I frullati di viel

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VALERIO BASSOTTO

I FRULLATI DA VIEL

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I FRULLATI DA VIEL

Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-606-6 Copertina: immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Ottobre 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova


Ringrazio mia moglie Laura e l’amico Sandro Offelli, senza il loro incoraggiamento questo libro non avrebbe mai visto la luce.



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Quaderno 1

Pur essendo un uomo che di mestiere fa il giornalista, cosa questa che mi costringe a essere costantemente a contatto con la gente, sto scoprendo ogni giorno che passa la mia incapacità di capire le persone e la vita che si svolge attorno a me. Ho sessantaquattro anni compiuti e purtroppo, per quanto lo desideri, non riesco ad andare in pensione. Non perché non abbia versato i dovuti contributi, ne ho per ben quarantadue anni di lavoro, ma perché avendo versato a enti diversi devo aspettare di avere sessantasei anni e tre mesi per poterli riunire e raggiungere così il tanto anelato traguardo. Così ogni giorno, anche se mi godrei volentieri la pensione, sono costretto ad andare in ufficio a scrivere per lettori che non mi leggono quasi mai, di cose che non mi interessano più. Una cosa che però mi preoccupa, tra l’apatia generale, è il fatto che non riconosco più il mondo che mi circonda. È come se fossi nato duemila anni fa su un altro pianeta e poi fossi arrivato improvvisamente qui, oggi, e dovessi cavarmela pur non comprendendo usi e costumi del mondo in cui mi trovo. Credo che essere nato prima della metà del secolo scorso, più precisamente nell’anno 1949 - era da poco terminata seconda guerra mondiale - mi collochi in un passato pressoché remoto.


6 Per far comprendere ai giovani che avranno la bontà di leggere queste mie righe come stavano le cose quando ero bambino, ricordo che io sono nato prima della plastica, prima della televisione, prima dei computer, dei CD. Al momento della mia nascita la musica si ascoltava alla radio o attraverso giradischi su cui giravano dischi in vinile estremamente fragili; dischi che a tutti noi bambini capitava di rompere giocando, subendo poi le ire funeste dei nostri genitori, dato che allora un 78 giri in vinile costava l’ira di Dio. Da bambino ho frequentato l’asilo infantile, naturalmente delle suore; allora non c’erano alternative. Suore che nel caso si trasgredisse al rigido codice di disciplina imposto, menavano dei ceffoni che sembravano badilate e a nulla serviva raccontarlo ai genitori se non a prenderne altrettanti. Alle elementari andavamo tutti con la divisa nera, il grembiule nero col fiocco azzurro per i maschietti e rosa per le femminucce. Il primo giorno di scuola, ricordo, sfilammo come tanti piccoli soldatini davanti alla bandiera tenuta saldamente dall’insegnante preferito dal direttore e dovemmo sorbirci il pappone del titolare della scuola sui valori della patria, della democrazia, dell’onestà e del lavoro. Vestivamo tutti o quasi con i pantaloncini corti - estate e inverno - e la domenica le nostre madri ci abbigliavano come un adulto formato mignon: camicia bianca, cravatta blu, vestito grigio coi pantaloni che arrivavano al ginocchio e che ai lati esterni avevano due bottoncini di cui non ho mai capito l’utilizzo. Il tutto per andare a messa, alle funzioni, al cinema Patronato e infine dai parenti. Guai a sporcare o rovinare la divisa domenicale, erano schiaffoni


