I due Leoni

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In uscita il 31/10/2016 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine RWWRbre e inizio QRYembre 2016 ( ,99 euro)

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FRANCESCO GRASSO

I DUE LEONI Il romanzo di Roberto e Ruggero d’Altavilla

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I DUE LEONI Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-0351 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Ottobre 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


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Prologo

Mileto, inverno 1100 A.D. Il monaco avanzava a passi misurati lungo la navata centrale della chiesa abbaziale. A quell’ora, ben prima del mattutino, solo la fiamma delle candele rischiarava il transetto, proiettando ombre incerte sull’alto soffitto a travature. Il gelo che precedeva l’alba, contro cui poco poteva la stoffa ruvida del saio e lo scapolare nero dell’ordine benedettino, irrigidiva le membra dell’uomo e sembrava morderlo fin nelle ossa. L’aria sapeva d’incenso, di sego animale e di antica devozione. Il religioso era di bassa statura, magro, la schiena curva e il naso pronunciato, la tonsura monacale a celare l’incipiente calvizie. Biascicava accenni di salmi mentre, secondo il voto d’umiltà della regola, spazzava la pavimentazione in arenaria, serpentino e porfido che, gli avevano confidato, era frutto dello spoglio di un vicino tempio pagano. Mondati i gradini dell’altare, il monaco si segnò compitamente e si diresse al coro. D’un tratto si fermò, allarmato. Dinanzi alla prima delle tre absidi, il corpo di un uomo era riverso sui lastroni, carponi, le braccia tese e ben separate dal busto, più nella posa d’un Cristo caduto che nell’atto supplice del penitente. D’istinto il monaco pensò a un questuante rifugiatosi all’interno dell’abbazia per sfuggire agli artigli della notte. Poi però notò le vesti sontuose, il mantello, gli stivali di feltro. Si liberò in fretta della ramazza, s’inginocchiò fianco all’intruso. E trasalì, riconoscendolo. «Conte Ruggero?» azzardò «mio signore? State bene?» L’uomo sollevò il capo. Era sulla settantina, i capelli candidi, la barba ben curata. La sua corporatura era massiccia, il torso imponente, gli arti robusti. I suoi occhi, del colore del mare d’inverno, erano cerchiati di sofferenza. «Ti conosco, monaco?»


4 Il benedettino s’inchinò, colpito dal tono della voce dell’altro. Era avvezzo a sentirla risuonare volitiva, imperiosa; non l’aveva mai udita così dolente. «Sono Goffredo, mio signore. Di qua delle Alpi taluni mi dicono “Malaterra”. Sono al vostro servizio.» Il conte assentì senza convinzione. «Ah, lo scrivano di Saint-Évroult. Ricordo, sei qui per vergare le imprese della mia spada.» «Va tutto bene mio signore? Devo chiamare…?» «Devi solo andartene, scrivano. Lasciami alle mie preghiere.» Il monaco si rese conto che le gote del conte erano rigate di lacrime. Ne fu talmente colpito che, a dispetto dell’indole ossequiosa che lo distingueva, si risolse a disobbedire. «Mio signore, io sono un religioso, lo sapete. Se posso esservi di conforto, d’aiuto in alcun modo, non avete che da chiedere.» Il conte si levò faticosamente in ginocchio. Sembrò scorgere il benedettino per la prima volta. Parlò di nuovo, emettendo poco più di un sussurro. «Codesti son giorni di demoni, scrivano, e notti d’incubo. Egli mi ha abbandonato. Non mi ama più.» «Cosa?» balbettò il monaco disorientato «chi non vi ama?» Il conte additò il viso del Salvatore che affrescava la volta del tiburio, poco al di sotto del quadrato di crociera in stile bizantino. «Dio» asserì «l’Onnipotente mi ha voltato le spalle. Mi accusa di ogni nefandezza. Persino di aver causato la morte di mio fratello, il duca.» Goffredo si segnò, spaventato. «Perdonatemi mio signore, sono certo che vi sbagliate. La Chiesa vi stima più che mai. Non è neppure un anno che il Santo Padre ha firmato la bolla per nominarvi legato pontificio.» Il conte scosse la testa. «Non parlo di Urbano. Lui è un piccolo uomo che io tengo in pugno. È Dio che ha smesso di amarmi.» Goffredo sbarrò gli occhi. «Come potete dirlo? A nessun mortale è concesso conoscere il giudizio del Creatore.» Ruggero artigliò con forza la spalla del monaco. Goffredo soffocò un grido di dolore. «Io posso, scrivano. Egli mi parla.»


5 Il benedettino si segnò di nuovo. Tentò di sottrarsi dalla stretta del conte. Gli sfiorò la mano, avvedendosi che bruciava di febbre. «Mio signore, vi prego…» «Voglio che tu raccolga la mia confessione, scrivano» decretò Ruggero «che tu mi assolva. Adesso.» «Confessione? Non posso mio signore. Forse l’abate…» Il conte levò la mano destra a comandare il silenzio. «Non infastidirmi con le tue sciocchezze, scrivano. Ti ordino di essere in grado di assolvermi.» Goffredo impallidì. Ruggero si erse in tutta la sua altezza. Mantenendo la stretta sulla spalla del benedettino, lo trascinò verso i seggi del coro. Goffredo si sentì quasi sollevare dal pavimento. Gemette; aveva sentito parlare della prodigiosa forza del conte, ma la riteneva una piaggeria dei cortigiani. Se era così vigoroso da anziano, non osava pensare a che titano dovesse essere stato da giovane. Riuscì in qualche modo a sedersi su una panca istoriata da motivi in sali di zolfo e manganese. Il conte si lasciò cadere sul seggio accanto, sovrastandolo. «Non sarò breve, scrivano. Ci sono molti fardelli di cui voglio sgravarmi l’anima.» Il benedettino riuscì a malapena a emettere un singhiozzo. «Homo proponit Deus disponit. Come desiderate, mio signore.» Ruggero chiuse gli occhi e incrociò le braccia possenti. «Rammento la prima volta che l’Onnipotente mi parlò. Io ero solo un ragazzo. Tanti, tanti anni or sono. Se ripenso ad allora, mi sembra un’altra vita.» Goffredo, più per costrizione che per ossequio, si risolse ad ascoltare. Andate e provate la follia dei normanni Amato di Montecassino In ogni tua impresa prendi Dio come alleato, e di certo otterrai la vittoria. Ruggero d’Altavilla, Gran Conte di Sicilia Due leoni possono cacciare insieme. Ma solo uno può guidare il branco. Roberto d’Altavilla, Duca di Calabria e delle Puglie



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Capitolo 1

Hauteville en Normandie, 1043-47 A.D. Sono cresciuto nella terra che fu dei Franchi e che oggi porta il nome del popolo del nord. Ricordo i pianori drappeggiati di spighe all’inizio dell’estate, i declivi bianchi di granito e pietra di gres, i boschi di pini e ginepri, i torrenti in cui sguazzavano i salmoni, la brezza che soffiava da ovest portando con sé il salmastro dell’oceano. Rammento i pascoli che si stendevano fino all’orizzonte e i cavalli che vi correvano in branco. Mio padre diceva che erano gli animali migliori di tutta la Terra, il dono che Dio aveva reso ai normanni quando essi avevano abbandonato la tolda delle navi, giacché Egli voleva che l’uomo del nord dominasse il mondo non più come pirata ma come cavaliere. Mio padre si chiamava Tancredi, che nella nostra lingua significa “il pensatore”. Era un uomo saggio e riflessivo, fedele fino all’ultima goccia di sangue al suo principe, Riccardo II di Caux. Non ho un gran ricordo di lui; era quasi sempre lontano da Hauteville, a sovrintendere alla costruzione di rocche, a riscuotere tributi, a scortare il suo signore nelle battute di caccia, insomma intento alle mille occupazioni d’un vassallo in tempo di pace. Mi aveva partorito Fresenda. Seconda moglie di mio padre, non aveva sfigurato nei confronti della prima giacché era riuscita a mettere al mondo ben quattro figli maschi sani, più le femmine di cui non ricordo bene il numero. Alta e di ventre ampio, pelle di neve e capelli d’oro, era donna normanna fino al midollo delle ossa. Nonostante fosse cristiana, battezzata al giungere della pubertà come usa la nostra gente, alla sera amava narrarmi le favole della vecchia religione: Odino che favellava in versi e aveva donato le rune agli uomini, il cavallo a otto zampe Sleipnir, il signore del tuono Thor, Ratatosk lo scoiattolo che scorrazza tra i rami dell’albero della vita Yggdrasill…


8 In casa ero l’ultimo nato. I miei numerosi fratelli, ben più anziani di me, erano già guerrieri quando io ancora succhiavo la tetta di Fresenda. Quando compii dodici anni e ricevetti in dono la mia prima spada, molti erano già partiti in cerca di fortuna. Il più grande rimasto ad Hauteville, che in assenza di mio padre si arrogava il ruolo di capofamiglia, era Roberto. Acuto, di pensiero rapido come il lampo, mio fratello era spregiudicato, ambizioso oltre ogni limite. Svelto di mano e col bastone, partecipava però di rado alle zuffe - da taluni millantate come “addestramento alla guerra” - con cui i ragazzi di Hauteville occupavano le loro giornate. Era assai più interessato a provocarle, le baruffe, e poi a dirigerle. Aveva un talento innato nel convincere chi lo ascoltava a seguirlo, e usava quel suo dono fin troppo spesso. Si trattasse di compiere una scorreria contro gli adolescenti d’un villaggio vicino, oppure di andare in cerca di contadine da montare nei fienili dopo la raccolta delle mele, Roberto finiva invariabilmente in testa al gruppo e gli altri a calcar docili le sue orme. Fresenda, ben consapevole del carattere di quel suo strano figlio, sovente lo appellava con uno dei tanti nomi di Loki, il più malvagio tra i vecchi dèi. «Sei un Wiskard» gli diceva, che significa parimenti “scaltro” e “infido”. Lungi dall’adirarsi, mio fratello si gloriava di quell’epiteto, facendolo suo al pari della massima scandinava che ripeteva anche troppo spesso. «Che importa ottenere la vittoria con le armi o con l’inganno?» dichiarava con alterigia «ciò che conta è che io, il Guiscardo, un giorno dominerò il mondo. Così è scritto nelle stelle.» A quel tempo, lo confesso, anch’io ero soggiogato dal suo carisma. Mi affascinava soprattutto la sua facilità di eloquio. Parlava fluentemente non solo la lingua franca e quella normanna, ma anche il latino dei religiosi, idioma che ancora oggi io mastico a fatica. E sapeva imitare alla perfezione la voce di chiunque. Una volta - credo per scommessa - si introdusse di soppiatto in chiesa, tramortì il vecchio prete col piatto della spada, ne indossò la veste talare e celebrò la funzione senza che i fedeli, a cui volse le spalle sino all’Ite Missa Est, si accorgessero dell’inganno. Verso di me si comportava con fare alterno. Certi giorni professava di amarmi, assicurava che mi avrebbe tenuto al suo fianco per sempre, che avremmo condiviso da buoni fratelli la corona del mondo. Sarebbe spettata a noi, precisava, non a quel borioso di Guglielmo, il lontano cugino -


