ragione. Ero stata presuntuosa e maleducata a comportarmi in quel modo e soprattutto a esprimere con tanto trasporto il disagio che provavo nel sentirmi al di fuori del mio ambiente. Ma, come non mai, le parole di quell’uomo avevano aperto una breccia nel muro che avevo costruito dentro di me e avevo subito giocato sulla difensiva. «Scusa.» fu tutto quello che riuscii a dire a Sophie, mentre l’abbracciavo in segno di pace. A quella dimostrazione sincera di rincrescimento, Sophie lasciò cadere ogni altro pensiero di litigio e rispose con calore al mio gesto. Finivano sempre così le nostre liti. Non riuscivamo a tenerci il broncio più di un minuto consecutivo. Per questo entrambe sapevano che la nostra amicizia sarebbe rimasta così per sempre. Ancora sotto le coperte, Sophie si stiracchiò i muscoli di tutto il corpo, pregustando il momento in cui sarebbe andata ad aprire le finestre. Già si intravedeva trasparire dalle fessure delle persiane una luce chiara e calda. Sapeva per certo che fuori era una bellissima giornata. Guardò nel letto a fianco al suo e vide finalmente sul mio viso, ancora addormentata, un’espressione rilassata. Come avrebbe voluto che riuscissi a dimenticare quella triste storia. Quando Sophie aveva conosciuto Viktor ne era rimasta affascinata quanto me. Bello, alto, due occhi azzurri penetranti. Assomigliava in tutto al padre, soprattutto nel fascino sfacciato che le sue origini svedesi non smentivano. Conscio della sua prestanza fisica e del suo carisma, Viktor aveva cominciato a preoccuparla quando, ormai trasferitosi in Italia e diventato il braccio destro del padre, non disdegnava le attenzioni che le altre donne, pure a ragione, gli dimostravano. Io, innamorata com’ero, e impegnata ormai a tempo pieno nel mio lavoro a Parigi, non mi ero mai accorta quanto, per dovere o per piacere, Viktor si dilettasse a intrattenere le ospiti del “Royal”. E Sophie non me ne aveva mai parlato. Se n’era accorta una volta in cui, nonostante avessimo deciso di andare insieme al mare, dovetti sostituire una collega malata in un’incombente emergenza allo studio fotografico e, non potendo rifiutare, non mi feci comunque prendere dai rimorsi quando rinunciai al week-end al mare, invitando Sophie comunque ad andare e di non preoccuparsi per me.
30 Ormai si era comprata quel costume nuovo e non avrei voluto che rinunciasse a sfoggiarlo. Aveva perso qualche chilo e su di lei quel giallo limone sembrava dipinto addosso. Pensandomi a casa tutta sola, avrebbe lasciato volentieri il costume nel cassetto. «Non se ne parla nemmeno. Io resto a casa con te e il permesso me lo serberò per qualche altra volta in cui potremo andare insieme. In fondo io ti accompagno solo al mare, anche se mi fa piacere, però la diretta interessata sei tu.» «Ti ringrazio Sophie, ma stare a casa tutte e due non risolverebbe niente. Il tuo costume nuovo aspetta di essere indossato e certamente sulla spiaggia c’è qualcuno che vorrebbe ardentemente vedertelo aderire come un guanto.» dissi mimando con ilare teatralità le fattezze di Sophie. «Non starai pensando che veramente mi sia presa una cotta per Marcel?» rispose senza troppi sotterfugi Sophie. «Lo sai che lo trovo odioso.» «Solo perché ti ha spaventata quella volta con il granchio sotto il giornale!» Che spavento s’era presa! Stendendosi al sole dopo un rilassante bagno in mare aveva cominciato a urlare come una pazza quando, sotto la rivista che si stava accingendo a leggere, aveva trovato un granchio dalle insolite dimensioni. Naturalmente era morto, ma non era bastato a tranquillizzare Sophie quando Marcel era accorso in suo aiuto, vedendola diventare paonazza per lo spavento. Aveva cominciato a colpirlo con il giornale e nemmeno i tentativi di Marcel erano riusciti a bloccarla. Lui si era dato allora alla fuga nell’ilarità generale di chi li stava osservando, mentre lei, per dar sfogo alla sua ira, riduceva a brandelli quello che era rimasto della rivista. In realtà Sophie sapeva di piacere molto a Marcel. E nemmeno a lei Marcel dispiaceva. Sembravano fatti apposta per stare insieme: entrambi alti e mori, secondo me, avrebbero fatto dei figli stupendi. Sophie rideva sempre a queste mie parole; la divertiva il pensiero di avere dei figli. Proprio lei, che quando cercava di prendere in braccio il bambino dei vicini di casa cominciava a tremare per paura di fargli del male. Comunque, ormai era deciso. Per Marcel o per distendere un po’ quelle brutte occhiaie sotto gli occhi, sarebbe andata. E Sophie si sarebbe maledetta per aver deciso quel giorno di recarsi da sola al mare, ancora di più per aver rifiutato l’invito dei miei genitori di essere loro ospite e per aver scelto quale albergo il Royal.