7 che arrivavano assieme a urla e minacce; il telefono azzurro sarebbe arrivato molto più tardi. Il lunedì detta divisa era riposta nell’armadio in attesa della domenica successiva e questo accadeva cinquantatré volte all’anno. Mio Dio, non ricordo una domenica da piccolo nella quale sia stato libero di andare per conto mio da qualche parte. A quei tempi si usava così; il fascismo non c’era più, ma gli usi e le consuetudini fasciste faticavano a morire. Così, se durante la settimana a scuola marciavamo romanamente, le domeniche della prima metà del secolo scorso erano monopolizzate dai preti e dalla Chiesa. Sono stato chierichetto fino a che non mi è spuntata la barba, ho imparato a memoria la messa in latino e le preghiere delle funzioni pomeridiane e di preti ne ho conosciuti tanti. Alcuni erano brave persone, altri invece, riflettendoci oggi, non ve li raccomando. A quindici anni, al termine delle scuole medie tradizionali, quelle dove si studiava anche il latino, nonostante la nostra grande predisposizione al sesso eravamo ancora praticamente tutti vergini; molti di noi, guardando le foto in bianco e nero del settimanale ABC, hanno rischiato di diventare non solo ciechi ma anche sordi e muti. Le nostre coetanee erano delle vere e proprie casseforti inespugnabili protette, oltre che da leggi severissime, dai loro genitori, dai fratelli e così via sino ai parenti di quarto e quinto grado; non lasciavano alle nostre mani desiderose di esplorare alcun movimento bloccandoci con prese degne del migliore karate. “Fare l’amore” era allora un termine non ancora coniato.1 Nessuno di 1

‐ Al massimo si diceva “el ghe fa l’amore a…”, per indicare che si


8 noi ne parlava all’eventuale fidanzatina, pena l’abbandono immediato e spesso qualche ceffone. Non essendovi luoghi preposti, per divertirci tra di noi si ricorreva ai festini, macabri rituali dai quali si usciva sempre con un gran mal di pancia e vergini come si era entrati. Per cercare di far capire ai giovani di oggi cosa fossero quei festini di allora devo ricordare che erano ritrovi caserecci, abilmente preparati durante tutta la settimana, scegliendo luoghi e partecipanti idonei nel tentativo di creare i presupposti per le più losche aspettative. Questi si svolgevano in genere il sabato pomeriggio in casa o al massimo nei garage, sempre assolutamente con le luci accese, costantemente sotto la vigile guardia di qualche Cerbero pronto ad afferrarti per un braccio se per caso la mano durante un lento scivolava in zone off limits. E se per caso a un certo punto la luce veniva a mancare per un attimo, i più audaci riuscivano in quella frazione di secondo di buio a sfiorare le labbra dell’amata con un bacio che definire casto è riduttivo, ma che per noi era da considerarsi un successo senza precedenti. Poi tutto finiva regolarmente prima dell’ora di cena, quando inesorabilmente le ragazze tornavano a casa prelevate da genitori o parenti vari che prima di lasciare la festa ti guardavano con occhio velenoso come per dire: “Occhio, so chi sei e se me l’hai disonorata so dove trovarti”. Poi un bel giorno scoppiò la Beatles mania. Arrivarono nel nostro mondo fatto di giochi, di fantasie, di illusioni, quattro coetanei era fidanzati.


9 provenienti dall’Inghilterra e iniziò la rivoluzione. Coi Beatles arrivarono i 45 giri in plastica, i registratori della Geloso, i giradischi portatili alcuni dei quali, i più sofisticati, erano dotati di altoparlanti che si potevano staccare e posizionare distanziati in modo da ottenere un illusorio effetto stereo. Arrivavamo intanto alle superiori dove noi ragazzi della generazione beat - i capelloni, come ci definivano gli adulti - dovevamo imparare a nascondere i capelli, che cercavamo di portare il più lunghi possibile, dalle forbici dei genitori e dei presidi che ci giudicavano non tanto dal rendimento, quanto dalla lunghezza degli stessi. Non sto qui a raccontare i mille e mille sotterfugi che mettevamo in atto per non far apparire lunghi i nostri capelli, ma vi posso assicurare che alcuni di noi raggiungevano vette di bravura e di furbizia ineguagliabili. I pantaloni andavano a zampa di elefante e le gonne delle ragazze, sino ad allora sotto il ginocchio, iniziarono ad alzarsi sconvolgendo ancor di più il nostro già precario equilibrio ormonale. Anche in quel periodo, però, con l’altro sesso non è che fosse cambiato molto. Al di là del bacio e di qualche toccatina osée non si andava, e di riuscire ad avere un vero e proprio rapporto sessuale non se ne parlava neppure. Ricordo un episodio di un amico che era considerato da tutti un conquistatore, uno sciupafemmine, che un giorno, mentre stava avendo un rapporto sessuale orale con una prostituta dentro alla macchina di un amico più vecchio, fu tamponato da una seconda auto e rimase ferito proprio sul pisello. A parte il dolore e le cure ospedaliere a cui dovette sottostare, il nostro coetaneo divenne per noi una specie di eroe, un mito, che