9 che vedevamo di rado - con cui Roberto si sentiva in competizione e al quale era accomunato da enormi ambizioni di potere. Ricordo che quando compii quattordici anni Roberto mi insegnò a colpire di lancia, a parare con lo scudo, a indossare la cotta di maglia e ad allacciarmi l’elmo all’uso dei cavalieri. Mi dispensava consigli su come arringare la plebe con efficacia, sui brindisi più acconci da pronunciare a tavola, sul modo migliore di disporre gli uomini in battaglia. E su altri aspetti della vita con cui lui aveva maggiore dimestichezza. «Tra le cosce di una franca e quelle di una normanna non c’è gran differenza, piccolo Rogeirr» pontificava. «Forse le normanne strillano di meno. Ma ti puoi divertire anche con loro.» Io ridevo, ed egli mi batteva bonariamente una mano sulla spalla. In altre occasioni mi trattava da nemico o, ancora peggio, da vittima per gli scherzi con cui soleva divertire gli obbedienti seguaci che lo circondavano, ogni giorno più numerosi. Con costoro teneva a dimostrare che io gli ero inferiore nel corpo e nello spirito, e sovente lo comprovava umiliandomi. Quando protestavo, puntualmente lui ammetteva che avevo ragione e giurava che non lo avrebbe rifatto. Per poi violare la promessa nel volgere di un tramonto. Roberto era così; contare sulla sua parola era come versare vino nella pastura dei maiali. Egli prometteva con convinzione tutto ciò che gli altri chiedevano, e dopo manteneva solo quel che gli conveniva. Ingannava, spergiurava, mentiva finanche a nostra madre. Era avido, avaro, vanitoso e incostante. Avevo sedici anni quando, dopo aver patito un numero di vessazioni che non riuscivo più nemmeno a contare, decisi che ne avevo abbastanza. Non ero in grado di affrontarlo, lui e la sua corte di leccapiedi, perciò stabilii che avrei lasciato Hauteville e l’inferno che erano divenute le mie giornate. Fu Fresenda a impedirmelo. Non le avevo confidato nulla, ma buona parte delle mortificazioni che Roberto mi aveva inflitto l’avevano avuta testimone, e del resto i segni delle percosse che avevo sul viso parlavano da soli. «Thor non è mai fuggito dinanzi a Loki» mormorò mentre io empivo la mia sacca con le provviste per il viaggio «lo ha affrontato anche quando la sfida sembrava impari. E ha sempre prevalso.» Io ero sfinito, colmo di rabbia, e fui con lei a dir poco sgarbato.


10 «Piantala col tuo Thor e il tuo Loki, madre» la zittii «sono stanco di favole.» Lei sembrò intristirsi. Aveva più di una sfumatura grigia tra i capelli, le sue mani erano escoriate sul dorso, le unghie scheggiate, il sorriso forzato. Per la prima volta la vidi vecchia. «Forse hai ragione tu, Rogeirr. Gli antichi idoli hanno fatto il loro tempo. Rivolgiti al nuovo dio, allora. Se sei nel giusto, lui saprà ascoltarti.» Mi porse una croce di legno, mi baciò sulla fronte e uscì dalla stanza. Io indugiai, colpito. In quel momento mi sovvenne che più volte, da bambino, avevo sorpreso Fresenda a parlottare fra sé quando si credeva sola. Non l’avrebbe mai confessato a mio padre, ma io sapevo che pregava Freya - l’antica signora della fertilità - ogni qualvolta una sua conoscente rimaneva incinta. E si rivolgeva a Frigg, la moglie di Odino, per ogni piccolo screzio o contrattempo che minacciasse di incrinare la serenità del nostro focolare. Perché, mi dissi, non potevo fare altrettanto, per di più rivolgendomi non a false divinità ma all’unico vero signore dei cieli? Mi avevano insegnato che Dio Onnipotente ricompensa i virtuosi e punisce i peccatori. E io ci credevo col tutto il mio essere. Mi inginocchiai, chiusi gli occhi e presi a pregare. E pregare. E pregare ancora. Finché udii una voce che tuonava nella mia testa. «Ego te ausculto, Rogerius.» Ne fui scosso. Ma non sorpreso. Io ero Ruggero figlio di Tancredi; ero un uomo libero di puro sangue vichingo. Dio amava la mia stirpe, l’aveva dimostrato in mille modi, spazzando via i nostri nemici, donandoci la terra più ricca del creato e ogni genere di bottino. Perché avrebbe dovuto restar sordo alle mie invocazioni? «Comprendi ciò che ti dico, Roger de Hauteville? Preferisci che ti parli in normanno, Rogeirr Tankredsson?» «Comprendo, Signore Dio Onnipotente» mormorai con gratitudine «mi rivolgo a Te in umiltà, per chiederti…» «So cosa ti turba, giovane guerriero. E posso aiutarti.» M’illuminai di speranza. «Sì, ti prego. Liberami da mio fratello e ti prometto che…» La voce tonante intimò il silenzio. «Ogni cosa a suo tempo, tu che hai nome “Glorioso con la Lancia”. Ascoltami. Io e te stipuleremo un patto. Avrai la pace che desideri. In


11 cambio dovrai promettere che quando sarà il momento compirai ciò che ti chiederò.» «Compirò cosa?» La voce me lo disse. E io giurai sulla mia anima e sull’onore dei miei avi di obbedire. E fu sera e fu mattina. *** Nelle settimane che seguirono, il mio corpo si trasformò. Da moccioso basso e di corporatura gracile, prima che finisse l’estate mi ero alzato di quasi due spanne e avevo messo su una muscolatura tale da spaventare un orso. All’arrivo delle piogge d’autunno, nessuno in tutta Hauteville riuscì più a tenermi testa quanto a forza fisica. I primi ad accorgersene furono i tirapiedi di Roberto. Dopo che ne ebbi stesi una dozzina a mani nude, non si azzardarono più a infastidirmi. Una sera mi vennero addosso in quattro, con mazze e bastoni. Volli essere magnanimo e concessi loro di tornare a casa interi. Più o meno. Roberto, che non era uno stupido, da quando lo venne a sapere si tenne prudentemente a distanza. Io ringraziai Dio e decisi che potevo tornare a sorridere. Almeno fino alla storia del cavallo. *** Mio padre era solito, allorché uno dei suoi figli raggiungeva l’età per l’investitura, donargli un destriero di rango, già addestrato per la battaglia. Roberto e gli altri miei fratelli avevano già ricevuto il loro quadrupede, e ne erano pazzamente orgogliosi. Io ero l’unico maschio di casa a non essere ancora, né formalmente né di fatto, un cavaliere. Roberto, malignamente, non faceva che rinfacciarmelo, consapevole che era forse il solo modo in cui ancora poteva ferirmi. Quell’anno era finalmente il mio turno. Sapevo che prima di Natale nostro padre sarebbe tornato ad Hauteville con la mia cavalcatura. Me lo figuravo bianco, uno splendido corsiero con la criniera folta e gli zoccoli scattanti. Sulla sua groppa avrei fatto tremare il mondo. Ricordo che quella sera scoppiò un feroce temporale. Dovetti aiutare i mandriani a radunare le bestie e a porle al sicuro dai fulmini. Poiché io


12 ero ormai riconosciuto come il più forte della famiglia (taluni avevano preso a chiamarmi “Ruggero il Bosso”, cioè il massiccio) il lavoro più pesante ricadde sulle mie spalle. A notte ero così stanco che rincasai senza quasi distinguere la strada che calpestavo. Crollai a dormire sul primo pagliericcio su cui riuscii a gettarmi. La mattina dopo, destandomi, fui sorpreso nel trovarmi dinanzi mio padre. A quanto pareva era arrivato la sera prima, nel bel mezzo del fortunale. Mi parve strano che nessuno mi avesse svegliato, ma conclusi che forse avevano tentato senza successo. Tancredi mi abbracciò, gioviale. Restai colpito nello scoprire che era ormai più basso di me, lui che mi era sempre sembrato una montagna d’uomo. Insistette che facessimo colazione insieme, colmò i corni di birra per brindare, mi narrò delle mirabili imprese che aveva compiuto, nei mesi che era stato via, per il suo signore Riccardo. Io fremevo. Bruciavo dal desiderio di montare il cavallo che certamente egli mi aveva portato. Ma non volevo essere scortese e fingevo di prestare attenzione alle sue chiacchiere. Finché a un certo punto persi la pazienza e sbottai. «Perdonatemi padre, vorrei vedere il mio destriero. È nella stalla, vero?» Tancredi corrugò la fronte con aria delusa. Io capii che qualcosa non andava. «Il tuo destriero? Strano che tu dica questo, dopo stanotte. Hai già cambiato idea? Dovresti essere più fermo nei tuoi convincimenti, Rogeirr. Comunque, ormai è tardi.» Sobbalzai. «Stanotte? Che significa?» «Lo sai bene. Mi hai detto che non desideravi un cavallo, che preferivi rinunciare al tuo dono. Ti ho chiesto di rifletterci meglio, che mi sembrava sciocco parlarne così, al buio, tra i lampi, senza neppure vederci in viso. Ma tu…» Improvvisamente mi fu tutto chiaro. Digrignai i denti. «Roberto.» «Certo» confermò mio padre «ho dato il nuovo cavallo a tuo fratello. Proprio come mi hai suggerito stanotte.» Mi levai in piedi di scatto, così bruscamente che lo sgabello su cui ero seduto si spezzò. Sentii che Tancredi chiedeva spiegazioni, ma io ero troppo furibondo. Corsi fuori.


13 La pioggia era cessata. Il cielo era ancora brumoso, di quel colore che solo gli autunni in Normandia possiedono. Una famiglia di corvi gracchiava dai rami di un ginepro. Il torrente era gonfio, le rive coperte di mota. Le pietre di Hauteville erano lucide, i camini esalavano vapore, l’aria sapeva di pulito. Lo vidi. Roberto era in sella al destriero che mi aveva sottratto con l’inganno, e lo faceva trottare a comando nel fango dell’aia. L’animale era proprio come l’avevo immaginato: piccolo e agile, un manto immacolato, criniera folta, due occhi rotondi e intelligenti. Mio fratello si compiaceva a farlo scartare a destra e a mancina, a farlo puntare e girare su se stesso, colpendolo sul fianco con un bastone se non obbediva prontamente. Quando mi scorse, si erse sulla sella, trottò verso di me e sorrise. Nel vederlo così tronfio e raggiante nella sua provocazione, pensai che mia madre aveva sempre avuto ragione. Roberto era il Wiskard, l’incarnazione della scaltrezza insolente ed empia di Loki il malvagio. «Come hai osato?» lo affrontai inviperito. «Osato cosa, mio buon Rogeirr?» mi derise. «A proposito, che ne pensi del mio nuovo destriero? Forse troppo giovane, ma avrò tempo per insegnargli.» Strinsi i pugni. «Stanotte ti sei presentato a nostro padre falsando la voce, spacciandoti per me. Lo hai raggirato per impadronirti di ciò che era mio.» Sporgendosi dalla sella a torreggiare su di me, lui atteggiò il viso a mimare sorpresa. «Stai forse suggerendo che il nobile Tancredi, fedele vassallo e consigliere del principe Riccardo, sia così sprovveduto da non saper distinguere i suoi stessi figli? Fa’ attenzione mio buon Rogeirr; al tuo posto eviterei di insultare nostro padre. Diamine, potrebbe ripensare del tutto alla tua investitura.» L’ira mi accecò. Dimentico di ogni cosa che non fosse l’offesa che avevo ricevuto, allargai le braccia, gonfiai il torace, piantai saldamente gli stivali nel terreno bagnato. E sollevai Roberto in aria con tutto il cavallo. L’animale s’irrigidì spaventato. Roberto spalancò la bocca, per una volta senza parole. Io torsi il busto e lo gettai, cavallo compreso, giù per la scarpata che portava al torrente.


