I giorni di Insomnia

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ARIANNA GIANCOLA

I GIORNI DI INSOMNIA L’inizio del viaggio

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I GIORNI DI INSOMNIA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2012 Arianna Giancola ISBN: 978-88-6307-418-5 In copertina: Immagine di Massimo Guidi

Finito di stampare nel mese di Febbraio 2012 da Logo srl Borgoricco - Padova


Per chi, come me, nonostante tutto, si ostina a voler credere nei sogni. Al mio Z.C.P.



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Ore 11.40

La lezione di letteratura latina era appena cominciata e già la classe era immersa nel tipico silenzio sonnacchioso provocato dalla voce monotona e nasale del professore. Mancava poco più di un mese alla fine della scuola e cominciava a fare caldo. Il sole entrava a fiotti dalle grandi finestre e batteva sul viso di Federico, scottandogli la pelle e costringendolo a socchiudere gli occhi. Attento a non farsi vedere dal prof, il ragazzo allungò un braccio per aprire i vetri. Il tiepido vento primaverile penetrò, carico di profumi, nell’aria viziata dell’aula, portando immediato sollievo al suo volto bruciante. Sì, decisamente andava meglio. «Títyre tú patulaé recubáns sub tégmine fági…» La voce cantilenante del professore, accompagnata dal grattare delle penne dei suoi compagni che prendevano appunti, assomigliava a una ninnananna. C’era, al mondo, qualcosa di più inutile della metrica latina? Seduto al suo posto, l’ultimo banco nell’ultima fila, il più lontano possibile dalla cattedra, dietro tutti gli altri compagni, Federico incrociò le braccia, si accomodò contro il muro alle sue spalle e chiuse gli occhi. Immediatamente macchie di colore gli esplosero dietro le palpebre. «Séd tamen, íste deús qui sít, da, Títyre, nóbis.» Silenzio. Qualcuno dei compagni alzò pigramente il naso dagli appunti. Lo scricchiolio delle penne cessò. «Vuoi continuare tu, Fabbri?» chiese il professore. Federico socchiuse appena un occhio e rispose «No, grazie. Continui pure lei.» Risatine generali. Senza scomporsi minimamente il professore si chinò sul registro e scrisse qualcosa. Quindi riprese tranquillamente la lezione e la classe ritornò nel suo consueto torpore. Un’altra nota… pensò scocciato Federico. Come se servissero a qualcosa. Ma poi perché? Stava forse disturbando la lezione? Era persino andato a scuola, quel giorno! Anche se doveva ammettere che si era presentato solo per chimi-


6 ca. Quella era una lezione che valeva la pena seguire, non certo letteratura latina. Che c’entrava poi il latino con lo scientifico? Un’altra nota… un’altra chiamata a casa. Un’altra scenata isterica di mamma. Che schifo! Come se non avessi già abbastanza problemi… Il trillo della campanella pose fine alla lezione e, mentre tutti si stiracchiavano e scambiavano due parole con i vicini di banco, il professore raccolse le sue cose e si avviò verso la porta. Sulla soglia incontrò quello di Chimica, la prossima lezione della classe. «Ciao Carlo. Ti spiace se ti rubo un momento Fabbri? Vorrei parlargli a quattr’occhi.» «È proprio necessario? Siamo indietro con il programma e…» «È questione di pochi minuti.» lo rassicurò. «Okay, fai pure. Fabbri?» Federico si alzò scuro in volto. Ma che cavolo voleva ora? Proprio durante l’ora di chimica? Una volta fuori dall’aula il professore di latino lo guardò severamente. «Allora, Fabbri? Hai proprio deciso di farti bocciare anche quest’anno? Capisco che cambiare città possa essere duro, ma…» Capiva? Lui diceva di capire? «… anche se i tuoi voti sono ottimi nelle materie scientifiche non contano solo quelle. Se poi prendiamo in considerazione anche la condotta...» «Vabbe’. Ho capito professore. Posso andare ora? Ho una lezione che mi aspetta.» L’uomo gli scoccò uno sguardo irritato ma tentò ancora «Ti rendi conto che stando così le cose sarò costretto a chiamare di nuovo i tuoi genitori?» «Faccia un po’ come le pare.» fu la secca risposta. Poi gli voltò le spalle e tornò in classe. Era furioso. Chi cavolo si credeva di essere quello? Lanciò un’occhiata alla lavagna: il professore stava spiegando le valenze e si interruppe al suo ingresso, aspettando che tornasse al posto. Lui indugiò, combattuto tra la rabbia e l’interesse. Prevalse la rabbia. Senza una parola afferrò lo zaino e se ne andò. In fin dei conti non potevano fermarlo: era maggiorenne. Una volta all’aria aperta si sentì meglio. Ma non aveva comunque voglia di tornare a casa. Quell’infame di latino era certamente corso a telefonare a sua madre e non gli andava proprio di sorbirsi una scenata, in quel momento.