10 tutti invidiavamo e ammiravamo, e a cui ricorrevamo in gran segreto al momento del bisogno per un consiglio di natura amorosa. Ma per i genitori delle ragazze del paese era da considerarsi un vero e proprio Barbablù, da evitare e da far evitare con cura dalla propria figlia. Per questo quando tra di noi si parlava di lui era prassi abbassare la voce e assicurarsi di essere ascoltati solo da orecchi di amici fidati. Il nostro a quei tempi era un mondo in cui un giovane d’oggi non riuscirebbe a vivere. Non c’era niente. Non auto, non discoteche, niente rave party, non un bar dove riunirci; i bar erano riservati agli adulti. Di cinematografi c’erano solo quelli parrocchiali, con il prete che a volte, quando il bacio dell’eroe all’eroina era troppo focoso, sfocava l’immagine nonostante le proteste in sala. A quei tempi tutto era peccato. Era peccato pensare alle ragazze, peccato masturbarsi, peccato cercare di uscire da quei rigidi schemi, in cui tutta la società era inquadrata, che a noi giovani iniziavano ad andare stretti. Erano i giorni della ricostruzione, erano gli anni ‘60 e ‘70, anni in cui c’era lavoro per tutti, e dove tutti erano rigidamente inquadrati in categorie sociali, residuato di un fascismo dove si viveva divisi in caste come nel medioevo. Poi arrivò il ‘68 e il mondo cambiò. A scuola si iniziò a discutere di tutto e di tutti. Personaggi e fatti prima assolutamente intoccabili furono tolti dal piedestallo nel quale erano stati posti fino ad allora e furono dissacrati. Dio, patria e famiglia divennero termini di confronto di discussione, di critica. Cercavamo nuovi dei, stanchi di quelli vecchi e obsoleti che avevano dimostrato tutta la loro falsità. Arrivarono i primi spinelli, l’LSD, il diciotto garantito


11 all’università, la contestazione alla famiglia, le comunità. Ma soprattutto scoppiò il malessere che da anni covava sotto le ceneri verso una società falsa, bigotta, priva di etica, che Gesù Cristo aveva già definito adeguatamente quasi duemila anni prima parlando di sepolcri imbiancati. Era la musica il nostro comune denominatore. Quella musica prima proveniente dall’estero e poi imitata anche dai nostri cantanti, che non faceva più la rima con cuore e amore, ma parlava di guerra in Vietnam, di fiori nei cannoni, di libertà. Fu, la nostra, una vera e propria rivoluzione e fino a quando il “sistema” non riuscì a correre ai ripari, esplose con virulenza e coinvolse tutti e tutto. Volevamo cambiare il mondo, la società, la vita, e invece fummo strumentalizzati da un sistema che fagocita tutto e un po’ alla volta fummo trasformati in bancari, dirigenti, giornalisti e altro ancora e tutti con una prerogativa comune: la famiglia, i figli e il mutuo della casa da pagare. C’è un momento della mia vita che ricordo come piacevole, ed è stato il periodo passato a Desenzano sul lago di Garda. Erano i miei diciotto anni e tutto filava liscio; mio padre stava bene, vivevamo in una bella casa in centro, possedevamo un paio di macchine e i soldi non mancavano. Per uno della mia età che arrivava da una cittadina di provincia del Veneto, giungere a Desenzano era come per un affamato arrivare in un ristorante a cinque stelle. Desenzano come tutti sanno è una splendida città che vive di turismo e quindi chi vi abita, specie se studente, volendo può fare festa tutto l’anno. La stagione estiva poi, era una sagra. Si iniziava ogni anno a Pasqua con l’arrivo di un gruppo di ragaz-


