I gatti negli armadi

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In uscita il 30/6/2015 (15,00 euro) Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2015 (3,99 euro)

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ORESTE BRONDO

I GATTI NEGLI ARMADI

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I GATTI NEGLI ARMADI Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-899-2 Copertina: Immagine di Gianfranco De Angelis

Prima edizione Giugno 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A Pina, Maia e Davide



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1. LE PRIME DUE VOLTE

Zampette che frugavano raschiando sul legno. Un rotolare di corpi soffici, un brusio quasi impercettibile. Unghie affilate che si impigliavano sulla plastica che avvolgeva i vestiti fuori stagione. Il bambino aprì gli occhi nel buio. I suoni provenivano dall’armadio. Un miagolio sottile e dolcissimo giunse fino alle sue orecchie. Un’anta cigolò aprendosi. Due occhi gialli brillarono nella notte. Voleva chiamare la mamma, ma la voce non veniva fuori, cacciata fin dentro il corpo dalla paura che lo paralizzava. Voleva accendere la luce, ma la distanza tra le coperte e l’interruttore era troppa e intorno c’era il buio, vuoto e pericoloso, fiocamente illuminato da quegli occhi gialli che lo fissavano e dai quali non riusciva a distogliere lo sguardo, come se fosse prigioniero di una malia. Si trattava di un gatto, sicuramente si trattava di un gatto, ma a casa sua non c’erano gatti, non c’erano mai stati gatti. Una voce spezzò l’incantesimo. Era gentile, imbarazzata, veniva dall’armadio: «Miao, mi scusi tanto» gli occhi luminosi scrutavano intorno, la loro luce si affievoliva sfumando nel verde. «Devo avere sbagliato uscita.» L’anta dell’armadio, così come si era aperta, si richiuse e il gatto scomparve. Questa fu la prima volta, poi venne la seconda. I coniugi Zamponi erano andati a dormire tardi, come spesso accadeva quando in televisione davano “Cuori infranti”. Quasi addormentati, avvolti nel caldo accogliente delle coperte, sentirono anche loro un tramestio provenire dall’armadio. Erano artigli che si affilavano sul legno e un lieve strusciare di corpi tra i tessuti e le plastiche. Si sollevarono a sedere sul letto, la schiena dritta, il respiro affannoso e gli occhi spalancati, cercando di cogliere, nel vuoto del buio, la presen-


6 za di qualcosa che si muovesse. Non avevano animali in casa, no. Lei non avrebbe sopportato di avere tra i piedi nemmeno un canarino, tanto meno un gatto, per quanto il figlio tante e tante volte l’avesse scongiurata, pregata in ginocchio, cercando di smuoverla a tenerezza, di regalargli un cagnolino, oppure un micio piccolo piccolo, ma a nulla era valso. In quella casa non avrebbe messo piede nessun animale a quattro, a due o a sei zampe fino a che lei fosse stata viva. Potevano benissimo fare a meno di altri impicci; non avrebbero avuto neanche di che pagarseli, tantomeno adesso, con l’ultimo aumento degli affitti che aveva peggiorato ulteriormente le cose. Era impensabile, fuori questione, anche solo immaginare di poter sostenere il peso di un'altra bocca da sfamare per quanto piccola. Avevano altri guai cui pensare e nemmeno quelli ormai sapevano come affrontarli. Non gli restava che “Cuori infranti” con i suoi quaranta minuti di storie d’amore, inganni e sotterfugi. Era in quell’agitarsi di personaggi, di sentimenti, di avventure amorose e di affari contorti, che i coniugi Zamponi potevano, per quanto brevemente, abbandonarsi al sogno di una vita migliore, lasciandosi traghettare dolcemente, ogni sera, verso le braccia di Morfeo. Ma adesso, nemmeno durante il sonno, unico rifugio dai loro affanni, potevano più sperare in un attimo di pace. Chi era? Cos’era che irrompeva a guastare la fragile serenità di quell’ultimo avamposto rimasto a dimora contro le angustie della loro turbinosa esistenza? Persistendo il rumore che proveniva dall’armadio, anzi facendosi ancora più intenso, come a denotare un aumento della quantità di corpi in movimento, ed essendo ormai la paura dei coniugi giunta a un livello tale da richiedere un intervento risolutivo, il signor Zamponi, prendendo tutto il coraggio che aveva di riserva, fece per scendere dal letto allungando la mano verso l’interruttore. Nonostante il terrore che lo attanagliava e il vuoto e la distanza intercorrenti tra il letto e la lampada sul comodino, sentì che era giunto il momento di gettare luce sugli strani fatti che andavano accadendo nel suo armadio. Fece appena in tempo a tirar fuori un piede dalle coperte che le ante, con un cigolio reso ancora più sinistro dal buio profondo della notte, si aprirono lente e inesorabili.


7 Gli arti e l’intero corpo dello Zamponi si congelarono in un’attesa spasmodica. Per un’anomala paralisi sopravvenuta improvvisamente, qualsiasi tentativo di andare avanti nei suoi intenti sembrava precluso. La moglie accanto a lui rantolava, soffocata, parole senza senso. Grande era l’affanno e di molto crebbe il terrore quando i due attoniti sposi videro profilarsi, nelle tenebre fonde dell’armadio, due occhi lucenti che inequivocabilmente dovevano appartenere a un felino. Ma tale stato di inerme terrore peggiorò ancora di molto, quando vicino a quegli occhi di brace fosforescente, se ne materializzarono altri due e poi altri due ancora. Occhi, erano quelli, che visibilmente indagavano vedendo nella notte. A quel punto il signor Zamponi dovendo necessariamente, per ruolo familiare acquisito, assolvere al suo compito, garante come era della sicurezza e dell’incolumità dei suoi cari, con voce tremante finalmente disse: «Chi siete? Cosa volete?» In tutta risposta, dall’armadio, giunse un lieve e cortese miagolare e infine un raschiar di gola. A quei suoni, che aumentavano non di poco la loro infinita angoscia, seguirono queste parole: «Scusate tanto, abbiamo ancora una volta sbagliato uscita.» A tale imbarazzata constatazione, proferita dalle misteriose creature, seguì di nuovo il cigolare delle ante che si richiusero nella notte: la notte in cui i gatti apparvero nell’armadio di casa Zamponi, in parco Baggiani 25, nel poco ridente quartiere di Bagnamare avvolto, in quelle tre del mattino, da una tenebra nuvolosa senza Luna, che sembrava propizia ai malefizi o quanto meno ad arcani accadimenti.