7 Decise di andare al parco, in quel posto vicino al laghetto che era diventato il suo rifugio, dove avrebbe potuto stare solo con i suoi pensieri, a godersi il calore del sole senza essere disturbato. Il parco era pieno di gente: mamme con i bambini, anziani, padroni che portavano a spasso i cani, e coppiette che camminavano mano nella mano o che tubavano prendendo il sole, sdraiate sull’erba. Non voleva vederli. Non voleva vedere nessuno. Si diresse deciso verso la cascatella. Quella zona era vietata al pubblico, quindi non c’era il pericolo di incontrare nessuno, tranne qualche custode di passaggio. Scavalcò agilmente le transenne e si andò a sdraiare all’ombra di un albero. Era tutto così tranquillo lì, con il sole caldo, l’aria tiepida che lo cullava e le voci lontane. Sarebbe stato perfetto se… se tutto non avesse fatto così dannatamente schifo! Si sentiva così… non sapeva neanche definirlo. Forse la parola corretta era vuoto. Capisco che cambiare città possa essere duro aveva detto il professore. Ma cosa voleva saperne, lui, di cosa era duro? Invece era stato felice di andarsene. Era stato felice di lasciarsi tutto alle spalle. Il suo mondo era crollato all’improvviso e la fuga, grazie al trasferimento di suo padre, era stata una benedizione. Ma si era portato dietro la rabbia e il vuoto lasciato dalle macerie. Erika. Già, tutto era cominciato quando era finita con lei, quasi un anno prima, ormai. Gli faceva ancora un male cane pensarci, ma non riusciva a togliersela dalla testa. Ogni volta che chiudeva gli occhi il suo viso gli compariva davanti. Lei che rideva, che scherzava, che giocava col cane, che lo guardava piegando la testa di lato, con i lunghi capelli castani che le incorniciavano il viso. Lei... Lei e Marco. Anche solo ricordare la sua esistenza gli faceva contrarre lo stomaco dalla rabbia. Marco, il suo migliore amico… che non si era fatto nessuno scrupolo a tradirlo e a fregargli la ragazza. Ricordava perfettamente ogni particolare di quella sera. La lezione di karate era saltata e lui era andato sotto casa di Erika per farle una sorpresa.


8 Davanti al cancello c’era la macchina di Marco. Lo vedeva attraverso il finestrino. Era rimasto sorpreso ma si era avvicinato per salutarlo e… BAM! Era crollato tutto. Erika e Marco, avvinghiati in macchina si baciavano appassionatamente. Un velo rosso gli era sceso davanti agli occhi e le immagini avevano cominciato a ondeggiare. Era rimasto impietrito a guardarli, in preda all’ira e al disgusto finché lei, aprendo gli occhi, non lo aveva visto lì fuori, in piedi, appena oltre lo sportello. Senza dire nulla Federico si era voltato e se ne era andato, ignorando i richiami di Marco che era sceso precipitosamente dalla macchina. Aveva spento il cellulare ed era tornato a casa. Si era fatto negare al telefono e al citofono, aveva persino fatto sega a scuola. Poi, dopo un paio di settimane, avevano lasciato la città. Da quel momento tutto aveva cominciato ad andare storto. Non c’era una cosa che andasse bene. Quando si era iscritto alla nuova scuola, appena dopo l’estate, aveva capito che le cose non sarebbero migliorate. Era insofferente verso tutto e tutti. Non era entrato in confidenza con nessuno e riusciva ad applicarsi solo nelle materie scientifiche. La sua media ne aveva risentito e lo avevano bocciato. A casa avevano cominciato a rimproverarlo per ogni sciocchezza, come se tutto quello che c’era di storto al mondo fosse colpa sua. Nessuno che avesse provato a capire come si sentiva, nessuno che si fosse preso la briga di stargli vicino... Che cavolo sto facendo? si chiese aprendo gli occhi. Si accorse di avere freddo. Il sole era già tramontato e l’erba era umida. Si mise a sedere e il suo stomaco protestò, ricordandogli che era digiuno dal mattino. Aveva perso la cognizione del tempo e si era fatto tardi. Doveva tornare a casa, lo sapeva, ma una parte di lui gridava no, per favore, lasciatemi stare. Lentamente, senza alcuna voglia e costringendo i muscoli intorpiditi a riattivarsi, si alzò in piedi. Raccolse lo zaino umidiccio e fece per avviarsi quando delle voci attirarono la sua attenzione. Stava arrivando qualcuno. Non saranno mica guardiani? si chiese. Mi ci manca solo questa oggi… Si nascose in fretta dietro un cespuglio e aspettò. Quattro uomini sbucarono dalla curva del piccolo sentiero alla sua destra e si fermarono davanti alla cascata, a pochi metri dal suo nascondiglio, parlando concitatamente. Federico sgranò gli occhi: i quattro sembravano sbucati da una sfilata storica.