31 Viktor si dichiarava innamorato di me, ma non aveva ancora preso una decisione per quanto riguardava il nostro futuro. Erano quattro anni ormai che ci frequentavamo, ma solo io lo raggiungevo al mare, e mai lui mi aveva proposto di trascorrere qualche giorno con me a Parigi. E neppure d’inverno, stagione durante la quale il lavoro sulle coste diminuisce sensibilmente. Pareva strano a Sophie, ma io sostenevo che non si poteva togliere un pesce dall’acqua e che in fondo il mare piaceva talmente anche a me che non mi creavo nessuna difficoltà a viaggiare in continuazione su e giù come un pendolare. E poi, dicevo, c’erano anche i miei genitori e così prendevo due piccioni con una fava. Non poteva darmi torto e anche per Sophie tutto ciò aveva un senso. Ma durante quel week-end ogni residuo dubbio di Sophie fu fugato. Tornava da una piacevole passeggiata in compagnia di Marcel. Da un po’ di tempo si trovavano bene insieme e anche Sophie si era convinta che effettivamente erano una bella coppia. Marcel non le aveva mai fatto della avances apertamente, ma tutte le premure che le riservava erano volte a conquistarla e lei ne era veramente lusingata. Sentiva che prima o poi le si sarebbe dichiarato e in cuor suo cominciava a sperare che lo facesse. I suoi romantici pensieri e il vento scuro della notte che le carezzavano i capelli non le impedirono di intravedere quella figura possente, che lei aveva subito riconosciuta essere quella di Viktor, avvinghiata a una bella straniera. Marcel cercò di trascinarla via mentre lei, le labbra attonitamente socchiuse, li fissava incredula e sbigottita. Io non volevo crederle. E come potevo, innamorata com’ero di Viktor! Comunque decisi in cuor mio di andare a fondo del problema. Il resto venne da sé. Appena potei, mi recai al Royal. Nessuno mi aspettava ed era già sera. Non fu difficile scoprirlo sulla veranda della terrazza con la sua preda di turno. In un attimo sentii il mondo crollarmi addosso. Le gambe vacillare e il cuore perdere un colpo. Il mio carattere profondamente istintivo si lasciò prendere dallo sconforto e, se fino a quel momento non l’ avrei considerato possibile, mi lasciai sorprendere dal mio temperamento. Lo affrontai al momento opportuno e non mi preoccupai del giudizio degli altri. Lo misi in imbarazzo, ma in quel momento non mi preoccupai della sua rispettabile immagine. Ero ferita e il grido di dolore uscì dalla mia anima senza aver tentato di trattenerlo.
