I ribelli di Almamara

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In uscita il 30/6/2015 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2015 ( ,99 euro)

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ANGELICA ELISA MORANELLI

Armonia di Pietragrigia Volume 2

I RIBELLI DI ALMAMARA

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I RIBELLI DI ALMAMARA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-894-7 Copertina: Illustrazione di Romina Moranelli www.amatoxine.com

Prima edizione Giugno 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova

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A quelli che, almeno una volta nella vita, si sono ribellati

Sgorga, stagno, schiuma, riversati sui ponti, e al di sopra dei boschi; drappi neri e organi, lampi e tuoni salite e scorrete; Acque e tristezze, salite e rialzate i Diluvi. 
Che da quando si sono dissolti, oh le pietre preziose interrate, e i fiori aperti! è una noia! e la Regina, la Strega che accende la sua brace nel vaso di terra, non vorrà mai raccontarci ciò che ella sa, e che noi ignoriamo. Arthur Rimbaud

L’uccello prigioniero nella gabbia, l’uccello libero nella foresta: quando venne il tempo s’incontrarono, questo era il decreto del destino. Rabindranath Tagore



PROLOGO La luna era velata dall’ombra e le stelle, annegate nel buio, rendevano l’atmosfera silenziosa e lugubre. Nonostante il freddo, la rupe che dominava il villaggio era affollata di persone. Erano tutte donne, alcune vecchie e curve, altre dritte come fusi e con gli occhi scintillanti di gioventù, e c’erano perfino delle bambine, anche se l’ora era tarda e la notte buia. Gli abiti che indossavano erano un’accozzaglia disarmonica di indumenti, tessuti e colori, come se avessero tutte saccheggiato gli armadi più disparati; nel complesso, però, a guardarle da lontano, formavano un gruppo omogeneo. Una donna dall’aspetto spettrale, con lunghissimi capelli neri che quasi sfioravano il terreno e occhi azzurro pallido, avanzò fino al centro del pianoro, avvicinandosi a un grande braciere di bronzo, alto quasi quanto lei. I tre piedi del braciere erano decorati con tre figure di donne, le braccia alzate a sorreggere la vasca, dalla quale si sollevavano esili sbuffi di luce viola. Qualunque cosa stesse accadendo, era iniziata già da qualche minuto. «Parla, io e le mie sorelle ti ascoltiamo! Che cosa vuoi? Perché non abbandoni il nostro villaggio?» gridò la donna, con voce imperiosa e colma di attesa. «Le bestie muoiono e i bambini non nascono, le piante seccano e la terra si sgretola sotto i nostri piedi... tu devi andare via o dirci cosa sei venuto a fare qui da noi!» Il vento si sollevò di colpo, portando in giro voci confuse poi, all’improvviso, dal calderone si levò una vampata di fuoco violetto. Con un grido di stupore, le donne arretrarono e la vecchia si coprì il volto con un lembo dello scialle. La fiamma all’interno del braciere vibrò cupa, minacciando di spegnersi, poi iniziò a prendere forma, ad allargarsi, a salire fino al cielo, accompagnata dall’eco furiosa del vento e dal fumo, sempre più denso. Alla fine, dal braciere spuntava un’altissima ombra incappucciata. «Che cosa vuoi?» gridò ancora una volta la donna. «Parla, demone!» Il vento ululò forte, l’ombra sembrò per un istante dissiparsi, poi si ricompose e divenne più densa, fin quasi a cancellare la luce pulsante delle stelle. «Il mio Signore vi reclama, vuole voi e il vostro sapere» disse il demone, la cui voce era come la furia del mare contro gli scogli. La donna sollevò le sopracciglia in un’espressione artificiosa ma le sue labbra tremavano di rabbia per l’affronto. «Ebbene?» «Il vostro sapere, sorella, comprendi?» Il volto della donna fu attraversato da un’improvvisa ondata di paura; si dominò, poi un sorriso teso increspò le sue labbra e gli occhi divennero gelidi.


«E quale sarà la nostra ricompensa, fratello?» Fu il turno del demone di fremere di rabbia. Il fischio del vento divenne stridulo e le donne si strinsero le une contro le altre, come per impedirgli di insinuarsi fra loro. La donna davanti al braciere fece un passo indietro, sollevando leggermente le braccia: la manica dell’abito scivolò all’indietro rivelando una minuscola stella azzurra tatuata sul polso. «Qual è la cosa a cui tieni di più, umana?» domandò il demone cambiando del tutto tono. «La vita, forse?» La vecchia spalancò gli occhi, come colpita a morte. «Non prenderemo parte in questa guerra.» «Devi solo consegnarmelo e il mio Signore vi considererà sue alleate.» La donna aprì e chiuse la bocca come se stentasse a comprendere: il terrore si era impossessato di lei. «Non possiamo separarci dal nostro talismano!» gridò. Le fiamme che circondavano il demone divennero più vivide. «Consegnami il Grimorio» ordinò. Un brusio terrorizzato percorse la folla. «No!» replicò la vecchia. «Non era una domanda, sorella.» Con un gesto secco, la donna gettò lo scialle per terra e da una delle ampie maniche dell’abito spuntò una bacchetta. La donna la puntò verso il braciere: un fiotto di luce viola sgorgò dall’estremità dell’oggetto, accompagnato dal fragore di un tuono. La stella tatuata sul polso sembrò animarsi per un momento, poi l’incantesimo s’infranse sul demone in un’esplosione di luce che ricadde sulla rupe, come un fuoco d’artificio. Quando ogni cosa tornò immobile e buia, l’alta ombra incappucciata era ancora lì, più alta e possente che mai. «Non sei abbastanza forte» disse il demone, senza inflessione alcuna. La donna tremava. «Noi... non possiamo... » disse con voce soffocata. «Non sei abbastanza forte» ripeté il demone. La donna serrò le labbra e un rivolo di sangue le colò dal naso sul mento. Era terrea in volto quando cadde a terra, fra le urla di sgomento della sua gente. Tutte le donne presenti si fecero avanti e ognuna impugnava una bacchetta brillante di potere, perfino alcune bambine. La sagoma incappucciata s’innalzò ancora di più sulla rupe, il cielo scomparve, le stelle furono inghiottite del tutto e le tenebre crebbero assieme alle urla. E poi l’oscurità occupò l’intera rupe e il villaggio, nascondendo ogni cosa. Anche il dolore.


CAPITOLO I - L’OSPITE Armonia si svegliò stremata, come se fosse stata rincorsa per ore da una belva feroce e con la sensazione di non essere ancora sfuggita al pericolo. Gli occhi le pulsavano di dolore e il ricordo delle urla e del buio era ancora doloroso. Con la mano cercò l’interruttore della lampada, con l’altra strinse forte il suo portafortuna: un medaglione a forma di teschio che portava al collo, regalo di Capitan Drago, il capo dei pirati della Dimora Vagante. Il cuore batteva tanto che aveva l’impressione avrebbero potuto sentirlo in tutto il quartiere. Finalmente, una tenue luce bianca illuminò la stanza. Armonia rimase un istante a guardare davanti a sé, sforzandosi con tutte le sue forze di ricacciare indietro il sogno, così tangibile da sembrare reale. Poi, vacillando, scese dal letto, camminò a piedi nudi fino al lungo specchio accanto al guardaroba e osservò la sua immagine riflessa. A turbarla non fu l’aspetto a dir poco arruffato dei capelli, la frangetta dritta sulla fronte come una schiera di soldati sull’attenti, né la specie di centrino rosa pallido che Stella aveva insistito per farle indossare definendolo “camicia da notte”. Era abituata a specchiarsi tutte le mattine e a riceverne in cambio impressioni poco gradevoli. No, il problema era un altro ed era molto più preoccupante: i suoi occhi erano dorati. Non era la prima volta che succedeva. Normalmente erano grigio-verde, ma quando era spaventata o arrabbiata e in generale quando provava una forte emozione, diventavano color oro. Lo aveva scoperto l’estate precedente a Flavoria. Era passato un anno. Un anno da quando aveva scoperto che in realtà era nata e cresciuta a Pietragrigia, capitale del Reame di Ghiaccioneve, uno dei regni di Flavoria. Un anno da quando le avevano detto che era figlia di due cavalieri, Nara e Orion, morti nel tentativo di difendere Flavoria dall’avanzata dell’ImperatoreFantasma. Un anno da quando aveva scoperto che Zanna Avvelenata, la Bestia, le stava dando la caccia per ucciderla. Un anno da quando i suoi poteri si erano di nuovo manifestati, da quando aveva conosciuto Sara, Martino, Evan, Lucrezia e gli altri. Da quando era tornata a Prugnasecca, non aveva fatto che pensare al momento in cui avrebbe fatto ritorno a Flavoria, aspettandoselo da un momento all’altro, come qualcosa di ineluttabile. Era rimasta tutto l’anno in contatto con Altair, cavaliere della mitica Spada-Rubino, tramite l’Orrologio, un grosso orologio nero e molto sgraziato che il suo maestro le aveva dato prima che lasciasse Pietragrigia, ma il cavaliere si era sempre mantenuto molto vago rispetto a quanto stava accadendo nel Reame di Ghiaccioneve: le aveva detto


che Arkanus, Evan e Aggeggius erano partiti da molto tempo ormai per le scuole di maghi di Flavoria, che Oliver era ancora in missione e che tutta Pietragrigia era indaffarata nelle solite cose. Ora aveva fatto quel sogno che, e questo lo sapeva con sicurezza, era ambientato a Flavoria. Aveva imparato a convivere con parole come “demone”, “talismano” e con l’idea di esseri incappucciati che sbucavano da improbabili calderoni di bronzo nel bel mezzo della notte. No, non era quello a spaventarla. Non soltanto questo, almeno. C’era qualcosa di tangibile nel sogno, come se non fosse semplicemente un prodotto della sua mente, ma qualcosa di ben più realistico. Si accorse che le dita dei piedi stavano gelando, perciò s’infilò le pantofole, indossò un maglione sgraziato fatto da Stella il Natale precedente, afferrò un vecchio candelabro a tre braccia e sussurrò decisa: «Luce, per favore» Le tre candele si accesero con un fruscio azzurrino e illuminarono la stanza di un bagliore rassicurante. Era uno scherzo avere a che fare con il fuoco folletto, una delle invenzioni migliori di tutta Flavoria! Armonia spense la lampada sul comodino e sgattaiolò fuori dalla sua stanza. Nonostante il fuoco folletto, la morsa di gelo la fece rabbrividire: era metà maggio e quel freddo che durava da mesi non era normale per un posto dal clima banale come Prugnasecca. A peggiorare le cose c’era il fatto che Villa Vento era piena di spifferi. Camminò lungo il corridoio in silenzio, con il timore di svegliare Milo o Stella; la loro reazione era facilmente prevedibile: Milo avrebbe alzato un sopracciglio e con sguardo folgorante l’avrebbe rispedita a letto senza tanti complimenti e Stella avrebbe rotto qualcosa per l’emozione. Uno sguardo al grosso pendolo la informò che erano le tre di notte. «Sei una stupida!» si disse, come se insultarsi a voce alta potesse restituirle il buon senso. Si era alzata d’istinto, quasi senza pensarci, ma in realtà aveva ben chiaro cosa stesse cercando: la vecchia biblioteca dove era riuscita a entrare una sola volta, quella in cui aveva scoperto una quantità di libri che all’inizio le erano sembrati assurdi e che poi si erano rivelati libri di Flavoria, tra cui il Manuale Su Come Viaggiare Incolumi Attraverso le Terre Flavoriane di Felice Viandante, il suo professore di Storia a Pietragrigia. Mesi e mesi prima, Milo e Stella avevano gettato un incantesimo sulla biblioteca per nasconderla e non permetterle di curiosare e scoprire del suo passato a Flavoria, benché Altair le avesse ormai restituito parte della sua memoria. “Evidentemente c’è ancora qualcosa che non devo sapere”, si disse Armonia con un brivido, pensando ai suoi occhi cangianti e alla Stanza della Memoria. L’anno prima, mentre erano a Pietragrigia, Evan l’aveva portata in una grande sala chiusa a chiave e le aveva fatto vedere gli arazzi che descrivevano la Battaglia dei Dieci Tramonti, la battaglia combattuta tra i migliori cavalieri di Pietragrigia e le orde dell’Imperatore-Fantasma, la battaglia durante la quale erano morti i suoi genitori.


Arkanus, il mago che era anche il misterioso Benefattore e che si era sempre preso cura di lei, si era arrabbiato molto e aveva parlato con Evan a quattr’occhi, ma Armonia non aveva mai saputo cosa si fossero detti. Si fermò davanti a una porta: al posto della serratura c’era solo un quadrato dorato con inciso un triangolo su una delle metà. Non sembrava chiusa a chiave e la cosa era molto strana. L’istinto le aveva sempre detto che quella era la biblioteca. Oltre la porta, però, trovò solo una nuvola di polvere e una serie di scatole ammassate le une sulle altre: due ratti sgattaiolarono via, emettendo squittii irritati. Lottando per soffocare i colpi di tosse, Armonia si affrettò a richiudere la porta. «Non è una buona idea, ritengo» disse una voce flebile. Fu come se qualcuno le avesse rovesciato addosso una tinozza di acqua ghiacciata: si voltò, pensando velocemente ad una via di scampo. Scartate vaneggianti ipotesi di fuga, sorrise sforzandosi di usare tutti i muscoli facciali ma quando i suoi occhi misero a fuoco l’immagine che aveva davanti, Armonia passò dalla tinozza d’acqua gelida a una temporanea morte cerebrale. Da ciò che poteva vedere, Milo aveva deciso improvvisamente di recarsi a una festa in maschera in stile ottocentesco: era questo, infatti, l’unico motivo plausibile per il quale il vecchio maggiordomo avesse deciso di indossare un’alta parrucca rossa, sfilacciata e sformata come un vecchio cuscino, un ciondolo verde triangolare che brillava funesto nella penombra e un lungo abito nero, comprensivo di corpetto e ampia crinolina. «M… Milo... che cos…» balbettò. «Milo?» replicò l’apparizione chiaramente oltraggiata. «Sono sua nonna, mia cara. Felicia Defunta.» In effetti sì, non era Milo, era solo la versione femminile di Milo. La spiegazione, comunque, non ebbe l’effetto di rassicurare Armonia, che rimase rigida come uno stoccafisso. «Beh?» continuò la vecchia con una smorfia di disappunto. «Dove sono finite le buone maniere? Il ratto ti ha mangiato la lingua?» «Il ratto? Il gatt…» balbettò Armonia, ma la precisazione le parve priva d’importanza nella situazione in cui si trovava e senza indugio cambiò registro: «nonna... Felicia... tu… dovresti essere…» «Morta. Lo so» disse la vecchia alzando un sopracciglio con espressione di sufficienza come se stesse discutendo di astrofisica con un gibbone. «Me lo ricordano tutti. Come se non lo sapessi. Non sto mica affermando il contrario. Non mi pare di essermi seduta a tavola e aver preteso un arrosto con patate o un bicchiere di vino, per quanto non riterrei del tutto fuori luogo il lusso di qualche sciocca passione come mangiare o bere o trascorrere del tempo in compagnia di un bel giovanotto...» Armonia represse un brivido di orrore al pensiero di Nonna Felicia che amoreggiava con un uomo.