14 Mio fratello saltò dalla sella appena in tempo per evitare d’essere travolto. Rotolò nel fango; con la sua usuale fortuna non colpì sassi o rami aguzzi. Puntò le ginocchia e si rialzò senza danni. Il cavallo invece riuscì ad arrestare la caduta solo alla riva. Lì si arrestò sul dorso, mulinando inutilmente le zampe in aria e nitrendo di dolore. Mi voltai verso Roberto. Mio fratello era pallido. Aveva perduto il suo bastone, sommerso dal fango. Avanzai. Lui indietreggiò. «Sei pazzo» balbettò. Poi mi voltò le spalle e prese a correre verso le stalle. «Lascialo andare, Rogerius» tuonò la voce nella mia testa. «Acta est fabula: hai commesso azioni riprovevoli a sufficienza.» Io sussultai. Era la prima volta, dal giorno delle mie preghiere, che Dio tornava a parlarmi. Capii subito a cosa alludeva. Corsi a soccorrere il cavallo. Si era ferito ai garretti posteriori. Forse una delle zampe era rotta. «Spetta a te curarlo, Rogerius. E dovrai farlo bene, per ottenere redenzione dalla tua colpa.» «Guarirà?» osai chiedere, sinceramente contrito. «Sì, ma non correrà mai più come prima.» Chinai il capo e deglutii. «L’ho rovinato.» «Chi può dirlo, Rogerius? Difficilmente caricherà in battaglia, quindi forse gli hai salvato la vita. Sarà ancora buono per il lavoro dei campi. Potrai donarlo ai contadini; lo aggiogheranno al carro o all’aratro.» Presi il muso dell’animale tra le mie mani. Le sue froge erano ancora dilatate per lo spavento, ma il suo respiro stava tornando regolare. Sul collo aveva una macchia scura che ricordava la punta di una lancia. Raccolsi un paio di rami portati dalla corrente, mi stracciai la veste e gli steccai la zampa ferita. I suoi occhi tondi e intelligenti mi fissarono con intensità. «Non lo cederò a nessuno. È il destriero che mio padre ha scelto per me. Forse non potrò montarlo in guerra, ma non importa. Me ne prenderò cura. Sarà la mia redenzione.» La voce sembrò approvare. «C’è ancora speranza per te, Rogerius.» ***


15 Nei giorni successivi, con una scusa o l’altra, Roberto trovò il modo di evitarmi, e io non feci menzione dell’accaduto. Il Natale trascorse serenamente. All’anno nuovo mio fratello annunciò che per lui era venuto il tempo di conquistare il trono che - ne era convinto - già lo attendeva in qualche terra lontana. Spese la sua parte di eredità nell’acquisto di armi ed equipaggiamenti, per se stesso e per i suoi accoliti più fedeli. Lasciò Hauteville in una domenica di nebbia densa come chiara d’uovo. Io sospirai di sollievo e pensai che non lo avrei più rivisto. Dio non mi disse che ero solo un ingenuo. Credo volesse farmi scoprire da solo quanto mi sbagliavo.


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Capitolo 2

Salerno, 1053 A.D. La grande sala dei bracieri, nella casa di mio padre, aveva le pareti drappeggiate di arazzi, intessuti a mano dalle donne, che raffiguravano le mirabili imprese compiute per terra e per mare dai nostri avi. Ricordo che su una di quelle stoffe spiccava lo scafo snello d’un knarr dalle vele quadre, su un’altra la fiancata ornata di scudi d’un drakkar da guerra. Su navi come quelle, raccontava Fresenda alla sera, i padri dei nostri padri avevano solcato i mari del nord a dispetto delle isole di ghiaccio, dei mostri abissali e delle tempeste. Si orientavano con le stelle, spiegava mia madre, e per avanzare nella bruma suonavano il corno affinché l’eco li avvisasse della posizione della costa; oppure liberavano un corvo, che ogni timoniere portava con sé a bordo, perché quegli uccelli sanno sempre tornare alla terraferma. A insegnare quell’uso ai normanni era stato Odino in persona, assicurava Fresenda; anche lui possedeva due corvi, Huginn e Muninn, che lo avvisavano di quanto accadeva nel mondo e lo aiutavano a vedere, poiché Odino aveva ceduto un occhio in cambio della saggezza. La nave su cui m’imbarcai al porto di Saint-Malo, il giorno di Pentecoste dell’Anno del Signore 1053, non aveva nulla a che vedere coi gloriosi scafi vichinghi di quei tempi lontani. Era un mercantile panciuto e di grande pescaggio, con la stiva colma di pellicce, grasso di balena e altre mercanzie che si vendevano bene nei paesi del sud. Il capitano si chiamava Rollone. Si esprimeva nella nostra lingua, ma sembrava aver nelle vene più acqua di mare che sangue normanno. Il viaggio fu lungo. Con l’aiuto dei Signore e il vento a gonfiare strane vele a triangolo che Rollone chiamava “latine”, costeggiammo la terra dei Franchi, facemmo scalo all’estuario della Loira e poi in quello della Garonna. Volgendo la prora a sud-ovest giungemmo a Santander, principale porto del regno di Leon, e poi al Capo Finisterra, ove vendemmo


17 parte del carico e ne imbarcammo altro. Fui contento delle numerose tappe perché - lo scoprii con sorpresa mista a rammarico - lontano dalla terraferma il mio stomaco non tratteneva cibo. Trascorrevo la maggior parte del tempo sulla tolda, giacché la stiva del mercantile puzzava come il culo d’un maiale. Scendevo soltanto quando il mare s’ingrossava e i tuoni facevano tremare il fasciame, per tranquillizzare Redenzione, impastoiato sotto coperta. In quelle occasioni gli portavo una mela o una mezza carota, poi lo carezzavo sulla macchia a forma di lancia finché lui si calmava e tornava a sdraiarsi sulla paglia. Il tutto sotto lo sguardo colpito e anche un po’ invidioso di Arduino, il mio scudiero; a lui Redenzione, in quelle circostanze, non permetteva neppure di avvicinarsi. Le notti mi sistemavo a prua, avvolto nel manto cucito da Fresenda e il viso fisso sulle onde nere, a pregare Dio affinché rendesse saldo il mio proposito e glorioso il mio futuro. Il cielo era trapuntato di stelle; ad Hauteville non ne avevo mai viste tante. Forse non avevo mai osato alzare tanto lo sguardo. Tre settimane dopo aver lasciato Saint-Malo, doppiammo la rocca di Gibilterra ed entrammo nel Mediterraneo. «Queste acque appartengono all’emiro di Cordova» avvisò Rollone. «Se incrociamo un golafro o uno sciabecco con la mezzaluna, non sventolate troppo i vessilli normanni. Qualcuno potrebbe non gradire. Io ne fui indignato. «Dovrei aver paura? Il figlio di Tancredi d’Hauteville non si nasconde dinanzi a nessuno!» «Lì dove stai andando ti aspettano guerre a sazietà, giovane Ruggero. Ma qui sei sulla mia nave, e io ho un carico da portare a destinazione.» «Ma…» «Niente “ma”. Io sono un mercante e ci tengo a mantenere buoni rapporti con gli arabi. Non sarai tu a mettermi in difficoltà.» Nonostante la nausea e la debolezza per il lungo digiuno, avrei potuto sollevare quel pavido finto normanno e scaraventarlo in mare con una mano sola. Ma udii un “No” tuonare nella mia testa. Così scrollai le spalle e tornai sotto coperta. Quella stessa notte Dio confermò che avevo agito bene. «Di te mi sono compiaciuto, Rogerius. Continua a obbedirmi e io ti renderò un grande condottiero. Ut sementes feceris ita metes: le tue gesta si canteranno nei secoli.»


18 Non aggiunse altro. Ne fui deluso. Mi sarebbe piaciuto avere maggiori lumi sul mio futuro, giacchĂŠ veleggiavo verso lidi sconosciuti e cittĂ di cui a stento avevo letto il nome sulla missiva di Unfredo. Srotolai ancora una volta la pergamena inviatami dal mio fratellastro, figlio di primo letto di Tancredi. La sua lettera narrava brevemente della guerra in cui Unfredo era coinvolto, che lo opponeva ai Longobardi - un popolo germanico cugino dei Franchi - e ai loro numerosi alleati. Unfredo, che si diceva in difficoltĂ , stava raccogliendo truppe e invocava anche la mia spada in soccorso. Chiesi a Dio se avevo fatto bene ad accettare. In risposta udii soltanto lo sciabordio delle onde contro la fiancata della nave e il verso stridulo degli albatri.


19 Sei giorni dopo fummo in vista di Salerno, il porto ove Rollone aveva promesso di sbarcarmi. La città sorgeva tra alti monti boscosi e il mare, poco a sud d’un promontorio, o meglio una piccola penisola, che mi parve di grande bellezza. La popolazione era senz’altro ricca, anche se i molti visi indolenti e i ventri pingui che ravvisai mi diedero l’impressione di una generale decadenza. Redenzione fu felicissimo di sentire finalmente vero suolo sotto gli zoccoli. E, devo dirlo, anch’io condividevo il suo sollievo. Lasciai il mio destriero alle cure di Arduino e mi recai al palazzo del principe. Mostrai alle guardie il sigillo che Unfredo aveva spedito insieme alla lettera. Mi fu detto di pazientare, che sarei stato ricevuto quanto prima, e che potevo profittare dell’attesa per visitare i bagni di palazzo. Un modo cortese di dirmi che puzzavo troppo per incontrare il principe. Acconsentii, deposi le armi e mi lasciai condurre fino a un grande lavatoio d’acqua tiepida (retaggio - mi spiegarono - dell’antico impianto termale romano) dove potei togliermi di dosso la sporcizia di quasi un mese di navigazione. I vapori e i profumi del bagno erano così rilassanti che indugiai nell’acqua più del dovuto. Probabilmente per qualche istante chiusi gli occhi, o comunque allentai la mia vigilanza, perché fu solo quando emersi gocciolante dalla vasca che mi resi conto di avere compagnia. Una ragazzina - avrà avuto undici o dodici anni - mi stava fissando con grande curiosità. La sua veste era sontuosa, i suoi sandali di ricca fattura. Portava anelli a ogni dito e lunghe trecce raccolte in un’acconciatura elaborata. Aveva occhi grandi, del colore degli aghi di pino, e una voglia sulla guancia sinistra che ricordava la forma di un cuore. Mi si rivolse in un idioma che non conoscevo. Credo fosse longobardo, o forse greco: all’epoca non sapevo neppure distinguerli. «Sei normanno?» chiese infine nella mia lingua. «Ruggero figlio di Tancredi» mi presentai, divertito che una fanciulla così giovane non facesse caso alla mia nudità. «Sichelgaita» disse lei, toccandosi il seno a chiarire che quello era il suo nome. Poi sembrò rendersi conto della situazione; arrossì furiosamente. Io risi. Senza trattenermi. Lei indietreggiò, ma sembrava più affascinata dal mio aspetto che spaventata dalle risate sguaiate che mi squassavano il petto. «I normanni sono tutti giganti come te?»