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2. POCO MARE A BAGNAMARE

Il quartiere Bagnamare sorgeva, come il nome lascia facilmente intendere, vicino al mare. Un mare a dire il vero non troppo pulito, ma pur sempre mare, e sarebbe stato bello, nelle tiepide domeniche di primavera, passeggiare a riva, magari mangiando un gelato, portando i bambini a spasso con le biciclette, spingendo i piccoli in carrozzina, accompagnati dalla moglie o dalla fidanzata. Ma questo non era possibile, poiché tra gli ultimi isolati del quartiere e il mare si estendevano le terre del Cavalier Baggiani e il Cavaliere, o chi per lui, aveva tassativamente vietato a qualsiasi essere umano non appositamente autorizzato di attraversarle, che fosse a piedi, in bicicletta, in carrozzina, dotato di moglie o fidanzata. Sicché il quartiere Bagnamare si chiamava così più per il ricordo di consuetudini lontane nel tempo, le cui immagini sbiadite di gitani domenicali in costume, famigliole che pranzavano a riva fissando l’obiettivo della macchina fotografica, erano ormai velate da una nostalgia irredimibile. Frammenti di un ricordo di armonie e bellezze assai lontane dalla realtà presente, che parlavano di quando il mare era pulito e a tutti era possibile, in estate o nelle giornate particolarmente calde, andare a farsi una nuotata. Questo era uno dei modi originali e definitivi con i quali l’opera del Cavalier Baggiani aveva determinato in bene o in male – molti dicevano in male o in male – la qualità della vita degli abitanti di Bagnamare. Ma non era il solo. Il Cavaliere oltre a quelle vaste lande di terra delle quali non se ne faceva nulla, tranne che ostacolare un pacifico rapporto tra i bagnamaresi e il mare, attendendo l’autorizzazione a costruirci qualcosa sopra, era anche proprietario della maggior parte dei palazzi e delle palazzine del quartiere. Si può dire quindi che tutti i bagnamaresi, tranne rare eccezioni, erano suoi affittuari e per questa ragione, non di poco conto, ogni mese dove-


9 vano consegnargli una certa somma per continuare a vivere nelle case dove abitavano. È facile quindi dedurre che il Cavalier Baggiani fosse ricco, anzi molto ricco. Ma come capita molto spesso alla gente che possiede molto di qualcosa, lui ne voleva ancor di più, e più ne aveva più ne voleva. I bagnamaresi si chiedevano “Ma a cosa servono al Cavaliere tutti questi soldi?” e da soli si rispondevano “A farne altri”. E ne faceva davvero tanti. Ogni primo del mese, 7200 famiglie consegnavano il loro assegno agli esattori del Cavaliere e mentre glielo consegnavano sospiravano non poco, perché con quei soldi si dissolveva la possibilità di concretizzare qualche piccolo desiderio, cose del tipo: comprare una macchina, anche di seconda mano, ma che funzionasse bene, invece di quel rottame che ormai beve benzina come un cammello assetato, oppure regalare la cucina giocattolo alla bambina alla quale piace tanto imitare la mamma che fa le faccende, oppure andare in pizzeria una domenica, o trascorrere un’altra serata al Bingo a lasciarsi spennare ancor di più dal Cavalier Baggiani che pure del Bingo di Bagnamare era proprietario. Ma i rapporti tra il Cavaliere e i bagnamaresi non finivano qui. La maggior parte di essi, infatti, lavorava nelle sue fabbriche, nei suoi uffici e nelle sue ricevitorie, e andava a far la spesa negli ipermercati di proprietà della moglie e quindi era destino, anzi ormai tradizione, che coloro che avevano la ventura di vivere e lavorare in quel quartiere, dal Cavaliere ricevessero denaro che lui si riprendeva subito, in cambio, per usare un termine elegante che toglie pesantezza al senso di ciò che andiamo raccontando, di erogazione di servizi. E questi servizi il Baggiani se li faceva pagare cari, molto cari, poiché non aveva concorrenza nel quartiere, e anche se ce l’avesse avuta: bastava mettersi d’accordo. «Nella vita» amava dire, «è necessario sapere con esattezza ciò che si vuole e procurarsi i mezzi per ottenerlo.» Poi aggiungeva: «E siccome io i mezzi ce li ho e so esattamente quello che voglio…!» Quest’ultima frase rappresentava, in buona sostanza, l’idea che il Cavaliere aveva del libero mercato. «Il libero mercato è fare liberamente ciò che si vuole quando lo si può fare.»


10 E lui non si lasciava sfuggire nessuna occasione per mettere in pratica questa sua personale filosofia di vita, e non lesinava sorprese, soprattutto a coloro le cui esistenze, in un modo o in un altro dipendevano da lui. La sorpresa più brutta per i bagnamaresi, ultimo capolavoro di magnanimità e carità cristiana del Baggiani, era giunta da poco, immediatamente dopo le feste di Natale. Un bel pacco regalo di inizio anno, che aveva lasciato a bocca aperta la maggior parte dei tristi e poco abbienti abitanti del quartiere: il Cavaliere aveva aumentato gli affitti del trenta per cento. E in un colpo solo. «Congiunture di mercato» aveva detto a chi gli chiedeva ragione di tale insensato aumento. E poi aveva aggiunto: «Il costo della vita è aumentato e io non posso mica perderci. Ricordatevi che sono un imprenditore e non un benefattore.» Molta gente, buona parte della gente del quartiere, aveva visto così crollare i bilanci familiari, e dal primo di febbraio volatilizzarsi ogni minima possibilità di risparmio o di godimento dei frutti del proprio lavoro. Diceva il Cavaliere in una delle sue più famose e ripetute massime: «In questa società ogni godimento ha un corrispettivo economico.» Ma le difficoltà contingenti, con il sopravvenuto aumento, avevano finito per compromettere non solo la possibilità di procurarsi godimenti, bensì persino quella di soddisfare i bisogni più elementari. Diventava difficile anche mettere su il necessario per comprarsi da mangiare, e questo perché il provvido Cavaliere aveva gonfiato, oltre che gli affitti, anche i prezzi degli alimentari nei suoi supermercati e, sempre a causa della stessa congiuntura sfavorevole, aveva fatto levitare i prezzi delle merci ma non gli stipendi dei bagnamaresi. Ci fu un tentativo di emigrazione in altri quartieri che presto venne stroncato da una triste evidenza: guidati forse da un intuito divino, da uno spirito superiore o da una mente che li ispirava unitariamente, i proprietari dei palazzi di tutta la città della quale Bagnamare faceva parte, avevano anche loro aumentato del trenta per cento i prezzi degli affitti. Quell’anno si profilava triste e oscuro. Si presentava come un enorme vascello in rovina dalle vele lacere, alla deriva nel mare della disperazione e, se tristi erano stati certi risvegli dei capifamiglia angustiati


