I protettori di libri, Francesco Abate

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In uscita il 28/6/2019 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2019 ( ,99 euro)

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FRANCESCO ABATE

I PROTETTORI DI LIBRI

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ I PROTETTORI DI LIBRI Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-317-8 Copertina: immagine Shutterstock.com


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PREFAZIONE

La guerra è un business. Chiunque conosca la storia sa come la grande ripresa economica statunitense ebbe come concausa, se non come causa primaria, la partecipazione dapprima indiretta – sotto forma di aiuti alla Gran Bretagna – poi diretta al secondo conflitto mondiale. La guerra richiede bombe, così l’industria lavora, si crea occupazione e l’economia gira. Ovviamente la fregatura c’è per quei Paesi che la guerra se la trovano in casa; loro, infatti, devono fare i conti con i danni. È questo il motivo per cui ci sono molti Paesi che si prodigano per esportare democrazia a suon di bombe, perché quelle bombe vanno prodotte e fanno alzare il PIL, cadono sulla testa di Nazioni che ci sembrano lontane, di cui a stento conosciamo i nomi e di cui non ci interessa niente. La guerra, però, ha anche conseguenze che vanno al di là dell’economia, infatti l’abitante del Paese bombardato fugge, così nasce il problema dei migranti. Alcune persone originarie di quei Paesi, poi, solidarizzano in modo malato con le vittime dei bombardamenti, forti già di una naturale inclinazione alla violenza, e si danno al terrorismo, uccidendo nostri concittadini che dalla guerra non hanno guadagnato niente, che della guerra non sono responsabili e che a volte sono anche contro la guerra stessa. La violenza è un virus, è contagiosa perché laddove è consumata spinge altri a essere violenti. Per molti purtroppo la violenza legittima se stessa. Resta però il fatto che tutto questo circolo vizioso sia legittimato da un business, cioè che nasca perché qualcuno si arricchisca. Come scrisse Bukowski: “la pace, bello mio, non vende”, quindi chi vuole arricchirsi ha bisogno della guerra e la promuove attraverso l’uso massiccio dei mass media. L’uso dei mass media, al fine della propaganda di guerra, introduce un altro discorso.


4 Perché i media abbiano un valore sempre più pesante nella formazione del nostro pensiero, è fondamentale togliere spazio alla coscienza critica dell’individuo. L’individuo che ha poche idee originali viene maggiormente riempito dalle notizie provenienti dall’esterno e queste, nella formazione del suo pensiero, assumono un peso più rilevante. Perché un individuo abbia poche idee originali, bisogna fare in modo che sia poco avvezzo a pensare, cioè che eviti di farsi delle domande e che sia disabituato a riflettere approfonditamente prima di darsi le risposte. Per questo motivo i regimi stanno distruggendo la cultura, perché un individuo privo di cultura è in grado di farsi solo domande superficiali e di darsi risposte immediate, non è pronto per una riflessione profonda e, anche se volesse farla, sarebbe privo dei mezzi che gli servono. Tradotto in parole povere, la persona ignorante pensa poco e, quando lo fa, ha pochi elementi per giungere a conclusioni importanti, perde così la sua identità di essere pensante e diventa un sacco da riempire, identico ad altri miliardi – si distingue solo dalle tendenze dovute al suo diverso DNA – e i mass media sono pagati per riempirlo di nozioni utili a fargli accettare lo stato di cose che gli si vuole imporre. La cultura è il veleno per i regimi che vogliono il potere, la ricchezza e la guerra, perché rende ogni persona indipendente, un pezzettino unico e inimitabile, e un mondo composto da individualità è impossibile da soggiogare. Distruggendo la cultura si cancella l’individualità, le persone diventano pezzi di un grande ingranaggio dove, facendone girare alcuni in un modo, ci si assicura che gli altri girino come devono. Distruggere la cultura vuol dire cancellare l’umanità e creare un esercito di automi da programmare con degli input, in modo che facciano ciò per cui sono stati costruiti. Ogni Governo o regime combatte la guerra alla cultura in modo diverso. I governi occidentali, che si sforzano di mantenere un livello minimo di libertà e democrazia, puntano ad avvelenarla. Essi prima hanno plasmato il sistema scolastico, affinché ponesse in secondo piano le materie che formano il pensiero e la capacità di giudizio, prediligendo quelle “utili”, ossia quelle che insegnano la produzione, poi ci hanno convinto che le materie umanistiche non servissero a niente e che a essere importanti fossero solo quelle che insegnano a costruire qualcosa, a lavorare.


5 Ci hanno convinto che la formazione di un individuo significa insegnargli a lavorare, trascurando completamente il lavoro che serve per insegnargli a pensare. La cultura oggi è qualcosa d’inutile agli occhi della maggior parte delle persone. Filosofo è ormai un termine dispregiativo, perché esprimere un’idea che va al di là dell’ingiuria o del tifo, è qualcosa di anomalo. Oggi l’uomo che ragiona è una testa d’uovo, viene deriso, mai viene ascoltato, mentre chi vomita ingiurie e mena le mani, spesso diventa una guida. Queste anomalie per anni le abbiamo vissute nel nostro piccolo, ma negli ultimi tempi si sono ingigantite, ed ecco arrivare personaggi ignoranti con atteggiamenti da bullo nelle istituzioni e nel mondo della politica. I posti di potere oggi li conquista chi dà la colpa dei problemi a qualcun altro, e non chi propone delle soluzioni reali. I libri oggi li vende chi scrive su carta luoghi comuni, non chi propone argomentazioni approfondite e meditate. Hanno inoculato il virus dell’ignoranza nella cultura, così da modificarla geneticamente, e ora quella modificata e difettosa la stanno facendo diventare dominante. Così potranno dichiarare guerre o devastare per avere più potere e più soldi, tutto con il consenso del popolo, che sarà diventato una massa unica e acefala. I regimi dittatoriali e i gruppi terroristici come l’ISIS vanno meno per il sottile e usano la violenza. Attraverso le loro folli leggi, essi impongono religione, stili di vita e cultura, tutto per creare un pensiero unico che mai sia in contrasto con i loro interessi. Perché nessuno si ribelli a una tale violenza, essi cancellano la cultura distruggendo libri e monumenti contrari ai modelli che impongono, stabiliscono cosa studiare e chi deve studiare, cosa dire e come pregare. Il fine che inseguono è lo stesso dei loro colleghi occidentali, solo che usano la violenza per arrivarci, e questo li costringe ad affrontare una resistenza maggiore. Proprio per indebolire la resistenza, essi cercano di cancellare i segni che mostrano l’esistenza di altre culture o altri modi di pensare, per questo bruciano i libri non scritti da loro e i monumenti di altre civiltà. Cercano, in pratica, di far esistere solo il proprio pensiero. Alla luce di quanto detto sopra, la cultura – quella vera – è l’unica arma che abbiamo per opporci alla trasformazione degli uomini in mezzi di


6 produzione o in servi del regime. Per questo motivo io ho deciso di dedicare questo romanzo a Khaled al-Asaad, l’archeologo siriano che ha preferito essere torturato e ucciso piuttosto che rivelare all’ISIS l’ubicazione di alcuni reperti antichi degli scavi di Palmira. Al-Asaad ha dedicato la vita intera alla cultura, e il suo sacrificio ci fa capire quanto fosse importante per lui proteggerla dai tiranni che vogliono distruggerla. Egli probabilmente sapeva che la memoria storica e la conoscenza sono le uniche armi che l’uomo ha per resistere alla barbarie, per questo ha ritenuto che quei reperti valessero il suo sacrificio estremo. Detto questo, vi esorto a restare liberi e a nutrirvi sempre di idee e di libri, appropriarvi di tutto e plasmarlo in un vostro pensiero personale. Il “copia e incolla” va bene per i computer, non per le persone. Così facendo, sarete uomini liberi e non schiavi. Buona lettura.