20 «Le ragazzine di Salerno sono tutte così impertinenti?» replicai cercando lì intorno i miei vestiti. Invano. «Ho comandato ai servi di lavarli» si affrettò a spiegare lei incespicando nelle parole «puoi indossare questi.» Afferrai i panni che ella mi porgeva. Erano morbidi e profumati, caldi ma tutt’altro che pesanti. Non avevo mai toccato un tessuto così raffinato. «Sei un principe?» chiese ancora. Gli occhi le fremevano, mi avvidi, ma sembrava che non riuscisse a togliermeli di dosso. «Forse lo sarò in futuro» replicai sinceramente «perché?» «Un giorno io sposerò un principe» mormorò lei «mi piacerebbe che avesse un corpo bello e forte come il tuo.» Risi ancora, gettando indietro la testa. Forse la offesi, perché senza replicare mi diede le spalle e fuggì via. Scrollai le spalle, terminai di vestirmi e tornai dalle guardie. Finalmente mi concessero il passo, scortandomi sino alla sala delle udienze. Sul trono era assiso un giovane. Doveva avere suppergiù la mia età. Era magro e portava i baffi spioventi all’uso longobardo. Si presentò come Gisulfo, figlio di Guaimaro. Gli mostrai il sigillo di Unfredo. Lui s’illuminò. «Il più giovane degli Altavilla? È un onore. Considerati mio ospite, Ruggero. Di qualunque cosa tu abbia bisogno, devi solo chiedere.» La sua cordialità, seppi poi, era più un atto dovuto che un’attitudine sincera. Gisulfo aveva riconquistato la sua corona solo grazie alle armi di Unfredo, che l’anno prima aveva scacciato da Salerno l’usurpatore Pandolfo. Come tutti i nobili longobardi, Gisulfo in realtà guardava a noi normanni con grande diffidenza. Aveva accettato l’alleanza di Unfredo come il male minore, ma nel fondo della sua anima capiva bene che il nostro arrivo in armi nelle terre di Campania significava la fine della sua dinastia. Ma a quei tempi ignoravo cosa si celasse dietro al suo sorriso, perciò ringraziai compitamente per i doni. Udito che intendevo raggiungere Unfredo, Gisulfo informò che il mio fratellastro era acquartierato, alla testa delle sue truppe, a Benevento, città ducale longobarda che egli aveva appena espugnato. Gisulfo mi promise vettovaglie, muli per trasportarle, un cavallo per il mio scudiero, una scorta e la sua benedizione per il viaggio. Insistette però che io partissi solo l’indomani; quella sera sarei stato suo ospite al banchetto che si sarebbe tenuto a Palazzo.


21 Capii che voleva sfoggiarmi, quasi fossi una bestia esotica, a beneficio dei suoi cortigiani. Ma era un piccolo prezzo da pagare a fronte della sua generosità, perciò accettai. *** «Vestito da guerriero sei ancora più bello, gigante.» Mi voltai, ma dovetti abbassare lo sguardo per riconoscere la ragazzina del bagno. Anche se calzava stivali morbidi invece dei sandali con cui l’avevo vista quella stessa mattina, la sua testa giungeva a stento al mio ombelico. «Vieni con me gigante. Ti porto allo scanno che ti è stato riservato. Rallegrati, siederai tra i commensali più illustri del simposio.» Afferrò la mia mano e mi trascinò via con forza inaspettata in una creatura tanto esile. Risi di nuovo per la sua sfrontatezza. Ma cercai di trattenermi, giacché ero dinanzi a gente alla quale - lo leggevo nei loro occhi sprezzanti - già ero stato additato come barbaro. La sala del banchetto era più che affollata. I notabili longobardi erano seduti alla destra di Gisulfo, e si riconoscevano dai baffi curati e dalle vesti scure. Abiti più chiassosi e monili d’argento distinguevano un secondo stuolo, raccolto sul lato sinistro della tavolata. Sichelgaita mi spiegò che si trattava dei maggiorenti di Salerno, rappresentanti delle corporazioni, mercanti e mastri artigiani, quasi tutti di origine bizantina. Su un soppalco contornato da ballatoi lignei, un gruppo di musici strimpellava strumenti musicali che non conoscevo. Dinanzi al camino era seduto l’uomo più grasso che io avessi mai visto. Sul viso da cinghiale era calcata una berretta tonda color porpora; il corpo enorme era insaccato in una lunga veste dello stesso colore. Gli facevano corona una dozzina di preti e altrettanti monaci dal capo scoperto e saio benedettino. «Mio zio Alfano» mormorò la ragazzina «vescovo di Salerno. In questi giorni ospita una delegazione della curia romana. Gente importante.» «Vedo che hai già conosciuto mia sorella Sichelgaita» mi salutò Gisulfo. Indossava un manto di pelliccia, più un vezzo che una necessità visto il tepore della sera. Il suo capo era cinto da un diadema di ferro battuto tempestato di granati. Inarcai un sopracciglio. «Vostra sorella?»


22 «È una bambina divertente, vero? Ha solo dodici anni, ma di quel che accade in città non le sfugge un’eco. Riesce a infilarsi non vista in posti che nemmeno immagineresti.» «Me ne sono accorto.» Gisulfo carezzò una guancia della sorella. Sichelgaita parve non gradire. Continuava a fissarmi con intensità quasi dolorosa. «È anche una grande esperta d’erbe e pozioni. Nessuno speziale di Salerno le tiene testa. Se mai tu volessi un rimedio per la gotta o un filtro d’amore, rivolgiti a lei.» «Non ha bisogno di pozioni d’amore» mormorò Sichelgaita «qualunque donna sarebbe felice di cadere ai suoi piedi.» Gisulfo rise. Io no. Al contrario, sussultai. Il tono della ragazzina - terribilmente serio, quasi affranto - mi aveva messo a disagio. Il principe tagliò corto. I suoi modi apparivano meno cortesi del benvenuto che mi aveva rivolto al mattino. «Lascia che le femmine si accomodino al loro tavolo, Ruggero, e vieni a brindare con noi. Voglio presentarti tutti.» Fu peggio di quanto temessi. I commensali, dopo i primi istanti di falsa giovialità, presero a trattarmi come una sorta di selvaggio piovuto per sbaglio in un consesso civile. Colsi risatine d’intesa e scambi di battute in greco o longobardo, sicuramente commenti sarcastici alle spalle del normanno ignorante. Gisulfo sussurrò qualcosa in latino al nobile che lo affiancava: distinsi i termini “rozzo” e “sempliciotto”. Il cattivo umore che la battuta di Sichelgaita aveva suscitato in me crebbe fino a pesarmi addosso come una coperta bagnata. Capii che il principe si stava vendicando in maniera sottile. Dell’alleanza innaturale cui era stato costretto, del sentirsi debitore verso mio fratello Unfredo, di chissà quali altre umiliazioni che la mia gente gli aveva inflitto. Gisulfo batté le mani. I servi cominciarono a portare vivande su grandi vassoi di peltro e a colmare di vino i boccali in rame. Gli ospiti del banchetto levarono brindisi e presero a inforcare bocconi di selvaggina. Io avevo solo voglia di andarmene. Poi colsi un particolare che mutò il mio disappunto in biasimo. «C’è qualcosa che non va, Ruggero?» chiese Gisulfo notando che non avevo ancora toccato cibo. «Perdonatemi nobile principe; pensavo di trovarmi in terre cristiane» dissi a voce alta. Intorno a me il brusio cessò all’istante.


23 «Che intendi dire?» s’informò Gisulfo stizzito. Gonfiai il petto. «Ecco… al mio paese prima di spezzare il pane si ringrazia Dio per i doni che Egli ha concesso.» Nella sala cadde il silenzio. Vidi gli occhi di tutti convergere su di me. In particolare, i religiosi che circondavano il vescovo sembrarono volermi trafiggere con lo sguardo. Il grasso Alfano, forse per stemperare la tensione, abbozzò una risata che fece tremolare il suo enorme ventre drappeggiato di porpora. «Ah, l’entusiasmo dei neofiti» ghignò in latino «i loro padri idolatravano ancora il Sole e la Luna, e ora pretendono di spiegare a noi il Verbo. Non capiscono, poveri stolti, che Dio era con noi quando loro ancora s’insozzavano le membra di fango e masticavano crudità di balena.» Io attesi che i risolini di piaggeria dei cortigiani si spegnessero, poi risposi nel mio latino stentato ma perfettamente comprensibile. «Se Dio è con voi, perché non gli avete riservato un posto a tavola?» Prima che Gisulfo e gli altri potessero riprendersi dalla provocazione, mi levai in piedi, sollevai con un grugnito il pesante scanno e lo piazzai con decisione al centro della sala. Il tonfo del legno massiccio sul pavimento in pietra ammutolì definitivamente i presenti, compresi i musici. «Offro il mio seggio al Signore. Egli è più degno di me, che sono un barbaro senza istruzione, di condividere una mensa di siffatti nobili e prelati. Sic dicit Rogerius filius Tancredi.» Il vescovo strabuzzò gli occhi. Il suo viso era più rosso della veste. Sembrava sul punto di perdere i sensi. Gisulfo lanciò uno sguardo preoccupato alle proprie guardie. Costoro mi squadrarono, confrontarono il loro fisico col mio e restituirono al principe un’occhiata gravida di preoccupazione. D’improvviso, dal gruppo che faceva cerchia al vescovo si staccò un religioso. Lo guardai avvicinarsi; indossava una semplice tonaca di panno nero, aveva la barba lunga fino alla vita e un crocifisso di legno appeso al collo con un cordone di canapa. Le sue spalle erano curve, le guance incavate; i suoi occhi erano penetranti, imperiosi. Era a piedi nudi. Venne verso di me a passi misurati, si fermò a una spanna dal mio petto e mi fissò dal basso in alto senza alcun timore. «Da dove vieni, Ruggero figlio di Tancredi?» Risposi ancora in latino. «Dal feudo di Altavilla, in Normandia.»