11 dall’idea di non farcela ad arrivare a fine mese, da quel fatidico capodanno, quando la notizia del trenta per cento fu ufficializzata, lo divennero tutti. Ogni mattina ci si svegliava affogati dall’angoscia, dal senso di inadeguatezza e dal bisogno disperato di procurarsi altri lavori. E fu così che i capifamiglia, uomini e donne che fossero, cominciarono a trascorrere sempre meno tempo con i loro figli, sempre più indaffarati a cercare di recuperare il denaro e il tempo rubato facendo altro. Il mare era lontano per i bagnamaresi, il cielo non ne parliamo, ma da quel momento in poi anche la fine del mese appariva irraggiungibile, per lo meno quanto la volta celeste. La gente del luogo cominciò a coltivare pensieri sempre più tristi, la tenuta di molte famiglie cominciò a vacillare, ma di questo il Cavaliere Baggiani non se ne curava, anzi: non se ne accorgeva nemmeno, arroccato com’era nel suo castello incantato, che sorgeva sulla collina di Bagnamare e dai cui spalti era possibile dominare l’intero paesaggio a lui sottomesso.


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3. L’ARMADIO DEL CAVALIERE

Il Cavalier Baggiani era un uomo gentile e raffinato. Non alzava mai la voce. Aveva sempre una buona parola per tutti. Non diceva quasi mai cose spiacevoli e quando lo faceva adoperava un tal garbo e dei modi così studiati da risultare gradevole anche in quei rari casi. Questa piacevolezza del tratto e del modo era accompagnata, anzi, enfatizzata da un certo gusto nel vestire. Il Cavaliere era, a detta di molti esperti, un uomo elegante, per quanto il suo vestiario non contemplasse molte variazioni, essendo prevalentemente costituito da completi blu o completi neri con camicie bianche o camicie blu, adornate da cravatte argento o Regimental, il tutto però progettato, tagliato e cucito su misura dai migliori sarti della città, sebbene il Cavaliere non disdegnasse, di tanto in tanto, di avvalersi dei servigi di un grande stilista parigino famoso per essere stato, per molto tempo, il sarto personale di un insigne capo di Stato. Il vestire occupava una parte consistente del suo tempo e dei suoi riti quotidiani. Era un perfezionista, ma non solo in questo. Nel suo splendido e irraggiungibile palazzo custodiva il suo guardaroba in un prezioso armadio disegnato e realizzato appositamente per lui, come regalo di nozze, da un grande architetto e stilista giapponese. Era un armadio a sei ante, di noce scuro, istoriato di venature di salice chiaro intrise di una speciale resina che di notte brillava fosforescente disegnando, sulla vasta superficie, splendide volute che facevano pensare a una foresta incantata. Al centro di ogni anta era incassato uno specchio alto e stretto. Il Cavaliere ogni mattina amava soffermarsi davanti a uno degli specchi per contemplarsi e indugiare sull’immagine di se stesso. Ammirava il suo portamento quando si recava in pigiama a scegliere gli abiti o quando, bello e vestito, si avviava ad affrontare i nuovi impegni e le nuove sfide che lo attendevano. Sì, perché ogni sorgere e tramonta-


13 re di Sole corrispondeva per lui, ormai da vent’anni a quella parte, al coronarsi di qualcosa di importante. Meglio di così le cose non potevano andare. Ma quella mattina, qualcosa di oscuro, come ebbe presto a notare, era stata ordita alle sue spalle, spalle di indefesso lavoratore, per rovinargli un inizio di giornata che si profilava denso di nuove conquiste. Il Cavaliere, dopo aver gustato con calma e parsimonia la sua colazione mattutina da solo nel suo letto (da tempo la moglie e lui alloggiavano con quiete e decoro in stanze separate), si era recato nella stanza dell’armadio per scegliere i capi che avrebbero composto il costume da indossare per interpretare quel giorno la sua parte. Non voleva servitù intorno in quel momento che considerava fondamentale. Nel vestirsi preferiva essere solo. Chiamava quella mezz’ora, per lui sacra e inviolabile, “la meditazione di partenza”. Era mentre infilava i calzini, mentre si lasciava fasciare dalla morbidezza e dalla fragranza delle sue camicie, mentre annodava con abilità il nodo della cravatta, un nodo da lui stesso inventato, era durante quei trenta minuti di pace e di religioso silenzio, che gli balenavano in mente, in forma definitiva, le strategie e le azioni che avrebbe dovuto mettere in atto per aggiungere, a un già nutrito elenco, nuovi successi e nuove conquiste. Salutò, come ogni mattina, garbatamente, il suo riflesso di uomo di mezza età un po’ assonnato ma vigoroso che si rifletteva su uno degli specchi incassati. Aprì con delicatezza una delle ante, si sporse verso le appenderie dove avrebbe trovato ciò che cercava e che una volta indossato, lo avrebbe reso perfetto, come a ogni giro di Terra, agli occhi del mondo intero, ma alla prima occhiata capì che qualcosa non andava. I suoi vestiti neri e i suoi completi blu, si presentavano stirati e ordinati come sempre, in fila e ben sistemati dalle mani esperte del sig. Alfredo, l’addetto al guardaroba. Erano le camicie che non andavano. Al posto delle sue splendide Harmont and Blaine, delle sue sobrie e ben tagliate Brooksfield, delle sue amate Fred Perry, facevano mostra di sé un mucchio selvaggio e assordante di camicie gialle con colletto a faldoni giganteschi, roba da telefilm americani anni settanta, mentre al posto delle sue sobrie e poliziesche camicie blu penzolavano sulle traverse, ben infilate nelle grucce di ordinanza, a offendergli la vista, della


14 atroci camicie verde smeraldo tutte intrecciate di pagliette gialle luccicanti. Fece un passo indietro, chiuse con uno scatto felino le porte del mobile e corse dal sig. Alfredo per chiedere spiegazioni. Qualcuno voleva ostacolare il giusto cammino delle cose e questo non poteva essere permesso.