«Beh…» riprese, «quello che voglio dire è che tu non dovresti essere…» «Qui. Lo so» la anticipò ancora la vecchia, «mi dicono anche questo. Quello che non capisco è dove accidenti dovrei essere. Mio nipote vive qui ed è l’unico fra i miei parenti che io riesca vagamente a tollerare. Mi hanno seppellita in un luogo indecente che farebbe orrore a un vampiro. Avevo chiesto esplicitamente di non essere sepolta sotto terra, non puoi capire che razza di seccatura siano le persone, credevo che da morta me ne sarei liberata e invece niente! Gente che va, gente che viene, nessuno che abbia il minimo senso del decoro: come si può riposare in santa pace continuamente calpestata da chicchessia! E i morti sono anche peggio» la vecchia sorrise amaramente. «Sono seppellita accanto a tutta la mia famiglia. Tutta. Da zio Diammilio a zia Presagia. Tutta. Ogni minuto a cianciare e litigare per ogni idiozia e come puoi intendere, gli argomenti sono di una noia mortale da un bel po’ di tempo. Non capisco questa fissazione di tenere sottoterra le persone come fossero tuberi: faccio una splendida figura in salotto e avevo dato chiare istruzioni circa la mia mummificazione. Bah! Sarebbe stato meglio se avessi affidato le mie ultime volontà a uno gnomo delle paludi.» «Mi… dispiace… molto» disse Armonia sforzandosi di mostrarsi partecipe. «Anche a me» esclamò la vecchia con sussiego, «e questo è il motivo per cui non sono sei metri sotto terra, ma qui. Credo sia abbastanza convincente come ragione.» «C… certo» convenne Armonia che non aveva alcuna intenzione di confutare le opinioni di un morto. Questo finisce fra le Cento Cose da non Fare Prima di Morire, pensò. «Tornando a te, signorina. Sono piuttosto riservata, vedi. Quando si è appagati dalla pace della morte non si ha alcuna necessità di parlare, ma mi chiedevo se non ti stessi cacciando in un bel guaio, ecco.» Armonia si guardò attorno come se la vecchia stesse parlando di qualcun altro. «Io?» «Io sono morta, bambina cara» disse la donna fissandola con la stessa indulgenza che si riserva ai folli, «le mie occupazioni non vanno oltre il cigolio di una porta, difficile che possa cacciarmi in un guaio» «Sto solo…» «Cercando di entrare in biblioteca.» «Come… lo sai?» «Ci sei davanti.» Armonia sentì il cuore lanciarsi dall’ultimo piano di un grattacielo dritto verso terra. Dopo un istante di smarrimento, si voltò e tornò ad aprire la porta. La accolsero nuovamente una nuvola di polvere e una serie di pacchi impilati gli uni sull’altri in equilibrio precario. Chiuse di nuovo la porta, tossendo. «Beh. Io non dirò nulla a Milo, di certo. Non voglio entrarci in questa storia. Mi faccio sempre i fatti miei. Ma se fossi in te me ne tornerei a letto e lascerei perdere la biblioteca»


Armonia guardò il fantasma e poi la porta e scoprì un improvviso interesse nei confronti di nonna Felicia. «Devo solo cercare una cosa, ho fatto un sogno strano stanotte, se tu potessi dirmi...» iniziò. «Sogni!» la interruppe la vecchia. Inclinò la testa e la parrucca le scivolò pericolosamente di lato, rivelando la testa chiazzata e rade ciocche stoppose e giallastre. «Che enorme sciocchezza» continuò con sarcastico risentimento, «la sola cosa che mi manca della vita è schiacciare un pisolino come si deve, ma come dice il detto: chi muore non piglia pesci.» Reprimendo di nuovo l’istinto di correggere la nonna e consapevole che non le avrebbe rivelato nient’altro, Armonia tacque e il fantasma si ritirò altezzosamente.


CAPITOLO II - RIUNIONE STRATEGICA Era consuetudine da un anno ormai che ogni mattina la parte più sfortunata della Compagnia, cioè quella che era ancora costretta a vivere a Prugnasecca, si ritrovasse nell’unico bar del paese, il Caffè Bella Vita, che di bello e di vitale non aveva proprio nulla. Era un luogo asettico, tutto bianco, polveroso e triste, gestito da una donna grassa e scorbutica sempre sull’orlo di una crisi isterica. Armonia lo aveva soprannominato il Caffè Brutta Morte o anche il BVP (Bar della Vecchia Pazza) e il nome era entrato talmente a pieno titolo nel linguaggio della Compagnia che una volta Martino lo aveva definito così anche davanti alla proprietaria la quale, ovviamente, lo aveva preso quasi a pedate. Quando Armonia entrò nel bar, scoprì che erano tutti già lì: Martino aveva già fatto fuori due ciambelle e si leccava le dita con il chiaro proposito di mangiarne una terza (nonostante le ciambelle della Vecchia Pazza fossero dure come pietre e sapessero di muffa), Sara, le lunghe trecce castane e l’antiquato abito di tre taglie più grande, sorrideva trasognata sorseggiando una bevanda collosa che nelle intenzioni della barista doveva essere latte, e Lucrezia, la ragazza più bella di Prugnasecca, continuava a guardarsi in uno specchietto da borsa scuotendo la testa come se non fosse assolutamente soddisfatta del suo aspetto. «Ciao!» fece trafelata Armonia, lasciando cadere la borsa per terra e abbandonandosi stremata sulla sedia. «Finalmente!» esclamò Lucrezia gettando lo specchietto nella borsa e indirizzando uno sguardo infuocato alla nuova arrivata. «È mezz’ora che aspettiamo! Ci hai buttato giù dal letto all’alba e non ti presenti neanche?» «Mi dispiace» disse sommariamente Armonia. «La nonna di Milo mi ha trattenuto, aveva perso un fermaglio ma in realtà voleva solo parlare, è tornata a casa da poco, si sente sola e comunque è meglio se me la tengo buona.» «Scusa, non era morta?» bofonchiò Martino addentando la terza ciambella. «Sì» replicò Armonia, agitando la mano con noncuranza. Martino divenne terreo e quasi si strozzò ma nessuno gli prestò attenzione. «Racconta» disse Sara. «Hai parlato di un sogno.» Armonia riferì tutto, non tralasciando alcun particolare. Il solo ripercorrere le immagini del sogno le dava i brividi: la grande ombra nera che risucchiava tutto, le urla e il dolore quasi palpabile... sì, c’era qualcosa di terribilmente reale in ciò che aveva visto. «E allora?» disse Lucrezia alla fine del racconto, sollevando sdegnosamente le sopracciglia. «E allora... è successo davvero, no?» replicò Armonia, spazientita. «Hai detto che è un sogno» insisté Lucrezia, che evidentemente era desidero-


sa di chiudere la questione e parlare d’altro. «I miei occhi avevano… cambiato colore dopo.» Ad Armonia non piaceva riferire quel particolare: il fatto che i suoi occhi cambiassero e diventassero simili a quelli delle mostruose creature dell’Imperatore-Fantasma la spaventava. «Io ti credo!» disse Sara, che era disposta a credere a qualunque cosa purché sufficientemente strampalata. «Ma se è successo davvero ed è successo a Flavoria, noi che possiamo fare?» «Non lo so… ma so che mi aiuterebbe poter entrare nella biblioteca di Villa Vento, lì ci sono un sacco di libri che potrebbero spiegarmi tutto, almeno credo. Il mio istinto mi dice che è così, sono anni che ci provo. Solo che Milo non vuole. Odio le porte chiuse a chiave, ho sempre l’impressione che nascondano quello di cui ho bisogno. Non capisco proprio cosa ci sia lì dentro di tanto orribile.» «Nulla di più orribile del fantasma della nonna di Milo» disse Lucrezia con un brivido di disgusto. Uno degli studenti incespicò nella borsa di Armonia, posata sul pavimento, e quasi finì disteso sul loro tavolo. Aveva i capelli corti e biondi ed era carino. Alcune ragazze sedute all’ingresso lo fissarono, rivolgendosi commenti sghignazzanti. Il ragazzo arrossì. «C… ciao» disse, alzando timidamente la mano. Lucrezia non lo degnò di uno sguardo, continuando a rovistare insistentemente nella borsetta. Il ragazzo divenne di colpo pallido e senza aggiungere altro, scappò via, incespicando altre due o tre volte prima di scomparire fra la marea di studenti che affollava il Caffè. «Che diavolo ti prende? Quel poveretto ci sarà rimasto male» fece Armonia indicando con il pollice alle sue spalle. «Chi?» chiese Lucrezia senza sollevare lo sguardo dalla borsa. «Lascia perdere, sei senza cuore.» «Ma cosa vuoi che m’importi degli altri maschi!» esclamò stizzita la ragazza, rialzando la testa. Era chiaramente sul punto di piangere. Armonia le rivolse uno sguardo sconcertato. «Smettila di fissarmi come se fossi pazza! Il ballo della scuola è fra due settimane e…e…» Lucrezia non finì la frase, raccolse la borsa e scappò via, lasciando Armonia sopraffatta dallo stupore. «Ma è impazzita?» chiese indicando la porta del bar che si era appena richiusa alle spalle di Lucrezia. «È preoccupata per Evan» disse Sara, «non lo sente da tempo.» Armonia sollevò le sopracciglia annoiata. «Ancora?» disse. «Nessuno di noi l’ha sentito da quando siamo partiti.» «Lucrezia, sì.» Qualcosa di molto gelido e pesante piombò nel suo stomaco. «Come?» sillabò.


«Si scrivevano» precisò impassibile Sara. «Scherzi... » ridacchiò Armonia, sentendo la cosa pesante e gelida allargarsi. «Sono certa che Evan non scriverebbe una lettera a nessuno nemmeno sotto tortura e poi non sono del tutto sicura che quell’idiota sappia scrivere.» «A Lucrezia scriveva, ho visto le lettere» ribadì Sara. «Scusa, ma quando?» esclamò Armonia. L’idea di una corrispondenza tra Evan e Lucrezia era verosimile quanto la possibilità per la Vecchia Pazza di trasformarsi in una ninfa dei fiumi. Armonia elencò mentalmente i motivi per cui tutta quella storia non poteva essere vera (il che significava anche che Sara era impazzita del tutto.) 1) era assurdo che Evan avesse mandato delle lettere a Lucrezia e neanche una riga a lei per parlarle di Flavoria; 2) era assurdo che Lucrezia si fosse confidata solo con Sara, visto che non erano previsti segreti fra i membri della Compagnia; 3) era assurdo che Sara avesse mantenuto alle sue spalle il segreto di Lucrezia. «Te l’avevo detto che non dovevi dirglielo» sibilò Martino che, nella foga, stava masticando il tovagliolo. «Lo sapeva anche lui?» gridò Armonia puntando il dito contro il ragazzo. Martino fece un balzo all’indietro e, con un boato, finì a gambe all’aria. E, punto quattro, è assurdo che TUTTI lo sapessero tranne io, annotò mentalmente Armonia. «L’abbiamo fatto per te, lo sapevamo che ti saresti arrabbiata e infatti è così» spiegò Sara. «Mi arrabbio perché me l’avete tenuto nascosto!» «N… non urlare… la gente ci guarda» disse Martino, tornandosi a sedersi con una smorfia di dolore. «Non preoccuparti, Martino. La gente ci guarda perché tu sei caduto» disse Sara dolcemente, battendogli una mano sulla spalla come per rassicurarlo. «Quelli stanno anche ridendo di te, vedi?» puntualizzò, indicandogli alcuni ragazzi che si tenevano la pancia per le risate. Martino divenne purpureo e la testa gli sprofondò fra le spalle. L’attenzione di Sara tornò su Armonia. «Lucrezia pensava che saresti stata molto gelosa della relazione fra lei ed Evan e non voleva farti soffrire.» «G… gelosa? Relazione?» disse Armonia ripetendo quelle due parole come se fossero insulti. Una risata innaturale uscì dalla sua bocca, come il verso di un’oca a cui stavano tirando il collo. Martino disse a Sara: «l’avevi detto che avrebbe fatto quella risata… è orribile...» «Zitto!» esclamò Armonia smettendo istantaneamente di ridere. Sentiva il


sangue ribollirle nelle vene. «Voi siete pazzi. Non me ne importa niente di niente di Evan, non so come spiegarvelo! L’unica cosa di cui m’importa è avere notizie da Flavoria e voi mi tenuta fuori da questa storia, ecco perché sto gridando!» Sara annuì, comprensiva. «Avevo detto a Lucrezia che forse era il caso di farti leggere le lettere, anche a costo di farti soffrire. In un momento di pericolo come questo, l’amore viene dopo.» Armonia sentì i nervi facciali irrigidirsi e dovette trattenere l’impulso di usare il Batticolpo sull’intera clientela del Caffè Brutta Morte. «Sara, per i folletti, perché ti sei fissata? Non si tratta di... a-a-amore... » pronunciò la parola come se fosse un’oscenità e per qualche assurdo motivo il cuore le salì in gola, come se avesse davvero una cotta per qualcuno. Quel qualcuno, comunque, non era sicuramente Evan. «Per me Evan può fidanzarsi con Lucrezia o con un monocolo, sarebbe lo stesso.» «Non lo so, è troppo carino per fidanzarsi con un monocolo, sarebbe uno spreco» fece Sara pensierosa. Armonia alzò gli occhi al cielo invocando l’intervento di un meteorite. «Per pietà, volete dirmi se ci sono novità da Flavoria? Altair è in missione e…» «Ho dimenticato di chiederglielo. Lucrezia mi parla sempre e solo di Evan…» Armonia si alzò, fremente di rabbia. «Siete inutili. Voglio leggere le lettere che si sono mandati» «Ma non è carino» obiettò Sara, alzandosi a sua volta. «Chi se ne frega.» «Potremmo chiederglielo, che dite?» intervenne Martino, ancora seduto. «Cosa?» fece Armonia. «È ovvio che dirà di no, dovremo farlo di nascosto.» «Parlavo della Vecchia Pazza, potremmo chiederle di portarci un’altra ciambella, no?» «Martino, sparisci!» gridò Armonia furibonda. Il ragazzo scattò in piedi e corse fino al bancone, dove acquistò un’altra ciambella al sapore di muffa per poi affrettarsi verso scuola. Armonia si guardò attorno: nel bar c’erano solo lei, Sara e un paio di adulti dall’aria terribilmente infelice. La Vecchia Pazza, leggiadra come un’orca assassina, trafficava dietro il bancone borbottando qualcosa sui giovani “teppistelli”. «Dove diavolo sono tutti?» si chiese Armonia. «A scuola» disse Sara con sguardo tollerante. «Sono le nove passate. Siamo in ritardo.» Armonia sospirò. «Potevi dirmelo.» Sara fece spallucce e la seguì verso scuola in silenzio.