24 «Ho molto viaggiato per Madre Chiesa, ma non conosco il tuo paese.» Il prete si tolse con calma la collana col crocifisso e l’avvolse intorno al mio collo. «Accetta questa ricompensa, giovane Ruggero» mormorò, a voce così bassa che solo io potei udirlo. «Ricompensa?» ripetei confuso «per cosa?» «Per averci fatto vergognare. Te ne sono grato.» «Non capisco.» «La vergogna è utile. Fustiga la superbia e stimola l’umiltà. La vergogna è grembo del pentimento e fonte di salvezza. Dio ama chi è capace di provare vergogna. Ricordalo, giovane Ruggero.» Sussultai, colpito, e per un istante dimenticai le guardie longobarde, la doppiezza di Gisulfo e l’ostilità che montava intorno al tavolo del banchetto. Fu come se al mondo esistessimo solo io e le sagge parole di quel prete sconosciuto. «Chi siete?» chiesi, ammirato dalla dignità che trasudava dalla sua figura. Lui s’inchinò, un gesto appena avvertibile. «Mi chiamo Ildebrando. Vengo da Sovana, nella Tuscia. Sono onorato di averti conosciuto.» «Anch’io, signore.» «Adesso devi andare, giovane Ruggero. Dio ama la Verità, ma non sempre gli uomini fanno altrettanto. Temo che tu abbia offeso il principe. Non puoi restare ospite alla sua tavola, ormai. Dubito che oserà farti del male, ma è meglio che tu lasci Salerno.» La forza tranquilla che egli emanava mi lasciò stordito. Mi ricordava le querce solitarie erte in mezzo alla pianura normanna che sfidano la tempesta con la loro fermezza, e grazie a essa l’attraversano indenni. Restituii l’inchino. «Vi ringrazio, padre Ildebrando. Spero di rivedervi, un giorno.» «Se Dio lo vorrà, giovane Ruggero. Gutta cavat lapidem, ricordalo.» Uscii in fretta dalla sala del simposio. Le guardie del principe non mossero un dito per fermarmi. Al contrario, parvero sollevate di non avermi dovuto cacciare con le loro pavide forze. Mentre discendevo nervosamente le scale del palazzo, diretto alla stalla ove mi attendevano Redenzione e Arduino, d’un tratto sentii con certezza che il mio cammino si sarebbe incrociato di nuovo con la strada di quello strano prete.


25 Ciò che non sapevo era che prima di allora io avrei affrontato cento battaglie, sconfitto legioni di nemici, espugnato innumerevoli fortezze; sarei stato chiamato “Scudo di Cristo”, acclamato da interi eserciti e investito del titolo di Gran Conte di Sicilia. Lui avrebbe fatto anche di più. Un giorno d’inverno, un imperatore cinto di corona si sarebbe inginocchiato nella neve dinanzi alla sua tonaca e gli avrebbe baciato umilmente i piedi implorando perdono. Eppure ci saremmo ritrovati, tanti anni a venire, nella città di Pietro, e ci saremmo riconosciuti. Lui mi avrebbe chiesto aiuto e io avrei sguainato la spada in suo soccorso. Perché le vie del Signore sono misteriose. Amen.


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Capitolo 3

Benevento, 1054-55 A.D. Partimmo da Salerno alle prime luci dell’alba, sotto una pioggia leggera che stemperava i rancori e mondava i pensieri. Le “vettovaglie” che Gisulfo aveva promesso per il viaggio fino a Benevento si rivelarono, nell’ordine, una scarsella contenente poche fette di pane nero, un otre d’acqua maleodorante e un mulo per il mio scudiero Arduino. La “scorta” un plebeo gobbo di nome Arechi il quale ci assicurò d’intendere a sufficienza l’idioma dei normanni, di conoscere la strada meglio delle sue stesse pulci e che con l’aiuto di Dio avremmo incrociato le truppe del mio fratellastro Unfredo già prima del tramonto. Prima di varcare definitivamente le mura della città attraverso Porta Rotense, mi volsi un’ultima volta verso il palazzo di Gisulfo. Gli augurai che la “benevolenza” nei miei confronti fosse presto degnamente ripagata. Dagli appartamenti del principe filtrava, appena avvertibile, una luce. Forse una candela. Ne fui sorpreso, perché sapevo che il banchetto si era protratto a lungo ed ero certo che a quell’ora tutti dormissero. Aguzzai la vista. Distinsi una sagoma che armeggiava con gli scuri. Era minuta, sottile, le spalle tonde e aggraziate. Riconobbi Sichelgaita. Anche lei dovette distinguermi, nonostante la distanza e la cortina di pioggia, perché levò un braccio in quel che mi sembrò un cenno di saluto. Ricambiai, poi mi resi conto che in realtà la ragazzina aveva gettato qualcosa sull’acciottolato della piazza. «Vallo a prendere, Arduino» comandai. Lo scudiero mi consegnò in fretta l’oggetto recuperato. Era un cofanetto in rame laccato, uno di quegli scrigni ove le nobildonne longobarde serbavano i loro monili. La caduta ne aveva deformato il coperchio, dovetti forzarlo per aprirlo. Dentro vi trovai una pergamena vergata in latino; evidentemente, pur parlandolo, Sichelgaita non sapeva scrivere in nor-


27 manno. O forse onorare con l’inchiostro una lingua così barbara era disdicevole per una nobile fanciulla di Salerno. Lessi. Mi spiace che tu sia dovuto partire, gigante. Oculi sunt in amore duces. Se solo io avessi avuto qualche anno in più, ti avrei chiesto di portarmi con te. Sorrisi e tornai a levare lo sguardo verso gli appartamenti di Gisulfo. Ma la luce si era spenta, e Sichelgaita scomparsa. *** Procedemmo tutto il giorno per sentieri fangosi che da Salerno si addentravano tra le colline. Quando Redenzione mi sembrò stanco, mi alleggerii d’elmo e cotta di maglia, che affidai ad Arduino. L’orizzonte era dominato da un vulcano dai fianchi maestosi sormontato da un sottile pennacchio di fumo. Arechi spiegò che si trattava del Vesuvio. Oltre il crinale della montagna si trovava l’abitato di Napoli, aggiunse, ma non era sul nostro cammino. Proseguimmo verso settentrione e presto ci ritrovammo su un pianoro seminato a maggese ove finalmente tornò il sereno. I contadini che incrociammo non ci degnarono d’uno sguardo, il che mi parve sospetto data la guerra in corso; le armi che portavo dovevano pur destare qualche preoccupazione. Chiesi lumi alla mia guida, ma egli scrollò le spalle, curve sino alla deformità. «I bifolchi sono sempre in guerra, nobile Ruggero» asserì in tono inespressivo «combattono contro la fame, il maltempo, la miseria. Cosa può importare loro di un singolo cavaliere che vaga per i campi? Temono assai più la siccità, o i corvi che predano il loro frumento.» Aggrottai la fronte. «Non capisco. Questi villici sono sudditi di Gisulfo? Longobardi? Bizantini? O cosa?» Arechi non batté ciglio. «Sono sudditi di chi gli sottrae come tributo una parte del raccolto. Che costui sia normanno, svevo o saraceno, che differenza fa? Dovranno ugualmente spezzarsi la schiena per soddisfarlo e nascondergli qualche briciola con cui nutrire i figli.»


28 Non avevo mai udito un plebeo esprimersi così, fondendo nello stesso crogiolo sarcasmo, ricchezza d’eloquio e provocazioni. Considerai l’aspetto di Arechi, e conclusi che doveva essere una sorta di buffone di corte, forse il giullare personale di Gisulfo. Avermelo assegnato come guida costituiva senz’altro l’insulto finale del principe. «Forse in città è diverso, nobile Ruggero» insistette il gobbo «ma nelle campagne nessun bifolco saprebbe dirvi il nome del signore del feudo in cui vive. Il contadino conosce gli esattori che bussano alla sua porta, gli sgherri che lo percuotono se non ha di che pagare, i preti che gli promettono il paradiso se resta mansueto e lo minacciano con l’inferno se solo sogna di ribellarsi. Null’altro.» L’ultima asserzione fece sussultare Arduino. Il mio scudiero si segnò con fare scandalizzato e mi chiese se doveva zittire il gobbo a calci. Io scossi la testa; secondo me Arechi non intendeva denigrare la Chiesa, semmai accusare i falsi religiosi come quel vescovo obeso che mi aveva insultato la sera prima. «Lascialo stare» comandai «mi diverte. Quando saremo giunti a destinazione deciderò se somministrargli una robusta lezione o se prenderlo a mio servizio.» «Schiene storte, il bastone le raddrizza» commentò laconicamente Arduino. Ma obbedì. Proseguimmo lungo la valle del fiume Sabato, le cui rive mi parvero gremite più da pecore e vacche che da cristiani. Arduino voleva uccidere uno degli agnelli all’abbeverata e cuocerlo allo spiedo per rifocillarci, ma io mi proponevo di raggiungere Benevento al più presto, perciò rifiutai. Finalmente, all’imbrunire, la mulattiera fangosa che avevamo percorso tutto il giorno sfociò in una strada in lastricato fiancheggiata da pietre miliari. «È la via Appia» ci informò Arechi. «Siamo quasi arrivati, nobile Ruggero.» Redenzione era esausto e zuppo di sudore, perciò smontai e gli slacciai la sella. Del resto su quella pavimentazione eccellente potevamo avanzare con celerità anche a piedi. Il fiume che avevamo seguito, vidi, si gettava in un corso d’acqua più ampio che Arechi chiamò “Calore”. «Stiamo attraversando il ponte Leproso, nobile Ruggero» indicò il gobbo «quello è il lebbrosario da cui prende il nome. Io stesso vi ho dovuto portare mia moglie e mio figlio, tre anni fa. Quella è la basilica di San Bar-


29 tolomeo. La croce che vedete laggiù appartiene al campanile di Santa Sofia. E lì, invece…» Pensai che Arduino aveva ragione; un tocco di bastone avrebbe reso il gobbo meno chiacchierone e più tollerabile. Ma ormai eravamo a destinazione, perciò decisi di essere magnanimo. Sugli spalti delle mura, sormontate da merli longobardi come avevo visto a Salerno, scorsi guerrieri in armatura normanna. Feci cenno a uno di loro, mostrai il sigillo di Unfredo e chiesi di essere condotto da mio fratello. Il guerriero disse che dovevamo salire alla Rocca dei Rettori, il castello che dominava la città. Acconsentii. *** «Ruggero? Tu saresti il piccolo Rogeirr? Allora è vero che il sangue degli Altavilla migliora!» Unfredo esplose in una risata compiaciuta, senza curarsi di spruzzare intorno il vino che stava sorbendo da una voluminosa coppa di rame. Mi ritrassi d’istinto. Troppo tardi. «Affé mia, ti avessi visto con un martello in pugno o su un carro trainato da capri, avrei pensato di trovarmi di fronte il possente Thor delle tempeste!» «Lo diceva anche mia madre» concessi, osservandolo con attenzione. Unfredo aveva solo quarantatré anni, ma il viso giallastro e il tremore delle dita lo facevano apparire di gran lunga più anziano. Soffriva, seppi poi, di quel male che cresce dentro e che nessun cerusico può estirpare. Teneva a bada il dolore col vino, di cui si serviva spesso, ma era consapevole che alla lunga il nemico che si celava nel suo corpo lo avrebbe sconfitto.» «Ah!» esclamò «la nobile Fresenda. Come sta la mia matrigna?» M’incupii. «Dio l’ha presa a sé. L’abbiamo sepolta nella tomba di nostro padre.» Unfredo lasciò cadere la coppa. Il contenuto, scuro e denso come sangue, si sparse lentamente sul pavimento di pietra. «Tancredi è morto?!» «Da quasi due anni» risposi, stupito dalla sua reazione. Potevo testimoniare che Serlone, non appena rientrato ad Hauteville per prendere possesso del feudo, aveva inviato messi a tutti i maschi della