12 ze tedesche in gita scolastica, che sbarcavano puntualmente sempre nello stesso albergo assetate di avventure con il maschio italiano. Il loro arrivo sanciva l’apertura ufficiale della caccia alla straniera, un evento che vedeva giungere a Desenzano giovani maschi da tutte le città limitrofe e oltre, tutti con lo stesso imperativo in testa: “Farsi la straniera”. Naturalmente noi residenti, e per noi intendo il sottoscritto e un gruppo di amici tutti rintracciabili al bar al porticciolo di proprietà del Sergio Caman, conoscendo i due proprietari dell’Hotel eravamo ogni anno in pole position, in quanto avvisati in via del tutto riservata dell’arrivo delle tedesche con un mese di anticipo; in più, senza problemi in quanto amici dei proprietari, potevamo scorrazzare all’interno della piscina dell’albergo, nella hall e soprattutto nella tavernetta a uso discoteca che ogni anno veniva allestita proprio per l’arrivo delle giovani tedesche. Ricordo che il giorno in cui erano attese, già dal primo mattino cominciavano ad arrivare i primi gruppetti di maschi che iniziavano un bivacco che poteva durare anche diciotto o venti ore. Arrivavano oltre che da Brescia e da Verona anche da Mantova. Non ho mai capito come facessero i ragazzi mantovani a sapere dell’arrivo delle ragazze, eppure ogni anno, puntuali come le rondini quando migrano, il giorno stabilito per l’arrivo dei due pullman, loro erano lì. La vita di uno spensierato ragazzo di diciotto anni, a Desenzano riservava altre mille opportunità; e non parlo solo delle ragazze di cui ognuno di noi durante l’estate faceva il pieno. Parlo di svaghi, di occasioni di ogni tipo, di amicizie con gente proveniente da tutta Europa.


13 Da aprile a settembre ricordo che parlavamo più l’inglese che l’italiano, tanto la nostra compagnia diventava eterogenea. E tutti puntualmente alle cinque del pomeriggio ci ritrovavamo, estate o inverno che fosse, al bar del Sergio Caman al vecchio porticciolo. Era un appuntamento fisso, un po’ come la messa la domenica. Impossibile mancare, si rischiava di finire fuori dal giro, il che significava restare da soli. Il Sergio, un uomo sui cinquant’anni, piccolo, magro, con due occhi pungenti, sempre col sorriso sulle labbra, era un vecchio lupo di mare. Per trent’anni era stato chef ai vini sui transatlantici che univano l’Europa all’America e coi soldi risparmiati si era ritirato a Desenzano dove aveva aperto non un bar, bensì il bar, il locale più “in” e più frequentato della città. Sergio sorrideva a tutti e con tutti sapeva parlare e all’occorrenza scherzare, ma di amici ne aveva solo tre: il Padova (io) Bruno F. e Gian N., i tre dell’Ave Maria, come ci avevano soprannominati. Eravamo inseparabili, sempre assieme e sempre in lotta per il predominio in qualche conquista. Addirittura, a lato del bancone del bar il Sergio aveva installato una lavagna dove si stilava giornalmente la classifica del miglior conquistatore. Gian, Bruno e io eravamo sempre in prima fila, e spesso conquistavamo anche la vetta. I quattro anni passati a Desenzano sono stati sicuramente i più belli della mia vita. Ero nel mio ambiente. Un po’ come Pinocchio mi trovavo nel Paese dei Balocchi e godevo di tutto il ben di dio che mi veniva elargito ogni giorno senza pensare che così non sarebbe certo potuta durare. Conobbi ragazze di ogni tipo e di ogni colore. Ricordo una ragazza di circa vent’anni che era di passaggio a Desenzano, dove si


14 era fermata per un breve periodo per fare qualche soldo come disk jockey, per poi proseguire per l’India, la meta conclusiva del suo viaggio. La sua ultima notte a Desenzano la passammo seduti assieme sui sassi in riva al lago, a baciarci, parlare e mangiare arance. Mangiammo una quantità industriale di arance, che prelevavamo da un aranceto alle nostre spalle. Parlammo del mondo, della vita e di mille altre cose sino all’alba, poi lei sparì come nei racconti rosa e non la rividi mai più. Ancor oggi le rare volte che ci penso, di lei ricordo due cose: il suo alito che sapeva di aranciata e i suoi collant azzurri, un tipo di calze femminili che non avevo mai visto prima. L’ultimo inverno, prima di andarmene, trovai il primo grande amore. Lei era una ragazzina appena più giovane di me. Suo padre, lo ricordo perché fu una delle cose che di lei mi colpì molto, suonava in un complesso su un battello che traversava il lago. Il sentimento che mi legò a quella ragazzina fu un sentimento puro, felice, ingenuo, intenso. Pur non avendola mai toccata con un dito, mi sembrava di essere parte di lei. I nostri pensieri erano all’unisono, quando eravamo assieme non parlavamo neppure, ci perdevamo per ore e ore l’uno negli occhi dell’altra. Io non capivo più niente; il mio unico costante pensiero era lei, contavo il tempo che mi teneva separato da lei, vivevo solo quando eravamo assieme. Tutto questo portò naturalmente a delle conseguenze disastrose che narrerò più avanti. Infatti questo mio paradiso in terra non poteva durare. Anche se io non ci pensavo proprio, la vita mi stava per chiedere il conto dei doni che mi aveva elargito. Fu così che mio padre perse il lavoro, si ammalò di tumore e tra