32 E il giorno successivo non riuscii ad affrontare le spiegazioni che inutilmente aveva tentato di farmi conoscere. Qualsiasi fosse stata la ragione o la spiegazione, non avrei mai più voluto saperlo legato a me. Qualcosa aveva rotto quel legame che mi univa a Viktor e non avrei più potuto ricucire le ferite. Mi aveva lasciato credere di essere l’uomo della mia vita, il mio appassionato amante e colui che mi avrebbe protetta per l’eternità, ma per lui non era stata la stessa cosa. Trascorsero giorni spenti e lunghe notti vuote, in cui non trovavo pace. Mi ero data a quell’uomo anima e corpo, credendo che anche lui mi ricambiasse allo stesso modo. E forse quando ci trovavamo insieme era stato così. Viktor non mi aveva mai nemmeno messo fretta quando gli avevo chiesto di avere pazienza. E quando avevo deciso di fare l’amore con lui, era stato perché mi sentivo veramente sua. Sophie sorrise, seduta sul letto e continuando a guardarmi addormentata. Sapeva che ero forte e che ce l’avrei fatta. Dovevo soltanto superare quei momenti di sconforto. Mi voleva molto bene e ce l’avrebbe messa tutta per aiutarmi. Spalancò le persiane e una luce fioca ma luminosa rischiarò la camera, illuminando i chiari mobili di pino abilmente intagliati in ricami e cesellature. Le tendine a fiori erano in tinta con i pavimenti in parquet, che sembrarono riscaldarsi al contatto dei raggi di sole che cominciavano a entrare dalle finestre. Socchiusi gli occhi e con una smorfia rivolta a Sophie, feci capire che non avevo nessuna intenzione di alzarmi. «C’è un sole stupendo e non voglio assolutamente che tu rimanga lì a poltrire. Ci aspetta la prima escursione e voglio che tu ti metta una cosa in testa. In montagna ci si alza molto presto se si vuole godere dei profumi che il primo sole riesce a risvegliare nei boschi. Mettiti qualcosa addotto e raggiungimi per la colazione!» Con quelle parole Sophie, già di tutto punto vestita, uscì, lasciandomi sbigottita seduta sul letto con la mano che imitava il saluto militare. «Sì, Signore!» urlai e con un’improvvisa energia balzai giù dal letto. Pensai che soltanto Sophie riusciva a scuotermi dal mio torpore. Anche a casa, pigra com’ero, non volevo mai alzarmi e lei riusciva a farmi suonare tre sveglie contemporaneamente, l’ultima fuori della mia camera, così che ero costretta ad alzarmi.
33 Decisi di usare l’acqua fredda per lavarmi. Faceva bene alla pelle e mi avrebbe aiutato a togliere quell’espressione ancora assonnata dal viso. Indossai dei pantaloni di velluto marroni, camicia scozzese, e raccolsi i capelli in una morbida coda. Con gli scarponcini marroni e il piumino senza maniche marrone sembravo un’esperta escursionista. Mi aveva consigliato tutto Sophie e trovavo che quel look campestre non mi stava male. Non mi sembrò il caso di truccarmi. Lo facevo solo per recarmi al lavoro, per darmi un po’ di tono e per sembrare un po’ più “credibile”. La mia aria di ragazzina era sempre stato un problema. Sophie mi aspettava in sala da pranzo. Già al suo secondo panino con burro e marmellata. Nascosi la nausea mentre la vedevo divorare tutta quella roba. Dal canto mio non avevo fame e avrei sorseggiato soltanto un po’ di tè. Alle nostre spalle qualcuno urlò: «Allora vi aspettiamo qui sotto! Fate in fretta o non riusciremo a essere sulla cima prima di mezzogiorno!» Quella voce non mi era nuova, ma era molto più calda e allegra della sera precedente. Voltandomi di scatto per sincerarmene, riconobbi lo sconosciuto della sera prima, che mi salutò con un gesto della mano, sorridendomi. Notai per la prima volta l’aspetto dell’uomo: castano con i capelli leggermente lunghi e mossi, la barba un po’ incolta che accentuava i lineamenti un po’ marcati degli zigomi e del mento, un naso da statua greca e due occhi straordinariamente verdi, che risaltavano sulla carnagione abbronzata. Girandomi di scatto verso Sophie, le sussurrai sulla difensiva: «Che cosa voleva dire con “vi aspettiamo qui sotto”? Non dovevamo fare un’escursione e tu dovevi essere la mia guida?» «Noi faremo quell’escursione. Ma quando sono scesa ho sentito quel gruppo di ragazzi che stavano discutendo sul tragitto da prendere e quando ho capito che era lo stesso che avevo in mente io, ho chiesto loro se potevamo accodarci. Alain ha acconsentito con molto entusiasmo!» «E chi sarebbe questo Alain?» «Il ragazzo che hai appena finito di scrutare dall’alto in basso!» ammiccò Sophie. Non seppi cosa risponderle. Mi limitai a seguirla per le scale che ci avrebbero portate sul piazzale dell’albergo, pensando che forse un po’ quel ragazzo mi aveva colpita.