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4. GLI INVASORI

Fu molto cortese nel prospettare gli effetti che avrebbe avuto questa inaspettata manomissione del guardaroba. Spiegò con gentilezza che la cosa non sarebbe passata inosservata, che sarebbe stata aperta un’inchiesta e che il mistero sarebbe stato risolto anche a costo di far pagare a qualcuno, chiunque fosse stato l’artefice di quell’onta, prezzi altissimi per il suo atto sconsiderato. Disse pure, al silenzioso, paziente e cortese Sig. Alfredo, che non avrebbe voluto essere al posto di chi aveva commesso una così grave offesa che aveva incrinato l’ordine perfetto e il corso felice dei giorni di quella casa e della sua personale esistenza. Più o meno in questo modo parlava il Cavaliere nei momenti di rabbia, senza alzare il tono della voce, come se dialogasse amabilmente di una partita di pallone, o dell’ultimo pranzo di gala. Il sig. Alfredo, chinando lievemente la testa in segno di deferenza, con il fare placido e risoluto che era proprio del suo stile, e che tanto piaceva al Cavaliere, disse, senza un’ombra d’incertezza che trapelasse dal suo parlare: «Farò quanto possibile per mettere chiarezza intorno a questo increscioso incidente. Intanto le faccio stirare subito una camicia bianca appena giunta dalla lavanderia.» Il Cavaliere educatamente ringraziò, come se si rivolgesse a un suo pari (in questo era davvero un democratico) e con questa piccola spina nel cuore diede inizio alla sua giornata lavorativa. Sebbene l’inizio non promettesse bene, il continuo fu assai soddisfacente. Pochi affittuari, subito redarguiti e minacciati di sfratto, si erano dichiarati impossibilitati a pagare la pigione e, inoltre, dal governo regionale era giunta in mattinata la concessione lungamente attesa che gli avrebbe permesso di edificare, sulle terre vicino al mare, un sistema integrato di


16 ipermercati e di cinema multisala, che avrebbe dato una sterzata alle sue economie e ai suoi già floridi affari. Ma qualcosa continuava ad agire nell’ombra. Un piccolo tarlo che nel fondo del suo cuore lo disturbava: «Chi è entrato nel mio sacrario commettendo, senza che nessuno se ne accorgesse, un misfatto così grande?» Sentiva vacillare i capisaldi della sua felice intimità, qualcuno lo aveva attaccato vittoriosamente, entrando nel cuore del suo regno. Come si era potuti arrivare a tanto? Quella sera rincasò che era tardi. La moglie si era già ritirata e la servitù di turno attendeva il suo ritorno per l’accoglienza di rito. Rispondendo appena al saluto degli attendenti, il Cavaliere salì per la scalinata centrale e senza indugi si recò nella stanza dell’armadio, per accertarsi che non fossero avvenute ulteriori manomissioni e che tutto fosse stato rimesso a posto. Spalancò una delle ante centrali e nella stanza si diffuse il profumo dolce amaro delle sue camicie con le quali prontamente, il signor Alfredo aveva sostituito quegli orrori che avevano così profondamente offeso i suoi sensi e la sua anima. Affondò per un attimo la testa immergendola nella morbidezza delle appenderie, ma qualcosa congelò la sua estasi, riconducendolo alla dura realtà. Una sensazione spiacevole lo invase. Tra quei vapori cremosi, di una bellezza e una freschezza inarrivabile, tra quelle fragranze Chanel che intridevano l’aria intorno, rintracciò un odore estraneo e spiacevole, aspro e pungente, che faceva crollare d’un colpo l’edificio meraviglioso di profumi che si spandevano dal suo guardaroba: urina di gatto. Questo non era possibile! Mai animale, di qualsiasi taglia o forma, aveva fatto ingresso nella sua reggia, decontaminata da qualsiasi presenza bestiale. Un servizio apposito, gestito da persone esperte e ben pagate, era addetto a un’unica funzione: tenere lontane le bestie. Provò a rintracciare ancora quell’odore, quel puzzo devastante, tra le pieghe rassicuranti della sua biancheria, ma era scomparso. Un vento leggero l’aveva trascinato via. Si trattava di un’illusione forse, dettata dalla stanchezza. Qualsiasi cosa fosse, sortì i suoi effetti dilagando tra le pieghe della notte e rendendo il sonno del Cavaliere inquieto e discontinuo.


17 Aveva gli occhi rossi quando si alzò al mattino. Un languido torpore gli ottenebrava i sensi rendendogli le gambe così malcerte che quasi gli tremavano sotto il peso del suo pur agile corpo. Osò a malapena sbirciare nello specchio, intravedendo una figura insolitamente curva e devastata dall’insonnia e dai sogni di quella notte, pervasi di odori spiacevoli e di voci che risuonavano ancora nelle sue orecchie. Triste mattino si annunciava quello, e presto si confermò esserlo. Nel momento in cui il Cavaliere aprì l’armadio, comprese che le cose erano andate al di là di ogni possibile tolleranza. Al posto dei suoi sessanta completi, centoventi camicie, ottantadue cravatte, faceva mostra di sé, infatti, in un torvo penzolare, sulle aste del suo sontuoso guardaroba, una lunga teoria di tute da meccanico usate, ben lavate certamente e ben stirate, ma lise nei bordi e nelle giunture e rattoppate qua e là come a fargli notare, metaforicamente, che mentre lui possedeva tanto guardaroba, c’era gente che andava a lavoro in condizioni penose e ancora di più, in condizioni penose viveva. Questa sfida di ignota mano, con la quale si dava inizio al secondo mattino dell’invasione, ebbe un effetto tonificante su di lui, che vide chiaramente il profilarsi di un imminente battaglia con un nemico che ancora non si era svelato pienamente, ma che non avrebbe retto, qualsiasi ne fosse stata l’identità, alla sua determinazione, al suo orgoglio di combattente nato. Si schiarirono gli occhi del Cavaliere, il suo portamento si fece diritto e fiero, mentre una scintilla feroce brillò nelle profondità del suo sguardo. «Dove c’è tensione c’è energia» si disse, ricordando uno dei suoi motti preferiti. E, come parlando a un interlocutore che gli stesse di fronte, ben definito, pronunciò le seguenti parole: «Non sopporto certe trovate ideologiche di cattivo gusto.» Si fasciò della sua bella vestaglia di cachemire e andò subito a trovare il signor Alfredo, direttamente alla lavanderia. Nel ricoprire, quale sovrintendente al vestiario, un assai delicato incarico, il signor Alfredo si era guadagnato un posto di eccellenza nella gerarchia del palazzo. Era considerato da tutti, servi e padroni, il capo assoluto, secondo solo al signore e alla signora. Era, di fatto, il maggiordomo della magione. «Convochi il personale al completo, avrei alcune urgenti comunicazioni da riportare.»