15 una cosa e l’altra rimanemmo senza soldi. Cercai di reagire e, lasciata la scuola, mi misi a fare il rappresentante di una ditta pubblicitaria. Fu un fiasco. Timido come sono sempre stato e di conseguenza aggressivo col prossimo, i clienti li allontanavo invece che attrarli. I miei dovettero sloggiare dalla casa che avevamo a Capolaterra e tornare al paese d’origine nel vicentino, in un appartamento in affitto che ci mangiava praticamente quel po’ di denaro rimasto. Fuggii da Desenzano senza salutare nessuno, come un ladro. Fu un trauma talmente grande che ancor oggi ricordo quel momento con difficoltà. La mia mente lo ha parzialmente cancellato, troppo dolore da sostenere. Di dire alla mia ragazza come stavano realmente le cose, e cioè che lei si era innamorata di uno spiantato senza futuro e incapace anche di guadagnarsi il pasto quotidiano, non ce la facevo. Così da buon vigliacco scappai, abbandonando lei e i suoi splendidi occhi marroni che per tanti anni hanno agitato i miei sonni, specialmente durante il servizio militare. È proprio vero che da se stessi non si può mai scappare. E infatti ovunque andassi mi portavo dietro me stesso, e lo schifo che mi facevo vedendomi incapace di diventare adulto e di reagire alla sorte avversa come farebbe qualsiasi uomo degno di questo nome. Tutto quello che sapevo fare era piangere chiedendomi perché la sfortuna aveva scelto proprio me. Per imparare a reagire alla “sfiga” che, quando ti colpisce, lascia sempre il segno, mi ci vollero anni di batoste, di schiaffi e di calci nel sedere. E oggi che sono ormai nella fase calante della vita, di quel periodo mi è rimasto l’amaro della mia codardia di allora, del tradimento più abbietto perpetrato ai danni di chi aveva come


16 unico torto l’avermi amato e regalato la sua fiducia, una fiducia che non meritavo. Dio che schifo! A quei giovani che avranno la bontà di leggere queste mie righe mi permetto di dire: affrontate sempre la vita a muso duro, non abbiate paura di nulla; anche dopo la peggior tempesta torna sempre il sereno. Non dubitate di voi, sbagliare è umano, scappare è vergognoso. Altrimenti ogni tanto, nel corso degli anni che verranno dopo, facendovi la barba la mattina vi potreste guardare allo specchio con la voglia di sputarvi addosso. Tornai dopo molti anni con mia moglie a Desenzano e ritrovai uno degli amici di allora, anche lui invecchiato come me. Tutto era cambiato. Il Sergio Caman era morto, la compagnia dei tre dell’Ave Maria non esisteva più e, nonostante fossero passati oltre quarant’anni, non ebbi il coraggio di passare davanti a casa di lei. Ma torniamo all’inizio del ‘78, quando si iniziò a parlare di nuovi rapporti tra i due sessi. Di amore libero, di convivenza fuori del matrimonio, e di altre “eresie” che solo qualche anno prima avrebbero portato chi le sosteneva davanti a un confessionale. Scoprimmo tutto in un momento che quello che gli adulti ci avevano raccontato non era vero e che la realtà era molto diversa. Lobby di potere stavano distruggendo il mondo per fare denaro. Giovani venivano mandati a morire per motivi di interesse economico in luoghi che neppure conoscevamo e di cui non sapevamo nulla. Un terzo del mondo viveva al di sopra delle sue possibilità costringendo i rimanenti due terzi a morire di fame e di stenti, naturalmente con la benedizione di Santa Madre Chiesa, più attenta