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CAPITOLO 1

Il 2027 stava giungendo al termine. Per le strade non volava più una mosca, era scattato il coprifuoco delle ventuno e tutti stavano cenando nelle rispettive case, accompagnati dalla musica del concerto di capodanno trasmesso dalla televisione subito dopo il discorso di fine anno del presidente italiano. L’unico particolare che avrebbe differenziato quella sera dalle altre trecentosessantaquattro, era la presenza di una bottiglia di spumante sulla tavola, o una cena un pochino più abbondante, magari accompagnata dalla presenza di parenti o amici che avrebbero trascorso la nottata intera nella casa che li ospitava, fino alla fine del coprifuoco che sarebbe arrivata alle sette del mattino. Mentre tutti erano intenti a festeggiare, Giovanna si preparava ad andare al lavoro. Era una poliziotta e quella notte sarebbe stata in servizio. In genere non le dispiaceva più di tanto il turno di notte, grazie al coprifuoco accadeva poco o nulla, al massimo qualche ubriaco, divenuto troppo audace, che si azzardava a uscire di casa e agli agenti toccava riaccompagnarlo. Da quando lavorava lì – tre anni ormai – il turno di notte era scivolato via sempre tranquillamente. Quella sera, però, era diverso. Le feste le mettevano sempre malinconia, soprattutto quelle di fine anno. Gli ultimi giorni dell’anno tutti, un po’ per abitudine e un po’ senza neanche volerlo, fanno bilanci del passato e propositi per il futuro, come se l’arrivo imminente di un nuovo anno significhi un cambiamento radicale nella vita. Giovanna sentiva quell’atmosfera e ne soffriva, il suo bilancio dell’anno appena passato era, come sempre, il peggiore possibile, non positivo e non negativo, ma assolutamente piatto. La sua vita sembrava scorrere su un binario, camminava e si spostava per ritrovarsi sempre nelle stesse stazioni, negli stessi posti e con le stesse persone. Tutto sembrava così vuoto, la vita era solo un lungo, noioso e interminabile film.


8 Non aveva cenato e lo stomaco protestava, ma in centrale i colleghi avevano organizzato una piccola festa per addolcirsi il turno di notte. Ci sarebbe stato qualcosa da mangiare e tanto da bere. Passare l’ultimo giorno dell’anno, quello in cui si raggiunge il culmine della speranza nel futuro, con i suoi colleghi le dispiaceva tantissimo, ma non poteva fare altrimenti. Aprì l’armadio di compensato, bianco come le pareti e il pavimento del suo appartamento, come tutti i mobili e tutte le pareti e i pavimenti degli altri appartamenti del Paese. Prese i pantaloni bianchi del tailleur facente parte della sua divisa e li indossò. Si guardò allo specchio e ancora una volta si rese conto di odiare quel vestito. Lei era bassa e formosa, con i fianchi larghi e il seno prosperoso, con quell’abito bianco e un po’ aderente si sentiva una pallina. Era uso tra i suoi coetanei quello di fare un selfie davanti allo specchio prima di uscire e pubblicarlo sui social network, lei però non lo faceva mai perché odiava la sua immagine allo specchio. Si vedeva bassa e tarchiata. Come sempre si chiese come fosse possibile che tanti uomini bramassero di fare del sesso con lei. Giovanna si vedeva con gli occhi severi e pessimisti con cui molti guardano se stessi. In realtà dove lei vedeva bruttezza c’era una ragazza molto carina, resa piuttosto sexy dalle forme pronunciate. La sua bassa statura, abbinata a un viso da bambina, le dava un’aria sbarazzina che faceva impazzire gli uomini. I suoi occhi, però, coglievano quell’immagine riflessa nello specchio in modo molto diverso: lei la odiava. Indossò le scarpe d’ordinanza, prese una borsetta in cui infilò il permesso di circolare liberamente destinato agli esponenti delle forze dell’ordine in servizio notturno, sospirò e scese per andare al lavoro. Alla centrale di polizia la festa del turno di notte procedeva da qualche ora. Mancava meno di mezz’ora all’inizio del 2028 e già tutti erano fortemente brilli, vicini alla soglia dell’ubriachezza. Giovanna non aveva bevuto molto, aveva solo leggeri capogiri. Evitava l’alcol temendo d’intristirsi troppo. Si sa, infatti, che l’alcol è un amplificatore dei sentimenti che la persona prova; un ubriaco triste diventa talmente depresso che rovinerebbe qualsiasi festa. Lei sapeva di essere triste, e l’alcol ingerito fino a quel momento glielo stava mostrando in modo inequivocabile, e non voleva né che ciò


9 divenisse evidente agli altri, né tantomeno che rovinasse la festa. Aveva una gran voglia di cominciare l’anno in modo diverso dal solito, sperando che magari l’inizio alternativo potesse generare un anno completamente differente. Le sarebbe andato bene anche se i cambiamenti fossero stati in senso negativo, tanto era stanca della routine. I colleghi ridevano rumorosamente poco lontano, lei se ne stava seduta un po’ in disparte a fissare la televisione. Stavano trasmettendo il concerto, qualcuno stava cantando, ma lei era così distratta da non accorgersi nemmeno che l’apparecchio era acceso. Sentì una mano posarsi sulla spalla, notò un collega paonazzo e gaio che la guardava sorridendo, mentre poco lontano gli altri lo indicavano sghignazzando. Giovanna capì subito che doveva essere uno stupido gioco tra uomini: o l’ubriaco aveva scommesso che l’avrebbe abbordata o i suoi amici l’avevano mandato a fare una figuraccia, così da poter ridere di lui. «Come mai te ne stai sola e triste?» biascicò il collega. «Niente. Penso» tagliò corto lei. «Devi divertirti un po’, è una festa!» l’uomo, nel muovere le braccia per indicare l’ambiente circostante, rischiò di perdere l’equilibrio e dovette poggiarsi al tavolo per restare in piedi «ti va di ballare un po’ con me?» «Non mi piace ballare, poi non credo che riusciresti a restare in piedi visto come sei ridotto.» «Sei un po’ acidella. Hai litigato col fidanzato?» insistette lui. «Torna dai tuoi amici a farti ridere dietro. Ti sei già reso abbastanza ridicolo» sbottò lei. «E dai! Non fare la difficile, ti stavo solo…» «Agente, smetta di rompere i coglioni alla collega e di fare figure di merda! È un ordine!» Sentendo quella voce l’ubriaco impallidì e, barcollando, tornò dai suoi amici che, dopo un attimo di stupore, cominciarono a prenderlo in giro. La voce che aveva interrotto quel molestatore era del commissario Sara Croce. Nonostante fosse una donna, aveva un aspetto che riusciva a incutere timore negli uomini, anche quelli ignari della carica che ricopriva. Giovanna la osservò e le destinò un sorriso carico di gratitudine, le aveva tolto una grande scocciatura. Il commissario le sorrise di rimando.


10 Nonostante indossasse il tailleur pantalone che costituiva la divisa femminile, tradiva un aspetto molto mascolino, così come le movenze e gli atteggiamenti, aveva inoltre il collo pieno di tatuaggi scuri che le conferivano un aspetto inquietante. «Agente Mazza» si rivolse a Giovanna con un tono falsamente autoritario, mostrandole con un sorriso complice che non stava parlando da commissario «come mai così giù? È una festa e lei butta giù il morale dei maschietti.» Giovanna sorrise, capì che nella domanda non c’era l’intento di sgridarla, e si nascose dietro il solito “niente” detto con un sorriso di circostanza. Il commissario capì che dietro quel “niente” c’era un universo, ed era intenzionata a scoprirlo. «Non aver paura di parlarmene, sono una donna prima che un commissario» le sorrise e le mise una mano su una spalla «ascoltami. Spostiamoci in un’altra stanza, così non c’è pericolo che questi ubriaconi ti sentano e ti sarà più facile sfogarti. Seguimi» Giovanna non aveva alcuna voglia di confidarsi. Nonostante quello ricevuto non fosse un ordine, però, pensò che rifiutarsi avrebbe significato comunque disobbedire a un diretto superiore che avrebbe potuto farla licenziare e lasciarla senza un lavoro. Sospirò e si alzò dalla sedia, il commissario le sorrise e le fece strada. Lasciarono la stanza dove gli agenti ubriachi continuavano a bere, camminarono lungo un corridoio buio ed entrarono nell’ufficio del commissario. Giovanna rimase ferma vicino alla porta, il commissario accese la luce e chiuse la porta a chiave. «Così quelle spugne non ci disturberanno» disse sorridendo «anche se credo che non si siano nemmeno accorti che siamo andate via.» Giovanna cominciò a chiedersi cosa dirle, adesso la donna le avrebbe chiesto una confidenza e lei non aveva alcuna voglia di aprirle il suo cuore; inoltre, anche se l’avesse fatto, non avrebbe saputo cosa dire perché nemmeno lei sapeva spiegare quale fosse il suo problema. La stanza era piccola, tutta rigorosamente bianca. C’era una scrivania con una sedia dietro e due davanti, degli armadietti di ferro con i lucchetti e nient’altro. Il commissario si sedette, ma non scelse la sedia dietro la scrivania, bensì occupò una delle due davanti e con un cenno della mano invitò Giovanna a sedersi accanto a lei.