30 famiglia, avvisandoli dell’accaduto e ammonendoli tra le righe ad accettare senza troppe storie i suoi diritti di primogenito. «Non hai ricevuto il messaggio di nostro fratello?» Unfredo, palesemente scosso, fece per raccogliere la coppa, rinunciò, si servì direttamente dalla brocca del vino, un recipiente in ceramica dipinta a ingobbio. Respinsi il suo invito a fare altrettanto. «Non mi è arrivata nessuna ambasceria da Hauteville, Ruggero. Forse l’araldo di Serlone è caduto in un’imboscata. Sono tempi difficili; devo pensare alla guerra, non certo alla corrispondenza.» «Però il tempo per scrivere a me lo hai trovato» osservai «e anche le parole giuste per convincermi. Non fosse stato per la tua lettera, credo che avrei cercato fortuna in Baviera. O forse a Costantinopoli.» Unfredo stava ancora rimuginando sulla morte di nostro padre e su ciò che la successione del titolo familiare comportava, perché diede segno di non avere inteso. «Lettera? Che lettera?» Frugai nella scarsella, estrassi la pergamena che avevo conservato per tutto il viaggio. «Scherzi? Mi hai supplicato di raggiungerti, lamentando che avevi molti armigeri ma pochi guerrieri veri. Hai scritto che senz’altro Dio gradiva che i fratelli si dessero una mano, che…» d’un tratto l’assurdità della situazione mi tolse voce e pazienza. «Leggi tu stesso, insomma!» Lui non mosse dito verso la pergamena. «Affé mia, Ruggero, tu vaneggi. Scriverti una lettera? Il Cielo m’è testimone, l’unico segno che so tracciare con l’inchiostro è la croce.» «Ma allora, chi?» La risposta scaturì spontanea nella mia mente. «Roberto.» «Nostro fratello Roberto?» ripeté Unfredo «sì, combatte al mio fianco. È uno dei miei migliori capitani. Valoroso, ma soprattutto fortunato. Scaltro come il diavolo. Sai che lo chiamano “il Guiscardo”?» «Lo so molto bene» assicurai digrignando i denti. Unfredo, che non aveva colto il tono ostile, annuì. «Dovresti vedere come sa infiltrarsi nelle città che assediamo. Si mescola ai nemici, raccoglie ogni genere di informazione e poi torna a riferire. In questi mesi l’ho visto camuffarsi senza fallo da longobardo, greco, persino da saraceno. Affé mia, se si travestisse da vacca, di certo troverebbe un toro disposto a montarlo.»


31 L’immagine bizzarra evocata da Unfredo non bastò a rallegrarmi. «Dov’è Roberto, ora?» «Al castello di Venosa. Dopo la vittoria di Civitate gli ho chiesto di fermarsi laggiù per proteggere i miei figli. Si chiamano Abelardo ed Ermanno. Erediteranno le mie conquiste, un giorno. Ma sono ancora bambini; ho nominato Roberto tutore e custode dei loro diritti.» Roberto garante dell’eredità di un altro? Pensai che al mondo non era mai esistito un normanno più ingenuo di Unfredo. Pregai Dio di proteggere quei due poveri fanciulli. La voce del Signore tuonò nella mia mente quasi in risposta. «Il momento è giunto, Rogerius. Rammenta il tuo giuramento.» «Cosa?» balbettai sorpreso «come?» «Chiedigli del suo ostaggio. Lui capirà.» Mi rivolsi a Unfredo che continuava a bere, forse per scacciare il ricordo di nostro padre morto, forse per il rammarico di non aver saputo in tempo della perdita. «Hai un prigioniero qui al castello?» «Prigionieri? Ne ho più d’uno. Ah, ma tu di certo intendi…» socchiuse gli occhi «vuoi conoscerlo?» «Digli di sì, Rogerius. Ti ho condotto qui per questo.» «Sì, voglio incontrarlo.» Unfredo batté le mani. Le sue guardie accorsero. «Scortateci nelle segrete. Mio fratello desidera conferire col nostro ospite.» I soldati s’inchinarono in cenno d’assenso. *** Unfredo mi fece strada nei sotterranei della rocca. Dopo una serie di scale e cancelli rugginosi giungemmo dinanzi a una minuscola porta di ferro. Le torce impugnate dalle guardie erano la sola fonte di luce. Unfredo comandò che i chiavistelli venissero sollevati. Entrai. Non era, dopotutto, un antro spaventevole. Mi ricordò piuttosto le celle del monastero benedettino, lassù in Normandia, dov’ero stato battezzato. Un pagliericcio, due seggiole, un bacile apode, nell’angolo il foro per i bisogni corporali, un asse di legno a mo’ di tavolino, una Bibbia, una candela.


32 Sentii mio fratello spiegare con quale stratagemma Roberto lo avesse catturato, il giorno dopo lo scontro a Civitate, tra i ranghi dell’esercito svevo in fuga. Ma la mia attenzione era catturata dalla figura del prigioniero. Nonostante la catena che gli serrava la caviglia destra, la barba scarmigliata e le sozzure della prigionia sulle vesti, il suo portamento appariva altero, quasi indifferente. Aveva occhi dal taglio severo, naso adunco e profonde rughe per tutta l’ampiezza della fronte. Mi colpirono le dita delle sue mani: lunghe, affusolate, sembravano dita da musico. Sapevo che Unfredo stava per ordinargli di levarsi in piedi. Lo prevenni, gettandomi io stesso in ginocchio dinanzi a Sua Santità e vicario di Cristo Leone IX. Mio fratello sussultò, preso alla sprovvista. Io non gli badai. Ubbidendo alla voce che tuonava nella mia mente, chiesi al papa prigioniero di benedirmi. Leone esitò, poi impose le mani sulla mia testa, chiuse gli occhi e mormorò la formula del rito. E fu sera e fu mattina. *** Unfredo mi chiese di fermarmi a Benevento. Ottenuto il mio assenso, mi affidò il comando di una ventina di cavalieri. Il nostro compito, piuttosto vago, era sorvegliare i ponti sul Calore e intercettare eventuali scorrerie delle truppe sveve, sconfitte ma ancora non dome. In quel frangente scoprii che dopotutto ero un Altavilla anch’io, e che cavalcare alla testa di uomini in armi mi faceva ardere il sangue. Volli conoscere uno a uno i cavalieri che comandavo. Erano quasi tutti figli cadetti di piccoli feudatari, partiti dalla Normandia, secondo consuetudine, quando i loro fratelli maggiori avevano preso possesso dell’eredità paterna; com’era accaduto a me, insomma. Erano venti giovani dal corpo prestante e dall’animo assetato di gloria. Anche tra loro, io ero di gran lunga il più forte, sicché presto tornai a essere appellato “il Bosso”. Scagliavo la lancia sei passi avanti agli altri, piegavo tra le dita il ferro dei cavalli, riuscivo a sollevare sulle spalle un compagno ferito con tutta l’armatura. Il fabbro di mio fratello, notando la valenza del mio braccio, mi propose una spada, bottino di guerra, che nessun cavaliere di Unfredo riusciva a maneggiare. Era - vidi -uno spadone a doppio taglio, credo di fattura sas-


33 sone, massiccio e ben più pesante delle usuali lame normanne. Provai a brandirlo. Ne trassi profonda soddisfazione; colpendo con forza adeguata, mandava in pezzi qualunque scudo. Dietro suggerimento di Arduino, che ne era rimasto impressionato, lo battezzai “Sacramento”. Quando non ero impegnato in pattugliamenti o ad addestrarmi coi miei giovani compagni, dedicavo le giornate all’impresa di convincere Unfredo a liberare il pontefice. Mio fratello in effetti non sapeva che farsene, di un prigioniero così scomodo. Ammetteva di non poterlo uccidere, perché a Roma il conclave avrebbe eletto un successore ancor più ostile di Leone alla causa normanna. Non osava pretendere un riscatto, o meglio non sapeva che contropartita chiedere, mancando ogni possibile precedente storico; una cifra irrisoria sarebbe suonata come un insulto, una pretesa eccessiva avrebbe dissanguato le casse di San Pietro, già allo stremo a causa della guerra… Unfredo intendeva se non altro costringere Leone a firmare un armistizio ragionevole. Ma il sommo pontefice era un uomo intransigente, risoluto al limite della cocciutaggine. Dopo aver assistito a tre estenuanti giornate di negoziato tra lui e Unfredo, credetti di capire perché Roberto avesse rinunziato alla prestigiosa preda di guerra e l’avesse ceduta così generosamente a nostro fratello maggiore. Scoprii più avanti nel tempo che c’erano altri motivi per l’assenza del Guiscardo da Benevento; a quel tempo mi bastava che egli fosse ben lontano, e di ciò ringraziavo Dio. Ero convinto che il Signore mi avrebbe presto suggerito parole di pace accettabili sia da Leone che da Unfredo. Ma le mie preghiere in tal senso restavano vane. Finché capii che l’Onnipotente aveva deciso di dispensarmi i suoi consigli non direttamente ma tramite un portavoce, il più bislacco e improbabile di tutti. Perché le vie del Creatore sono misteriose. Arechi aveva accettato di buon grado di restare al mio servizio. Come sospettavo, era stato buffone di corte di Guaimaro, padre di Gisulfo. Di quei tempi andati gli era rimasta l’arguzia, che apprezzavo, e un’attitudine alla sincerità verso i potenti che trovavo invece piuttosto oltraggiosa, e che certo prima o poi gli sarebbe costata la vita. «Perché Gisulfo ti ha scacciato da Palazzo, Arechi?» gli chiesi un giorno. «È stato l’anno della pestilenza, nobile Ruggero. Il giovane principe desiderava un giullare più allegro d’un gobbo straziato dall’aver perso moglie e figlio.» Colsi una nota di biasimo. Inarcai un sopracciglio.


34 «Ti ha affidato un altro lavoro. Come tuo padrone, ne aveva tutto il diritto.» Lui s’inchinò. «Gisulfo non è più il mio padrone, nobile Ruggero. E mi auguro con cuore e anima che presto voi o un altro normanno gli porterete via più di un umile buffone.» L’allusione di Arechi era chiara, ma volli ugualmente capire fino in fondo il suo ragionamento. «Pensi che Unfredo e Roberto, dopo Benevento, prenderanno anche Salerno?» Lui scrollò le spalle. «Nulla glielo impedisce, almeno sul campo. Tenerla è però un altro discorso. Credo sia per questo che i vostri fratelli permettono a Gisulfo di continuare a regnare.» «Non capisco.» Lui smise per un istante di lucidare il mio elmo. Stava facendo un ottimo lavoro; forse per quelle faccende era più portato di Arduino. Valutai di nominare lui scudiero e di investire Arduino cavaliere. Quest’ultimo lo meritava, e poi una lancia in più avrebbe fatto comodo, specie se imbracciata da un colosso come Arduino, che era alto poco meno di me e come vigore fisico quasi mi eguagliava. «Posso parlare liberamente, nobile Ruggero?» sussurrò il gobbo. «Ti tengo con me per questo.» Arechi respirò a fondo. «Perdonatemi, ma voi normanni non avete realmente “preso” Benevento, Canosa, Melfi o le altre città su cui oggi sventolano i vostri vessilli. Avete semplicemente scalzato dal trono i precedenti sovrani e li avete sostituiti. Per amministrare il potere vi servite dei funzionari che avete trovato al vostro arrivo, longobardi o bizantini che fossero. Questo perché siete semplicemente troppo pochi per governare. Convenitene: non avete battuto moneta, edificato chiese, emanato leggi, imposto la vostra lingua. Il popolo si è accorto a stento di voi. L’unico merito che vi riconosco è di aver vinto tutte le battaglie, finora. Ma quando ne perderete una, e sapete che accadrà, i vostri sodali vi rinnegheranno, le città che ora si professano fedeli vi sbarreranno le porte, i contadini si solleveranno con falci e forconi. Voi normanni sarete dispersi senza lasciare traccia. Perdonatemi nobile Ruggero, ma temo che a differenza della terra da cui venite, queste contrade non porteranno mai il vostro nome.