18 Il personale al completo era costituito da ventidue persone, rigorosamente non bagnamaresi, scelte tra le più referenziate del pianeta. «Eseguo subito» disse il signor Alfredo senza batter ciglio e con fare compassato andò a rendere realtà l’ordine appena ricevuto. Era intenzione del Cavaliere, in quell’attimo di costernazione, licenziare in tronco tutto il personale addetto. Avrebbe colpito nel mucchio, avrebbe fatto pagare anche agli innocenti il prezzo di quell’affronto, questo lo sapeva, ma l’importante era colpire a ogni costo chi si era macchiato del misfatto. Questa era la sua ferma intenzione e andò subito a comunicarla alla moglie che, fasciata in un elegante kimono di seta, sorbiva ancora, serena e per niente consapevole, il suo delicato tè al mandarino con biscotti di zenzero. «Ogni limite è stato superato!» disse con la stessa animosità con cui avrebbe ordinato una crema chantilly seduto al tavolo della terrazza di un ristorante di lusso, in una tiepida e soleggiata giornata primaverile. Le comunicò, quindi, le sue decisioni. La moglie rispose seccamente che “non se ne parlava nemmeno”, che si trattava di servitù selezionatissima e che c’erano voluti tre anni per mettere in piedi una squadra così efficiente e qualificata e che, sicuramente, si sarebbe dovuto risolvere le cose diversamente, magari chiudendo a chiave l’armadio, oppure stabilendo un turno di guardia. Ma fu proprio mentre la discussione tra i due coniugi stava cominciando a farsi un tantino più animata, cioè nel momento in cui la signora Baggiani aggiungeva un cucchiaino di zucchero di troppo al suo tè al mandarino, mentre il Cavaliere si lasciava sfuggire un sospiro di disappunto, che, silenzioso come un’ombra, si accostò alla porta il signor Alfredo, l’unico a cui era concesso accedere, in casi di certificata necessità, nelle stanze padronali durante l’ora di colazione. L’udienza, visto il frangente, venne presto concessa: «Il Cavademi, l’addetto ai carrelli della lavanderia, ha qualcosa da raccontare, qualcosa che penso troverà interessante.» Non lasciò passare un attimo tra l’esalare di quell’ultima affermazione e il rapido avviarsi, fasciato nell’elegante vestaglia, verso il luogo dove il Cavademi, il grigio e obbediente addetto ai carrelli, lo attendeva, proprio davanti all’armadio che era stato, peraltro, prontamente bonificato. «Parli pure» disse il Cavaliere, con un sussiego non privo di calore e bonarietà.


19 Il Cavademi, con il suo marcato accento lombardo, chinando la testa in segno di remissione disse: «Questa notte sono passato davanti all’armadio per sistemare le ultime camicie e controllare se non ci fosse qualche indumento che la Maria magari avesse tralasciato di ritirare.» Anche lui, come tutti gli altri, prima di entrare a far parte dell’organico del personale di servizio, aveva dovuto superare un corso di dizione e di bel parlare, sebbene tra tutti fosse quello che peggio se la cavava e, non per nulla, faceva il carrellista. Il Cavalier Baggiani non sopportava le sgrammaticature e chi non era capace di esprimersi in modo più che corretto veniva diffidato dal proferir parola in sua presenza. «Ebbene, cosa è accaduto?» chiese il Baggiani, notando un certo indugio a proseguire il racconto da parte del Cavademi. «Beh, non mi crederà Cavaliere, ma ho sentito qualcosa muoversi nell’armadio, anzi era più di una cosa, erano almeno tre o quattro cose, che parlavano tra di loro e di tanto in tanto raschiavano con le unghia il fondo di legno, come se cercassero di scavare. Non ho avuto il coraggio di aprire l’armadio. Una luce verde veniva fuori dalle giunture e io, in breve, ho pensato che lì dentro ci fosse qualcosa di demoniaco che si agitasse e sono fuggito.» Su queste ultime parole la voce del servo si incrinò per l’emozione. Il Cavaliere lesse un sincero terrore nei suoi occhi, nei suoi modi e, da profondo conoscitore degli uomini qual era, capì che il trasportatore di carrelli non stava mentendo. Decise allora che quella notte stessa, insieme ai servi più fidati, avrebbe atteso la visita notturna degli invasori, per scoprire, una volta per tutte, chi fosse l’autore di quel pessimo, prolungato e fastidioso scherzo. Non aveva importanza che si trattasse di creatura mortale, umana, animale o soprannaturale, l’importante era fare chiarezza, il resto sarebbe venuto da sé.


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5. LA PRIMA DISFATTA

Giunta la notte, una notte nuvolosa, buia come i sogni di uno spaventapasseri senza cervello, cinque fidati servi, i cui nomi non hanno alcuna importanza, e il Cavalier Baggiani, uomo famoso per il suo coraggio e la sua determinazione, si sedettero su sei comode seggiole anatomiche di fronte al grande armadio, in attesa del sopraggiungere dei misteriosi ospiti. Attesero fino alle tre di notte. Ora in cui, effettivamente, si udì qualcosa muoversi e strisciare cautamente dentro l’armadio, e un grattugiar di artigli e poi, come aveva detto il Cavademi, un fitto chiacchierare di voci che nulla avevano di umano ma piuttosto di… «Felino» osservò il signor Alfredo. Presto una vaga luminescenza verdastra cominciò a trapelare tra le giunture del legno, a quel punto, con la voce fiera e sicura di un generale pronto a dare battaglia con il suo esercito, il Cavaliere disse: «Bene! Adesso vedremo!» Poi aggiunse, come a incitare la turba sanguinaria di una truppa di mercenari al soldo: «Si accendano le luci e si cacci via l’invasore!» Tutto avvenne in pochi istanti. L’azione era stata studiata anzitempo, fin nei minimi dettagli. A ogni componente del drappello era stato assegnato un compito. Il giardiniere si era procurato persino delle reti da pesca per catturare l’avversario. «Li pescheremo, questa volta, con le mani nel sacco.» Ma la pesca fu magra per non parlare di quanto vuoto restò il sacco. Il portinaio accese le luci, i cucinieri spalancarono le ante, il Cavaliere, il più ardito di tutti, si lanciò contro il nemico per afferrarlo, stringerlo, ghermirlo, ma gli occhi riempiendosi di luce a stento si adattarono al veloce cambiamento, intuendo un guizzare subitaneo tra le pieghe dei vestiti e niente presero le reti, se non l’aria e un peluche impolverato che era appartenuto al Cavaliere quando era molto giovane. Per il resto,