CAPITOLO III - IL MESSAGGIO Castelvelato era una normalissima scuola da quando, l’anno prima, Arkanus aveva deciso di distruggere il Rivelatore e chiudere definitivamente l’Uscita nel pozzo di Gattabuia, lo gnomo che li aveva traditi ed era stato ucciso dalla Bestia. Armonia ricordava ancora con dolore tutta la vicenda: benché non avesse mai amato lo gnomo, aveva iniziato a considerarlo quasi un amico. Invece Gattabuia li aveva traditi, aveva tenuto prigioniero Altair per un anno, torturandolo per spingerlo a rivelargli dove si trovasse la Spada-Smeraldo, un’arma leggendaria che, a quanto pareva, Armonia era destinata a ritrovare. Gattabuia l’aveva attirata nel Labirinto di Pietra proprio con questo scopo e aveva stregato con un Guastacuore le Sorelle per costringerle a trovare Armonia. Gattabuia era uno gnomo singolare, dotato di poteri magici e Arkanus le aveva detto che non tutta la colpa di ciò che era accaduto era imputabile allo gnomo: la sua sensibilità magica, così insolita, lo aveva reso facile preda del mago che la stava cercando. Ora l’Uscita era stata chiusa e le Sorelle, a quanto ne sapeva, si trovavano in una clinica per disturbi mentali assieme al vecchio custode e cugino di Milo, Ottavio. Non si erano più ripresi, anche se Arkanus le aveva assicurato che se fossero guariti avrebbe potuto scoprire il nome del mago che li aveva stregati. Armonia ignorava ancora la maggior parte della storia, Altair le aveva spiegato che le aveva sottratto la memoria per non farla soffrire e allo stesso tempo per proteggerla: un incantesimo impediva a chiunque di riconoscere la Fanciulla-Guerriero e lei stessa lo aveva scoperto solo quando era tornata a Flavoria. Questo perché, oltre a Zanna Avvelenata, parecchie cose malvagie le stavano dando la caccia, senza contare che le ombre che si allungavano su Flavoria sembravano avere ripercussioni anche sulla sua salute. Dal momento in cui aveva rimesso piede a Prugnasecca, Armonia aveva provato in ogni modo a saperne di più sulla Stanza della Memoria, sulle mostruose creature dell’Imperatore-Fantasma e sull’Imperatore stesso, ma non c’era stato verso di scucire una sola parola a Milo e Stella e neanche ad Altair, il quale dopo un po’ aveva smesso anche di rispondere. Ormai erano due mesi che non lo sentiva più e la cosa era preoccupante. Il silenzio di Altair, gli incubi che erano tornati... stava succedendo qualcosa a Flavoria e lei doveva saperne di più. Una volta a scuola, Armonia andò verso la sua classe, Sara corse in direzione della sua e Martino fece lo stesso, dandosi appuntamento in giardino per la pausa pranzo. Quella mattina, con grande sconforto, Armonia apprese che c’era compito in


classe. La geometria era una materia abominevole: per lei gli angoli erano tutti ottusi e aree e perimetri erano concetti talmente insignificanti da darle il voltastomaco. Insomma, la geometria non le era mai stata simpatica e sospettava che il sentimento fosse ricambiato. Il professore, inoltre, le ricordava una capra con qualche evidente problema di schizofrenia: aveva un pizzetto a punta bianco e due ciuffi di capelli stopposi che spuntavano da dietro alle orecchie, indossava occhiali spessi come fondi di bottiglia e il volto era un collage di tic nervosi. Quando apriva la bocca, chiudeva l’occhio sinistro. Se sollevava il sopracciglio, le labbra s’incurvavano verso il basso. Armonia s’incantava a guardarlo: ogni elemento della faccia andava per conto suo e qualche volta era perfino divertente. Quando entrò, l’uomo la fissò con gli occhi stretti come due fessure (nel frattempo il labbro inferiore si arricciò, sporgendo verso un lato). Era un chiaro tentativo di incenerirla sul posto. «Finalmente» disse, andandole incontro minaccioso con un foglio in mano. Armonia lasciò cadere la borsa per terra e sedette, pronta al martirio. Il professore le allungò sul banco il foglio con il problema strizzando gli occhi e incurvando in varie direzioni la bocca, poi si voltò verso la classe. «Avete un’ora di tempo per consegnarlo! Avanti!» Con un sospiro, Armonia prese il foglio con il compito, pronta già a consegnarlo, come al solito, in bianco. Ma ciò che vide scritto si rivelò molto più assurdo di tutta l’assurda geometria che aveva incontrato fino a quell’istante. Dati un triangolo e un quadrato, calcolarne la somma delle aeree se fuori piove. Lo studente ricordi che i triangoli hanno solo tre lati e sono molto invidiosi dei quadrati. Armonia rilesse tre volte la traccia. Era chiaro come il sole che il professore fosse ammattito del tutto. Quando si guardò intorno, però, apprese con amarezza che tutti, perfino Isidoro, il fratello di Martino, scrivevano a testa china complicatissime formule matematiche. Pompeo e Vanessa, i figli del sindaco, e i loro tirapiedi erano impegnati in un fuoco incrociato di bigliettini e, per la prima volta nella sua vita, non badavano a lei. «C’è qualcosa che non va?» disse il professore lisciandosi l’ispida barbetta bianca. Stranamente il suo visto adesso era fermo, fatta eccezione per un leggero tremolio del sopracciglio destro. «N… no… solo… forse c’è un errore nel mio compito» osò Armonia. Il professore si sistemò gli occhiali sul naso e assunse l’espressione che avrebbe avuto un lupo famelico davanti a un agnello. «Vieni qui» disse con un’inflessione da condanna a morte. Armonia si trascinò fino alla cattedra come se avesse due macigni attaccati


alle caviglie e consegnò il compito. Il professore rilesse con attenzione la traccia, poi si fermò un secondo, rialzò il capo e guardò Armonia negli occhi. «Sì, hai ragione» disse e il suo volto continuò a essere fermo, tranne per il sopracciglio tremolante. Trafficò un istante fra le sue carte e prese un altro foglio. «Ecco questo dovrebbe andare» Armonia tornò a posto. Prendete un triangolo e un quadrato mentre fuori piove e sommateli, ricordando che i triangoli non vogliono sentir parlare di quadrati. Armonia abbozzò un sorriso incredulo. «Ehm» disse avvicinandosi nuovamente al professore, «credo… credo ci sia un altro errore… nel mio compito…» Sulla classe si abbatté un silenzio di piombo. Il professore alzò gli occhi, questa volta il sopracciglio tremava vistosamente e tutto il viso sembrava concentrato nello sforzo di evitare un’esplosione di tic nervosi. «Armonia…» disse con odio. Poi guardò il resto degli studenti e intimò loro di continuare a scrivere. «Sei veramente… va bene… prendi questo…» disse consegnandole un altro compito. Armonia lo rilesse mentre andava verso il suo posto. Dato un triang… oh, al diavolo! Sei veramente idiota! Trova il triangolo, è la chiave per il quadrato! Mettili insieme, ma solo se fuori piove. Ricorda che il possessore del triangolo non deve sapere che sai del quadrato o il triangolo sparirà! E muoviti! Evan Armonia strabuzzò gli occhi come se avesse inghiottito una polpetta arroventata. Evan? Come aveva fatto a mettersi in contatto con lei? Perché si trovava nel corpo del professore di geometria? E soprattutto che diavolo voleva dirle con quella storia assurda di triangoli e quadrati? Si voltò e andò nuovamente verso il professore, sporgendosi sulla cattedra tanto da rischiare di scontrarsi con il suo naso. Il vecchio arretrò leggermente, la sua espressione era diversa, come se si fosse appena svegliato da un lungo sogno. Tutta la sua faccia era di nuovo un proliferare di tic nervosi: le labbra andavano da un lato, gli occhi si spalancavano e si chiudevano, perfino le orecchie sembravano animate di vita propria. «Evan? Sei tu? Sei impazzito?» mormorò Armonia, naso contro naso. Il professore cambiò espressione, il suo viso assunse diverse tonalità di rosso fino a stabilizzarsi su un viola melanzana. Poi la sua rabbia esplose assieme a una serie di contrazioni nervose talmente assurde da non poter essere descritte.


«Screanzata! Insolente!» urlò indignato, sputacchiando sulla cattedra. «Stai infastidendo questa classe da quando sei arrivata! Fuori! Fuori di qui! Quest’anno in geometria avrai zero!» Armonia obbedì stancamente, maledicendo Evan. Fuori dall’aula, trovò Martino con un secchio d’acqua in testa. «La tipa di scienze non ha preso bene il terzo ritardo della settimana, eh?» disse stizzita, appoggiandosi alla parete accanto a lui. Martino scosse la testa e si rovesciò buona parte dell’acqua addosso. «In realtà mi è caduta una ciambella e la professoressa c’è scivolata sopra, credo si sia rotta un dente…» «Martino tu riesci sempre a stupirmi» confessò Armonia stancamente. Ancora non capiva quello che era appena successo. Era stato davvero un tentativo di Evan di mettersi in contatto con lei? La forte componente illogica le suggeriva di sì: non c’era cosa, per quanto semplice, che Evan non riuscisse a complicare. «È DISGUSTOSO!» la voce di Lucrezia riecheggiò nel corridoio. Poco dopo, da un angolo, spuntò la ragazza, inseguita da un professore. «Signorina, la prego, torni in aula» implorava l’uomo. «NEANCHE PER SOGNO! RIFERIRÒ L’ACCADUTO A MIO PADRE!» si ostinò Lucrezia. Il professore fece dietro-front e tornò in aula, piagnucolando. La famiglia di Lucrezia era molto influente e faceva sempre grosse donazioni alla scuola, perciò Lucrezia era considerata un po’ la principessa di Prugnasecca. «Beh?» disse la ragazza con le mani suoi fianchi, facendo ondeggiare i lunghissimi capelli biondi. «Che ci fate qui? Punizione?» continuò con tono canzonatorio. «Oh no, noi amiamo trascorrere il nostro tempo in punizione nei corridoi con dei secchi d’acqua sulla testa, vedi? È divertente» fece Armonia indicando Martino. «In realtà no, non mi sto divertendo» precisò il ragazzo, con tono mortificato. «Per le chimere, Martino. Tu hai bisogno di un corso accelerato di sarcasmo, dico davvero!» esclamò Armonia. «Sì, siamo in punizione, va meglio?» continuò rivolgendosi a Lucrezia. «Ovvio» replicò la ragazza con aria di sufficienza. «A te che è successo?» chiese Martino. Lucrezia assunse un’espressione inorridita. «Un… un… un… millepiedi… sul mio banco…» disse, trattenendo un conato di vomito e stringendosi nelle braccia come se fosse appena sfuggita a un incidente nucleare. «Mi perseguitano dagli Alberi Tetri, lo fanno apposta, mi seguono, si appostano nei luoghi più impensabili, sono dei demoni e io sono... » «Una cretina» sibilò Armonia, ma prima che Lucrezia potesse saltarle addosso e strapparle gli occhi, come la sua espressione lasciava presagire, giunse la


voce squillante e allegra di Sara. «Oh, anche voi avete un’ora libera? La mia professoressa è ammalata, siamo liberi di gironzolare per un po’.» «Va bene, visto che ci siamo tutti: mi è successa una cosa strana» esclamò Armonia, «ho ricevuto un messaggio da Evan!» Lucrezia vacillò pericolosamente, ma fu afferrata da Sara prima che potesse cadere per terra svenuta. «Che ti ha detto?» chiese Martino, posando finalmente il secchio ai suoi piedi. Armonia tirò fuori dalla tasca il foglio con il compito e rilesse. «Dev’essere un messaggio cifrato per me!» esclamò Lucrezia, strappandole di mano il foglio con aria feroce. La ragazza lesse e rilesse il messaggio di Evan, poi, delusa e sul punto di piangere, lo riconsegnò ad Armonia. «Dice di cercare un triangolo e un quadrato, di metterli insieme quando fuori piove e di non dire al padrone del triangolo che so tutto del quadrato… ma che diavolo significa, neanche così è chiaro!» disse Armonia. «Mm… triangolo e quadrato… ma che vuol dire? Evan caro, cosa vuoi dirmi?» fece Lucrezia portandosi un dito sulle labbra. Poi sembrò ricordarsi qualcosa, rovistò nella borsetta rosa che portava sempre a tracolla e sembrò illuminarsi quando trovò ciò che cercava. Un lucidalabbra. «Per favore» mormorò Armonia acidamente, indecisa se insultarla o assestarle un sonoro ceffone. «Mi si sono screpolate le labbra a furia di morderle» si giustificò Lucrezia, «ero molto preoccupata per Evan. All’improvviso è scomparso. Speravo potesse venire per il ballo.» «Secondo te Evan sarebbe venuto per il ballo di Prugnasecca?» disse Armonia strizzando gli occhi per l’irritazione, «ma... ma cosa diavolo ti dice la testa?» «Zitta! Sei soltanto invidiosa di me ed Evan!» esclamò Lucrezia lanciandole una lunga occhiata crudele. «Invidiosa???» esclamò Armonia e di nuovo le uscì quella risata innaturale: Martino si nascose dietro Sara tremando. «Voglio leggere le lettere che vi siete scambiati» disse. Lucrezia emise una risata di sfida. «Non se ne parla» Armonia fece un passo. «Va bene, penso proprio che mi preoccuperò di farti trovare ogni notte qualcosa di viscido nel tuo letto» esclamò trionfante. Lucrezia inorridì, valutando la concretezza di quella minaccia. «Sei un mostro. Leggile pure, io ed Evan non abbiamo nulla da nascondere! Le leggeremo stasera, ecco. Sono sicura che saresti davvero capace di raccogliere quei cosi orribili e metterli nel mio letto» disse infine. «Certo che sì» replicò Armonia soddisfatta. Sono proprio curiosa di sapere cosa si sono scritti, pensò e non solo per sapere cosa succedeva a Flavoria; ma questo non l’avrebbe mai ammesso, neanche con se stessa.


CAPITOLO IV - LETTERE DA FLAVORIA Tornarono a casa insieme dopo la scuola. Arrivati a Villa Vento dovettero presentarsi alla Riminsegna, come al solito. Per prima passò Sara: Mente sottile, occhi di mare, Sara la dolce può certo passare. Poi Lucrezia Di bellezze così chiare, oggi al mondo non ce n’è, su Lucrezia vieni avanti, Villa Vento aspetta te. Quindi Martino Noi sappiamo a menadito che Martino ha già appetito passa presto! giù in cucina c’è una cena sopraffina. E infine Armonia: Sei la padrona e devo obbedire Benché io tema tu possa perire Presta attenzione, cara bambina Un grande male a te si avvicina. Lucrezia, Sara e Martino sobbalzarono. «Ma che ha?» chiese Lucrezia spaventata. «Non voleva lasciarti entrare in casa tua?» «Fa così da giorni. Dev’essere depressa ultimamente… non fa che parlare di morte e pericoli» Armonia scrollò le spalle, mentre precedeva i suoi amici nel vialetto di casa. Il giardino di Villa Vento era gigantesco e le piante vi crescevano selvaggiamente, come in una giungla. Nella massa verdeggiante e incolta si distingueva un grande salice piangente, l’albero protettivo di Armonia: vi si rifugiava a leggere, protetta dai rami cadenti che toccavano il terreno, quando era bel tempo.