35 Ammirai il coraggio del gobbo; dinanzi a critiche tanto insolenti, chiunque altro lo avrebbe aperto in due con la spada. «Dimmi Arechi» lo stimolai «se tu fossi al mio posto, o meglio ancora in quello di mio fratello, che faresti?» Lui trasalì, rendendosi conto d’avere osato troppo. Ma rispose. E io colsi nelle sue parole l’ispirazione divina. Capii che Arechi, come me, era stato scelto dal Signore per i suoi scopi. Non era necessario che li comprendessimo; a noi miseri strumenti spettava solo compiere la Sua volontà. *** Le proposte dapprima scandalizzarono il mio fratellastro. Poi lo incuriosirono. Infine le accettò. Non perché ne fosse convinto; semplicemente in esse vedeva, dopo troppi vicoli ciechi, una via d’uscita. Leone ovviamente firmò subito. Unfredo protestò tra i denti che mai nella Storia un condottiero aveva dimostrato così poco valore sul campo di battaglia per poi ottenere così tanto al tavolo della pace. Il trattato prevedeva che Benevento e le altre città espugnate dal nostro esercito tornassero formalmente sotto il dominio papale. Unfredo non era però tenuto a lasciarle; le avrebbe presidiate in qualità di vassallo della Santa Sede. Per questo avrebbe ricevuto ufficialmente, dopo le necessarie formalità araldiche, il titolo ereditario e la benedizione divina che in precedenza erano stati appannaggio dei duchi longobardi. A rendere palese la nuova alleanza, i vessilli sulle lance di Unfredo avrebbero dovuto affiancare ai tradizionali leoni normanni gli emblemi di San Giorgio e San Martino. Inoltre a Unfredo e ai suoi successori sarebbe toccato ogni anno, in segno di tributo feudale, donare al pontefice una cavalla bianca, nunc et semper. Quanto agli svevi, Leone promise che una volta rientrato a Roma avrebbe convinto l’imperatore a ratificare l’accordo e a tornare con le sue truppe oltre le Alpi. Come peraltro - rivelò il papa - il monarca tedesco agognava da tempo di fare. Quella stessa sera, dagli spalti della Rocca dei Rettori, guardammo allontanarsi sull’Appia in direzione nord il corteo papale, composto dai prigionieri catturati insieme a Leone dopo Civitate più la scorta che Unfredo aveva concesso. L’aria era gelida, la Luna sbucava a tratti tra le nubi. Dalla torre di vedetta echeggiava il verso dei gufi. Unfredo tirò su col naso e mi si rivolse in tono contrariato.


36 «Puoi ripetermi, Ruggero, perché questo accordo converrebbe anche a noi?» Mio fratello appariva più sofferente del solito. Forse era ancora troppo sobrio. Gli cinsi le spalle con un braccio e strinsi. Non contenni la forza, e lui non ne fu felice. «Presto sarai duca, Unfredo» gli spiegai «e lascerai il titolo ai tuoi figli. Ormai in queste terre il sangue normanno non rischia più di essere disperso senza lasciare traccia.» Lui aggrottò la fronte, confuso. «Affé mia, non capisco come fai a fidarti di Leone. Ci ha sempre combattuti. E se non rispettasse i patti?» «Proprio perché ci ha affrontati in battaglia, e sa di cosa siamo capaci, vorrà mantenere la pace. Puoi credermi, non ci sfiderà mai più.» «E i longobardi? E i bizantini? Ci tacceranno di viltà! Non ci rispetteranno più dopo che abbiamo piegato il ginocchio dinanzi al papa.» Rammentai il ragionamento di Arechi. «Al contrario; questo trattato rovescia le alleanze consolidate e li priva di riferimenti. Pensaci; la Chiesa di Roma si fida dei normanni al punto da accettarli come vassalli. I nostri nemici ne resteranno spiazzati politicamente, prima ancora che militarmente.» Unfredo sbarrò gli occhi incredulo. «Politicamente? Affé mia, Ruggero, parli come il Guiscardo!» Sussultai, non sapendo se offendermi o deliziarmi. «Chissà, forse Dio ci ha fatto meno diversi di quanto noi stessi crediamo.» «Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa Roberto, di questo trattato.» Fissai lo sguardo sulla pianura. La Luna era ormai al tramonto. All’orizzonte la notte era punteggiata da piccoli fuochi, forse bivacchi di pastori, forse accampamenti di uomini in armi. «Qualcosa mi dice che lo sapremo presto, caro duca di Benevento.» Unfredo finalmente sorrise. «Dov’è il mio vino? Ho bisogno di bere!» *** La settimana successiva ricevemmo due lettere. La prima proveniva da Salerno. Gisulfo si felicitava per la liberazione del pontefice e per la pace che certo ne sarebbe conseguita. Iniquum est


37 collapsis manum non porrigere, era il suo commento compiaciuto per la nostra decisione. Tutte le risorse del suo principato, assicurava, erano a disposizione degli Altavilla, così come la totale fedeltà del popolo salernitano. Il ricordo del disprezzo che Gisulfo mi aveva riservato al banchetto faceva apparire ancor più ipocrita la piaggeria con cui in quel frangente si rivolgeva a mio fratello. In un passaggio lo appellava persino “vostra grazia”, anche se il signore di Salerno doveva sapere benissimo che l’investitura ducale non gli era ancora stata concessa. Lo feci notare a Unfredo. Lui si carezzò la barba sogghignando. «Dici che è effetto del “punto di vista politico” di cui parlavi, Ruggero?» «Probabile» approvai. «Vedrai che saranno in molti a seguire l’esempio.» Il resto della lettera era un interminabile e uggioso esercizio di cortigianeria. Unfredo non era del tutto insensibile all’adulazione, tuttavia aveva già vuotato la seconda caraffa di vino, per cui ben presto chiuse gli occhi e iniziò a russare. Ordinai all’araldo di ritirarsi. Lui ripose la pergamena; poi esitò imbarazzato. «Ho detto che puoi andare.» L’uomo impallidì, visibilmente a disagio. «Mio signore… devo ancora…» «Hai altro da riferire?» «È così, ma… voi…» All’improvviso capii. «Porti un messaggio della principessa Sichelgaita?» L’araldo s’illuminò. «È così, signore. Avevo l’ordine di riferirlo solo se voi aveste pronunciato il suo nome.» Mi sfuggì una risata. «Parla dunque.» «La nobile Sichelgaita si rallegra che vi ricordiate di lei. Vi assicura che non ha mai smesso di pensarvi. E si augura che vogliate mantenere al più presto la promessa che le avete fatto.» «Promessa? Che promessa?» chiesi sempre più divertito. «Di diventare principe» spiegò compitamente l’araldo. Risi di cuore. Dovevo ammetterlo, la sfrontatezza di quella ragazzina mi aveva conquistato. Mi mancava.


38 «D’accordo araldo. Riferisci questo a Sichelgaita: “Il giorno che Ruggero d’Altavilla diverrà principe, lei sarà la prima a saperlo”.» L’uomo s’inchinò, chiese commiato e ripartì alla volta di Salerno. *** La seconda lettera giunse quello stesso giorno, al tramonto. Era di Roberto. Giacché era indirizzata a me, la lessi personalmente. Mio fratello si diceva lieto del mio arrivo a Benevento, e persuaso che ogni dissapore tra noi sarebbe presto svanito. Soprattutto, si congratulava per come avevo risolto la delicata trattativa col papa anche in sua assenza. Come la luce di una candela oltre un velo, colsi nei suoi complimenti echi della perfidia e della doppiezza da Wiskard che rammentavo sin troppo bene. Ricordo che un passaggio in particolare mi colpì. In codesta faccenda, Rogeirr, hai palesato una bontà d’animo e una generosità verso i vinti che mi ha lasciato senza parole. In verità ti dico, fratello caro, che se mai io dovessi scegliere un nemico da cui farmi mettere in catene, di certo quello saresti tu. Voleva beffeggiarmi, naturalmente. Accusarmi tra le righe di debolezza, di inettitudine al comando. Eppure, presto la profezia con cui aveva inteso provocarmi si sarebbe avverata. Un giorno non lontano Roberto mi si sarebbe consegnato come ostaggio, e io gli avrei imposto i ceppi. Quel giorno egli avrebbe scoperto che Dio non ama chi dileggia la misericordia altrui.


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Capitolo 4

Calabria, 1056-57 A.D. La successiva lettera di Roberto dava conto di una notizia sorprendente. Era, a dire di mio fratello, il più importante dei motivi che l’avevano tenuto lontano da Benevento e dalle battute conclusive della guerra. Il Guiscardo aveva preso moglie, ed era già divenuto padre. Ne fui rallegrato, ma anche stupito quando lessi il nome della sposa. Roberto aveva impalmato nostra cugina Alberada, una delle ragazze più belle di Hauteville. La ricordavo alta, bruna e formosa; così attraente che - celiavano i giovani del paese - quando ella faceva il bagno al fiume, i salmoni le balzavano in grembo già cotti. Roberto scriveva di averla fatta venire in terra di Puglia dopo aver contratto un matrimonio per procura, e di aver suggellato personalmente le nozze il giorno stesso del suo arrivo. Tanta fretta suonava sospetta, sicché rilessi meglio le date del supposto “primo incontro” e l’età del bambino, battezzato Marco; più che per procura, doveva essere stato un matrimonio riparatore, con la sposa giunta sull’altare già benedetta dal dono della maternità. Roberto si diceva pazzamente orgoglioso del suo erede, ma anche in apprensione perché il bambino era di salute cagionevole. Per tale motivo informava di aver lasciato il castello di Venosa, troppo umido e freddo, e di essersi trasferito con la famiglia a Melfi. Seppi solo in seguito quali trame mio fratello stesse realmente tessendo in terra di Puglia. In quel momento pensai che le responsabilità di genitore avessero addolcito il suo carattere e l’avessero migliorato come uomo. Ne ringraziai Dio. ***


40 L’estate successiva, stanco di attendere la bolla papale che lo avrebbe investito ufficialmente del titolo di duca, Unfredo lasciò Benevento per tornare anch’egli dai suoi figli. La salute del mio fratellastro era molto peggiorata; quando lo abbracciai per augurargli buon viaggio, sentii nel mio cuore che non lo avrei più rivisto vivo. Così fu. La successiva lettera di Roberto informò che Unfredo era spirato nel suo letto, al castello di Venosa. Aveva quarantasette anni. Benché sapessi che il Signore lo aveva chiamato per risparmiargli ulteriori sofferenze, ne fui addolorato. Tra i miei numerosi fratellastri, Unfredo era quello che avevo conosciuto più a fondo e maggiormente amato. Era un uomo generoso, diretto e leale, qualità che apprezzavo in un capo. Aveva vissuto da vero normanno, viaggiato molto, combattuto, vinto, e colto meno gloria di quella che gli sarebbe spettata. Accesi un cero per lui. Nella stessa lettera Roberto affrontava il tema della successione. Senza giri di parole annunciava che in qualità di tutore dei figli di Unfredo, e data la giovane età di costoro, tutti i normanni di Puglia lo avevano acclamato reggente. Mio fratello riportava quella notizia come un accordo ormai sancito, di cui io dovevo meramente prendere atto. E io realizzai finalmente a quali intrighi di palazzo, negoziati segreti, ricatti e alleanze Roberto doveva essersi dedicato anima e corpo negli ultimi due anni, lontano dalla guerra e dalle orecchie di Unfredo. Ne ebbi la conferma tre settimane dopo, quando giunse la bolla papale con l’investitura tanto attesa dal mio povero fratellastro. Da Roma avevano tergiversato finché egli era in vita per poi - con celerità quantomeno sospetta - nominare Roberto duca delle Puglie, primo vassallo e protettore del feudo di San Pietro. Il Guiscardo non perse tempo a indirizzarmi il primo dei suoi “editti ducali”. La pergamena, con tanto di stemma araldico e sigillo personale coniato per l’occasione, mi ordinava di recarmi al più presto in Calabria insieme ai cavalieri che comandavo per ristabilire l’autorità ducale nella piana di Mileto, i cui abitanti avevano inteso la morte di Unfredo come fine della signoria normanna e smesso di pagare i tributi. Era una direttiva che si accordava ai miei desideri, per cui radunai i guerrieri - i venti giovani che mi aveva affidato Unfredo più quelli che avevo reclutato in seguito - e disposi per la partenza.