21 l’armadio apparve completamente deserto. Non c’era una bestia, né essere umano che desse evidenza di sé, ma i vestiti, quelli sì che evidenza ne davano e in modo particolarmente esagerato. Il sobrio guardaroba del Cavalier Baggiani si era tramutato nel variopinto e ridicolo guazzabuglio di pezze e travestimenti di una compagnia di pagliacci: nasi finti, cravatte, colletti a farfalla, addobbi floreali, guanti rossi a pois verdi, pantaloni alla zuava d’oro e d’argento, cappotti sbrindellati a chiazze colorate, maschere di animali, ma nessun segno degli autori di quell’ennesimo misfatto. Il Cavaliere rimase per un attimo impietrito davanti alla scena. La schiena dritta, lo sguardo lontano, come un generale pronto ad ammettere una transitoria sconfitta, ma già proiettato verso la spietata e puntuale esecuzione di una tremenda rappresaglia. Teneva gli occhi fissi scrutando quell’orrore. Le pupille vibravano leggermente e senza perdere la calma, cosa che invece i cinque inservienti compreso il maggiordomo davano segno di aver più che smarrito essendo evidente la matrice soprannaturale del fenomeno, il Cavaliere disse freddamente: «Che il demonio mi sia venuto a trovare non mi meraviglia, ma che debba rovinarmi il guardaroba questo non lo posso sopportare. Telefonate alla prima ditta di traslochi che vi viene in mente e fate portare via l’armadio infestato. Non voglio più vederlo in casa mia.» Qualcuno telefonò.


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6. TRAS E LOKI

Alle otto del mattino di quello stesso giorno, si presentarono, al cancello della tenuta, i due traslocatori. «Erano esseri umani, sì, ma di un’altezza e una corporatura spropositate» ebbe a dire più tardi a un suo parente il responsabile della sicurezza che aveva assistito al loro operato che, a detta di tutti i testimoni, aveva qualcosa di sovrumano. La vigilanza d’ingresso, avvisata dell’imminente arrivo di un’impresa di traslochi, vedendoli giungere alla guida di un camion da trasporti, porse le domande di rito: «Chi siete?» I due scendendo dall’abitacolo e sporgendosi al finestrino della guardiola, mostrarono alcune scritte che campeggiavano sulle loro magliette (era tardo inverno e indossavano delle polo di cotone leggero a maniche corte). Sul petto di uno c’era scritto TRAS, su quello dell’altro c’era scritto LOKI. Uno dei vigilanti, mettendo insieme le due parole disse: «Traslochi!» I due, che fino ad allora non avevano pronunciato parola, da dietro i loro occhiali neri e da sotto i loro cappelli di feltro, annuirono. Avevano i nasi schiacciati e una leggera e vaporosa peluria sul labbro superiore dalla quale fuoriuscivano, come piccole spade di luce, dei peli lunghi e dritti di un biancore innaturale. «Forse erano gemelli» raccontò alcuni giorni dopo a un suo cugino il Cavademi, che se li vide apparire nella sala dell’armadio, mentre trasportava i vestiti del Cavaliere ancora utilizzabili in un guardaroba di riserva. Si mossero silenziosi, senza proferir parola. I vigilanti, solitamente pignoli nel richiedere segni di riconoscimento, documenti che attestassero uno specifico permesso a essere introdotti nella reggia, trovarono sufficiente come certificato di idoneità all’ingresso le scritte TRAS e LOKI stampate sui vigorosi petti dei due esseri che, montando sul grosso camion che li aveva condotti fin lì, fe-


23 cero ingresso nei giardini percorrendo i sentieri alberati che conducevano all’altura dove sorgeva il castello. Giunsero all’ingresso della residenza, bussarono e gli fu aperto: «Chi siete?» Nessuna risposta giunse, tranne un’esplicita richiesta a leggere le credenziali stampate sulle magliette (TRAS e LOKI) con un cenno in aggiunta a indicare il camion alle loro spalle sul cui cassone erano stampate, in caratteri rosso fiammanti, le stesse due parole solo ben accostate tra di loro: TRASLOKI. «Ah! Siete qui per l’armadio» disse l’usciere, addetto alla sicurezza della magione. I due muti e giganteschi personaggi, si produssero in un energico cenno di assenso che, ebbe l’impressione il portiere, provocò per un attimo una corrente d’aria che lo travolse con un odore aspro e pungente che, come ebbe a riflettere più tardi, di umano non aveva nulla. Remissivo come non lo era mai stato, con estranei che calpestavano per la prima volta il pavimento sacro della magione, l’usciere li fece entrare senza ulteriori domande. TRAS E LOKI, appena entrati in casa, sfilarono gli occhiali che presero a penzolare giù per il collo dondolando da una cordicella. L’usciere li precedette per indicargli la strada, ma i due, come se già conoscessero il posto, in pochi balzi lo superarono. «Un momento!» disse tentando di fermarli, ma i due già salivano lungo la scalinata centrale con passi veloci svoltando verso la lavanderia, come se conoscessero la strada, fino a giungere alla stanza dell’armadio dove il Cavademi stava, proprio in quel momento, caricando gli ultimi vestiti su un carrello. Erano alti, immensi, vasti, muscolosi, leggeri eppure giganteschi, e le pupille dei loro occhi, alla luce forte della lampada, improvvisamente si contrassero in piccole fessure verticali, come lune calanti. «Erano occhi di gatto, ve lo assicuro» ebbe a dire più tardi il portacarrelli ai suoi colleghi. Con il senno di poi tutti capirono che si era trattata dell’ultima parte dell’invasione. L’usciere ansimante li raggiunse dicendo, come se fosse stato lui a condurli nella stanza: «È qui che sta l’armadio. Forse avete bisogno di un aiuto, è piuttosto pesante.» «No» disse TRAS.


24 «No» gli fece eco LOKI. E furono le prime e ultime parole che pronunciarono. Con decisione si avviarono verso il grosso mobile. L’usciere per un attimo, incrociando lo sguardo di uno dei due giganti, fu percorso da un brivido dopo il quale, frettolosamente, tornò a occupare il suo posto davanti al portone di ingresso, sperando che i due se ne andassero al più presto possibile. Li vide scendere, di nuovo indossando gli occhiali neri, ognuno teneva con una mano un estremo dell’armadio come se non avesse alcun peso. Scesero le scale e sembrava che portassero un palloncino pieno d’aria appeso a un filo che tirava verso su, piuttosto che una massa di metallo e legno dal peso di quattrocento chili. Il portiere si ritrasse chinando la testa e, salutando sbrigativamente, spalancò la porta. I due giganti, senza fiatare, uscirono nel cortile, caricarono l’armadio sul gabbione del camion, salirono con un balzo nella cabina di guida, misero in moto e andarono via. Pochi minuti dopo, davanti alla guardiola d’ingresso della tenuta Baggiani, giunsero, alla guida di un moderno e attrezzatissimo camion, gli operatori di una titolata ditta di traslochi dal nome altisonante di “Rapida e splendida”. Erano lì per assolvere al compito del quale erano stati incaricati per le 8.30 di quel mattino, a mezzo di una telefonata che aveva avuto luogo alle otto meno dieci: liquidazione di un pesante e ingombrante pezzo di mobilia. Solo allora gli addetti alle relazioni esterne si resero conto che i due giganti, TRAS e LOKI, se ne erano andati senza chiedere il compenso dovuto per il prelevamento e il trasporto del mobile. Pagarono, pertanto, agli operatori della “Rapida e splendida” la cifra pattuita, come se il lavoro lo avessero fatto loro. Li pagarono nella speranza che nessuno venisse a sapere di quanto accaduto.