Armonia afferrò il battiporta in ottone brunito a forma di teschio e diede due colpi decisi. Qualche minuto dopo la pesante porta nera si aprì lentamente con un gemito e comparve la sagoma spettrale di Milo. Il fatto che Martino e Lucrezia lo conoscessero ormai da un anno, non rendeva l’apparizione del maggiordomo meno sinistra: gli rivolsero il solito sguardo di rispettoso terrore. Sara invece era perfettamente a suo agio. «Che piacere» disse Milo, con lo stesso sorriso che avrebbe avuto qualcuno ripescato agonizzante dalle gelide profondità di un lago. «Impedisco subito a Stella di preparare la cena» soggiunse e i muscoli facciali si rilassarono, assumendo la solita e naturale posa minacciosa. Milo non era bravo a sorridere e Stella non era brava in cucina, ma era grazie a lei se Villa Vento conservava ancora una sorta di decoro. Come invocata dalla preoccupazione di Milo per la cena, la governante sbucò dalle cucine con il volto in fiamme, i capelli ritti in testa e le braccia che roteavano in ogni direzione come se stesse provando a scacciarsi una mosca dal naso. «MILO! MILO PER CARITÀ! VIENI A PARLARCI TU, IO NON LA SOPPORTO!» gridò. Stella si fermò al centro dell’ingresso, sul grande tappeto di velluto rosso, proprio ai piedi dell’ampia scalinata che portava al piano di sopra. Solo allora si accorse degli ospiti. «Oh… oh… padroncina… signorina Sara, signorina Lucrezia, signorino Martino… che… che vergogna…» balbettò, mentre il vivido rossore che aveva coperto il suo volto fino a quell’istante veniva sostituito da un bianco smorto. «Qual è il problema, Stella-cara?» disse Milo, le mani infilate nel panciotto, quasi sul punto di fischiettare beatamente. «Temo di essere io, nipote.» Nonna Felicia era sbucata fra loro dal nulla, esattamente come avrebbe fatto qualsiasi spettro. Martino indietreggiò e Lucrezia emise un urlo stridulo. Il fantasma, a sua volta, trasalì. «Per la mia anima! Questa casa era tranquilla come un cimitero di campagna un tempo!» protestò, sistemandosi la parrucca sbilenca sulla testa e posandosi una mano sul petto, dove riluceva il ciondolo. «Se non fossi già morta, mi sarebbe venuto un colpo.» «Vorrei che non fossi morta così potrei ucciderti io!» urlò Stella. Poi si rivolse a Milo, strattonandolo: «Devi mandarla via! Immantinente! Non sono più padrona della mia cucina! È sempre lì a dirmi quello che devo o non devo cucinare!» «È falso. Non avrei mai detto una cosa così ambigua. Sono stata più che chiara: tu non devi cucinare, mia cara, sei sventuratamente e totalmente negata. “Non tutte le ciambelle riescono con il bruco”; e vi assicuro che ho gustato bruchi di qualità migliore durante il mio soggiorno sottoterra» disse Felicia Defunta sollevando le sopracciglia con sussiego. «Ed è lì che dovresti tornare! Sottoterra! Tu sei morta!» gridò Stella agitando


i pugni. «Sì, temo lo sappia» precisò Milo. «Non posso tollerare di dividere la cucina con uno spettro» insisté Stella. «Se si fosse trattato della mia cara nonnina, Amanda Bouquet, lei sì sarebbe stata di gran confort... » «Quello stupido, languido, mieloso e piagnucolante porcello con la gonna sarebbe stato di conforto?» fece con tono disgustato nonna Felicia. «Il timballo vomitante che hai appena creato l’avrebbe terrorizzata fino a farle perdere la ragione! Ricordo che al ballo in onore del Marchese di Broll, quando la Duchessa di Malerba si tagliò di netto un dito, non trovò nulla di meglio da fare che svenire dopo aver vomitato i seicento panettoni che aveva mangiato.» Stella sembrava una pentola a pressione sul punto di esplodere. «Su, nonna, torniamo nelle tue stanze. Ti avevo proibito di andare a spasso per casa, puoi infestare solo la soffitta» interruppe Milo. «La soffitta è fredda e sudicia, non è un luogo rispettabile per tua nonna. Non sono libera di muovermi in casa mia?» «È casa mia, nonna e i patti erano questi o sarò costretto a rispedirti nella cappella di famiglia.» «Preferirei vagare nel Limboguano per l’eternità!» gridò la vecchia e, molto offesa, sparì oltre la parete. «Bene» esclamò Stella soddisfatta come se avesse trovato un forziere pieno di oro. «Vi chiamo quando è pronto.» E tornò trotterellando in cucina. «Milo…» piagnucolò Armonia pensando con orrore al timballo vomitante di cui aveva parlato nonna Felicia. Milo fece una smorfia che voleva essere rassicurante. «Ho fatto un incantesimo al forno, durerà poco ma almeno questa sera produrrà cibi mangiabili» le mormorò in un orecchio. Si chiusero in camera di Armonia e Lucrezia sparse la corrispondenza fra lei ed Evan sul letto: almeno una decina di lettere. Non male, pensò Armonia, gioiosa come se qualcuno le avesse appena pestato un piede. «Prima di andare via, gli avevo chiesto se potevamo tenerci in contatto» disse Lucrezia con le labbra tremanti, ma opportunamente dipinte di rosa. «Lui ovviamente ha detto subito di sì e ci siamo scritti delle lettere.» «Come facevate a recapitarvele?» chiese Armonia continuando a fissare con curiosità la corrispondenza sparsa sul letto. «Beh, Evan ha gettato un incantesimo sulla carta. Scrivi, poi attacchi il francobollo con il nome del destinatario e lei si consegna da sola.» «Oh» disse solo Armonia, mentre qualcosa dentro di lei le suggeriva di procurarsi un oggetto contundente per darlo sulla testa di Lucrezia. «Questa è la prima, mi ha scritto lui.» Lucrezia, molto emozionata, lesse a voce alta.


Basta scrivere il mio nome sul francobollo. «Tutto qui?» fece Armonia dubbiosa. Lucrezia sorrise. «Beh, era la prima, povero caro. Sarà stato sopraffatto dall’emozione. Comunque anche io sono di poche parole, andiamo molto d’accordo. Vi va di ascoltare cosa gli ho scritto?» Furono costretti ad ascoltare Lucrezia mentre leggeva loro una lettera di cinque pagine scritte fittissime, in cui descriveva per filo e per segno ogni minuto delle sue giornate a Prugnasecca. Gli raccontava dell’inizio della scuola, che il primo giorno di scuola era stata invitata a uscire da tre ragazzi diversi, che riceveva continuamente bigliettini d’amore in classe, che suo padre le aveva comprato un nuovo scooter rosa, che era andata con sua madre alle terme e via discorrendo, il tutto infarcito da epiteti quali “caro”, “tesoro”, “diletto”, “amore mio”. Martino dormiva da quando era iniziato il racconto della prima lezione di guida, Sara sorrideva come se si fosse addormentata con gli occhi aperti e il qualcosa che si agitava dentro Armonia le stava urlando chiaramente di picchiare Lucrezia. «Ascolta, non ce ne importa un fico secco. Possiamo passare alle notizie su Flavoria?» disse di colpo, interrompendo la descrizione dei denti cavallini di una rivale di Lucrezia. «Dolce come una chimera» sibilò la ragazza, afferrando con malagrazia le lettere di Evan sparse sul letto. La seconda diceva: Partenza. Lungo il cammino nulla di strano. Nelle città di pietra tramano qualcosa. Il mago sospetta. Lucrezia era riuscita a replicare con una lettera di dieci pagine in cui raccontava a Evan di come aveva messo a tacere Vanessa Bustarella dopo essere stata eletta ragazza più bella della scuola. Seguiva la risposta di Evan. Il mago ha parlato con il capo del suo ordine. C’è di mezzo una forza oscura. Il guardiano è ancora in missione. Le lettere di Lucrezia e quelle di Evan avevano tutte lo stesso tenore: le prime erano lunghissime e piene di inutili particolari, le seconde erano tutt’altro che lettere d’amore: sembravano bollettini di guerra. Evan ne aveva scritte altre due. Visitiamo l’ultima scuola. Pare che il mago non abbia trovato ciò che cercava, la missione è fallita. È successo qualcosa a corte, ma il mago non ne vuole parlare. E l’ultima diceva:


In viaggio verso casa. Ho scoperto qualcosa. La missione del guardiano ha a che fare con le fattucchiere. Uno dei nostri è prigioniero al sud, non so chi. Ti scrivo ancora da Pietragrigia. Scrivi se succede qualcosa lì, per favore. Lucrezia singhiozzò. «È l’ultima. L’ho ricevuta due settimane fa, non so che fine ha fatto! E se fosse morto?» «Forse si sta allenando per il ballo di Prugnasecca, ne ha parlato con entusiasmo nelle sue lettere» disse malignamente Armonia, affacciandosi alla finestra. Lucrezia replicò con un sospiro colmo d’irritazione. Era chiaro che Evan stava comunicando notizie in codice a Lucrezia e quindi a tutti loro. Arkanus di certo non voleva che Armonia sapesse cosa stava succedendo, e questo era anche il motivo per cui Evan scriveva a Lucrezia e non a lei. A ogni modo le notizie erano poche e non molto chiare: la missione di Arkanus nelle scuole di magia era fallita, ma quale fosse questa missione, Armonia lo ignorava. Inoltre pareva che Oliver ai Confini del Mondo stesse cercando una congrega di fattucchiere, ma anche quella missione era oscura. Cosa poteva mai volere Pietragrigia dalle fattucchiere? Poi fu come se il suo cuore avesse iniziato a ballare la polka. «Il sogno!» gridò. «Che significa?» esclamò Martino svegliandosi. «Le fattucchiere. Oliver cercava le fattucchiere ai Confini del Mondo! Le cercava perché evidentemente Arkanus sapeva che c’era qualcun altro che le stava cercando… quel demone… quello che le ha distrutte! Oh… Oliver è arrivato tardi… spero… spero solo che stia bene» disse Armonia in preda allo sconforto. «E qualcuno è prigioniero al sud» disse ancora Sara. Il sangue nelle vene di Armonia si gelò. Altair, pensò. Era sparito da troppo tempo! «Dobbiamo metterci in contatto con Evan!» gridò Armonia. «Scrivigli subito!» «Idiota!» scoppiò in lacrime Lucrezia. «Sono giorni che scrivo! Credi non ci abbia già pensato? Non serve a nulla! Le lettere non partono più…» «Come non partono?» «Pare che la magia sia finita» disse Sara, con sguardo cupo. «E siccome è un incantesimo di Evan, Lucrezia teme che gli sia successo qualcosa e in effetti sono sicuro che sia morto» precisò Martino con voce roca. Lucrezia singhiozzò così forte che Armonia ne ebbe compassione. «Per te sono sempre tutti morti» disse lanciando un’occhiata feroce a Martino. «Evan è vivo, ho avuto sue notizie oggi, no?»


«Abbiamo... » piagnucolò la ragazza. «Come?» disse Armonia. «Abbiamo avuto sue notizie... » precisò Lucrezia asciugandosi le lacrime. «Non voleva mica parlare solo con te... » Armonia dovette stringere forti i pugni per evitare di tirarle i capelli. Lucrezia era l’essere che riusciva a irritarla di più al mondo. Oh, dopo Evan, naturalmente, pensò subito dopo. «Comunque, l’importante è che sia vivo, no?» disse Sara. «Ma forse è prigioniero!» insisté Lucrezia. «Forse è in pericolo... » «È sicuramente in grave pericolo» confermò Martino, annuendo gravemente. Armonia sbuffò. «Grazie Martino come sempre per il tuo apporto positivo. Avete dimenticato che ha ucciso una chimera? Per i folletti! Credo se la sappia cavare. Ora dobbiamo trovare il triangolo e il quadrato, è il solo modo per capirci qualcosa!» «Quindi il triangolo è la chiave e il quadrato… beh… la cosa che la chiave apre, no?» chiese Sara. «Pare di sì» annuì Armonia. Un tuono irruppe nel silenzio della casa e dopo qualche secondo la pioggia prese a battere scrosciante sui vetri di Villa Vento. I ragazzi rabbrividirono nella morsa innaturale di freddo. «Dobbiamo trovare il triangolo e il quadrato!» esclamò Lucrezia balzando in piedi, più decisa che mai. «Stanotte!» Stella chiamò per la cena. «Sì ma li troveremo dopo!» esclamò Martino, spalancando la porta e gettandosi a precipizio per le scale. Fu una cena magnifica: Stella fu molto soddisfatta e i ragazzi anche. Lucrezia era ancora preoccupata per Evan, ma si riprese del tutto quando Stella le chiese se aveva già comprato un abito per il ballo. Gli occhi si illuminarono, annuì e iniziò a descriverlo nei minimi particolari, con grande entusiasmo della governante. «E tu hai pensato già alle catene giuste da indossare al ballo?» chiese Milo ad Armonia con un ghigno. «Ah-ah» replicò Armonia con una smorfia. Da un po’ di tempo aveva iniziato a provare un vago interesse per oggetti mitologici quali abiti alla moda o scarpe con il tacco e il suo difficile rapporto con gli specchi era diventato ancora più conflittuale: si era resa infatti conto che tutto il suo guardaroba si riduceva a qualche t-shirt cenciosa, pantaloni malconci e anfibi neri. Tutte le altre ragazze, eccetto Sara che indossava abiti arrivati direttamente dal secolo precedente, amavano la moda, le borse, i vestiti e le scarpe, ed erano tutte immancabilmente più graziose di lei. Lucrezia aveva stuoli di ammiratori che facevano di tutto per compiacerla, perfino Sara aveva avuto un invito per il ballo (da un bambino di sette anni dell’orfanotrofio, ma meglio di niente!) mentre Armonia era come al solito oggetto del più totale e penoso disinteresse.