9 Perfettamente abbigliati come cavalieri medievali, con tanto di cappa e spada, stivali di cuoio e cotte di maglia. Non sapevo che organizzassero giochi di ruolo, da queste parti. Pensò. Nascosto dal cespuglio li osservò con attenzione. Erano alti, tutti e quattro. I tre che poteva vedere in viso avevano i capelli scuri. Uno di loro aveva una muscolatura impressionante e sfoggiava una massa di riccioli bruni che ricadevano scomposti. Gli occhi erano tanto grandi e neri da sembrare costantemente spalancati dalla sorpresa. Nell’insieme, pensò Federico, aveva l’aria da bambino troppo cresciuto. Quell’impressione era tanto più forte per il contrasto con il secondo cavaliere. I capelli e la barbetta corta e attentamente sagomata erano impeccabili. Benché non fosse massiccio come il compagno, incuteva maggiore rispetto per l’assoluta padronanza di sé che esprimeva in ogni gesto. Anche lui aveva gli occhi neri, profondi e penetranti, che sembravano riuscire a vedere ogni cosa. Federico ebbe l’impressione che il suo sguardo si posasse su di lui. Ma fu solo per un attimo e il cavaliere non tornò più a guardare nella sua direzione. Il terzo era senza dubbio il più giovane e più esile dei tre. Federico pensò che avesse più o meno la sua età. Il volto liscio, senza ombra di barba, aveva tratti fini e regolari mentre gli occhi erano di un azzurro cupo. Il quarto cavaliere era voltato di spalle. Non era né il più muscoloso né il più alto, ma la postura e la sicurezza dei suoi movimenti suscitarono nel ragazzo l’istantanea consapevolezza che, se tra loro c’era un “capo”, era senz’altro lui. I quattro parlavano animatamente tra loro e dovevano essere molto presi dalla conversazione perché, benché Federico, troppo incuriosito, avesse nel frattempo lasciato il proprio nascondiglio avvicinandosi tanto da poterne distinguere le voci basse e profonde, non si interruppero e neppure si voltarono a guardarlo. Prima che potesse dire una parola i quattro entrarono nell’acqua bassa e, con decisione, attraversarono la cascata. Ma che diavolo… Federico era rimasto letteralmente a bocca aperta. C’era una grotta, dietro la cascata? Non lo aveva mai sospettato. Rifletté per qualche istante sull’irreale scena a cui aveva appena assistito, chiedendosi se fosse stato tutto un sogno o un’allucinazione. Poi, divorato dalla curiosità, posò lo zaino e seguì i cavalieri. Si avvicinò alla cascata il più silenziosamente possibile, sguazzando nell’acqua bassa e strizzando gli occhi per cercare di scoprire cosa si celasse dietro la cortina d’acqua.