11 «Non aver paura di parlare con me» disse con un tono dolce che nessuno le aveva sentito usare prima, e che nessuno avrebbe pensato potesse usare «sono prima una donna e poi un commissario. Adesso non stai parlando con il superiore, ma con un’amica. Siamo sole e libere qui dentro» Giovanna, seduta accanto a lei, rimase spiazzata da quell’inaspettata dolcezza. Si sentiva ancor più in dovere di confidarle i suoi stati d’animo, ma davvero non sapeva cosa dire. Nacque un silenzio imbarazzante, era evidente anche dal linguaggio del corpo la difficoltà che stava vivendo. A dispetto di quanto temesse la ragazza, il commissario non s’irritò per niente, produsse una risata leggera e le posò una mano sulla gamba, iniziando ad accarezzarla. Giovanna s’irrigidì, se fino a quel momento l’aveva sorpresa la dolcezza del commissario, ora era altro a imbarazzarla. La mano che le carezzava la gamba si muoveva sempre più avidamente e calcava il pantalone con maggiore forza. Anche lo sguardo della donna era cambiato: c’era sempre complicità, ma la dolcezza aveva lasciato il posto a qualcos’altro. Le carezze sulla gamba divennero ancora più passionali, poi si fermarono di colpo. Il commissario chinò il busto e avvicinò il viso a quello di Giovanna, le disse: «Lo so quello che provi. Dover fingere di essere qualcosa che non si è, di amare qualcosa che non si ama, di godere di qualcosa che non ti piace. Qui però siamo solo io e te, possiamo essere quello che siamo veramente» Giovanna non fece nemmeno in tempo a capire l’equivoco che si ritrovò le labbra della donna attaccate alle sue. Sentì la sua lingua entrare e cominciare a muoversi convulsamente nella sua bocca. Il commissario era lesbica e aveva interpretato il malessere di Giovanna come una manifestazione del dramma di essere gay in Italia, dove l’omosessualità era ormai vietata da anni. Giovanna sentì il bisogno di respingere quell’assalto e chiarire l’equivoco, esitò perché nacque in cuor suo la paura che il commissario, forte della sua autorità, le potesse comunque imporre di stare al gioco. Mentre Giovanna era divisa tra la voglia di divincolarsi e la paura di doversi sottomettere, il commissario le mise una mano dietro la testa e sigillò con maggior vigore il bacio, poi con la mano libera cominciò a palparle avidamente il seno.


12 Di baci Giovanna ne aveva dati e ricevuti tanti, sempre a uomini, ma quello era di certo il più intenso che avesse mai ricevuto. Probabilmente nessun uomo l’aveva mai desiderata come in quel momento la stava desiderando quella donna. Lentamente la sorpresa cadde, però rinunciò all’idea di divincolarsi. Nonostante provasse un po’ di repulsione, si rese conto che i tocchi sapienti del commissario, che con la mano era scesa nei suoi pantaloni, stavano cominciando a darle un po’ di eccitazione. A quel punto nella ragazza si svegliò di colpo la voglia di trasgredire. Da anni avrebbe voluto fare qualcosa di assolutamente diverso e inopportuno, pur non sapendo cosa, e ora l’azione trasgressiva si stava materializzando spontaneamente nella sua vita. Decise di abbandonarsi alle voglie del commissario, avrebbe provato una nuova esperienza e non sottraendosi avrebbe anche evitato di avere problemi in futuro. La donna intanto procedeva con determinazione. Mentre Giovanna ancora pensava se abbandonarsi o resistere, lei l’aveva distesa con forza mascolina sulla scrivania e l’aveva spogliata con pochi gesti decisi, facendo poi altrettanto con se stessa. Ora Giovanna giaceva nuda, stesa sopra la scrivania, aveva il respiro corto perché quella situazione le stava creando uno stress emotivo. Era un misto di sensazioni belle e sensazioni brutte, diverse da quelle provate fino a quel momento. Era da tempo che sognava di sentirsi spaventata ed emozionata. Guardò intensamente il corpo nudo del commissario per capire che effetto le facesse, voleva scoprire se davvero fosse lesbica o meno. Notò che l’intero corpo della donna, che aveva cominciato a baciarle il sesso, era coperto di tatuaggi. Nonostante i suoi baci le facessero scoppiare un fuoco dentro, si accorse di non gradire la vista di una donna in quella situazione e più volte, per infuocarsi maggiormente, dovette chiudere gli occhi e pensare di essere con un uomo. Il commissario la vide chiudere gli occhi e pensò fosse semplicemente un suo modo di fare, non interpretò il gesto come una manifestazione di disgusto nei confronti del suo corpo e nemmeno passò troppo tempo a farsi domande, ormai aveva cominciato e non aveva alcuna intenzione di smettere. Sentiva di averla ormai preparata a dovere, quindi si allontanò un attimo e prese a rovistare nella sua borsa. Giovanna la osservò incuriosita, sempre disgustata dall’idea che fosse quella donna a fare sesso con lei, ma allo stesso tempo desiderosa che il gioco ricominciasse. Aveva desiderato un capodanno diverso e lo stava vivendo, non poteva lamentarsi.


13 Vide il commissario estrarre dalla borsetta un grosso dildo nero, doveva essere almeno di venticinque centimetri, se non di più. Un brivido percorse la schiena di Giovanna quando vide la donna salirle sopra con quel coso gigantesco in mano, istintivamente chiuse anche le gambe. Il commissario sorrise, le sussurrò all’orecchio di “non aver paura” mentre con la mano libera ricominciava a giocare col suo sesso. Giovanna, sempre per vincere il disgusto, tornò a chiudere gli occhi e ad aiutare l’opera del commissario lavorando d’immaginazione. Sentendo di averla riaccesa, la donna non perse tempo e inserì il dildo laddove aveva lavorato solo di mano. Dopodiché Giovanna, sempre a occhi chiusi, si godette quello che fino a quel momento era stato il miglior sesso della sua vita. Fu aiutata anche dai modi molto rudi del commissario che, presa dall’eccitazione, aveva ormai la forza e la foga di un uomo. La povera ragazza dovette faticare molto per vincere il ribrezzo quando la donna le infilò in bocca le proprie tette prima e il resto poi, pretendendo che le venisse restituito il piacere che aveva dato. Giovanna e il commissario tornarono nella sala della festa stanche e stravolte. Si erano rivestite senza preoccuparsi troppo di mascherare lo sconvolgimento dovuto al piacere, tanto gli uomini sarebbero ormai stati completamente ubriachi. Arrivate alla sala li trovarono tutti addormentati, guardarono l’ora e si accorsero di aver fatto le quattro del mattino. «Bel turno di notte abbiamo fatto! Loro a bere e noi a scopare» disse ad alta voce il commissario. Sentirla parlare così ad alta voce del loro reato fece arrossire Giovanna, anche se si rese conto che nelle condizioni in cui erano gli agenti non correvano alcun rischio. «In genere gli auguri di fine anno si danno scambiandosi un bacio sulle guance, noi ci siamo augurate la buona vita in una notte» il commissario, evidentemente entusiasta dell’esperienza appena vissuta, continuava a parlarne e a scherzarci su. Giovanna si limitò a sorriderle, facendo credere alla donna che fosse semplicemente timida, invece nella sua mente era iniziato un lento processo di metabolizzazione dell’accaduto.