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7. L’ISOLA ECOLOGICA

In quello stesso istante un camion dei traslochi giunse all’isola ecologica di Bagnamare. L’isola ecologica era il luogo dove i bagnamaresi depositavano tutti quei pezzi di arredamento ormai inservibili per eccesso di usura o per attitudine allo spreco, arte nella quale anche da quelle parti qualcuno brillava di luce mai propria, purtroppo. Era un deposito disordinato di masserizie, alcune fradice e cadenti, altre in ottime condizioni, quanto meno per una casa abitata da persone normali. Fu nei pressi di quella terra desolata dove non cresceva nemmeno un ciuffo d’erba e il terreno era grigio e duro quasi come l’asfalto, che giunse il grosso camion dei traslochi. Stridettero i freni e la massa metallica della gigantesca vettura, che sembrava venire fuori da una stampa pubblicitaria di una ditta di trasporti anni cinquanta, si bloccò, immobile e imponente, nella piazza centrale di quel cimitero aggrovigliato di progetti di arredamento andati a male, di pezzi di storie familiari mandate al macero, nel quale solo i topi, di tanto in tanto, si affacciavano tra le masse contorte delle impiallacciature deformate dal vento e dall’umidita, o dalle pance sventrate di divani in stile svedese sostituiti da tempo dai divani in stile danese. Dalla cabina di guida vennero giù due giganti, i cappelli di feltro, gli occhiali neri, le magliette con le maniche corte. TRAS e LOKI c’era scritto sui loro petti, i baffi ispidi e filiformi, i movimenti veloci e agili. TRAS saltò sul gabbione e spingendo il grosso armadio lo fece capitombolare giù verso LOKI che lo afferrò come se si trattasse di uno scatolone vuoto e con delicatezza femminea, dolcemente, lo poggiò sul terreno. Con un balzo LOKI salì sul gabbiotto, ne trasse due pale e due picconi. Si divisero gli attrezzi e scavarono una buca della stessa misura e della stessa forma della base dell’armadio. La buca era profonda a sufficienza affinché il mobile ci si potesse incastrare alla perfezione, ma quanto


26 basta da permettere alle ante di aprirsi a piacimento. Non trascurarono di realizzare otto cavità ben proporzionate nelle quali avrebbero trovato posto i massicci piedi di massello. Terminato il lavoro, afferrarono l’armadio e delicatamente lo adagiarono nella fossa. Messo lì sembrava un’apparizione, una lapide funeraria che segnava il punto dove erano stati seppelliti, in tempi immemorabili, i corpi di giganti antichi come la terra, un luogo di passaggio, la porta degli inferi, un colosso, una speciale pianta che aveva attecchito in quella terra morta, con radici di ferro e legno. TRAS e LOKI si scossero di dosso quel po’ di polvere che si era depositata sui loro abiti e prima di andarsene batterono con grande delicatezza le nocche su una delle ante centrali. Tre colpi netti, separati, e poi si avviarono verso il camion, saltarono nella cabina, senza un fruscio d’aria o uno scalpicciar di piedi, misero in moto e se ne andarono.


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8. I GATTI NELL’ARMADIO

A circondare quello spazio desolato, nella parte che dava sui campi calcinati sui quali, fino a pochi decenni prima, era ancora attivo un piccolo stadio dagli spalti ormai cadenti, erosi dalle intemperie e dal tarlo degli anni, sorgeva un muro basso, consumato anch’esso dall’inclemenza dell’aria di mare, che segnava i confini di quella discarica ancora in minima parte “valorizzata”. Su questo muro di recinzione, inchiodato alla meno peggio, c’era un cartello bianco, ormai impataccato di macchie rugginose: “Isola ecologica” c’era scritto. Fu, per l’appunto, in quel luogo assai poco ameno, che venne abbandonato l’armadio tra le altre masserizie, fra le quali troneggiavano: un’immensa poltrona di velluto azzurro sulla cui spalliera si apriva un buco enorme come la bocca sfilacciata di un drago morente, da cui fuoriusciva una molla di acciaio ancora lucido che rifletteva i primi barlumi del sole; un immenso televisore al plasma con lo schermo attraversato da una crepa nel vetro di protezione; una madia quasi nuova, falso stile fine ottocento, con i cassetti infilati in perfette condizioni e un barattolo di marmellata mezzo pieno che ancora faceva mostra di sé sullo scaffale più alto. Quando riecheggiarono in lontananza gli ultimi ruggiti del motore del camion di TRAS e LOKI subentrò, in quel luogo poco ospitale, un silenzio spezzato da rari passaggi di automobili sullo stradone polveroso. Era, quella, una zona di confine tra l’ex stadio e le campagne dell’area vulcanica non ancora colonizzate dalle ruspe e dal cemento, ma lo stesso irraggiungibili dai bagnamaresi perché accuratamente recintate da alte mura tutte intarsiate di cocci di vetro e fili spinati la cui funzione era proteggere prati selvaggi, boschi intricati, vegetazioni rigogliose, da chissà quale violazione, furto o abigeato. L’armadio taceva e anche gli altri mobili lì presenti. Ognuno stava sulle sue. Nessuno si sbilanciava, animato da una scarsa fiducia nei confronti