10 Non riusciva a vedere la grotta (eppure doveva esserci: quattro persone erano sparite lì dentro) ma c’era qualcosa… una fioca luce che splendeva oltre il liquido cristallino. Ora si trovava proprio davanti alla cascata e ancora non riusciva a scorgere nulla a parte la luce. Piegò il capo, perplesso, e d’improvviso si rese conto che la luce si trovava dentro l’acqua. Affascinato, allungò una mano verso di essa e percepì un intenso calore che, partendo dalla punta delle dita, si propagò in fretta nel braccio, poi nel torace, nella testa e nelle gambe. Prima che si rendesse conto di cosa stesse accadendo, quel calore lo invase, lo avvolse e lo inghiottì. Di lui, alla cascata, non restò più traccia. *** Quella sensazione di calore e di pace assoluta Federico l’aveva già provata. Non sapeva né dove né quando: era come un ricordo lontanissimo e confuso, ma che gli dava la certezza di essere al sicuro, protetto da tutto e da tutti. Poteva essere durata una vita o un solo istante, ma quando si accorse che la stava perdendo strinse gli occhi nel tentativo di trattenere quella straordinaria sensazione. Non voleva tornare alla realtà, ma nel giro di pochi secondi era scomparsa. «Che bel sogno» sussurrò sospirando di delusione. Sapeva di essere nel suo letto (anche se proprio non riusciva a ricordare di esserci andato) e che tra poco sua madre sarebbe entrata, irritata perché avrebbe fatto tardi a scuola… di nuovo. Riluttante si costrinse ad aprire gli occhi. Li richiuse immediatamente, abbagliato dalla luce. «Ma che cavolo…» saltò in piedi e, ancora semi accecato, si guardò intorno stupito. Si trovava in una stanza immensa, dai soffitti altissimi. Tutto, lì dentro, dal soffitto alle pareti e persino i sontuosi mobili, era di colore azzurro. Sembrava di guardare il mondo attraverso un vetro colorato. Federico si stropicciò gli occhi e sbatté più volte le palpebre quasi aspettandosi che scomparisse tutto. «Sto ancora sognando» si disse infine per tranquillizzarsi. Si voltò in cerca di qualcosa di familiare e sobbalzò quando si trovò davanti un giovane alto e magro.


11 I corti e ricci capelli bruni erano scarmigliati e gli occhi, di un bel castano screziato di verde, erano spalancati per la sorpresa. La pelle aveva una tinta malsana e pallida, a causa del riverbero azzurro della stanza, che faceva risaltare il naso aquilino e la bocca carnosa. Federico, spaventato, alzò la mano in un gesto di sorpresa e l’altro lo imitò, sollevando una mano nervosa davanti al volto. Solo allora capì di trovarsi davanti a uno specchio. Era grande, altissimo. Occupava un’intera parete dal pavimento al soffitto, facendo sembrare la camera ancora più grande, smisurata. Con il cuore che martellava nel petto, si afferrò la testa fra le mani e si stropicciò la faccia. «Okay. Calmati. È solo uno stupido specchio!» si guardò intorno ancora una volta «Ma dove cavolo sono?» Mentre ancora cercava una risposta sentì delle voci provenire dalla stanza accanto. Senza fare rumore si avvicinò alla porta e l’aprì appena, quel tanto che gli consentisse di sbirciare senza essere visto. La stanza era ancora più immensa di quella in cui si trovava. Sebbene anche qui i mobili fossero di quell’incredibile colore azzurro, le pareti in pietra e l’allegro fuoco che scoppiettava nell’enorme camino conferivano all’insieme un aspetto più reale, se reale poteva essere il termine adatto. Su un lato della sala si aprivano tre grandi finestre da cui si intravedevano, attraverso l’oscurità, soffici fiocchi di neve bianca che vorticavano pigri. Sul lato opposto, sopra una pedana, si trovava un alto trono di pietra azzurra, a forma di fiamma, su cui sedeva un un uomo dall’aspetto decisamente insolito. Era basso. Federico stimò che, in piedi, avrebbe superato di poco il metro. Indossava una lunga tunica azzurra (ovviamente) e un sottile cerchio d’oro gli cingeva la fronte. Nonostante la corporatura massiccia muoveva le mani con gesti sinuosi e guizzanti. Era molto, molto anziano, con il volto ricoperto da una ragnatela di rughe sottili. Ma la cosa più straordinaria era la sua lunghissima barba. Ogni singolo pelo aveva quell’immancabile e arcana tonalità azzurra e si muoveva guizzando come una fiamma all’aria, sembrando dotato di vita propria. Proprio sotto il trono rialzato stavano immobili, a capo chino, tre figure, in cui Federico riconobbe i cavalieri. Il nano aveva il volto grave e la voce gli tremò quando chiese: «E così neppure questa volta?…»