14 Giovanna era distesa nel suo letto, gli occhi fissi al soffitto. Aveva voglia di dormire, ma una mente da anni abituata alla routine e alla noia diventa iperattiva quando finalmente viene eccitata da un evento imprevisto. Aveva fatto sesso con una donna e le era piaciuto, questo la sconvolgeva. Tornò a chiedersi se il suo problema non fosse semplicemente un’omosessualità latente, ma il disgusto all’idea di una donna che le muoveva la lingua in bocca non l’abbandonava, quindi evidentemente le donne non le piacevano. Provò anche a immaginare la stessa situazione con altre donne, pensando che il fatto che non le piacesse il commissario in particolare, non volesse dire che non le piacessero tutte le donne in generale, ma l’idea del bacio le diveniva gradevole solo quando lo immaginava con un uomo. Concluse di non essere omosessuale, restava però il fatto di aver scopato con una donna e di averne tratto piacere. Poteva spiegarselo solo in un modo: la voglia di trasgredire, di uscire dai soliti binari, e l’alcol ingerito le avevano dato il coraggio di vivere quella situazione. In fondo aveva dovuto immaginarsi con un uomo per trarne piacere, quindi l’attrazione per le donne era un fatto da escludere assolutamente. Quella seduta di sesso era stata semplicemente l’espressione del desiderio di cambiare la routine, di vivere un’esperienza impossibile da inserire nello stile di vita corretto che il Governo promuoveva e imponeva ai propri cittadini. Era stato bello perché contemporaneamente era stato diverso e illegale, due cose che con la vita moderna della donna perfetta non andavano d’accordo. Si chiese se avesse poi tanto senso stare lì a chiedersi perché l’aveva fatto, in fondo forse era meglio godersi il benessere che quella trasgressione le aveva dato, quella rilassatezza post-orgasmo e quell’entusiasmo che si prova quando si scopre un posto nuovo in cui non si era mai stati. Aveva scoperto un nuovo posto della sua anima, in più era entrata in contatto con un mondo di cui aveva solo sentito parlare male. Ripensò al commissario e provò un po’ di pena per lei. Amava le donne e doveva nascondersi perché ciò non piaceva ai preti e al Governo. Non l’aveva mai vista così di buon umore come dopo il loro incontro amoroso, mai l’aveva sentita scherzare così liberamente, mai l’aveva vista sorridere tanto. Si disse che se per lei quell’incontro era stata una


15 scoperta, per la sua partner era stato il paradiso. Pensando al commissario, un brivido le percorse la schiena. Di colpo le venne in mente l’eventualità che la donna potesse chiederle altre prestazioni, o peggio ancora potesse pretenderle. La trasgressione l’aveva accettata perché evento insolito, non aveva voglia di diventare la schiava sessuale del suo commissario. Inquieta, ci pensò e si rigirò più volte nel letto. Provò perfino a immaginarsi nuovi incontri di sesso, per capire se davvero l’idea le facesse così schifo, ma dovette costatare che proprio non le andava. In genere certe trappole senza uscita le mettevano ansia e le toglievano il sonno, stavolta però vennero in suo soccorso l’appagamento postorgasmico e l’allegria generata dalla nuova situazione, così anche quel vicolo cieco cominciò a farle meno paura, e decise che avrebbe affrontato il problema non appena si fosse presentato. Si sentì strana, quel pericolo quasi la divertiva, anche l’idea di restare senza lavoro e quella di arrendersi a essere la schiava sessuale di una lesbica quasi la eccitavano invece che spaventarla. Capì che quando si è felici, o almeno di buon umore, anche le montagne da scalare diventano collinette. Si girò sul fianco, era stanca e gli occhi decisero di chiudersi. Si addormentò coltivando la speranza che quell’inizio insolito fosse il segno che il 2028 sarebbe stato davvero un anno diverso dagli altri.


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CAPITOLO 2

Una figura dall’aspetto anonimo, vestita con un jeans blu e un giubbotto nero, mani in tasca e sguardo assente. Questo era l’aspetto dell’uomo che lasciò una delle arterie principali della città, un prolungamento della strada statale che attraversava tutto il sud del paese, e si eclissò in uno dei tanti vicoli bui. L’ora del coprifuoco era scattata da un pezzo, nonostante questo sembrava tranquillo. Sapeva che le forze di polizia erano assolutamente insufficienti per perlustrare in continuazione tutta la zona, inoltre con quel silenzio avrebbe sentito il rumore di un’auto molto prima del suo arrivo, era poi improbabile che i poliziotti girassero a piedi. La sua auto l’aveva lasciata un paio di centinaia di metri indietro, in un’altra strada buia, un vicolo cieco dominato da una serie di villette abbandonate e rovinate dai bombardamenti. Il silenzio era assoluto, riusciva a sentire chiaramente il rumore del fiume nonostante fosse ancora distante. Percorse il vicolo senza fretta, guardandosi intorno. Non aveva paura, semplicemente aveva l’abitudine di fotografare qualsiasi particolare. Il marciapiede era troppo rovinato e pieno di buche, scese a camminare in strada per non rischiare di cadere. Alti palazzi accompagnavano la sua passeggiata notturna, in qualche casa notò le luci ancora accese, ma la maggior parte degli inquilini dormivano, oppure stavano risparmiando sull’energia elettrica. Superò uno stretto incrocio e andò dritto. Alla sua sinistra non c’erano palazzi, solo un piccolo quadrato infestato da erbacce con dietro un cumulo di macerie. Si fermò quando una serie di villette a schiera gli sbarrarono la strada. Dovevano essere abitate, notò movimenti al loro interno. Accelerò il passo e si diresse verso destra, finalmente era vicino al fiume. Era meglio tenersi lontano dalle abitazioni, qualcuno degli inquilini avrebbe potuto spaventarsi e chiamare la polizia. Si portò proprio vicino al parapetto che impediva l’accesso al corso d’acqua. Osservò il corso impetuoso di quelle acque, ma subito la sua attenzione cadde su


17 un’ombra poco lontana. Temendo di essere stato visto, si diresse di fretta verso il potenziale pericolo. Gli bastarono pochi passi per rendersi conto che non correva alcun rischio, infatti era un drogato che approfittava dell’erba alta e del buio per nascondersi. Capì subito che doveva essersi fatto da poco, perché aveva lo sguardo perso nel vuoto, era chiaramente sospeso in chissà quale altro mondo. Istintivamente la sua mano destra si portò sul pugnale che teneva nascosto sotto il giubbotto, ci pensò su, poi sbuffò e tornò sui suoi passi. Il drogato non l’aveva nemmeno visto e anche se fosse, era talmente fuori che non avrebbe ricordato niente. Non era stata, però, la costatazione dell’assenza di pericolo a fargli riporre il pugnale, semplicemente si era fermato perché non sarebbe stato divertente uccidere quel tossico. Che divertimento ci può essere nell’uccidere una persona non in grado di comprendere l’estrema drammaticità del momento che sta vivendo? Quale soddisfazione può derivare dal colpire qualcuno che nemmeno si accorge del danno subìto? E poi, pensò camminando, per quel tossico la vita era una punizione ben peggiore della morte. Uccidendolo avrebbe rischiato di fargli un favore. Cancellò dalla mente quell’incontro e riprese a camminare più svelto, ormai vedeva il suo obiettivo. Dopo un altro incrocio iniziava una breve via che portava a un’altra arteria della città. Alla sua destra c’era un alto palazzo, a sinistra un basso edificio abbandonato e in rovina. Un tempo era stata una scuola elementare, l’iscrizione sovrastava ancora il portone principale. Si fermò nei pressi dell’entrata, osservò per qualche minuto il palazzo di fronte, finché non fu certo che non ci fosse nessuno alla finestra. Non appena si sentì sicuro, scavalcò agilmente il cancello e si portò subito sul retro, camminando tra l’alta erba incolta del giardinetto. Camminava lentamente, doveva infatti stare attento a non calpestare oggetti buttati nel cortiletto che avrebbero potuto fare rumore e tradire la sua presenza. Con un piede tastava leggermente il terreno e, una volta accertato che non vi fosse nulla se non erba, vi scaricava il suo peso e ripeteva l’operazione con l’altro. Gli ci vollero dei minuti per portarsi sul retro di un edificio piccolo, ma la prudenza non era mai troppa. Arrivato sul retro diede un’altra occhiata intorno, e si accertò di non avere compagnia. C’erano diverse finestre, sperò di trovarne qualcuna già rotta, così non avrebbe dovuto far rumore per entrare. Fortunatamente fu così. A una