34 L’eccitazione generale mi contagiò e seguii quella coda di ragazzi, in tutto una decina, che si incamminava di buon passo verso il sentiero da percorrere. Mi sentii piena di energie mentre respiravo l’aria fresca del mattino. Nonostante fosse luglio, il giubbotto imbottito non dava fastidio e gli scarponcini mi proteggevano dall’umidità della pioggia dei giorni precedenti. Il sentiero cominciava ora a farsi un po’ più ripido, addentrandosi nel bosco di conifere dai profumi intensi. Felci e muschi coprivano le radici degli alti abeti e i larici con le loro fronde cominciavano a lasciare filtrare i raggi del sole. Il silenzio che regnava, interrotto solo dal rumore dei nostri passi sul terreno umido, mi fece provare un gran senso di pace. Quelle sensazioni a me nuove mi piacquero e concentrai tutto il mio corpo a raccoglierne le più piccole sfumature, che solo ora scoprivo. Un grosso sasso davanti a me, però, insidioso tra le foglie umide, non mi diede il tempo di sostenermi e, scivolando, caddi all’indietro; due forti braccia mi afferrarono prima che avessi il tempo di accorgermene. Alain era dietro di me, i muscoli del viso contratti per lo sforzo con cui mi aveva afferrato per la vita e trattenuta a sé perché non rischiassi una brutta caduta. I nostri corpi erano molto vicini e potevo sentire il respiro affannoso di lui sul mio viso. Turbata, mi divincolai gentilmente da quella stretta che indugiava nonostante il cessato pericolo. «Grazie. Se non fosse stato per te, mi sarei rotta subito una gamba. Direi che come inizio non c’è male e non mi sorprenderei se per la fine della giornata non diventerò un pericolo anche per voi!» Alain si incupì. «Non mi dirai che ricominci a fare la pessimista? Può capitare a tutti di scivolare. Qui il terreno è particolarmente insidioso e bisogna fare più attenzione che nei tratti che seguiranno. Come avrai visto i sassi e le radici degli alberi sono molto sporgenti e, coperti come sono dalle foglie, non sono distinguibili dal sentiero...» Aveva cominciato a spiegarmi i segreti del bosco, prendendomi amichevolmente una mano e guidandomi in mezzo all’intricato labirinto di alberi, richiamando, a volte, chi del gruppo si stava allontanando troppo dal sentiero. Mi sembrava essere tutto così naturale che mi lasciai guidare dalla voce dello sconosciuto come una bambina ascolta fantastiche favole. Sophie era nel suo elemento naturale. Discorreva sommessamente, per non sciupare la quiete di quei luoghi, con una ragazza dai capelli cortis-
35 simi, gioviale e chiacchierona quanto lei. Mi sorprendevo sempre di come Sophie riusciva a legare in fretta con il suo prossimo. Voltandosi, Sophie mi vide guardare Alain con aria ammirata, mentre mi lasciavo trasportare dalle sue parole. In quel momento capĂŹ che il pensiero di Viktor sarebbe stato per me soltanto un lontano ricordo. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...
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