Comunque non era ancora così disperata da chiedere aiuto a Stella o a Lucrezia o a chiunque altro avrebbe avuto piacere ad addobbarla come un albero di Natale, né osava parlarne a Milo per il quale il concetto di moda era chiaro quanto la lingua dei monocoli. Sforzandosi di sorridere, Armonia aggiunse che non sarebbe andata al ballo. «Non vai al ballo?» gridò Stella, indemoniata. Armonia si affrettò a giustificarsi dicendo che nessuno l’aveva invitata. «Ci andrai invece!» strillò Stella. «Non puoi farmi questo!» «Stella, mia cara, ha detto che non andrà al ballo, non che massacrerà la tua famiglia» precisò Milo sbadigliando. «È LA STESSA COSA!» gridò la governante prossima al collasso. «Non lo permetterò. No. Ho aspettato questo momento da troppo tempo… i preparativi, l’abito, il trucco, il cavaliere che busserà alla porta…» «Il cavaliere è Evan?» chiese Sara a Lucrezia facendo uno strano collegamento. La ragazza si strozzò con l’acqua. «NON CREDO PROPRIO» gridò rossa in volto. «Io non andrò al ballo!» fece furiosa Armonia. «Un ballo?» Felicia Defunta era ricomparsa alle loro spalle. Soltanto Martino cadde per terra, Lucrezia era troppo impegnata a dare in escandescenze. «Nonna…» «Lasciami dire, nipote caro…» «Fuori di qui!» gridò Stella. «Per favore…» fece Armonia. «Rimango dove sono, grassa ragazza!» disse sprezzante la vecchia. Stella divenne purpurea. «Io… io… ora vedrai!» Stella agitò il mestolo e una luce purpurea investì la vecchia. «Sono un fantasma!» rise quella con perfidia. «Nonna per favore, ora lasciaci» disse piano Milo. «Vedrai se non ti accoppo!» gridò Stella lanciandole contro il mestolo che attraversò il fantasma con un sibilo asciutto e andò a schiantarsi contro una cristalliera alle sue spalle. «Non ho mai visto una cocciuta più cocciuta!» gridò la nonna stringendo il ciondolo verde fra le dita scheletriche e laccate di rosso. «Lo giuro sul mio splendido ciondol…» «NONNA!» gridò Milo piazzandosi davanti a lei. «ORA BASTA! TI ORDINO DI LASCIARCI!» L’immagine della vecchia divenne sbiadita. Lasciò ricadere il ciondolo che aveva stretto fra le dita per proclamare il giuramento e si dissolse senza proferire parola, con il volto devastato dallo sdegno. Tutti tacevano. «Beh… beh… ora io…» balbettò Stella, guardando Milo con apprensione. Non era bello vedere Milo arrabbiarsi, anzi era proprio spaventoso. Il maggiordomo chiuse gli occhi, quando li riaprì era perfettamente calmo. «Scusatemi» disse e lasciò la stanza fluttuando esattamente come sua nonna.


Armonia era la sola a sorridere. Andiamo di sopra! disse ai suoi amici e si lanciò verso le scale, ansiosa di ritrovarsi nella sua stanza, al riparo da orecchie indiscrete.


CAPITOLO V - LA SOFFITTA DI VILLA VENTO Dopo cena Lucrezia e Martino telefonarono a casa per chiedere il permesso di dormire da Armonia e Sara avvisò la direttrice dell’orfanotrofio che quella sera non sarebbe tornata. Quando ebbero sistemato tutto, chiesero ad Armonia perché li avesse costretti a farlo. «Ho capito cos’è il triangolo» annunciò. «Avete notato cosa indossa nonna Felicia?» Lucrezia storse il naso. «Un disgustoso abito consumato dalle tarme?» Armonia alzò gli occhi al cielo. «Un ciondolo con una pietra triangolare! E Milo si è arrabbiato molto quando lei ce lo ha mostrato per giurare!» «Beh, ammesso che quello sia il triangolo e quindi la chiave, come lo troviamo il quadrato?» Armonia sorrise. «So anche dov’è il quadrato. Mi è venuto in mente, collegando tutta questa storia con la nonna. La prima volta che l’ho vista è stato proprio davanti alla porta della biblioteca… beh… la porta non ha serratura, o meglio non ha una normale serratura: c’è solo un quadrato dorato! Credo sia il nostro quadrato.» «Evan sapeva che cercavi la biblioteca?» chiese Sara. «Non lo so, quello che so è che vuole che entriamo in biblioteca! Mi ha detto che devo muovermi.» Un fulmine illuminò la stanza. La pioggia divenne torrenziale. «E credo sia anche il momento adatto… doveva piovere, ricordate?» continuò Armonia. «Sì, ma come facciamo a rubare il triangolo alla nonna di Milo?» chiese Lucrezia con un brivido. «Ho in mente qualcosa… l’importante è che non sospetti della biblioteca: non deve sapere del quadrato. Non sa a cosa serve la chiave, penso che Milo non gliel’abbia detto… avete visto com’è fatta! Non riesce a stare zitta, se l’avesse saputo me l’avrebbe già spifferato! Credo che l’unico motivo per cui le sia stato affidato il ciondolo è che nessuno può toccarlo finché non è lei a consegnarlo! L’ho letto da qualche parte: è un fantasma e i vivi non possono entrare in contatto con i fantasmi se loro non vogliono, giusto?» Martino rispose che non si era mai posto un quesito simile e soprattutto che la competenza di Armonia a proposito dei fantasmi era inquietante. Armonia lo ignorò come sempre. «D’accordo quindi noi stanotte rubiamo il ciondolo a… ehm… alla nonna… e poi?» disse Lucrezia. «E poi entriamo nella biblioteca, no?» disse Sara. «E nella biblioteca troveremo…» piagnucolò Martino. «Qu alco sa ch e Milo non vuo le che trov iamo , men tre Evan sì»


co nclu se Armo n ia. Quella notte, nonna Felicia non apparve del tutto sorpresa quando vide comparire Armonia dinanzi alla sua evanescente figura, dopo che il pendolo aveva battuto dodici rintocchi. «Se sei venuta a chiedere scusa, niente da fare. La tua governante, cara bambina, è stata inqualificabile. Resterò qui chiusa e non vi degnerò mai più della mia presenza, almeno fino a quando quella sciocca e impertinente ragazza non verrà a chiedermi scusa personalmente.» «Ehm… nonna… nonna Felicia… in realtà… io sono qui per chiederti aiuto» balbettò Armonia. «Aiuto? E che genere di aiuto può mai fornire un miserabile spettro?» esclamò sdegnosamente la vecchia, sistemandosi la parrucca che continuava a viaggiare da un lato all’altro della testa. «L’abito che Stella mi ha cucito per il ballo è orribile» gemette. Nonna Felicia emise una risata trionfante, quella che usava per terrorizzare visitatori inopportuni. «Lo sospettavo, del resto tutto ciò era prevedibile. Completamente priva di buon gusto. Ma io come posso aiutarti, cara?» La voce di nonna Felicia era dolce e soddisfatta e sembrava il miagolio di un grasso gatto che aveva appena finito di leccare la sua ciotola. Armonia arrossì, gli occhi colmi di lacrime di commozione. False come i diamanti della moglie del sindaco, si disse. «Ecco, io pensavo... tu hai tanta classe, tantissima, nonna Felicia. Non hai un abito per me? Qualcosa che somigli al tuo… vorrei essere esattamente come te, così fine, così... » La vecchia non riuscì a reprimere un risolino compiaciuto, si piegò in avanti e la parrucca le cadde per terra rivelando la zucca calva chiazzata. Imbarazzata ma immersa ancora nella gloria del trionfo, nonna Felicia si affrettò a raccoglierla e a sistemarla sulla testa. «Piccola cara» disse come se stesse tentando di spiegare un concetto troppo complesso, «la mia classe si raggiunge soltanto dopo anni e anni, forse anche secoli, pensandoci credo di non essere mai stata così elegante come da trapassata. La morte mi dona, non dona a tutti, ma effettivamente nutro qualche speranza per te…» Le parole di nonna Felicia furono come il morso di una tarantola. «Ecco, preferirei restare viva… ehm… ancora per un po’…» disse con voce tremante Armonia, pensando con timore alle intenzioni della nonna. Nonna Felicia rise di gusto e la parrucca le scivolò pericolosamente su un lato. «Piccola cara ingenua. Ovviamente parlavo dell’abito, penso di avere qualcosa che possa fare al caso tuo, ma dobbiamo andare in soffitta, sai. La soffitta di Villa Vento è un tantino, come dire, stravagante…» Fu come se un monocolo avesse appena accusato un vampiro di essere brutto:


la soffitta doveva essere strana forte se a dirlo era addirittura nonna Felicia. Armonia iniziò a pentirsi del piano che aveva escogitato. Una piccola minuscola vocetta che doveva essere la sua coscienza in quel momento le stava sussurrando: idiota, stai finendo in un guaio, come al solito. «Strana… quanto?» domandò Armonia come se già sapesse che la risposta alla sua domanda sarebbe stata “mortale”. «Non saprei, cara bambina. Non ci sono mai stata, nonostante l’ordine di Milo e tutto il resto. Io infesto questo piano, punto e basta, di sopra è troppo umido per i miei reumatismi. Non ci crederai ma sono l’unica cosa che la morte mi ha lasciato.» «Capisco» replicò Armonia sforzandosi di apparire partecipe. «Nonna, mi prometti che… ehm… non troveremo niente di pericoloso di sopra?» Il sorriso di Felicia Defunta garantì esattamente il contrario e la coscienza di Armonia smise di sussurrare e iniziò a urlarle di tornarsene nella sua stanza a dormire. «Suvvia, mia cara! Se bella vuoi apparire, un po’ devi morire.» «... un po’ devi soffrire…» disse in un lamento Armonia mentre seguiva la vecchia su per le scale. «È la stessa cosa: morire, soffrire! Quale sofferenza è più grande della morte? Sarai bellissima!» disse la nonna scivolando con leggerezza su per la scala, con l’enorme didietro che ancheggiava come se stesse facendo finta di camminare. Davanti alla porta della soffitta Felicia Defunta non si fermò e la oltrepassò reggendosi le gonne con aria pomposa. Dopo qualche istante tornò indietro, un po’ imbarazzata. «Perdonami cara. Dimenticavo che non sei ancora morta.» Armonia accennò un sorriso terrorizzato mentre la sua coscienza la prendeva a parolacce. «La chiave è dietro quell’asse» continuò la vecchia indicando il nascondiglio. Armonia si affrettò a strappare l’oggetto alla comunità di grossi ragni pelosi che sembrava averla presa in custodia. Era spossata come se avesse trascorso l’intera giornata a scavare una fossa abbastanza profonda per il suo funerale e mentre infilava la chiave nella toppa le mani le tremavano: la porta si aprì con un cigolio e una raffica di vento, puzza di polvere e buio la travolse. La pioggia batteva rumorosamente sul tetto e dalle fenditure tra le assi cadeva assieme alla luce cerea e discontinua dei lampi. Nonna Felicia entrò nella soffitta senza pensarci due volte e Armonia la imitò, incespicando prima in una vecchia sedia, poi in una cassa, quindi in una pila pericolante di grossi barattoli che rompendosi rivelarono il grottesco contenuto: lamponi canterini. Ci volle tutta la buona volontà di Armonia per metterli a tacere (schiacciandoli impietosamente sotto le scarpe) e quando ebbe finito, sembrava appena uscita da un barattolo di marmellata. Felicia Defunta la fissò nauseata come se le avessero appena servito una crostata di sterco di arpia. «Mia cara, contegno.»


«Sc… scusa…» disse Armonia. «È in quella cassa, credo» disse nonna Felicia. «Quale?» disse Armonia avanzando e finendo con le ginocchia per terra: era inciampata in qualcosa di gommoso, ma quando si voltò per vedere di cosa si trattasse non c’era più nulla. «Insomma, stai più attenta. Di questo passo passerai a miglior vita prima del ballo» la redarguì il fantasma. «Anche se la morte si addice perfettamente a un ballo di fine anno, il pallore e la trasparenza sono molto chic, se posso darti un consiglio.» Armonia lo ignorò volutamente. Notò che ai suoi piedi c’era però una lanterna. «Luce» disse. La fiamma azzurrina illuminò la soffitta e fu come trovarsi in un quadro particolarmente confuso: non si riusciva a distinguere una sola sagoma che ricordasse qualcosa di vagamente familiare. C’erano poltrone con le zanne da fuori che ringhiavano minacciosamente ed erano state legate al muro come bestie feroci, una gabbia a forma di sfera che non appena si accorse di essere osservata svanì, sedie che sembravano aver subito la collera di una chimera, pile di libri disgustosamente pelosi, grugni di maiale che sbucavano fra ammassi di calzini occhialuti, mobili a forma di bara (o bare vere e proprie, Armonia preferì non indagare), eccetera. «Su, la cassa!» disse impaziente la nonna che non vedeva l’ora di mostrare il suo magnifico abito. Armonia andò verso la cassa e, con prudenza, la aprì: a parte una famigliola di topi evidentemente non felici dell’intrusione, nel baule non c’era che una specie di drappo funebre che aveva visto tempi migliori. Gli occhi, o almeno quelli che erano stati occhi, di Felicia Defunta brillarono. «Magnifico!» disse battendo le mani come una bambina davanti a una piramide di giocattoli. Armonia tirò fuori quel restava dell’abito e lo osservò. «Oh… forse è un po’, come dire... vissuto» ammise Felicia Defunta osservano due enormi buchi nella gonna polverosa. Armonia accennò un sorriso pensando che il verbo “vivere” era quanto di più lontano dall’aspetto dell’abito. «Beh, non importa… in effetti, nonna, è il gioiello che fa la differenza…» «Il gioiello?» «Il ciondolo… è meraviglioso» disse Armonia indicando lo smeraldo triangolare che brillava nella penombra della soffitta. Felicia Defunta sorrise. «Oh, l’Amuleto. Sì. Lo custodisco io, me lo ha dato Milo, all’inizio non volevo tenerlo, troppo sgargiante per una donna della mia estrazione sociale ma... ora trovo si addica spaventosamente al mio... come lo chiamate voi vivi? Look!» Alla parola look riferito a nonna Felicia, Armonia fu colta da tremori. «Ehm, potresti prestarmelo? Solo per questa notte. Vorrei provarlo su qualche abito, per il ballo sai. Farebbe la differenza, sarebbe fantastico…»


Felicia Defunta si mise un dito sulle labbra sottili e soppesò l’idea per un istante. «Suppongo non vi sia nulla di male e lo trovo ragionevole d’altronde. Va bene, ma solo per questa notte, domattina lo rivoglio indietro. Non me ne separo mai, sarebbe un’orribile caduta di stile.» Armonia dovette contenere l’entusiasmo e impedire a se stessa di mettersi a ballare lì davanti alla nonna. Era stato fin troppo facile! Il piano, per quanto assurdo e pieno di falle, era riuscito perfettamente. «Però voglio che lo provi con l’abito. Ora» continuò la nonna con la stessa gentilezza che avrebbe usato per minacciare di morte qualcuno. «Ah» disse Armonia, senza osare ribattere. Dovette indossare l’orribile abito della nonna: ovviamene le stava largo, era polveroso, tarlato e la faceva sembrare una mendicante. Fu contenta che non vi fosse nessun altro lì, oltre alla nonna, a poterla vedere. «Ecco qui» disse nonna Felicia posando la collana per terra. Armonia raccolse l’Amuleto e se lo mise al collo. Era pesante, ma non appena fu sul suo petto la luce verde divenne più vivida. «Ma guarda un po’… devi piacergli» disse Felicia Defunta pensosa. «Beh, andiamo» fece poi all’improvviso. «Domattina lo rivoglio. Puoi chiedere a Stella di sistemarti l’abito, ti sta un po’ largo sul petto, ma per il resto è perfetto.» Armonia si sentì vittima di uno scherzo di cattivo gusto. «Ehm, no, non importa. La collana va più che ben…» E mentre camminava si ritrovò lunga e distesa per terra, con il naso a un centimetro dal pavimento. «Benedettissima ragazza! Sei di una sventatezza imbarazzante!» disse il fantasma fissandola. «Su rialzati, sai bene che non posso aiutarti!» Armonia si tirò su ridacchiando stupidamente e stringendo fra le dita il ciondolo. «Ehm, sì; in effett…» si bloccò inorridita. «N…nonna! Cos’è questa puzza?» Felicia Defunta trasalì. «Perché lo chiedi a me? Non oserai credere che sia stata io!» Armonia sentì che c’era qualcosa di pesante attaccato alla sua gamba destra, pesante e gommoso. Guardò verso il basso e un attimo dopo spalancò la bocca per urlare con quanto fiato aveva in gola, ma evidentemente di fiato in gola non ne aveva neanche un po’, perché la voce le si strozzò ed emise solo un flebile lamento. Attorcigliato alla sua gamba c’era una specie di grasso lombrico rosa e peloso, con minuscole zampe e lunghissime orecchie flosce. «Per le tombe scoperchiate dei miei avi!» urlò la vecchia con gli occhi ancora più incavati, la bocca distorta in un urlo di puro terrore e la parrucca mezza caduta. «No! No! No! Fuori di qui! Presto!» Armonia cercò di scrollarsi di dosso la cosa, ma quella la stringeva e continuava a emettere strani squittii, come risatine di piacere, mentre si strusciava


con il grosso testone contro il ginocchio di Armonia. «Ma che diavolo è?» gridò Armonia. «Un’orribile bestia! La peggiore! Un’orribile bestia! Sei segnata! Sei segnata!» La nonna, impazzita, svanì. «Oh no!» esclamò Armonia. «Lasciami! No!» Il lombrico sollevò la testa delle dimensioni di un pallone da calcio e due enormi occhi rotondi, azzurri e luccicanti la fissarono. Il sorriso a falce si aprì su un volto che non era né umano né animalesco, ma un incrocio fra tutte le creature del mondo. La cosa le schioccò un bacio sul ginocchio. Armonia allora, trattenendo i conati di vomito, gli assestò un pugno sulla testa. L’animale, o qualsiasi cosa fosse, rimase un attimo immobile con il sorriso stampato sul muso, poi si portò le zampe sulla testa, liberò dalla presa la gamba di Armonia e si afflosciò per terra, piangendo. Armonia ne approfittò per alzarsi e correre via, senza voltarsi.