18 mancava parte del vetro, così infilò il braccio all’interno e la aprì. Erano molto vecchie e non curate da tempo, dovette usare un bel po’ di forza per aprirla. Riuscì comunque a entrare senza far rumore. Si trovò dentro un ambiente piccolo, sul pavimento c’erano aste di ferro che un tempo erano state le gambe di banchi e sedie. Il legno dovevano averlo usato per far fuoco, l’intruso non trovò altra spiegazione. Si avvicinò alla porta e la trovò chiusa a chiave. In un edificio abbandonato da anni ci si sorprenderebbe di trovare una porta chiusa a chiave, ma se lo aspettava e questo confermò i suoi sospetti. Qualcuno abitava in quella scuola. Lui era lì per trovarlo e capire cosa facesse. Ovviamente aveva già idea del motivo per cui qualcuno doveva essersi rifugiato lì e non vedeva l’ora che i fatti confermassero le sue intuizioni. Tastò silenziosamente la porta, sentì che era fragile, oltretutto era lecito supporre che il tempo avesse indebolito cardini e serratura. Arretrò di un paio di passi e lanciò il suo peso contro la porta che, come aveva previsto, cedette di schianto. Riuscì a non perdere l’equilibrio, si guardò intorno. Chiunque abitasse quel luogo ormai doveva aver notato la sua presenza, ma era certo che non sarebbe scappato. Era sicuro che l’abitante di quel vecchio edificio in rovina si sarebbe difeso, ma non sarebbe andato via. Rimase fermo in mezzo al corridoio, in attesa che qualcuno lo attaccasse alle spalle. Nulla accadde. Aveva a che fare con un fuorilegge prudente, doveva ammetterlo. Capì che l’unico modo per trovare la persona che cercava era scovare dove aveva nascosto ciò che proteggeva. Cominciò a muoversi più velocemente, pur senza abbassare la guardia. Entrò in diverse classi, ma trovò solo piccole stanze in rovina. Arrivò in fondo al corridoio e l’unica porta che non aveva aperto era il portone principale, quello che conduceva all’esterno. Si guardò intorno. Non c’era nulla, solo un armadietto di ferro poggiato al muro di fronte a lui. Ebbe un’intuizione. L’armadietto era alto poco più di una porta. Fece appello a tutta la sua forza. Era pesantissimo, dovevano averlo riempito con qualcosa di pesante. Avrebbe voluto aprirlo, ma un lucchetto nuovo di zecca glielo impediva. Dovette armarsi di pazienza e spostarlo pochi centimetri alla volta, sempre badando che alle sue spalle il fuorilegge non lo aggredisse.


19 Lo sforzo però fu ripagato: dietro l’armadietto c’era un’altra porta. La sfondò con un calcio, sicuro che la questione si sarebbe risolta a breve e ormai tanta prudenza non fosse più necessaria. Si ritrovò dentro a un’aula molto grande con tanti scaffali pieni di libri. Sorrise, aveva trovato quel che cercava. Fece qualche passo verso gli scaffali, poi d’improvviso si scansò ed evitò la mazza con cui qualcuno provò a colpirlo in testa. Per nulla sorpreso, afferrò la mazza e la strappò dalle mani dell’aggressore. «Che delusione!» esclamò guardando l’avversario con aria beffarda «un vecchio.» In effetti davanti aveva un uomo sulla sessantina, piuttosto esile e vestito con abiti logori, era brizzolato e aveva l’aria deperita. Nonostante l’età, però, il vecchio mostrò di non mancare di coraggio e a mani nude attaccò l’avversario armato di mazza. All’intruso ci volle un secondo per atterrare il vecchio, nemmeno dovette usare l’arma. Mentre l’anziano era ancora a terra a chiedersi come ci fosse finito, l’uomo lo immobilizzò e gli legò le mani dietro la schiena con un paio di manette. Manifestando ancora il suo spirito indomito, il vecchio provò a colpirlo con un calcio, ma fu lento e non ci riuscì. «Le mani sono immobilizzate, ma le gambe le puoi ancora usare» rise l’uomo «farò meglio a bloccarti anche quelle» senza dire altro, con la mazza di ferro colpì in pieno il ginocchio del vecchio, rompendoglielo e facendolo urlare di dolore. «Lo sai perché sono qui?» gli chiese. «Sei di certo uno sporco agente del regime» rispose il vecchio, sofferente. «Non sono un agente qualunque. Io sono Taipan.» «Taipan?» «Tu hai tanti libri, di sicuro sai cos’è un taipan.» «Il serpente più velenoso che esista sulla Terra. Ma cosa significa?» «Che chi mi incontra muore! Ecco cosa vuol dire.» Il vecchio rise. Pensò che fossero le solite tattiche d’interrogatorio: terrorizzarlo per estorcergli informazioni, facendogli credere che gli avrebbe risparmiato la vita se avesse collaborato, per poi ucciderlo comunque alla fine. Sapeva come agivano gli agenti segreti del regime, sapeva che i suoi giorni sulla Terra erano ormai finiti. Della morte non


20 gli interessava, non aveva paura, soffriva solo perché era consapevole di aver fallito la propria missione. «Perché ridi?» gli chiese Taipan. «Conosco le vostre tattiche. Sappi che non ho paura di morire, quindi non mi puoi spaventare. È inutile che perdi tempo a interrogarmi, da me non saprai nulla.» «Credo che mi sottovaluti. Se io credessi di poter spaventare un vecchio con l’idea della morte, sarei uno stupido. La morte è un attimo, in un modo o nell’altro il coraggio di affrontarla si trova. C’è però qualcosa di molto più lungo e straziante, qualcosa che terrorizza anche l’essere più forte e coraggioso della Terra, qualcosa che anche tu devi temere e temerai. Il dolore. Posso garantirti che fra poco mi dirai tutto quello che sai e mi implorerai di ucciderti.» «Io non so niente. Torturandomi, perderai soltanto tempo» il vecchio sperò che questa frase convincesse l’agente a desistere dal suo intento, ma sapeva di non avere speranze. «Dici così perché non mi conosci. Forse non otterrò informazioni, lo so che voi Protettori di Libri non sapete niente l’uno dell’altro, però mi divertirò. Questa è l’unica cosa che conta.» Il vecchio rise, pensando fosse un bluff. Una mazzata sull’altro ginocchio lo fece urlare di nuovo e gli fece capire che quell’agonia non sarebbe finita in fretta. Taipan in effetti era un sadico. Tutti gli agenti torturavano per ottenere informazioni e quasi tutti ne traevano un certo piacere. Lui era diverso, lui faceva quel lavoro al solo fine di torturare le persone. Il piacere più grande che poteva provare era quello d’infliggere sofferenze fisiche e morali a una vittima inerme, ucciderla nel corpo e nell’anima. La sua vita era il suo lavoro, ma a muoverlo non era la ragion di stato, semplicemente era l’unica attività lavorativa che gli permetteva di fare del male alle persone senza doverne pagare le conseguenze. Lui era efficacissimo, portava sempre a compimento le missioni più difficili, in cambio gli era concesso di commettere le più turpi atrocità. Si muoveva solo per compiere le proprie missioni, gli unici momenti di distrazione erano quelli in cui infieriva sulle sue vittime. La tortura per lui era un piacere mistico, un momento da assaporare lentamente, una parentesi estatica di una vita vuota. Aveva cominciato a quindici anni. Era riuscito a uscire con una delle ragazze più belle della scuola, una facile che in realtà si era concessa


21 già a metà della popolazione maschile del liceo. Non ne era attratto, ma sentiva di doverla portare a letto per dare una prova al mondo della propria mascolinità. Lei arrivò al dunque senza troppi preamboli, la notte d’amore però prese una piega imprevista e finì con la ragazza in ospedale. Lui aveva iniziato col classico schiaffetto sulle natiche, poi l’aveva legata alla spalliera del letto e aveva preso a provocarle dolore, andando sempre più sul pesante e finendo per ferirla seriamente. Fu grazie a un influente amico del padre che evitò il carcere, intanto abbandonò il liceo e si arruolò. All’inizio della guerra, quando fu impiegato sul campo di battaglia, diede subito prova di grande crudeltà e ben presto si trovò a essere addetto agli interrogatori. Divenne un asso nel suo lavoro, riusciva a far confessare all’interrogato qualunque cosa, era geniale nell’inventare modi nuovi di arrecare dolore, così il suo caporale lo suggerì come agente al capo dei servizi segreti. Era il migliore degli agenti segreti, in cambio poteva dedicarsi alla sua passione senza avere fastidi. Al di fuori del suo lavoro e delle torture, Taipan non esisteva. I suoi unici rapporti sessuali erano gli stupri, i suoi unici contatti umani lo vedevano come aguzzino di una vittima inerme. Molti suoi colleghi ritenevano queste sue manie figlie di un’infanzia difficile, ma scavando nel suo passato non avevano mai trovato conferme. In effetti i genitori di Taipan non si amavano, ma lui l’aveva scoperto solo in età adulta, perché proprio per tutelarlo non avevano mai lasciato trapelare i loro malumori. Non avevano divorziato e avevano sempre nascosto bene i reciproci tradimenti, non c’erano mai state violenze in famiglia e al ragazzo era sempre stata dedicata tutta l’attenzione necessaria. La verità era che il sadismo di Taipan non aveva un’origine specifica, lui era così e basta. «Cominciamo» disse Taipan «dove sono i tuoi complici?» «La prima cosa che la lettura insegna è come stare da soli» citò a memoria il vecchio. Taipan sorrise, era ben consapevole che il vecchio lì a terra non potesse dargli alcuna indicazione utile. Ciò non importava, ora contava solo fargli del male.