12 Uno dei tre fece un passo avanti «Ci dispiace» disse in tono di scusa. «Non c’è stato nulla da fare. Abbiamo fatto il possibile ma il tempo a disposizione era troppo poco.» «Forse se usassimo la Pietra di Luna…» intervenne il secondo alzando la testa. «Sai perfettamente che non servirebbe!» tuonò il nano interrompendolo bruscamente. Quindi continuò con tono più pacato «Perdonami, Neadar. Ma sai che la pietra non ha la capacità di aprire i Cancelli. Non servirebbe a nulla sprecare il poco potere che le rimane. Senza Illiria…» Federico era sempre più confuso. Il nome di Illiria gli aveva riportato alla mente le favole che sua zia gli raccontava quando era bambino per farlo addormentare. Ma non poteva essere, che sciocchezza. «Eppure deve esserci qualcosa che possiamo fare. Forse è rimasta ancora un po’ di Luce e…» era stato il terzo cavaliere a parlare. «No» lo interruppe il nano scuotendo la testa. La barba di fiamma guizzò in ogni direzione. «La Luce si è completamente esaurita in quest’ultimo viaggio. Ogni volta è stato più difficile aprire i Cancelli e stavolta è stato quasi impossibile: è occorsa più energia del solito. Non ci saranno altri viaggi. Purtroppo il destino degli uomini è quello di smettere di sognare, e quello di Idillio… di scomparire definitivamente!» concluse in tono grave. Illiria… Idillio… esattamente come nelle favole di sua zia. Federico si diede nervosamente un pizzicotto per accertarsi ancora di essere sveglio. Nel farlo urtò la porta con il gomito facendola cigolare. «Chi è là?» gridò uno dei cavalieri. Con le spade sguainate si lanciarono verso di lui e, prima ancora che Federico potesse cercare una via di fuga, gli furono addosso. Tre paia di mani robuste lo afferrarono e lo trascinarono davanti al trono di fiamma. Ogni tentativo di divincolarsi risultò inutile. «Lasciatelo!» ordinò il nano. «Chi sei? E come sei entrato qui?» Federico si ricompose e affrontò lo strano essere. La sua mente lavorava febbrile alla ricerca di una spiegazione che suonasse anche solo vagamente convincente. Ma tutto quello che gli era capitato era talmente privo di logica che, alla fine, si risolse a raccontare le cose esattamente come si erano svolte. Quando ebbe terminato il suo racconto, guardò dubbioso prima il nano e poi, a turno, i cavalieri: neppure lui riusciva a credere alle sue parole. Ma con suo sommo stupore non trovò ombra di dubbio nei loro sguardi. «Mio sfortunato terrestre, posso solo darti il benvenuto nel mio palazzo, unico residuo del regno di Idillio. Io sono Meth-Han-Non, antico consigliere della regina. E questi sono, o forse farei meglio a dire erano, ciò che rimane delle