17 agli interessi dello IOR che a quella delle anime. Fu uno shock per chi come me per vent’anni si era bevuto tutte le balle che la società gli aveva raccontato. Arrivò anche il momento del servizio militare, passaggio obbligato, fino ad allora, dall’adolescenza alla maturità. Si entrava in caserma da ragazzo se ne usciva uomo, dicevano. Ma anche qui mi sono dovuto ricredere. Ricordo di essere arrivato ad Aosta alla Scuola Militare Alpina il 25 aprile del 1970. Avevo ventuno anni appena compiuti ed ero completamente all’oscuro di cosa mi sarebbe accaduto in quei quindici mesi di naia non voluta. La scuola militare era una gigantesca macchina dove si portava avanti un sistema di disumanizzazione dell’individuo per trasformarlo in un essere anonimo e senza personalità, pronto a obbedire la primo cretino con un simbolo sulle spalline. E il processo di spersonalizzazione iniziò il giorno stesso del mio arrivo, quando mi presentai all’ufficiale di picchetto, uno come me che, unica differenza, era entrato nella stessa caserma quasi un anno prima e che ora grazie a una fascia azzurra, sul tipo del Musichiere, la celebre trasmissione televisiva degli anni ‘60 condotta da Mario Riva, posta di traverso sulla spalla, mi urlò a dieci centimetri dal naso un sacco di improperi perché mi ero permesso di chiedergli dove dovessi andare a consegnare la cartolina di precetto. Tutto in quella scuola era strutturato per stritolare la personalità dell’individuo che vi capitava dentro. In cortile non si poteva passare camminando, ma solo di corsa. Ci si alzava a ore assurde per poi correre attorno alla caserma al suono della marcia trionfale, magari con una decina di gradi sotto zero o con la pioggia.


18 Ogni qual volta un ufficiale o un sottufficiale ti rivolgevano la parola dovevi urlare il tuo nome, cognome, compagnia, plotone, squadra eccetera, eccetera. Per parlare dovevi chiedere il permesso. Se riuscivi ad andare in libera uscita dovevi camminare con passo marziale e altre stupidaggini simili. L’ufficiale di giornata ti controllava il cubo, il modo assurdo di fare il letto sotto naia, con una moneta di cento lire; se non rimbalzava eri fottuto. Il comando della scuola per renderti più docile utilizzava il sistema adoperato in questura negli interrogatori dei delinquenti, quello cioè del superiore buono e di quello cattivo. In questo modo chi ti comandava sapeva sempre perfettamente come la pensavi e poteva fregarti a sua volontà. Poi c’era il ricatto delle licenze che in genere venivano date ai lecca culi, categoria che nei militari abbonda, e tu ti ritrovavi a fare il lavoro di chi aveva ottenuto un “5 gg.” cioè una licenza più il viaggio per meriti di lingua. Potrei raccontare a voi giovani d’oggi, che di caserma e di naia avete la fortuna di non conoscere nulla, tanti episodi occorsimi durante i quindici mesi passati in grigio verde; ma credo non riuscirei a rendervi l’idea di cosa sia per un giovane ventenne fare il soldato come lo si faceva allora. Ricordo chiaramente ancor oggi, perché fu una frase che mi fece molta impressione e in un certo qual modo mi aprì gli occhi, sulla naia e sulla sua utilità nella formazione del carattere di un giovane, la frase urlata a fine corso, prima di partire per il corpo di destinazione, dal comandante della scuola, un colonnello siciliano di cui non ricordo più nemmeno il nome: “Sono soddisfatto di questo corso - ci disse - perché se oggi vi chiedessi di uccidere