22 Gli premette un piede su una delle due ginocchia rotte, si chinò ed estrasse il pugnale. Gli tagliò il pantalone rotto, lo slip, affondò il pugnale nello scroto e gli asportò un testicolo. Il vecchio lanciò urla strazianti verso il soffitto e cominciò a tremare. «Tanto sei vecchio. Non ti servono più» rise Taipan «spiegami una cosa. Leggere è illegale, perché devi soffrire tanto e morire per questo mucchio di carta?» «La lettura dei buoni libri è una sorta di conversazione con gli spiriti migliori dei secoli passati, diceva Descartes. Tu però non sai chi sia, immagino.» «Se è uno dei tuoi amici immaginari morti tanti secoli fa, presto potrai parlargli di persona.» Taipan si chinò e asportò all’uomo anche l’altro testicolo. Altre urla riecheggiarono nell’aula. «Io non so niente. Uccidimi e basta» lo implorò il vecchio. «E dovrei perdermi tutto il divertimento? Non se ne parla.» Taipan gli aprì la camicia e gli asportò i capezzoli, preoccupandosi di tagliare lentamente. Le urla del pover’uomo gli invasero la testa, il suo corpo si riempì di una magica sensazione di piacere. Ormai non gli interessava nemmeno portare avanti la farsa dell’interrogatorio, cominciò a infierire su quel povero corpo, preoccupandosi però di non procurargli ferite mortali, il suo unico scopo era farlo soffrire. Dopo qualche minuto di piacere lento e selvaggio, gli sussurrò all’orecchio: «Ho intenzione di asportarti anche gli occhi, prima però voglio farti vedere una cosa» Taipan sapeva benissimo che quell’uomo ai libri teneva tanto, al punto da accettare una fine così orrenda, quindi aveva deciso di ucciderlo moralmente, facendogli vedere la rovina di ciò che aveva amato e aveva protetto per tutta la sua esistenza. Si avvicinò alla libreria e buttò tutti i libri sul pavimento, formando un mucchio bello grande. «Questi libri sono la tua vita. La tua anima, in un certo senso. Guarda adesso cosa faccio della tua vita.» Il torturatore si abbassò la cerniera del jeans e urinò su quella montagna di conoscenza. Il vecchio emise un lamento, avrebbe preferito che quel piscio finisse addosso a lui. Taipan sorrise, contento di aver colpito nel segno.


23 «Ci sono solo due cose che hanno di bello i tuoi amati libri, secondo me. La prima è che assorbono il piscio. La seconda è che ardono» prese un accendino e cominciò a bruciare i libri che stavano alla base del mucchio, prediligendo quelli che non erano stati bagnati dalla sua urina. Lentamente tutti quei capolavori presero a bruciare, si formò un’alta colonna di fuoco e il fumo lentamente riempì la stanza. Taipan non prestava attenzione al fuoco, il suo sguardo era puntato sul vecchio, pronto a cogliere ogni espressione, ogni sfumatura che rivelasse quanto il pover’uomo stesse soffrendo. Il vecchio non riusciva a distogliere lo sguardo da quel fuoco, tutto ciò in cui aveva creduto stava bruciando. In pochi minuti era andata in malora tutta la sua vita. La disperazione nel suo cuore si tramutò in coraggio, gettò sul suo aguzzino uno sguardo incandescente e disse: «Che tu sia maledetto! Te lo dico io perché tu odi tanto i libri. Li odi perché sono l’antidoto a questo Governo marcio e alle persone marce come te. Li odi perché sono mezzi attraverso i quali l’uomo cerca di rendere la vita migliore di questo fiume di sangue e lacrime che è oggi.» «Sbagli, vecchio! Io non odio i tuoi libri. Sono vietati dalla legge, tutto qui.» «Balle!» alzò la voce il vecchio, ormai allo stremo delle forze a causa delle emorragie «tu non rappresenti la legge. Tu rappresenti solo la sete di sangue tua e dei mostri che hanno armato la tua mano.» Taipan sorrise, non rispose. Si limitò a mettere la lama del suo pugnale tra le fiamme. Il vecchio capì che la sua pena non era ancora finita. L’agente in un attimo gli fu addosso, infilò la lama incandescente prima in un occhio e poi nell’altro, asportandone le orbite. Il tutto fu accompagnato dalle urla della vittima. Il torturatore cominciò a ridere, era felice. Quelli erano i momenti più belli della sua vita, avrebbe tanto voluto che non finissero mai. Il fumo nella stanza stava però diventando troppo, a breve sarebbe stato impossibile respirare. Gettò uno sguardo sul vecchio, in fondo anche il suo giocattolo sarebbe durato ancora poco, era chiaro che a breve il suo cuore avrebbe ceduto. «Sorridi, vecchio. La fine è arrivata. Ti lascerò morire in mezzo a quello che hai tanto amato.» Tolse le manette al moribondo, tanto ormai non poteva più ribellarsi. Senza grande sforzo, sollevò quel corpo straziato da terra e lo gettò tra le fiamme. Nuove urla invasero la stanza.


24 Taipan rimase a godersi lo spettacolo finché non sentì finire le urla, ormai era morto e non c’era più divertimento. Si accertò di non aver lasciato nulla di suo nella stanza e uscì di corsa. Sempre correndo percorse il tragitto inverso a quello compiuto per raggiungere la scuola. In pochi minuti arrivò all’auto e poté dileguarsi nella notte. Mentre guidava, Taipan canticchiava. Così come si sente l’uomo comune dopo aver raggiunto l’orgasmo con una donna desiderata da tempo, così si sentiva lui dopo aver straziato e bruciato vivo un uomo. Nemmeno si compiaceva per aver intuito che lì ci fosse un Protettore di Libri o per aver eliminato un oppositore del regime per cui lavorava, non ci pensava neppure. Era solo felice di aver espresso ciò che lui era, di aver appagato il suo desiderio più grande. Tornato a casa, si liberò dei vestiti e si mise a letto. Era sporco di sangue, ma non si lavò. Non lo faceva mai. Adorava l’odore del sangue e gli piaceva trovarsi al mattino appena sveglio in un lenzuolo con macchie rosso scuro, era una vista che subito gli riportava alla mente la bella serata appena passata. Era felice. Non vedeva l’ora di svolgere la sua prossima missione. Si augurò solo che la prossima volta ci fosse anche una donna, così avrebbe potuto anche soddisfarsi sessualmente.


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CAPITOLO 3

Il Colonnello Marra vide in lontananza il mare. Faceva freddo e se ne stava raccolto nel suo cappotto. I suoi cinquant’anni gli rendevano difficile resistere alle condizioni climatiche avverse. La colonna di mezzi militari percorreva ormai da ore quella strada in direzione sud, la vista della distesa blu indicava che la meta era ormai vicina. Aveva scelto una zona strategica ottimale: non era troppo distante dalla costa, così da poter intervenire tempestivamente nel caso in cui i russi avessero tentato lo sbarco; non era troppo lontano da Salerno, così avrebbe potuto essere di supporto agli americani che stavano andando a stanziarsi lì o avrebbe potuto ricevere supporto in breve tempo dal loro contingente; non era lontano dagli Appennini, dove operavano le bande di briganti che il suo contingente era andato a combattere. Strinse i denti ripensando a quella che era la sua missione. Il Colonnello Marra, ufficiale impeccabile da più di un decennio, ridotto a compiti di supporto agli alleati e mantenimento dell’ordine pubblico. Quando aveva saputo che il controllo del porto di Salerno, e dell’intera città, sarebbe passato agli americani, aveva provato un profondo senso di umiliazione. Da anni ormai nel Paese il comando effettivo delle operazioni militari era nelle mani degli Stati Uniti, il Ministero della Difesa Italiano era diventato solo un traduttore di ordini. Così ora lui, un militare pluridecorato, sempre impeccabile, si trovava a dover dare la caccia a gruppi di banditi invece di comandare vere operazioni di guerra. Arrivarono nel luogo stabilito per l’insediamento del campo. Si trattava di una vasta piana disabitata, lì avrebbero montato le tende. Il mare era poco lontano, Marra riuscì a sentirne il rumore impetuoso. Di fronte c’erano le montagne, il loro colore verde le rendeva placide, un insospettabile covo di delinquenti. Tutti i soldati scesero dagli automezzi, Marra ordinò che si mettessero in fila e sull’attenti. I soldati per schierarsi impiegarono molto più tempo di quanto normalmente sarebbe stato tollerato, ma ormai erano