CAPITOLO VI - LA BIBLIOTECA Ansimando, Armonia si richiuse rapidamente la porta alle spalle: Martino russava in un angolo e Sara si divertiva a posare un origami a forma di cigno sul suo naso. «Oh no, è orribile!» gridò Lucrezia. Armonia lanciò uno sguardo alle sue spalle, assumendo una posizione da karateka. «È orribile!» gridò ancora Lucrezia fissandola stralunata. «Cosa? Di che parli? Mi ha seguito?» gridò a sua volta Armonia, andando con lo sguardo dalla porta a Lucrezia e viceversa. «Il vestito: è orribile! Quello spettro ti ha torturata per costringerti a indossarlo?» «VUOI SMETTERLA UNA BUONA VOLTA DI DIRE IDIOZIE?» le urlò per tutta risposta Armonia. In quel momento l’origami di Sara finì per sbaglio nella bocca spalancata di Martino che si svegliò tossendo. «Muoviamoci, dobbiamo entrare in biblioteca prima che smetta di piovere» tagliò corto Armonia. La seguirono in corridoio: dopo pochi minuti erano davanti alla porta della biblioteca. Armonia accarezzò con una mano il quadrato dorato che era la serratura, quindi si tolse il ciondolo dal collo e ve lo appoggiò sopra, in modo da riempirne una metà. Lo smeraldo si illuminò appena, poi si udì un rumore di chiavi che giravano nella serratura. «Funziona!» esclamò eccitata Lucrezia. Con lentezza esasperante, la porta si aprì lasciando passare uno spiffero freddo come la morte. Armonia si sentiva come se stesse giocando a moscacieca sul ciglio di un burrone. «Ehm, io ho paura…» iniziò Martino con un pigolio. «Che novità!» esclamò istericamente Lucrezia, battendo i denti per il terrore. «È come se fossimo circondati dalle anime dei trapassati…» mormorò enfaticamente Sara. Armonia la fissò e un brivido percorse la sua schiena. «È una bella frase a effetto, vero?» continuò Sara, scoppiando in un’allegra risata. Eppure il suo tono era stato più che serio. «Sarà meglio sbrigarci» concluse Armonia. «E se Evan ci sta mettendo in pericolo…» «…sicuramente moriremo…» singhiozzò Martino stringendosi fra Sara e Lucrezia. «Uccellaccio del malaugurio!» strillò Lucrezia. «Sveglieremo Milo se non la smettete subito, idioti!» sibilò Armonia minac-


ciando tutti con un pugno. Dopodiché si affrettò a recuperare il ciondolo della nonna e a rimetterlo al collo, nascondendolo sotto l’abito. Spalancò la porta. «Eh?» fecero in coro tutti, sopra la sua spalla. Gli scatoloni erano scomparsi ma davanti ai loro occhi c’era uno stanzino angusto e innegabilmente vuoto. «Ci deve essere una spiegazione» balbettò Armonia. «Sì che c’è: sei stata turbinata!» disse sprezzante Lucrezia, incrociando le braccia e scuotendo la lunga chioma bionda. «Turlupinata» rispose sovrappensiero Armonia continuando a fissare lo stanzino e ricevendo in cambio una tirata di capelli da parte di Lucrezia. «Devi smetterla di correggermi. C’est tres… tres… jolie» continuò Lucrezia nauseata. «Tre jolie non significa molto bello?» chiese innocentemente Martino. Lucrezia, che in quel momento era evidentemente suscettibile, gli diede uno spintone. Quando Martino, roteando le braccia, varcò la soglia del ripostiglio fu come se avesse attraversato uno specchio d’acqua: la superficie tremò e quando fu di nuovo liscia e immobile, del ragazzo si era persa ogni traccia. «Ma sì! Magia!» gridò Armonia al colmo della gioia, per nulla impensierita dalla scomparsa dell’amico. «Martino sei morto?» sussurrò Sara alla porta. «Sono vivo» balbettò una voce dall’altra parte. «È incredibile, è pieno di…» L’urlo di dolore di Martino ebbe l’effetto si risvegliare ogni cellula di Armonia: si lanciò nello stanzino. Fu come tuffarsi in un lago di acqua ghiacciata: per un istante le sembrò che ci fosse qualcosa lì con lei, a trattenerla, come centinaia di mani che cercavano di tirarla dai piedi per non lasciarla passare. Intorno non c’era nulla, solo freddo e angoscia. Qualcosa le bisbigliò gentilmente di non andare, poi fu dall’altra parte. La biblioteca era esattamente come la ricordava: altissimi scaffali si ergevano verso la volta ad arco, su un pavimento sconnesso e disseminato di rampicanti e ciuffi d’erba, come se la Natura, nascosta da qualche parte, stesse provando da tempo a entrare. Da un’enorme finestra pioveva la luce pallida della luna e al di sotto, posizionata su un basamento a tre gradini, c’era una statua in marmo raffigurante un uomo molto somigliante a Milo, forse un antenato. Indossava un elegante paltò, in una mano aveva una tuba e nell’altra un bastone da passeggio. La sua espressione era signorile ma amichevole quanto quella di un vampiro. Ai piedi della statua c’era Martino, sconvolto e tremante. Sara e Lucrezia sbucarono dalla porta alle spalle di Armonia e diedero in esclamazioni di meraviglia, mentre Armonia raggiungeva l’amico. «Martino! Stai bene?» disse prendendolo dalle spalle. «N…no…» balbettò Martino indicando la statua come se fosse un’apparizione malefica. Strano, pensò Armonia posando nuovamente gli occhi sulla scultura, mi sembrava che fosse in un’altra posizione quando sono entrata. Prima era in piedi,


con la mano destra appoggiata al bastone e il cappello nella sinistra. Ora invece il cappello era in testa e il bastone nella sinistra. «Ma che razza di... » «Finalmente!» gridò la scultura alzando il braccio libero in un saluto. Il gruppetto di amici arretrò con un balzo, trattenendo un urlo di terrore. «Sono io! Evan!» esclamò ancora la statua. «Evan?» balbettò Armonia aggrottando le sopracciglia. «EVAN!» gridò Lucrezia balzando in avanti e tuffandosi sulla statua senza capire più nulla. Si sentì un tonfo e un colpo di tosse e per un istante la statua tornò nella posizione iniziale, come se avesse perso ogni vitalità. Seguì un attimo di silenzio in cui Lucrezia si guardò intorno con aria interrogativa. «Era un’illusione?» gemette. «No, s… sono qui» balbettò la statua, tornando a muoversi. «Ehm, ecco... » Armonia ebbe l’impressione che la statua fosse arrossita. «È Evan, abbiamo le prove» disse acidamente. «Come sei diventato alto ed elegante!» disse Sara con un sorriso. «Sara, questo non è Evan, è una statua. Evan è intrappolato dentro… dobbiamo liberarlo» sentenziò Lucrezia agitando un dito sulla faccia di Sara come se stesse parlando con una ragazzina delle elementari. «No. Questo credo sia... il Rivelatore... quello attraverso cui Milo e Stella parlavano con Arkanus... » disse Armonia avvicinandosi. «Già» replicò Evan. Lucrezia fece una smorfia, dolente di non averlo capito lei per prima. «Certo che quel messaggio del triangolo e del quadrato, che idiozia» disse Armonia. «Ah certo, dovevo scrivere: entra nella biblioteca di Villa Vento dove troverai il Rivelatore. Ma sei scema? Nessuno deve sapere che qui c’è un Rivelatore funzionante, Re Deneb li ha messi al bando, i miei messaggi potevano essere intercettati» spiegò Evan. «Certo. A scopo precausionale, vero caro?» annuì Lucrezia, indirizzando dolci occhiate alla statua dell’avo di Milo. «S… sì» balbettò la statua e sul volto di marmo si dipinse l’espressione più imbarazzata del mondo. «Precauzionale cioè» disse Armonia disgustata da quella scenetta. «E comunque non capisco… un Rivelatore è come una porta?» «Sì» disse Evan. «Una specie, non una porta vera e propria, dal Rivelatore si può passare solo con la magia, è un catalizzatore: amplifica i poteri.» «Uhm… cioè ad esempio, ora Armonia potrebbe passare dall’altra parte, ma noi no?» chiese Sara. «Beh potete passare, ma soltanto con l’aiuto della magia di Armonia.» «E tu non potresti passare qui da noi? Sai tra un po’ ci sarebbe il ballo e io…» Lucrezia arrossì di colpo. «Non posso venire lì, questo è il punto. Sono prigioniero» disse Evan igno-


rando completamente la richiesta di Lucrezia. Le sue parole risuonarono nella biblioteca cariche di frustrazione. «Prigioniero?» esclamò Armonia. «Per questo vi ho chiesto di venire qui: dovete aiutarmi.» Era la prima volta che Evan chiedeva aiuto e la cosa destava preoccupazione. «Ma come possiamo fare noi? Chi ti tiene prigioniero?» disse ancora Armonia. Un istante di silenzio. «Arkanus.» «EH???» fecero in coro tutti. «Vi spiegherò, ma dovete fare presto, la pioggia non durerà ancora molto…» «Ma che c’entra la pioggia?» gridò Martino terrorizzato. «La pioggia è uno schermo. Quando si usa un Rivelatore, gli esseri magici che sono vicini lo sentono, la pioggia cancella le tracce invece…» «Ecco perché sentivo l’odore della pipa di Arkanus quando lui e Milo parlavano tramite il Rivelatore!» disse Armonia. «Sì» disse ancora Evan. «Ed è questo il motivo per cui Re Deneb li ha banditi. I Rivelatori attirano la magia, non è saggio usarli quando intorno ci può essere qualcosa di magico, soprattutto se cattivo. Comunque dovremmo essere al sicuro, Villa Vento è protetta e Milo dorme e non può sentirci, dal momento che piove. Quindi spicciatevi.» «Ma che dovremmo fare, Evan-caro?» chiese Lucrezia. «Beh, prima di tutto tornare a Flavoria.» Tornare a Flavoria. Sì, esultò mentalmente Armonia. Era come se le avessero chiesto di fare un tuffo in una piscina colma di cioccolata! La cosa che desiderava di più era quella di fare ritorno nella sua terra. Ma subito dopo sentì una specie di fitta nello stomaco: Milo le aveva detto che doveva stare lontana dalla magia, per il momento. Ed era la stessa cosa che le avevano ripetuto Arkanus e Altair. Ed erano le tre persone di cui si fidava di più al mondo. Nonostante tutto, però, Evan era in pericolo davvero e non potevano lasciarlo a se stesso. «Come… come faccio a tornare a Flavoria?» chiese. La statua storse il naso. «Credevo lo sapessi.» Armonia strinse le labbra. Seguì un silenzio sufficientemente lungo a farle perdere del tutto la pazienza. «No, Evan» disse. «No. Non so se ti ricordi, ma mi hanno cancellato la memoria. Credevo si fosse capito visto che lo ripeto da un anno!» «Per tutti i... Altair non te l’ha restituita?» replicò Evan stizzito. «Sì, ma i ricordi tornano quando fa comodo a loro!» rispose Armonia, facendo un notevole sforzo per non esplodere. «Prova a baciare la statua» suggerì Sara. Lucrezia impallidì. «B… baciare la statua?» Armonia si coprì il volto con le mani. «Sara! Per i folletti! Perché diavolo vuoi farmi baciare sempre qualcosa o qualcuno?»


«Mi ricordavo che il signor Panaver quella volta ti aveva chiesto di baciarlo per oltrepassare la porta.» «Quella… quella era una cosa diversa…» balbettò. «Bacia la statua.» La voce di Lucrezia era fredda come ghiaccio. «Cosa?» disse Armonia. Lucrezia la guardò con occhi colmi di odio. «Baciala. È il modo per passare.» «Ma che diavolo ne sai tu?» esclamò Armonia. «È scritto lì» fece Lucrezia indicando l’iscrizione sul basamento. C’era scritto: È piccolo se tu lo aumenti ma grande gioia dà Se lo rimpicciolisci invece grandissimo sarà Avanti coraggioso Dov’è che il fiume muore? Rispondi alla domanda e avrai la soluzione «Ma non significa niente!» esclamò Martino confuso. «Beh… Martino ha ragione stavolta» fece Armonia dubbiosa. Lucrezia sorrise sprezzante. «Si parte dal basso, la prima cosa da fare è rispondere alla domanda. Dov’è che il fiume muore? Può essere il mare, ma il mare se lo rimpicciolisci non diventa grande e se lo aumenti non diventa piccolo. Potrebbe allora essere un lago… un lago si può definire anche bacino, no?» Sara batté le mani eccitata. Sia Armonia sia Martino fissarono le due senza capire. «È un falso diminutivo» spiegò Lucrezia. «Una specie di indovinello. Bacino non è solo un sinonimo di lago, è anche il falso diminutivo di…» «Bacio!» esclamò Sara. «Esatto: il bacino è un diminutivo, ma una cosa grande se pensiamo a un lago. Il bacio è invece una cosa piccola ma grande gioia dà…» concluse Lucrezia guardando tristemente la statua e poi Armonia. Era chiaro che l’idea di vederla baciare la statua nella quale si trovava Evan non le era del tutto gradita. «Io vorrei tanto sapere chi se le inventa queste baggianate…» fece sdegnoso Martino, che ancora non ci aveva capito niente. «Va bene allora… ehm, devo baciare la statua» disse Armonia. Ma perché mi trovo sempre in queste situazioni? pensò contrariata. Salì sul piedistallo e allora la statua si mosse, porgendole la mano. «E poi cosa succederà?» chiese Armonia.