41 Il solo che ebbe da obiettare fu Arechi, che dal giorno dell’investitura di Arduino era divenuto a tutti gli effetti mio scudiero. «Siamo solo sessanta lance, mio signore!» protestò con fare inorridito «come può vostro fratello chiederci di riconquistare Mileto? Perché non ordinarci di soggiogare l’intera Calabria, allora?» Io annuii con convinzione. «Hai ragione Arechi. Sarà l’intera Calabria, ciò che conquisteremo.» Lui strabuzzò gli occhi. «Ma… voi non conoscete nulla di quelle terre, delle fortezze, delle montagne, degli eserciti bizantini…» «So che Dio cavalcherà al nostro fianco» dichiarai «cos’altro dovrebbe importarmi?» Arechi fece per replicare, poi notò la mia espressione e s’inchinò in silenzio. *** Il giorno prima di lasciare definitivamente Benevento ricevetti una lettera da Salerno. Sichelgaita mi aveva mandato un suo ritratto; affinché, come lei stessa scriveva, io “pensassi a lei non come alla bambina di un tempo, ma come alla donna di oggi”. In effetti la figura dipinta sulla tela era ben diversa dalla ragazzina esile e sfrontata che rammentavo. Se non fosse stato per la voglia a forma di cuore sulla guancia sinistra, fedelmente rappresentata dal pittore di corte, non l’avrei neppure riconosciuta. Sichelgaita aveva compiuto quindici anni ed era palesemente sbocciata: labbra piene, guance di madreperla, orecchie delicate, seno florido, fronte regale. Era di una bellezza sfolgorante; il suo viso mi faceva pensare al sole dell’alba, quel chiarore divino che un attimo prima incanta e l’istante successivo è troppo doloroso da fissare. Il significato del dono di Sichelgaita era palese, ma lei lo esplicitava ugualmente nella sua lettera. Aveva raggiunto l’età da marito, asseriva; era tempo che il principe che aveva tanto sognato si facesse finalmente avanti. Io riflettei. Dopotutto avevo ventisei anni. Ero l’ultimo degli Altavilla ancora senza una moglie. Sichelgaita possedeva parte del mio cuore, non potevo negarlo. Ma sentivo che non era ancora il momento giusto. Prima dovevo guadagnare gloria in Calabria, poi avrei pensato a sposarmi.


42 Chiesi a Dio se era d’accordo. Lui tacque. Lo presi per un assenso. *** Per tutto il viaggio Arechi non fece che parlare della nostra destinazione e dei pericoli cui andavamo incontro. Lo lasciai fare, ascoltando pigramente e trattenendo, del suo diluvio di parole, quel che davvero poteva tornarmi utile. La Calabria, chiarì, era la punta meridionale della terra a forma di stivale ove ci trovavamo, che taluni chiamavano “penisola italica”. In tempi remoti, spiegò, col nome “Italia” si definiva appunto la Calabria, dal nome di un mitico re che l’aveva dominata prima dell’arrivo dei greci. Sulla costa, aggiunse, si trovavano città ricche e popolose su cui formalmente regnava l’Imperatore Romano d’Oriente; vi si parlava grecobizantino, si professava il cristianesimo di rito ortodosso e si praticavano lucrosi commerci. L’interno, sebbene meno fiorente, era comunque un pullulare di centri agricoli, castelli e abbazie più o meno prospere. I calabresi non possedevano un esercito unitario, e non avevano neppure accordi di mutuo soccorso contro invasori stranieri. Eppure avevano respinto vittoriosamente le incursioni longobarde dal nord e gli attacchi degli arabi dal sud. I miei fratelli, Roberto su tutti, vi avevano compiuto numerose scorrerie e vinto alcune scaramucce contro notabili locali, tra cui appunto il signore di Mileto. Tuttavia, secondo Arechi, il Guiscardo non aveva assoggettato veramente quelle contrade. Anzi, a dire del mio scudiero, le cosiddette “occupazioni” normanne in terra di Calabria erano ancora più effimere di quelle che Unfredo aveva realizzato in Campania. Più che da conquistatori, gli uomini di mio fratello avevano agito da predoni. «Attento Arechi» lo ammonii «temo che tu stia esagerando.» «Desidero solo che apprendiate la verità, mio signore.» «La verità?» carezzai la criniera di Redenzione, su cui avanzavo al passo «quella spetta solo a Dio, ricordalo.» Lui s’inchinò. «Ciò nonostante, mio signore…» Gli feci seccamente segno di non interrompere. «E poi Roberto qualche castello l’ha espugnato realmente, no? Cassano, Maida, Nicastro.» Arechi scosse la testa.


43 «Con tutto il rispetto, signore, i paesi che citate non sono stati espugnati, bensì presi con l’inganno. A Maida, ad esempio, vostro fratello si è presentato al comando di un pugno di uomini, qualificandosi come mercenario in cerca d’ingaggio. Il paese gli ha aperto le porte senza timore, perché è uso dei nobili bizantini assoldare guerrieri normanni come guardie del corpo. Due giorni dopo gli uomini di vostro fratello avevano già rapito i maggiorenti che li avevano assunti, svuotato i loro palazzi e preteso una somma in oro per non tagliar le loro gole… A Cassano ha fatto di peggio; giacché il riscatto tardava a essere pagato, ha fatto cavare gli occhi a uno dei prigionieri e lo ha appeso a testa in giù, ancora vivo, davanti alla chiesa. A quel punto gli abitanti, terrorizzati, gli hanno consegnato le chiavi della città. A Nicastro, poi…» Gli scoccai un’occhiata truce. «Tu come fai a sapere queste “verità”, gobbo?» Arechi impallidì. «Relata refero. Guaimaro, il mio defunto signore, amava discutere di politica in mia presenza. A volte mi onorava chiedendo cosa ne pensassi. Avevo sperato che anche voi, signore…» Tacque e mi fissò dal basso in alto con aria supplice. Io sospirai. «E sia. Dimmi Arechi, qual è la tua opinione?» Lui deglutì. «Spero, signore, che voi siate diverso da vostro fratello.» *** Entrammo in terra di Calabria valicando un massiccio montuoso - Arechi lo chiamò “Pollino” - d’una bellezza struggente e selvaggia. Procedemmo verso sud tenendoci lontani dalle città costiere, affinché non si spargesse troppo presto la notizia della nostra presenza. Traversammo boschi infestati dai lupi più aggressivi che io avessi mai visto, lande pietrose, aspre colline e torrenti in secca temibili perché, spiegò Arechi, alle prime piogge erano capaci di mutare in fiumi tumultuosi in grado d’inghiottire un esercito. Scorgemmo in lontananza sparute greggi al pascolo e sulle alture minuscoli monasteri, poco più che romitaggi cavati nella nuda roccia. In cielo volteggiavano rapaci dall’apertura alare maestosa. Ebbi in generale l’impressione di una terra ostile e fiera; gli uomini che asserivano di do-


44 minarla mostravano la stessa ingenuità di quelle pulci che s’illudono di possedere il cavallo che le ospita. *** Come Dio volle, giungemmo nella piana di Mileto. La mia speranza di giungere inaspettato si rivelò vana, giacché scorgemmo una linea di fanti in panoplia bizantina schierata sul fondovalle, palesemente in nostra attesa. Ma non ne fui scontento; era, mi dissi, la volontà del Signore. «I pastori» si rammaricò laconicamente Arduino, che cavalcava al mio fianco «sono stati loro. Avremmo dovuto passarli a fil di spada.» «Meritano un compenso, piuttosto» replicai allacciando l’elmo «ci hanno dato modo di dimostrare il nostro valore. Preparatevi alla carica.» Arechi accorse a portarmi lo scudo. Mi resi conto che tremava. «Avete intenzione di attaccare, mio signore? Sono molti più di noi, lo vedete.» Redenzione emise un nitrito che mi sembrò di disprezzo. Io sorrisi, carezzando la macchia a forma di lancia sul suo collo. «Ti sbagli, scudiero. Al massimo ci superano di quattro a uno. Ne avrei voluti dieci, venti volte tanti; sarebbe stata una dimostrazione più efficace. Ma ringrazio ugualmente Dio per questo suo dono.» Chiusi la celata dell’elmo e controllai che gli uomini fossero pronti. La maggior parte di loro erano veterani degli scontri con gli svevi e perciò temprati alla battaglia; gli altri erano stati addestrati e, seppur al primo combattimento, sapevano come comportarsi. Impugnai la lancia col vessillo di San Giorgio e mi lanciai giù per la collina. Arduino e gli altri mi vennero dietro con gran fragore di zoccoli ferrati. La schiera che ci fronteggiava ondeggiò. Non si aspettavano un attacco, era palese. Probabilmente ci credevano semplici predoni in cerca di bottino, e pensavano che non avremmo accettato lo scontro. Sentii urlare ordini in greco. Comparvero picche e archi. Ma il condottiero nemico non doveva aver mai affrontato una cavalleria come la nostra, perché esitò a chiudersi in formazione serrata, e l’errore gli fu fatale; ci bastò prenderli sul fianco per farli a pezzi. La maggior parte fuggì in preda al panico ancor prima di aver assaggiato le nostre lance. Arduino e gli altri si divertirono a inseguirli a loro piacimento, infilzandone in gran numero fino alle mura di Mileto. Io li lasciai fare, fiducioso


45 che non si sarebbero esposti futilmente alle frecce nemiche. Smontai, controllai che Redenzione non fosse rimasto ferito nella carica, m’inginocchiai e resi grazie a Dio per quella prima vittoria. «Dulce bellum inexpertis, Rogerius» tuonò la voce nella mia mente «il sole è ancora alto. Hai tanto da compiere prima che giunga il tramonto.» «Sono tuo servo, Signore» mormorai, grato che Dio fosse lì a consigliarmi «mostrami la tua volontà, io eseguirò.» La voce tuonò ancora. Io ascoltai. *** )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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