26 stanchi e demotivati e il Colonnello, benché godesse della fama di essere molto severo, scelse di soprassedere e non demoralizzarli ulteriormente con un rimprovero. Finalmente furono schierati, nella piana si sentiva solo il rumore del mare in lontananza. Marra si schiarì la voce, assunse un’aria solenne e iniziò a parlare. Odiava il suono della sua voce, era stridula e lo rendeva ridicolo, cercava di compensare assumendo un’aria grave e decisa. In realtà, avendo un fisico esile da vecchio malandato, invece che incutere timore finiva per diventare ancora più grottesco. «Soldati! La missione la conoscete già, sapete che è della massima delicatezza. Dobbiamo stanare le bande di briganti che infestano la zona, proteggere i comuni che sempre più spesso subiscono i loro attacchi. Allo stesso tempo dobbiamo essere pronti a fronteggiare un eventuale attacco russo e anche a essere di sostegno ai nostri alleati in caso di attacco a Salerno. Queste sono zone strategiche, quindi la nostra missione è delicata. Non sono ammessi errori e gli errori non ci sono solo quando c’è disciplina. Voglio, anzi pretendo, che non dimentichiate di essere soldati. Siete stati addestrati per la guerra. Questo è il vostro habitat naturale e non dovete odiare la guerra, dovete amarla! Solo in guerra voi siete qualcosa. La guerra è la vostra realizzazione, se non ci fosse, voi sareste perduti» Marra fece una pausa affinché i suoi soldati assimilassero il discorso. Voleva motivarli, ma l’importanza del momento fu rovinata dal suono di un paio di lievi risate che si alzò dal plotone. Il Colonnello divenne paonazzo, ma per lo stesso motivo di prima decise di far finta di niente, benché avrebbe volentieri scorticato vivo il responsabile. Voleva motivare i suoi soldati, stanchi dai quasi dieci anni di guerra, facendogli percepire come fondamentale una missione che invece aveva valore marginale nell’ambito del conflitto. Era sicuro che mai i russi avrebbero azzardato uno sbarco in quella zona, ancor più folle trovava l’idea che provassero ad attaccare Salerno, ma doveva convincere i suoi soldati che quelle erano opzioni plausibili e che la loro presenza lì fosse fondamentale. In cuor suo sperava col tempo di convincere anche se stesso. Il povero Marra, che intanto gonfiava il petto e preparava la seconda parte del discorso, non sapeva che tutti i suoi soldati erano consapevoli della marginalità della loro missione e molti di loro ne erano contenti, speravano infatti di passare qualche anno più tranquillo dei precedenti.


27 Nell’aria tornò a squillare la stridula voce da cornacchia del Colonnello: «Noi combattiamo dalla parte del bene. Siamo i buoni che devono sconfiggere il male. Se commettiamo qualche errore, se siamo indisciplinati, perdiamo! Se perdiamo vince il male. Lasciando vincere il male, avremo la responsabilità di milioni di vite spezzate. Le lacrime e il sangue di milioni di persone macchieranno la nostra anima e noi dovremo renderne conto al Padre Eterno. Il succo è questo: disciplina vuol dire vittoria! Verranno organizzati turni di guardia. Pretendo la massima attenzione sempre, anche nella notte più tranquilla. Nelle azioni di perlustrazione e rastrellamento pretendo la massima efficacia. Non saranno tollerati errori! Chi non prenderà sul serio l’incarico, vedrà aprirsi le porte del carcere militare di Gaeta. Ve lo giuro sul mio onore. Adesso montate le tende! Rompete le righe!» Il Colonnello si avviò a passo deciso verso il luogo in cui avrebbero montato la sua tenda. Ancora qualche risata echeggiò alle sue spalle, fu sul punto di esplodere, ma riuscì a contenersi e s’impose pazienza. Giurò a se stesso che, se mai quella guerra avesse avuto una fine, avrebbe scoperto chi era a deriderlo e gliel’avrebbe fatta pagare cara. I soldati intanto cominciarono a montare le tende. Alcuni ridacchiavano prendendo in giro il Colonnello Marra, qualcuno addirittura mostrava un foglio con una sua caricatura. Altri soldati stavano in silenzio e celavano la voglia di abbandonarsi e piangere come bambini. Quella guerra non finiva più, i tanti che nell’esercito erano entrati solo per avere uno stipendio fisso si pentivano amaramente della scelta fatta. La vita di quei poveri uomini era ridotta a una continua lotta per la sopravvivenza, quasi nessuno ricordava il motivo per cui la guerra era scoppiata e molti non erano sicuri di essere davvero schierati dalla parte del bene. Nonostante tutto, dovevano sforzarsi e restare sempre pronti, distrarsi o abbandonarsi allo sconforto avrebbe significato morire o finire a Gaeta. A Gaeta il carcere militare era stato riaperto dopo un paio d’anni dall’inizio della guerra. Sorgeva nello stesso castello angioino che aveva svolto tale funzione fino al 1990. La riapertura, a detta del Governo, era stata motivata dall’elevato numero di disertori e prigionieri di guerra, impossibili da contenere nelle carceri civili, già stracolme di delinquenti comuni e briganti.


28 Dei diversi carceri militari aperti negli anni della guerra, quello di Gaeta si era subito guadagnato la fama più oscura. Tra i militari circolavano le voci più disparate. Quasi tutti raccontavano come i detenuti nella struttura venissero comunemente torturati, altri invece parlavano di combattimenti clandestini dove si poteva vincere solo uccidendo l’avversario, anche gli stupri erano sulla bocca di tutti. La maggior parte di queste voci spesso venivano messe in circolo dai comandanti dei plotoni per aumentare il potere delle proprie minacce, in realtà però nemmeno loro sapevano di preciso cosa accadesse in quelle strutture. Di certo nessuno ne era mai uscito, perché le nuove leggi prevedevano sempre l’ergastolo per i reati militari, anche quelli più banali. Oltretutto i detenuti non potevano più ricevere visite, quindi venivano di fatto cancellati dalla faccia della Terra, per questo nessuna delle voci messe in giro dai comandanti risultava inverosimile ai soldati. D’altronde la realtà non era affatto lontana dalla fantasia. Nelle carceri militari i prigionieri di guerra venivano effettivamente torturati per estorcergli le confessioni, i combattimenti e gli stupri erano all’ordine del giorno come nelle strutture carcerarie civili. Nella sua tenda, il Colonnello Marra discuteva col suo più stretto collaboratore. Nemmeno a lui rivelò la sua frustrazione per aver ricevuto un incarico tanto degradante, semplicemente discutevano del modo in cui operavano le bande di briganti e dell’organizzazione del pattugliamento dei comuni dell’area. «Il gruppo di briganti più attivo in zona» disse il Colonnello più a se stesso che all’interlocutore «è quello di Peppe ‘a ciucciuvettola. Lo chiamano così, la “civetta”, perché dove guarda porta disgrazia. Quei bastardi hanno attaccato decine di comuni e non sono mai stati fermati. Rubano, stuprano, ammazzano e nessuno riesce a fargli un graffio. Colpiscono e scappano sulle montagne, sembrano impossibili da prendere. Dovremo colpirli quando attaccano, perché inseguirli sulle montagne ci esporrebbe alla loro guerriglia. Conoscono quei posti meglio di noi, saremmo in svantaggio. Dobbiamo controllare i comuni e aspettare che attacchino. Dovranno farlo prima o poi, avranno bisogno di soldi e viveri. Da domani mattina, ogni sei ore invieremo in giro per i comuni della zona dei gruppetti da cinque soldati ben armati. Dovranno vigilare su quel che accade, dare l’allarme in caso di attacco dei briganti e tenerli a bada finché non arriviamo noi a chiudere la questione.»