13 folte schiere delle guardie reali: il tenente Neadar» il cavaliere più giovane fece un passo avanti e chinò lievemente il capo portando la mano all’elsa della spada. «Regogur, capitano delle guardie e miglior spadaccino del regno», quello con l’aria da bambino troppo cresciuto fece il suo saluto, cui fece seguito quello del terzo, quando Meth-Han-Non lo presentò «Questo, infine, è il sottotenente Ighiang. Qual è il tuo nome, terrestre?» Il ragazzo, un po’ imbarazzato a dover competere con tutti quei titoli altisonanti, rispose semplicemente «Mi chiamo Federico. Federico Fabbri.» «Bene, mio giovane amico. Immagino che tu abbia molte domande da rivolgermi ma, purtroppo, non sei capitato qui in un momento felice. Sarò lieto di accontentarti più tardi. Nel frattempo ti chiederei di attendere pazientemente fino all’ora di cena. Ti verrà assegnata una camera in cui potrai riposarti e rinfrescarti, se lo desideri.» «Io… veramente… dovrei andare a casa. Si è fatto tardi e…» «Temo che anche questo dovrà aspettare.» rispose il nano con un velo di tristezza. Ancora stordito dagli straordinari eventi, Federico non si oppose. Meth-Han-Non stesso gli fece strada fino alla stanza promessa e poi lo lasciò, con l’assicurazione che sarebbero andati presto a chiamarlo. Anche quella stanza sembrava proprio quella di un castello medievale. Enorme, con le alte e ampie pareti ricoperte di pesanti arazzi che ritraevano scene di vita nei campi. Su un lato si apriva una grande finestra che si affacciava su una sconfinata distesa di neve candida. Nella parete opposta era incastonato un immenso camino nel quale ardevano fiamme vivaci. Accanto a esso c’era il più colossale letto che Federico avesse mai visto, circondato da un baldacchino di broccato e corredato da coperte dall’aspetto caldissimo e da candide lenzuola che profumavano di pulito. Non resistette alla tentazione e si coricò a faccia in giù. Il buio gli diede un immediato sollievo alla testa che sembrava voler esplodere mentre tentava di mettere ordine tra i suoi pensieri, di trovare un filo logico in quella serie di straordinari eventi. Non era ancora certo che non fosse tutto un sogno, soprattutto ora che nella sua mente continuavano ad affollarsi i ricordi delle favole di quando era bambino. Realtà e fantasia cominciarono a confondersi. Strane immagini sembravano prendere consistenza. L’ultima cosa che riuscì a pensare fu Che razza di sogno! poi cadde in un sonno profondo popolato da cavalieri e nani con la barba di fiamme azzurre.


14 *** Era seduto sull’erba, sulla sponda di un ruscello dorato. Intorno a lui un bosco lussureggiante brulicava di vita e di profumi. Assetato, accostò le labbra all’acqua fresca che gli sembrò avere un sapore dolcissimo. Senza sapere il perché, decise di risalire il fiume per trovarne la sorgente. Il sentiero si snodava lungo il letto del fiume e fu facile seguirlo fino alla fine del bosco. Quando sbucò fuori dagli alberi, Federico rimase improvvisamente abbagliato dalla luce di quello che scambiò per un piccolo sole. Facendosi scudo con le mani riuscì a socchiudere gli occhi e a mettere a fuoco e capì che quello che aveva scambiato per un sole era in realtà uno splendente fiore che sembrava fatto di cristallo verde. I petali chiusi sembravano raccogliere ogni granello di luce e rifletterlo amplificato. Era una visione meravigliosa e il giovane non poté resistere alla tentazione di alzare una mano per toccarlo. Come le sue dita ebbero sfiorato la liscia superficie, la corolla cominciò lentamente a schiudersi. Dal suo interno emerse una figura umana, sottile e flessuosa, circondata da una massa di lunghissimi capelli del colore del sole. Federico strizzò gli occhi per riuscire a distinguere il volto di quella creatura, ma tutto ciò che riuscì a scorgere furono due meravigliosi occhi di giada, incorniciati da lunghe e setose ciglia del colore della notte, e un sorriso così dolce che gli pervase l’animo di una pace infinita. Mentre era ancora ipnotizzato da quella visione paradisiaca, la dea parlò e la sua voce suonò melodiosa come il frusciare del vento tra le fronde. «Sei arrivato… Finalmente, quanto ti ho atteso!» Ancora una volta senza ragione alcuna, Federico ebbe la certezza che era vero. Ma quando tentò di parlare la visione scomparve. Era solo. In un letto con il baldacchino di broccato, in un castello che non poteva esistere, in chissà quale luogo dell’universo, Federico tenne stretta a sé quella sensazione di pace che da troppo tempo non provava più. *** Aveva appena finito di lavarsi la faccia quando un giovane in livrea venne a chiamarlo per la cena. Federico lo seguì attraverso gli intricati corridoi del castello fino all’ennesima grandissima sala.