«Restate tutti vicini ad Armonia. E tu pensa a qualcosa che possa attrarti a Flavoria, sarete risucchiati dal Rivelatore e arriverete qui» spiegò Evan impaziente. «Sì ma… dove sei precisamente? Come ti troviamo?» «Non preoccuparti, sarete attirati nelle mie vicinanze! Vi troverò io! Tu pensa a qualcosa, io poi creerò un contatto mentale con te!» esclamò Evan. «Senti Evan, tutta questa storia è strana… non è che sei un impostore?» chiese Armonia oppressa da un improvviso sospetto. Silenzio. «Ovvio. Sei troppo intelligente per me, mi hai scoperto. Ora scusami ma credo che chiederò aiuto a una creatura meno idiota! MAGARI A UN MONOCOLO!» «È proprio Evan» disse Sara, battendo con fare comprensivo una mano sulla spalla di Armonia. «E va bene!» esclamò rabbiosamente Armonia e si chinò a baciare la mano di marmo della statua. Per un istante regnò solo il silenzio, come succede sempre prima di qualcosa di terribile. Poi accadde l’irreparabile.


CAPITOLO VII - PRIGIONIERI Tac. Tac. Tac. Una goccia d’acqua picchiava ritmicamente su una superficie dura. Tac. Tac. Tac. Armonia aprì gli occhi. Cos’era quella puzza insopportabile? «Ragazzi?» Lucrezia, Sara e Martino erano in piedi attorno a lei e la fissavano preoccupati. «Stai bene? Hai battuto la testa, credo…» disse Sara. Armonia si rimise in piedi: non sentiva dolore, era solo un po’ frastornata, come se avesse dato fondo a tutte le sue energie; evidentemente era così che ci si sentiva dopo aver portato altre tre persone attraverso un Rivelatore. E poi c’era quella puzza insopportabile. «Dove siamo?» singhiozzò Martino. Non erano più nella biblioteca di Villa Vento, ma in una specie di sgabuzzino buio, con l’umidità che gocciolava lungo le pareti. Tac. Tac. Tac. Una goccia d’acqua cadeva ritmicamente su una mattonella sbreccata e da un’alta finestra chiusa da una grata entrava una lingua di luce tremante e pallida. Era notte. «Siamo a Flavoria?» mormorò Lucrezia guardandosi attorno. «Dov’è Evan?» Sara indicò una porta in ferro munita di una porticina in basso che in tutti i libri d’avventura per ragazzi serviva per il passaggio del rancio. «Sembra una prigione» sentenziò. Il rumore assordante di grosse chiavi che giravano nella serratura interruppe le loro congetture e quando la porta si spalancò fu come se la stanza fosse stata di colpo riempita da una strana, sconosciuta forza. Davanti a loro c’erano tre uomini, il primo era un ragazzo calvo vestito di bianco, che poteva avere al massimo sedici anni. Non appena fu dentro, si portò una mano sulla bocca e spalancò gli occhi in direzione di coloro che lo seguivano. Gli altri due uomini indossavano una tonaca nera ed entrambi avevano al collo un medaglione con incisa una fiamma. Uno doveva avere circa quarant’anni, aveva lunghi capelli neri e un volto aquilino incorniciato da una corta barba dello stesso colore. L’altro era vecchissimo: lunghe trecce grigie gli arrivavano alle caviglie ed erano legate in una specie di grossa coda. Sul petto, assieme al medaglione, splendeva una mezzaluna in ferro battuto, che sembrava risucchiare la poca luce presente nella cella. Ma la cosa più terrificante era il suo volto: la parte sinistra del viso era completamente ustionata e il bulbo oculare era vuoto,


come se l’occhio fosse stato divorato dalle fiamme. «Sono dei fanciulli, padre Goran» disse l’uomo dai capelli neri, con una sorta di sollievo nella voce, rivolgendosi al più vecchio. «Lo vedo, Molnar» replicò l’anziano corrugando la fronte. «A giudicare dagli abiti vengono da Fuori.» «Ehm, signore, temo ci sia un errore…» provò Armonia, rivolgendosi con tutta la devozione possibile a quello che si chiamava padre Goran. L’uomo dai capelli neri le rivolse uno sguardo assassino. «Questo è certo, ragazzina» si avvicinò di un passo e la osservò meglio. «Avanti, parlate. Cosa volete?» «Noi stiamo cercando E…» Armonia pestò un piede a Lucrezia per impedirle di continuare. La ragazza si portò una mano sulla bocca e tacque all’istante. «Non so, siamo confusi, all’improvviso ci siamo ritrovati qui e non sappiamo dove siamo» s’affrettò a precisare Armonia. Se c’era una cosa che aveva imparato nella sua lunga carriera di attira-guai, era che bisognava sempre e comunque fingersi inconsapevoli, magari anche un po’ scemi. I due uomini si guardarono significativamente. «Vuole che li conduca nella Stanza delle Torture, padre Goran?» intervenne il ragazzo calvo con un sorriso cattivo. Armonia lo fissò con odio. «Stanza delle Torture, mio giovane discepolo? No. Noi non pratichiamo più la tortura, dovresti saperlo. Devo fare in modo da ricordartelo?» Il ragazzo deglutì, scuotendo pianto la testa. «Sono certo che i nostri giovani amici si confideranno con noi molto presto.» Nella voce di padre Goran c’era qualcosa di estremamente inquietante. Il vecchio la fissò per un lungo istante, durante il quale Armonia ebbe la sensazione di essere nuda, poi si voltò e lasciò la prigione, sparendo oltre la porta. Nella stanza rimasero il ragazzo e l’uomo dai capelli neri, Molnar. «Sentite, noi non sappiamo nulla. Siamo qui per caso, ve l’ho detto. Vorremmo solo tornare a casa.» Molnar avanzò nella stanza, istintivamente i ragazzi si ritrassero intimoriti. Solo Armonia rimase caparbiamente ferma sul posto. L’uomo si piazzò davanti a lei, le mani sui fianchi, lo sguardo sottile acceso da una strana luce. «Nessuno arriva per caso nelle prigioni di Lungaroccia. Potenti incantesimi proteggono la nostra scuola da chi prova a entrare senza permesso. Quando ci spiegherete perché siete qui, allora potremo considerare la possibilità di liberarvi, altrimenti preparatevi a trascorrere una lunga e noiosissima esistenza fra queste pareti.» E ciò detto, con il ragazzo che sghignazzava malignamente, anche Molnar lasciò la cella. «Maledetto!» sibilò Armonia, pensando a Evan che li aveva cacciati in quel disastro. «Quindi siamo… prigionieri?» gemette Martino. «Tu che dici?» fece sprezzante Armonia.


«Dobbiamo muoverci» disse Lucrezia. «Evan potrebbe essere in pericolo…» «Non so se l’hai notato, ma siamo noi quelli in pericolo» disse acidamente Armonia. «E per colpa di Evan.» «Di sicuro avrai sbagliato qualcosa mentre baciavi la statua» sentenziò Lucrezia, sollevando un sopracciglio. Armonia avrebbe voluto controbattere, ma non era del tutto sicura che la ragazza avesse torto: quando erano passati, aveva pensato intensamente a Evan, come il ragazzo le aveva detto di fare, ma allo stesso tempo aveva sentito nuovamente quella voce che le diceva piano all’orecchio di non andare. Era una voce di donna, dal timbro leggero, che non ricordava di aver mai udito prima e per liberarsene aveva pensato ancora più intensamente a Evan. Quando la voce si era zittita, aveva sentito come uno strappo. Forse era stato quello lo sbaglio. «Oh» fece Sara inginocchiata in un angolo della cella. «Ciao. Come ti chiami piccolino?» Un secondo dopo una puzza insopportabile si diffuse fra le quattro pareti della prigione e un orribile squittio, simile a una risata, giunse alle orecchie di Armonia. «Oh… no…» Sara ritornò al centro della cella stringendo fra le braccia un peloso e grosso lombrico con le zampette vorticanti e un testone dalle lunghe orecchie flosce. È « lui! Il mostro! Ci ha seguiti!» strillò Armonia arretrando fino alla parete, seguita nel suo balzo da Lucrezia e da Martino. Ricordava di aver lasciato la porta della soffitta aperta: sicuramente l’animale li aveva seguiti fino alla biblioteca ed era stato risucchiato con loro dal Rivelatore. Sara li fissò come se fossero pazzi. «Guardate che carino…» Lo solleticò sul mento e sul volto dell’essere si allargò un sorriso a mezzaluna mentre gli enormi occhi azzurri e acquosi diventavano più brillanti. Contemporaneamente una puzza di bagni pubblici riempì la cella. «Sto… per… vomitare…» disse Lucrezia, appiattita contro il muro tanto da sembrare un affresco. «Sara… Sara, posalo… è una bestia pericolosa» balbettò Armonia, pallida come se avesse mandato giù un sorso di veleno. «Ma no, guarda che espressione tenera. Mi ricorda il Fuoco Fatuo» fece Sara, che era attratta dagli esseri più inconsueti di Flavoria. Non appena gli occhioni del lombrico si posarono su Armonia, l’animale emise uno squittio di felicità e le zampette presero a vorticare ancora più velocemente tanto che Sara dovette posarlo per terra. In un secondo l’essere fu ai piedi di Armonia, ritto su parte delle zampe inferiori e con un’espressione di adorazione sul viso. Armonia si nascose dietro Martino, Martino inciampò su Lucrezia, Lucrezia ebbe un principio di mancamento e si aggrappò alla parete come se avesse intenzione di scalarla fino al soffitto. «SARA! RICHIAMA IMMEDIATAMENTE QUESTO ORRORE!» urlò piangendo.


«Da bravo, cucciolo, vieni dalla mamma, su» fece Sara con tutta la dolcezza di cui era capace, ma l’essere puntava ancora su Armonia e la sua bocca aveva assunto una strana posa a forma di bacio. «VATTENE O TI AMMAZZO!» urlò Armonia cercando di dargli un calcio. L’essere s’irrigidì, cadendo all’indietro come stecchito. Sara accorse e lo prese fra le braccia. Aveva ancora quell’orribile sorriso a mezzaluna sul viso. «Smettila!» la rimproverò Sara. «Ti ricordo che sono un membro attivo del club degli animali e se continui così verrò a scrivere sulla porta di Villa Vento che dentro ci abita gente cattiva.» «Lo pensano già tutti» disse Martino con il naso tappato. L’essere piagnucolava fra le braccia di Sara. Allora, dove diavolo sei? Armonia sobbalzò: una voce si era improvvisamente insinuata nella sua testa ed era una voce conosciuta. «Eh?» fece Armonia guardandosi intorno. I suoi amici non badarono a lei, ancora assorbiti dalla presenza del mostro. Mi senti? Sono io! Sento la tua presenza. Vuoi rispondermi, scema? Non c’erano dubbi sul fatto che fosse Evan. «Lo sentite?» esclamò Armonia. Lucrezia era impegnata a piangere singhiozzando, Martino correva in circolo tastando le pareti alla ricerca di una fuga, il mostro-lombrico squittiva ridendo per il solletico e Sara non prestava la minima attenzione ai suoi amici. Senti, non so che diavolo stai combinando, ma se mi senti, ti prego di rispondere. Inizio a preoccuparmi. «Come diavolo ti rispondo, imbecille?» disse Armonia perdendo la pazienza. «Dai sempre tutto per scontato. Sei un cretino.» «Armonia è impazzita! Toccherà a noi, ora! UCCIDI QUEL MOSTRO SARA! UCCIDILO!» gridò Lucrezia istericamente. Martino brandì una grossa mattonella, divelta chissà da dove, e la agitò contro il lombrico. «S… se non lo ammazzi tu… l… lo ammazzerò io…» Il lombrico gli sorrise e Martino per la sorpresa si lasciò cadere la pietra sul piede. Urla di dolore riempirono la cella. «STATE ZITTI, TUTTI!» gridò Armonia. «Evan! Mi senti? Dove sei?» «Evan è qui? Dov’è? Non lo vedo! Evan-amore, vieni a salvarci!» gridò Lucrezia prendendo dalle spalle Armonia e scuotendola come se Evan fosse nascosto nelle sue tasche. Con la consueta minaccia di morte, Armonia ottenne immediatamente di essere lasciata in pace. Armonia per favore… dimmi dove sei... e dimmi che state tutti bene, maledizione. La voce di Evan ora era tremante e piena di paura. Ma non so come fare, stupido, piagnucolò tra sé e sé Armonia. Ehi! esclamò la voce di Evan nella sua testa. Evan? pensò Armonia. Sì, sono io! Che tu sia maledetta! Mi hai fatto prendere un colpo! Allora dove siete? Vi spiego come arrivare qui e liberarmi! fece precipitosamente il ra-


gazzo. Ehm… Evan… vuoi spiegarmi come faccio a sentirti… Siamo in contatto telepatico. Devo essere veloce, non durerà molto… sono prigioniero a Lungaroccia, la scuola di maghi e… Evan? Lo interruppe Armonia. Sì? Anche noi siamo prigionieri a Lungaroccia. Scherzi… balbettò Evan. Armonia notò che gli altri, perfino l’essere mostruoso e puzzolente, la fissavano straniti. «Sono in contatto telepatico con Evan» spiegò con un mezzo sorriso, indicandosi la fronte. I visi dei presenti non mutarono di una virgola. Non scherzo, il Rivelatore ci ha portato direttamente da te e gli incantesimi di protezione della scuola ci hanno fatto finire nelle prigioni. Tu dove ti trovi? Ma… MA COME DIAVOL... era così facile! Dovevi solo pensare a una cosa qualsiasi di Flavoria! Al melsucco, al Fuoco Folletto, a una chimera! A una dannata cosa qualsiasi! Il contatto l’ho creato io, il Rivelatore vi avrebbe portato qui intorno ma a distanza di sicurezza! Che diavolo è andato storto? Perché diavolo con te va sempre tutto storto? Evan calmati, le tue urla sono molto più forti nella mia testa, disse Armonia massaggiandosi le tempie. Perché non mi ascolti mai, eh? Ti avevo detto di pensare a una cosa che poteva attrarti a Flavoria! Sì , idiota, e io infatti ho pensato a te... S’interruppe, ma era troppo tardi. Per un istante regnò un silenzio imbarazzato, tanto che Armonia pensò che il contatto telepatico si fosse interrotto. O se lo augurò. Già, Evan le aveva detto di pensare a una cosa che poteva attrarla a Flavoria e lei istintivamente aveva deciso che quella cosa doveva essere Evan. E lo aveva anche usato per superare la voce che voleva fermarla. Non aveva minimamente pensato che bastava pensare a qualsiasi cosa di Flavoria. Poco dopo la voce di Evan ricominciò a parlare. Era più bassa e aveva uno strano tremolio. Per la prima volta Armonia capì l’espressione “voler sprofondare mille metri sotto terra”. Va bene, non fa niente, sistemerò tutto. Io… io mi trovo… in cima alla Torre, nel dormitorio. Credo di non poter uscire per il momento… dovrò… aspettare l’alba, quando iniziano le lezioni. Tu puoi uscire? chiese Armonia. Certo, ovviamente… Ma eri prigioniero! Ed è così. Arkanus mi ha lanciato un incantesimo: non posso uscire dalla scuola, ogni volta che ci provo, perdo la strada. Per questo ho chiamato te! E io come potrei liberarti da un incantesimo di Arkanus? disse Armonia affranta. Ti avrei fatta entrare nella scuola, poi sarebbe bastato trovare l’uscita e portarmi con te. Da solo non posso, ma ora siete in prigione e… per tutte le chi-


mere! Siete davvero dei buoni a nulla! Non c’è bisogno di insultarci, sei un idiota se hai pensato che potevamo entrare a Lungaroccia senza tanti complimenti… fece Armonia. Pensavo sapessi usare un Rivelatore! Se tutto fosse andato come pensavo, sareste finiti qui intorno e poi vi avrei spiegato come introdurvi qui senza dare nell’occhio. Ah grazie tante. Per fortuna non siamo finiti nelle fauci di una chimera. «Hai mal di pancia? Hai bisogno di andare in bagno?» disse Sara stringendo ancora fra le braccia l’essere. Il lombrico squittì di gioia ed emise un sonoro peto. Armonia lo fissò disgustata. Senti qui è l’inferno, dobbiamo uscire. Devi venire a liberarci. Escogita qualcosa e fai presto, siamo nelle grinfie di un essere demoniaco che ci perseguita disse. Sentì Evan sbuffare, incurante delle drammatiche parole. E va bene, disse. E la conversazione si spense. «So che sembra strano ma... ho parlato con Evan, si trova qui» spiegò Armonia. «Dobbiamo aspettare che… ehm… ci venga a liberare.» Lucrezia sussultò. «Ma non era in pericolo?» Armonia scosse la testa. «Quelli in pericolo siamo noi, adesso.»