29 Marra si guardò soddisfatto al piccolo specchio che teneva sul tavolino. Gli sembrava un ottimo piano e, come sempre gli accadeva quando ne elaborava uno, si sentiva come Napoleone Bonaparte. *** Mentre nella piana si accampava la truppa del Colonnello Marra, a Salerno scoppiava il caos. Era tarda mattinata quando la lunghissima colonna di automezzi invase le strade del capoluogo campano. I militari, in assetto da guerra, scesero man mano e presero immediatamente il controllo delle zone loro assegnate. La locale stazione di polizia vide i suoi telefoni impazzire, molti cittadini salernitani furono presi dal panico, credendo di essere attaccati dai russi, non distinguendo le uniformi americane. Il commissario di polizia ancora stava chiedendo ai suoi collaboratori cosa stesse accadendo, quando un paio di camionette si fermarono davanti alla stazione di polizia. Il Colonnello Morris, un uomo possente, dalla voce tonante capace di incutere terrore in chiunque l’ascoltasse, entrò impettito nel commissariato, seguito da alcuni soldati armati, e prese a dire a voce alta e con marcato accento americano: «Per ordine del Ministero della Difesa Italiano, da oggi il controllo dell’ordine pubblico nella città di Salerno è affidato all’US Army. La polizia avrà il compito di eseguire nostri orders… ordini… nostri ordini e di dare noi help… aiuto». Il commissario si grattò dietro la nuca con un certo nervosismo. Era stato avvisato di questa direttiva del Ministero dal prefetto e sapeva dell’imminente arrivo dei militari americani, non si aspettava però tutta quella sceneggiata. In Italia era infatti molto forte il gruppo anti-americano no-USA, il quale protestava contro le ingerenze sempre più marcate degli Stati Uniti nella politica italiana. Nonostante fossero fuorilegge, erano impossibili da arrestare tutti e la polizia non gli dava tanta attenzione, consapevole che sulle loro tracce ci fossero i più efficienti servizi segreti. Il commissario ora temeva che quel dispiegamento di forze così violento, massiccio ed evidente, potesse scatenare il gruppo di dissidenti, spingendoli anche ad azioni plateali. Si avvicinò al Colonnello per spiegargli le sue perplessità, ma non riuscì a raggiungerlo perché quest’ultimo uscì subito, lasciando dentro i militari che iniziarono a impartire ordini a chiunque.


30 Morris risalì sull’auto che l’aveva portato al commissariato e, con altri soldati, prese la direzione del porto. Arrivati al porto il Colonnello, con lo stesso tono imperioso usato al commissariato, dichiarò che il controllo della struttura era totalmente nelle mani dell’esercito statunitense e che la guardia costiera avrebbe dovuto obbedire soltanto ai suoi ordini. La notizia dell’imminente arrivo degli americani era già stata data alla polizia. Nonostante fosse segreta, però, era stata intercettata dagli attivisti del gruppo no-USA che non avevano perso tempo. Dopo pochi minuti dall’occupazione militare di Salerno da parte dei soldati statunitensi, una folta schiera di studenti universitari, ragazzi appena maggiorenni, e professori, scese in strada. Sembravano comparsi dal nulla, eppure avevano in mano striscioni inneggianti alla Russia e contro l’occupazione di Salerno, non fu perciò una manifestazione improvvisata. Il corteo camminò lungo il corso principale, scortato dai mitra americani puntati e carichi, scandì slogan del tipo “I VERI OCCUPANTI SONO YANKEES” e inneggiò alla Russia. Il gruppo no-USA era nato poco dopo l’inizio della guerra proprio in risposta all’invadenza americana nella politica interna italiana. Sin dal 1946 gli USA si erano comportati da padre-padrone nei confronti dell’Italia, ma lo scoppio della guerra nel 2018 aveva reso loro ancor più invadenti e l’Italia ancor più servile. I militanti però, come spesso accade in questi gruppi di protesta, avevano trasformato la loro lotta in un’avversione contro tutto ciò che favoriva il nemico, per questo erano diventati filo-russi, dimenticando che la guerra l’avevano causata proprio i russi con l’invasione nel 2018 dell’Ucraina e della Lettonia. Per i no-USA Vladimir Putin, uno dei leader europei più sanguinari, era un eroe e tutte le azioni turpi che gli venivano attribuite nascevano semplicemente alla propaganda imperialista degli USA. Dal momento in cui la Turchia si era alleata con la Russia, i no-USA avevano dimenticato anche le continue violazioni dei diritti umani di Erdogan e avevano iniziato a sostenerlo. Nonostante fosse un gruppo molto numeroso, i no-USA fondamentalmente erano un agglomerato di esaltati decisi a far la guerra a modo loro, essi infatti non erano contro il conflitto, erano contro gli Stati Uniti.


31 Il corteo marciò indisturbato fino a pochi metri dal commissariato. Erano convinti che il comando americano fosse lì, non avevano immaginato che sarebbe stato insediato nel porto della città. Il commissario di polizia, vedendo avvicinarsi i manifestanti, ebbe un brutto presentimento. Il militare più alto in grado parlò in inglese alla radio e ottenne una risposta. Fu un attimo. Dal tetto del commissariato, dove poco prima erano saliti dei soldati, iniziarono a sparare sui manifestanti. Subito caddero a terra un paio di ragazze e un giovane con grandi occhiali sul naso. Il corteo non prese la decisione più saggia, cioè quella di fuggire via, in un momento di follia partì all’assalto del commissariato agitando in aria mazze e pugni. I soldati americani non ci pensarono due volte. Cominciarono a piovere pallottole su quei folli da tutte le parti: dal tetto, dall’interno del commissariato e alle loro spalle, dove c’erano i militari a presidio della strada. Ci vollero pochi minuti perché quella folla venisse ridotta al silenzio. Davanti al commissariato di polizia c’era solo una silenziosa montagna di corpi ammassati. Il soldato americano, sempre in inglese, ordinò ad alcuni dei suoi uomini di togliere quei corpi di lì e andarli a bruciare da qualche parte. Il commissario, nonostante non stimasse quei manifestanti, fu preso da una gran pena nel vederli tutti morti. Erano comunque suoi concittadini, uccisi da uno straniero prepotente. Avrebbero potuto usare i proiettili antisommossa, ma in guerra certe premure vengono spesso dimenticate. Sentì ancora qualche sparo, segno che non tutti erano già morti, che quel massacro non era ancora finito. Ricordò quando tanti anni prima, ben prima dell’inizio della guerra, era entrato in polizia. All’epoca riteneva la legge un’applicazione pratica della giustizia, qualcosa di necessario affinché tutti potessero vivere liberamente in società. Forse un tempo era stato davvero così, non ora. Ormai da tempo aveva capito che la legge non aveva nulla a che fare con la giustizia, era semplicemente uno strumento di controllo nelle mani dei potenti. Abbassò un attimo lo sguardo, non avesse avuto famiglia, avrebbe dato immediatamente le dimissioni. Nella centrale non tutti rimasero male come il commissario. Durante il massacro alcuni agenti di polizia si erano goduti lo spettacolo col sorriso sulle labbra, alcuni si erano lasciati scappare anche incitamenti ai soldati e battute di scherno nei confronti dei manifestanti. In fondo alcuni, diventando servitori dello Stato, smettono di essere uomini. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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Indice

PREFAZIONE .............................................................................. 3 CAPITOLO 1 ................................................................................ 7 CAPITOLO 2 .............................................................................. 16 CAPITOLO 3 .............................................................................. 25 CAPITOLO 4 .............................................................................. 32 CAPITOLO 5 .............................................................................. 41 CAPITOLO 6 .............................................................................. 50 CAPITOLO 7 .............................................................................. 62 CAPITOLO 8 .............................................................................. 67 CAPITOLO 9 .............................................................................. 74 CAPITOLO 10 ............................................................................ 80 CAPITOLO 11 ............................................................................ 88 CAPITOLO 12 ............................................................................ 92 CAPITOLO 13 ............................................................................ 97 CAPITOLO 14 .......................................................................... 103 CAPITOLO 15 .......................................................................... 107 CAPITOLO 16 .......................................................................... 114


CAPITOLO 17 .......................................................................... 124 CAPITOLO 18 .......................................................................... 132 CAPITOLO 19 .......................................................................... 144 CAPITOLO 20 .......................................................................... 157

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