15 Aspettavano solo lui, seduti intorno a una tavola riccamente imbandita. L’aroma del cibo risvegliò istantaneamente la fame del giovane. Meth-Han-Non si alzò per accoglierlo e gli presentò quello che, senza dubbio, era il quarto cavaliere. «Federico, lui è Meganer, comandante della guardia della regina Illiria.» Il ragazzo gli rivolse un sorriso impacciato che il cavaliere non ricambiò, limitandosi a un breve e secco cenno del capo senza staccargli gli occhi di dosso. Federico non lo trovò affatto simpatico. Si accomodarono a tavola e, per un po’, furono tutti concentrati sull’ottimo banchetto. Una volta placato l’appetito, Federico osservò meglio il comandante, seduto accanto al nano dall’altro lato della tavola. L’uomo non poteva avere più di vent’anni. Aveva spalle ampie e mani grandi e forti. I lunghi e lisci capelli castani, quasi biondi, gli ricadevano morbidi sulle spalle. I tratti del viso non erano simpatici, nobili o aggraziati come quelli degli altri cavalieri: la mascella volitiva, il naso importante, la bocca ampia e carnosa, la fronte alta, la leggera barbetta, presi singolarmente sarebbero stati sgraziati, addirittura brutti. Nell’insieme, però, gli conferivano quello che era, indiscutibilmente, un fascino selvaggio. Ma il cuore di tutto era nei suoi occhi. Apparentemente di un grigio freddo, quasi metallico, al loro interno sembrava bruciare un fuoco talmente ardente che Federico non riuscì a sostenere il suo sguardo, quando l’incrociò. Fu in quel momento che Meth-Han-Non lo invitò a seguirlo nel suo studio, affinché potesse meglio soddisfare la sua curiosità. Ancor prima che la porta si fosse chiusa alle sue spalle, Federico chiese: «Ora posso sapere dove mi trovo esattamente… davvero?» Il nano lo fissò lievemente stupito. «Questo te l’ho già detto. Ti trovi nel regno di Idillio… o in quel che ne rimane.» «Vabbe’! Ora non mi verrete a dire che si tratta davvero di Idillio, quello delle favole… Il regno dei sogni?!» Il ragazzo scrutò i presenti quasi sperando che qualcuno di loro ridesse. Ma nessuno lo fece. Il nano sospirò scuotendo la testa poi, lentamente, scostò una tenda che si aprì come un sipario rivelando un magnifico arazzo su cui era riprodotta la mappa più bella che Federico avesse mai visto.


16 Il tessuto era tanto finemente lavorato da mostrare chiaramente rappresentato ogni singolo albero, ogni collina e città. Sembrava di osservare un piccolo mondo in miniatura. Sopra quella sorprendente opera d’arte troneggiava, in lettere dorate, il nome del luogo rappresentato: “Regno di Idillio”. «Quello che vedi qui rappresentato è il nostro mondo, il mondo dei sogni che voi, Abitanti del Mondo di Sopra, credete sia una favola. Ovviamente non è tutto il nostro mondo. Nessuno di noi sa quanto esattamente sia vasto. Ma questo è il dominio che era posto sotto il controllo della nostra regina: la ninfa Illiria. I suoi abitanti sono sogni. Tutti i sogni che siano mai stati fatti dall’uomo e che mai saranno fatti. La regina controllava l’apertura dei Cancelli, che permettevano il passaggio dal nostro mondo al vostro e viceversa. In questo modo la nostra esistenza aveva uno scopo e voi avevate la capacità di sognare. Era uno strano equilibrio… E tutto si basava sulla capacità della regina di governarci. Anche il clima era regolato dalla sua esistenza in modo che vivessimo in un’eterna primavera.» Federico si lasciò cadere pesantemente su una sedia. «Quindi… quindi tutto questo è… reale?» chiese Federico con un filo di voce. «Non esattamente. Il nostro mondo esiste, non c’è dubbio. Ma esiste in un modo diverso da quello che conosci. Esiste perché è parte della mente di ogni essere umano; è reale ma inafferrabile come l’istante tra il giorno e la notte. La sostanza primaria che lo compone sono le emozioni, perché di esse sono fatte i sogni.» Federico si stropicciò la faccia con le mani. La testa aveva ricominciato a fargli male: niente di tutto quello che gli stavano dicendo aveva senso. Tanto per non lasciarsi sopraffare dallo sconforto chiese ancora «Hai parlato sempre al passato. Perché?» «Vedi… le cose sono… cambiate.» «In che senso?» Ancora una volta il nano sospirò, prima di rispondere, e la sua barba ondeggiò tremolante. «Ormai da più di dieci dei nostri anni la regina è… improvvisamente scomparsa. L’abbiamo cercata ovunque nel nostro mondo, ma senza risultato. Abbiamo anche pensato che potesse essere rimasta intrappolata nel Mondo di Sopra. Poteva essere entrata nei sogni di un terrestre ed essere rimasta bloccata. Quindi l’abbiamo cercata nelle vostre menti ma, come certamente hai sentito… senza risultato.»