19 per me lo fareste” Una frase pazzesca, assurda, imbecille, ma che allora, ora mi vergogno ricordandolo, ci fece partire per il Reggimento di destinazione con un vago senso di orgoglio. Al reggimento poi dopo sei mesi di scuola alpina, dove passai dai novantasei chili di peso ai quarantotto, trovai la naia più abbietta. Scherzi stupidi e pericolosi imposti da cialtroni in divisa erano cosa di tutti i giorni, tollerati e a volte incoraggiati dai ranghi superiori per controllare e dominare la vita in caserma. Sono stato assegnato alla squadra pionieri (gli artificieri degli alpini). Ho imparato a posare i campi minati, ho rincorso un invisibile nemico sotto il sole e la pioggia per tutte le montagne della Carnia e del Cadore, ho imparato a sparare con un fucile, il Garand, appartenuto a un soldato statunitense durante la guerra di Corea e che, bontà sua, vi aveva inciso sul calcio una tacca per ogni coreano che aveva ammazzato. E tutto questo perché? - mi sono domandato mille volte - visto che oggi una guerra si può fare standosene dentro a un rifugio e schiacciando un unico, definitivo bottone. Ho subito il sadismo dei graduati miei predecessori. A Belluno mi hanno imbastato come un mulo e mi hanno portato assieme ai miei compagni di corso in giro per la città, sbastandomi solo per entrare nei bar e offrire da bere. Ho lottato con tutte le mie forze contro queste tradizioni animalesche, e sono stato deferito al comando di divisione a San Daniele del Friuli, rischiando di andare in galera a Peschiera. Proprio in quel carcere, dove andavo a prendere l’esplosivo, ho scoperto che vi erano gli obbiettori di coscienza e che questi, contrariamente a quanto mi era stato detto, erano esseri umani come


20 me, se non meglio di me, e non dei mostri orrendi come mi erano stati descritti. Ho consolato compagni di sventura in lacrime, mi sono curato le vesciche ai piedi con la tintura di iodio, ago e filo. In pratica ne ho passate di tutti i colori e vi posso assicurare che non ne sono uscito uomo. Semplicemente ne sono uscito, cambiato e forse in peggio. Termino questa prima parte, che piĂš di un racconto è uno sfogo, ripromettendomi nella prossima parte di parlare della mia entrata nel mondo del lavoro. Una naia che dura da quasi quarant’anni e per certi risvolti peggiore di quella propriamente detta.


21

Quaderno 2

Il servizio militare finalmente finì. Siamo nell’estate del 1971, il 1° agosto e per il sottoscritto inizia quella che sarà la fase dominante di tutta la vita: l’esperienza del lavoro. Anche in questo caso, come per l’esperienza naia, le condizioni di quel primo giorno di lavoro sono inimmaginabili per un giovane d’oggi. La richiesta di manodopera allora era così alta che pur di avere operai le fabbriche i “padroni”erano disponibili anche a fare qualche concessione sindacale. Fu così che iniziarono le lotte operaie degli anni ‘70 che portarono alla Carta dello Statuto dei Lavoratori, all’articolo 18, alle quaranta ore, alla contrattazione decentrata e a tante altre piccole o grandi vittorie del mondo operaio, che poi trent’anni dopo il padronato, come si diceva allora, si sarebbe ripreso approfittando della crisi mondiale dell’economia. Ma andiamo per ordine. Dopo alcune esperienze lavorative fallimentari - rappresentante, disegnatore tecnico, geometra - fui assunto da un grosso gruppo industriale con stabilimenti un po’ in tutta Italia. Mi presero non per lo stabilimento vicentino dove abitavo coi miei, bensì per quello milanese perché la mente eccelsa che guidava la sezione rapporti col personale di allora aveva pensato bene di risolvere la


22 continua rotazione di personale sempre presente in quello stabilimento spostandovi giovani già abituati per tradizione famigliare al lavoro a turno e domenicale provenienti da fabbriche periferiche. Lo stabilimento in questione lavorava su tre turni di otto ore, cioè per ventiquattr’ore senza mai fermarsi, se non a Natale, Pasqua, 1° Maggio e quindici giorni ad agosto. In genere la manodopera che vi lavorava, era composta prevalentemente da meridionali emigrati a Milano, che preferiva altri tipi di lavoro possibilmente giornaliero con riposo il sabato e la domenica; ma, appena giunti a Milano, si accontentavano anche di lavorare a turno, rimanendo nello stabilimento il tempo necessario per trovare di meglio altrove, quindi se ne andavano. Risultato, il personale presente nello stabilimento era sempre composto quasi esclusivamente da novellini con scarsa preparazione professionale. Per supplire a questa carenza che alla fine si ripercuoteva nella qualità del prodotto, il capo del personale, mente eccelsa, decise, come ho scritto sopra, di assumere ragazzi provenienti dai paesi nei quali gli stabilimenti erano una tradizione consolidata da anni, in modo da poterli tenere in fabbrica, data la loro abitudine a quel genere di lavoro maturata attraverso i padri e i nonni. Su una cosa l’eccelso capo del personale però sbagliò; anche se eravamo novellini alle prime armi lavorative, nessuno di noi era disponibile a farsi trattare da servo o da schiavo. Dico questo perché ricordo ancora con rabbia, nonostante siano passati tanti anni, la sistemazione tipo vacche da stalla che l’illustre dirigente ci offrì. Una foresteria priva di riscaldamento, con le stanze dal pavimen-