CAPITOLO VIII - FUGA Il primo sole entrava dalla finestra, disegnando rettangoli di luce polverosa sul pavimento di pietra. Faceva freddo e Armonia era l’unica a non essere riuscita a chiudere occhio quella notte, un po’ per via dei continui rumori provenienti dall’essere puzzolente (che aveva frignato fino a quando Armonia non gli aveva augurato la buonanotte), un po’ perché sperava nell’arrivo di Evan da un istante all’altro e voleva essere pronta a fuggire. Ora capiva perché Milo le aveva impedito di entrare nella biblioteca e perché l’insegna di Villa Vento l’aveva messa in guardia e anche perché quella voce nel Rivelatore le aveva detto di tornare indietro: sapevano tutti che stava per cacciarsi in un mare di guai. A quest’ora Milo e Stella si erano accorti della sua assenza? Sicuramente sì, del resto aveva giurato alla nonna che le avrebbe restituito il ciondolo quella mattina, mentre lo aveva ancora al collo. Immaginava già la vecchia che andava a lamentarsi con Milo: a quel punto avrebbero capito che l’aveva rubato. Si portò una mano al collo e tirò fuori il ciondolo per osservarlo meglio: la pietra era un triangolo perfetto, ma con tre lati arrotondati e appiattiti e uno spigoloso, come se fosse stato tagliato via di netto. Emetteva uno strano bagliore e per un istante Armonia si ritrovò a sorridere, in pace. Il rumore della porta della cella che si apriva la riportò alla realtà: si affrettò a nascondere lo smeraldo sotto l’abito e si alzò in piedi, pronta al peggio. Con un grugnito spaventato l’essere-lombrico si andò a nascondere in un angolo, e in un momento svanì, confondendosi con l’ombra. Lucrezia, Sara e Martino si svegliarono di soprassalto. «Buongiorno, amici» era il giovane calvo di qualche ora prima, quello che li aveva guardati malignamente per tutto il tempo. Aveva in mano un sacco di medie dimensioni che gettò con malagrazia ai piedi di Armonia. «Dormito bene?» Sorrideva minaccioso. Martino s’inginocchiò per terra, per raccogliere il sacchetto: non aveva fatto altro che lamentarsi per la fame finché non si era addormentato e la prospettiva di mettere qualcosa nello stomaco doveva essergli sembrata magnifica. Dal sacco uscirono fuori quattro minuscoli pani duri, neri come carbone, che anche nel Bar della Vecchia Pazza avrebbero fatto una pessima figura. Nonostante la fame, Martino li lasciò cadere sul pavimento, disgustato. «La colazione. Preparata con le mie mani» rise ancora il ragazzo calvo mostrando i palmi aperti. Rimase un attimo a fissarli, sorridente, poi fece un passo e s’inginocchiò davanti a Martino. Con l’indice gli sfiorò la fronte e un rametto con una minuscola foglia sbucò fra gli occhi del ragazzo. Martino urlò in preda all’orrore.


«Fallo tornare subito com’era prima!» urlò Armonia, piena di rabbia e paura. Il ragazzo la fissò sollevando un sopracciglio, poi si alzò e andò verso di lei. «Venite, fratelli!» chiamò. Altri due ragazzi comparvero alle sue spalle. Erano entrambi calvi ed entrambi indossavano la stessa tonaca bianca del primo. Uno era alto e grosso, l’altro mingherlino e leggermente curvo, con un paio di dentoni. «Vengono da Fuori» disse il calvo, che sembrava il più giovane dei tre. «Neanche un grammo di magia. Sfigati.» «Per i folletti, è così che si vestono Fuori?» rise quello grosso indicando Armonia. «Non avevo idea che ci fosse in giro gente così patetica.» Solo in quel momento Armonia realizzò che indossava ancora l’abito di nonna Felicia. Era stata talmente presa da tutto, che aveva completamente dimenticato di cambiarsi. Nonostante il disagio, però, il problema dell’abito era decisamente secondario. «Beh gli altri non sono vestiti meglio» disse il terzo, quello con i dentoni, guardando Sara che portava abitualmente e senza alcuna vergogna vestiti di foggia ancora più antica di quelli di nonna Felicia. «E sembrano anche poco intelligenti» aggiunse esaminando l’espressione trasognata di Sara. «S… sentite, noi non vogliamo fare a botte» fece Armonia, non trovando nulla di meglio da dire. Se quei tre erano davvero dei maghi, loro non avrebbero avuto alcuna possibilità di batterli. «Fare a botte?» ripeté il primo. «Ovviamente neanche noi, vero, Thor? Ma dobbiamo esercitarci con la magia, ogni tanto.» Thor, quello grosso, avanzò di un passo guardandosi intorno con sospetto. «Dici che padre Goran e maestro Molnar non se ne accorgeranno, Fiub?» chiese. «Le prigioni sono schermate dalla magia, lo sai. Quello che succede qui dentro resta qui dentro. Ci divertiamo un po’ e poi rimettiamo tutto a posto. Ho imparato una nuova tortura…» disse Fiub, il calvo. Lucrezia gemette e così Martino, che ancora tentava di strapparsi il rametto dalla fronte con poco successo. «Non potete!» esclamò Armonia, cercando disperatamente di prendere tempo. Cavoli, Evan, pensò. Quanto tempo ci metti? «Ah, no?» disse Fiub voltandosi verso di lei. Alzò una mano e un raggio di luce schioccò dalle sue dita. Armonia sentì lo stomaco contrarsi, mentre il fascio di luce l’investiva. Si sentì sollevare da terra, fece un volto e picchiò con la schiena contro la parete, sentendo un poco rassicurante rumore di ossa. Il dolore esplose, insinuandosi in ogni angolo del suo corpo. «ARMONIA!» urlarono in coro Sara, Martino e Lucrezia. Ansimando, si rimise in piedi. Le faceva male la schiena e nelle orecchie aveva un suono stridulo. Davanti ai suoi occhi i volti di amici e nemici erano sfocati e tremolanti. Sentì una fitta bruciante al gomito e qualcosa di caldo e vischioso le scivolò sull’avambraccio. Sangue, pensò. Sono ferita. Stranamente, però, si sentiva più forte. Qualcosa


si era acceso in lei. «Smettetela… subito…» mormorò, a testa bassa. Sentiva che stava per perdere il controllo, che i suoi occhi stavano cambiando colore, ma non voleva che gli altri lo scoprissero. L’apprendista mago con i dentoni si avvicinò a Martino, alzò una mano e le gambe del ragazzo si afflosciarono come burro. Poi lo afferrò dai capelli. «Lascialo subito!» gridò Sara aggrappandosi a sua volta ai capelli di Martino. «Dai Laio, prova l’incantesimo delle fattucchiere!» esclamò eccitato Thor. Il ragazzo magro e incurvato alzò una mano: Martino chiuse gli occhi, Sara strattonò più forte l’amico strappandogli qualche ciuffo di capelli e Lucrezia gridò. Armonia spiccò un balzo ma si ritrovò davanti Fiub, a sbarrarle la strada. Laio sollevò una mano e un raggio di luce violetta investì Martino, che emise un lungo e orribile urlo di dolore. Sara fu scagliata contro la parete dallo stesso incantesimo e in un angolo della cella Lucrezia scoppiò in lacrime. «TOGLITI DI MEZZO!» urlò Armonia a Fiub. Sentiva un gran calore proprio al centro del petto, dove lo smeraldo era a contatto con la sua pelle. Era come se la pietra stesse rilasciando potere. Il pavimento scricchiolò, proprio sotto i piedi di Fiub e una nuvola di polvere si sollevò verso l’alto. L’apprendista mago si guardò i piedi, poi sollevò lo sguardo e fissò Armonia con occhi sorpresi e pieni di sfida. «Ma davvero? Allora non sei proprio una sprovveduta di Fuori» sogghignò, continuando a sbarrarle la strada. «La cosa si fa più divertente.» «Non sarà divertente... dopo... » disse Armonia e le pareti della cella sembrarono scricchiolare. Lucrezia si era alzata in piedi e stava fronteggiando Thor, Laio era impegnato a schivare i calci furiosi di Sara e Martino giaceva sul pavimento. «Se ci uccidete il vostro Ordine vi punirà. Non potete ammazzare dei prigionieri» sibilò Armonia. Il cuore le batteva troppo forte. Non devo cambiare colore degli occhi, pensò spaventata. Sentiva una rabbia insolita crescere dentro di lei, una rabbia che avrebbe potuto portarla chissà dove. Ebbe paura e cercò di opporsi: non voleva di nuovo abbandonarsi ai suoi istinti, come quando aveva incontrato Zanna Avvelenata. Non voleva sembrare di nuovo una di quelle creature mostruose della Stanza della Memoria. «Non vi uccideremo, non preoccuparti.» «La tortura è vietata.» «Così dicono qui, ma altrove i maghi la praticano. E comunque non ci scopriranno, dopo vi cureremo, sarete come nuovi, promesso.» Il ragazzo rise ancora e alzò un braccio. Un lampo di luce bianca attraversò la cella, avvolgendo Martino, che scattò in piedi, tastandosi alla ricerca della ferita. Sembrava guarito. «Visto?» disse Fiub, soddisfatto. Armonia sospirò. Chiuse gli occhi. Sentiva la testa ronzarle ma doveva restare


se stessa. Non voleva fare del male a nessuno, neanche a quei ragazzi, per quanto fossero malvagi. Ne era sicura: se avesse usato i suoi poteri in quel momento su Fiub, l’avrebbe ucciso. «Non voglio farvi del male.» Fiub scoppiò a ridere. «Tu? Un umano? Una femmina? E di Fuori, per giunta! Non essere ridicola!» «Arkanus è il mio maestro.» Gli occhi del ragazzo si spalancarono e sul suo volto si dipinse per un istante la sorpresa. «Stai… stai mentendo…» Arkanus. Che stupida. Perché non ci aveva pensato prima? Sarebbe bastato fare il suo nome per essere liberati. Ma Evan ha detto che è stato imprigionato proprio da lui. «Non sto mentendo, Arkanus ve la farà pagare se ci fate del male.» «Il Maestro Arkanus non è qui e non può aiutarti, ragazza di Fuori... » disse Fiub facendo un passo minaccioso verso Armonia. «Che diavolo state facendo?» esclamò una voce. Armonia si voltò verso la porta e il suo cuore perse un battito. Finalmente, pensò. Un altro apprendista era comparso sulla soglia della cella. Era molto alto, aveva la pelle ambrata e portava i capelli scuri legati in una mezza coda. I suoi occhi neri erano inquieti e, nonostante l’aria arrogante, sembrava preoccupato. Se ne stava appoggiato con una spalla all’anta della porta, un braccio sul petto e l’altro teso davanti a sé, in direzione dei suoi compagni. Alta, sul palmo della sua mano destra, c’era una sfera di luce rossa fiammeggiante. Lucrezia aprì la bocca per urlare ma fu incenerita dallo sguardo del nuovo arrivato. «Fratello Evan» disse Fiub con tono irritato. «Salute.» «Salute a te, fratello Fiub. Stavo pensando... facciamo il “Gioco dei Tre Se”? Primo: se padre Goran vi sapesse qui, ne sarebbe addolorato? Secondo: se qualcuno lo chiamasse ora, vi punirebbe? Terzo: se il Consiglio Supremo scoprisse che a Lungaroccia si pratica la tortura, sareste espulsi?» Fiub gli voltò le spalle e tornò a guardare Armonia. «Non sono affari tuoi, fratello.» «Dipende. Se dirò quello che ho visto, riceverò un premio? Scusate, dovevano essere solo tre i “se”. Comunque è facilissimo: la risposta è sempre sì.» Il volto di Fiub si contrasse in una smorfia d’impotenza. Evan fece saltellare la sfera di fuoco sulla sua mano sorridendo impassibile. «Se ve ne andate ora, non ricorrerò all’incantesimo immobilizzante e il maestro non saprà mai che siete stati qui. Se, invece, vi rifiutate... cavolo, potrei continuare all’infinito con questo gioco.» «Smettila.» Fiub si voltò e rivolse uno sguardo d’intesa ai suoi amici, poi tutti e tre, senza


una parola, si avviarono verso la porta. Evan si scostò per lasciarli passare: sul suo volto c’era un sorriso pieno di soddisfazione. «Traditore. Ce l’hai nel sangue, eh?» mormorò Fiub, passandogli accanto. Armonia vide gli occhi di Evan spalancarsi, attraversati da una luce che non avevano mai avuto prima: era odio. Era lo sguardo di un assassino. Aveva anche lei quello sguardo terribile quando perdeva il controllo? Vide la fiamma sulla sua mano ingrossarsi e ardere di più e vide Evan sollevare il braccio pronto a scagliare la sfera sui tre che si allontanavano borbottando. «Evan!» gridò Armonia con un brivido di paura. Evan si bloccò, voltandosi verso di lei. La fissò sorpreso, poi si guardò la mano, infine chinò il viso contratto come se si sforzasse di reprimere l’istinto e strinse le dita sulla sfera. La fiamma si spense in un filo sottile di fumo nero. «Muoviamoci. Abbiamo poco tempo» disse fra i denti. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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