28 del prossimo, anche se si trattava di un armadio dall’aspetto indubbiamente rispettabile e assai decoroso. Ma in fondo c’era da comprenderli: erano stati abbandonati in quel luogo orribile per ragioni a loro parere non condivisibili e la loro vita, in quello spazio eroso dalla pioggia e dal maltempo, si era rivelata difficile e talvolta estremamente triste. Stavano lì, perciò, in attesa di chi avrebbe fatto la prima mossa. Per l’armadio, poi, si trattava di una novità assoluta trovarsi in un luogo così poco ospitale, un’isola ecologica, e gli pareva senz’altro scortese, un po’ volgare, per dirla più chiara, presentarsi subito come un chiacchierone. Evitò pertanto di far scricchiolare anche di poco le sue poderose assi, in attesa di un segno di accoglienza che provenisse dagli altri. Fu la poltrona a rompere il ghiaccio. Un’altra molla, in onore del nuovo arrivato, scattò fuori dall’imbottitura sfondando il tessuto e aprendo un’altra voragine sulla tappezzeria. Una piccola nuvola di polvere si sollevò dal velluto azzurro infeltrito e sfilacciato. In tutta risposta, la madia scricchiolò sensibilmente. Non poteva lei, così distinta, essere da meno. Qualcosa si mosse dentro il barattolo di marmellata semiaperto, come a dire: «Ci sono anch’io!» Anche il televisore pensò bene fosse il caso di intervenire: un raggio di sole colpì, secondo la giusta angolatura, la crepa sul vetro e una macchia luminosa che brillava dei colori dell’arcobaleno illuminò una delle ante del gigantesco armadio che finalmente rispose alla gentile accoglienza. L’anta cigolò con un gran suono di cardini disallineati, il trasporto aveva mandato fuori registro le cerniere e, giunta alla sua massima apertura, rimase così, spalancata, per due forse tre minuti dopo i quali, dal buio fondo del gigantesco mobile, affiorarono le forme di un gigantesco gatto tigrato con una macchia gialla sull’occhio destro. Venne fuori, lanciando sguardi cupi e indagatori in tutte le direzioni. Per un frammento di secondo i suoi occhi brillarono colpiti dalla luce riflessa dallo schermo del televisore. A questo lampo di luce rispose l’immediato sollevarsi di uno stormo di uccelli dal fondo della discarica. Gabbiani dalle larghe bianche ali, anche loro forse involatisi in segno di saluto e buona accoglienza. Il gatto scrutò lo spazio intorno, vide due automobili rapide passare sullo stradone che portava alla base militare, le antenne di acciaio sui tetti di lamiera dell’ipermercato, le facciate dei palazzi baluginanti di luce e di polvere, le case dei ricchi circondate dai bei giardini sulla collina alla fine dello stradone, le campagne selvagge che si aprivano verso il vulcano spento, un volo di gabbiani


29 basso e sinuoso che si dirigeva verso il mare, le diverse tonalità di azzurro del cielo, il brillare del sole sulle onde lontane, la terra brulla, morta e sterile da tempo dell’ ’’isola ecologica”, i cantieri di una palazzina non terminata, le rovine sbilenche e polverose dello stadio, le masserizie infradiciate e macerate dalla pioggia, dal vento e dal Sole e per un attimo pensò che si trattava davvero di un brutto posto, ma che se “lui” aveva deciso che andava bene, allora significava che andava bene, niente da dire. Tornò indietro da dove era venuto, si sedette di fronte all’armadio e per un po’ ristette a guardare il suo riflesso su uno degli specchi verticali. Pensò a quanto piccolo avrebbe dovuto farsi per assolvere ai servizi di comunicazione ai quali presto sarebbe stato chiamato, per poter sgusciare negli spazi ristretti dei piccoli armadi della povera gente, per non dare troppo nell’occhio, almeno nella prima fase del contatto; ma, abbandonando presto questi pensieri beffardi e malinconici, si riscosse, come avrebbe da tempo dovuto fare, dicendo: «Miao.» Da dentro l’armadio giunse subito la risposta: uno strusciare di corpi esili e leggeri, un fremito di miagolii e di unghia affilate che grattavano il legno e poi il fuoriuscire di una torma di bestie, corpi snelli, movimenti flessuosi, dalle rimanenti ante che lentamente, una dietro l’altra, si aprirono per lasciarli uscire: uno, due, tre, quattro, cinque, sei gatti che come primo atto, al loro apparire si fermarono, ruotando gli acuti sguardi felini, a contemplare la desolazione di quel luogo. I gabbiani parvero accorgersi dei nuovi arrivati e, sorvolando bassi i vasti e sterili campi, cominciarono a danzare sul cielo vicino. I gatti, gli occhi levati, seguivano le evoluzioni muovendo all’unisono le teste, ora da un lato, ora dall’altro, ora su, ora giù. Lo spettacolo fu interrotto dall’aprirsi rumoroso, quasi di schianto, dell’ultima pesante anta. Un uomo, questa volta, ne venne fuori. Indossava un cappello di altri tempi a falde larghe, una sciarpa stretta intorno al collo, bianca e tutta decorata di perline argentate, un largo cappotto di seta rosso carminio, delle ampie braghe di cotone blu cobalto lievemente consumate sulle ginocchia, il volto rasato di fresco, la bocca carnosa, gli occhi obliqui come quelli dei gatti e lo sguardo profondo segnato da due pupille come fessure, che si contraevano alla luce del giorno. Sorrideva.


30 Venne fuori seguito da una folla di gatti: cento, forse duecento, che si sparsero tutt’intorno, popolando in pochi secondi di fervida vita felina la triste discarica. L’uomo, come a prendere pacificamente possesso dello spazio, stirò le membra spalancando le braccia verso l’alto, scrutò l’orizzonte intorno, sorrise e finalmente disse: «Bene» e la sua voce era il suono del vento tra le nuvole. E poi concluse: «Siamo arrivati. C’è pure dove sedersi e di che vedere la televisione» e, con il sussiego e la solennità di un antico re, prese posto sulla poltrona di velluto azzurro come se fosse un trono. La poltrona lo accolse benevola con il suono staccato e netto di un'altra molla che si spezzava in qualche luogo imprecisato delle sue viscere. «Potevi scegliere un posto più carino» disse il gatto dalla macchia gialla. «Era molto meglio dentro l’armadio.» «È sempre meglio dentro l’armadio» rispose l’uomo. «Ma adesso riposiamo un poco. È stata dura convincere il Cavaliere a liberarsi di questo monumento.» « Ma alla fine ci siamo riusciti» disse un gatto bianco con la coda mozza. «Ne dubitavi?» rispose l’uomo che già aveva chiuso gli occhi addormentandosi proprio sulle ultime parole appena pronunciate. Gli occhi di tutti i gatti presenti conversero per un attimo sulla poltrona nella quale il re si era immerso piombando velocemente nel sonno più profondo. «È stanco» disse un gatto. «Anche noi» rispose un altro. «Abbiamo viaggiato» sussurrò un altro ancora. «È giunto il momento di riposare un poco.» )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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