23 to in linoleum pieno di buchi dai quali uscivano ogni tanto famigliole di topi, con una sola cucina per una ventina di ragazzi, arredata con un unico frigo, due fornellini elettrici su cui a turno dovevamo farci da mangiare, un tavolo sgangherato e quattro sedie che avevano visto anni migliori. La paga mensile, centosessantamila lire, non ci permetteva certo di goderci la grande città, quindi se non eravamo al lavoro stavamo nella nostra stanza a guardare il soffitto. Fortunatamente eravamo quasi sempre al lavoro, e chi ha lavorato a turno mi comprende; un po’ alla volta eravamo diventati degli asociali. Quando eravamo in riposo gli altri lavoravano e viceversa, quando noi si lavorava, il mondo faceva festa. Immaginatevi per dei ragazzi di poco più di vent’anni, cosa significava una tale sistemazione che, oltre tutto, non permetteva a nessuno riposare perché al mattino alle cinque, estate o inverno, sole, pioggia o nebbia, passava davanti alla nostra foresteria, costruita a pochi metri dall’argine sinistro del Naviglio, il trattore che trascinava controcorrente i barconi fino ad Abbiategrasso, dove venivano riempiti di ghiaia e ritornavano poi nel pomeriggio carichi seguendo la corrente per terminare la loro corsa a Porta Genova. Tanto per capirci, il trattore era un vecchio Landini con un volano enorme e il rumore del suo motore si iniziava a sentire cinque o sei chilometri prima che arrivasse. E questo era solo l’inizio di un rumore costante composto da centinaia di auto, camion autobus, e chi più ne ha più ne metta, che passavano davanti alle nostre finestre provocando in tutti uno stato di insonnia permanente. Risultato, contrariamente a quanto pianificato dal capo del personale, uno alla volta ce ne siamo andati tutti. Ma andiamo per ordine.


24 Il primo giorno di lavoro fu devastante. Provenendo dal vicentino, a Corsico eravamo considerati dai locali dei “terun del nord” e come tali trattati. Due erano i gruppi di potere dentro allo stabilimento: i meridionali, quelli veri, che erano la quasi totalità della manodopera e avevano formato una specie di circolo chiuso che valeva sia dentro che fuori la fabbrica, e i settentrionali che invece si consideravano l’élite della manodopera, quasi tutti impiegati; molti erano grandissimi leccapiedi, con l’appoggio incondizionato della dirigenza. Nel mezzo c’eravamo noi, i “minus quam merdam” dello stabilimento. Eravamo soli e indifesi al punto che tutti si divertivano a farci qualche angheria, anche solo per passare il tempo. Ricordo ancora quel mezzo fusto da due ettolitri pieno di nafta mista a trielina davanti al quale fui piazzato al mattino alle otto del primo giorno di lavoro e dal quale fui tolto di peso alle 17,30 del pomeriggio praticamente drogato marcio per aver inalato vapori di nafta e trielina per otto ore. Il mio compito era quello di lavare i pezzi che i meccanici mi passavano nella nafta e quindi asciugarli con uno straccio. Ne avessi pulito uno bene! Macché, ogni pezzo non andava bene e per divertirsi, ricordo, un meccanico nativo di Roma ogni tanto me ne ributtava dentro al fusto qualcuno in modo tale da farmi schizzare la nafta sulla tuta. Una tuta nuova qualche taglia sicuramente più grande del dovuto, che mi ballava dappertutto, con le bretelle della salopette che mi segavano le spalle. ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD


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