17 «Se era Illiria a regolare il passaggio tra i mondi, come avete fatto a far aprire i Cancelli?» «Ci sono oggetti che hanno conservato un certo quantitativo di potere magico.» «La… Luce?» Il nano sorrise. «Esatto. È quella che ti ha condotto qui. Ma oramai non ne abbiamo più. Non ci saranno più sogni per voi terrestri. E il nostro mondo finirà per scomparire.» Il silenzio che seguì era carico di significato e lo stomaco di Federico si contrasse, quando si rese conto di ciò che significava. «Ma allora… Come farete per rimandarmi a casa?» chiese con voce roca. Meth-Han-Non scrollò la testa con fare desolato. «Temo che non ti sarà possibile tornare.» «Ma non è possibile! Io non appartengo a questo mondo. Devo tornare! C’è la scuola e…» «Non possiamo fare nulla.» Un’idea balenò nella mente del ragazzo. «E la… come si chiama… quella cosa di cui parlavate prima… ehm… la… la Pietra di Luna! Ecco. Non potreste…» «Ragazzo mio…» il vecchio gli si avvicinò. In piedi arrivava appena al petto di Federico ma gli posò comunque una mano sulla spalla con gesto paterno «Non funzionerà. La Pietra ha un grande potere ma non riesce a generare la Luce. Abbiamo già provato.» Non c’era via di scampo. Era intrappolato. «L’unica possibilità sarebbe ritrovare la regina, oppure la sua tiara.» «Di cosa parli?» «La corona che cingeva la fronte di Illiria era uno degli oggetti magici più potenti che il nostro mondo abbia mai conosciuto. La Pietra di Luna era alloggiata al suo interno. Quando la regina è scomparsa abbiamo ritrovato la Pietra, ma non la tiara, quindi è probabile che l’avesse con sé.» Un barlume di speranza si accese nel terrestre. «Com’è fatta? Possiamo cercarla ancora.» «Temo che sia inutile, ma se vuoi vedere come era fatta la tiara devi solo seguirmi.» Il nano entrò in un’altra stanza, batté le mani e tutti gli innumerevoli candelieri che si trovavano lì si accesero di colpo. «In quel quadro la regina è ritratta con la corona. Guarda pure.»


18 Federico si avvicinò impaziente, con il cuore a mille per la speranza ritrovata, ma nello stesso istante in cui il suo sguardo si posò sulla tela, lo sentì perdere un colpo. Quei profondi occhi verdi, quel sorriso solare… «È la ragazza del sogno!» esclamò stupito. «Cosa?» «Io… Ne sono certo. L’ho sognata poco fa, quando mi sono addormentato, prima di cena.» Quella notizia esplose come una bomba. Dopo un istante di muta incredulità i cavalieri e il nano cominciarono a tempestarlo di domande. «Cosa? Cosa ti ha detto?» «Dov’era?» «È ferita?» «È tenuta prigioniera?» Federico non sapeva più da che parte voltarsi. «Ecco, lei… Non lo so… Ero in questo bosco bellissimo e…» raccontò il suo sogno riferendo ogni particolare, cosa fin troppo facile, dato che era ancora chiarissimo nella sua mente. «E poi ha detto che mi aveva aspettato tanto e… quando ho tentato di dire qualcosa mi sono svegliato.» Un botto improvviso li fece sussultare. Meganer se n’era andato sbattendo la porta. «Cosa…?» «Non preoccuparti» disse Ighiang. Regogur si fece avanti con il volto fanciullesco acceso dall’eccitazione. «Hai idea di quello che significa tutto questo?» Federico si sentiva un po’ spaesato e si limitò a scuotere la testa. «Illiria è viva! E si trova da qualche parte nel nostro regno. Ha detto che ti stava aspettando, giusto? Quindi sei stato scelto: sarai tu a guidarci fino a lei.» «COSA???» sbottò il ragazzo. «Ma io non… come faccio a…» Il nano gli afferrò le mani, le strinse tra le sue e disse con tono solenne: «La nostra regina ti ha usato come tramite. Se ha potuto contattarti in sogno significa che è qui, nel nostro mondo. Ma abbiamo bisogno di te, per ritrovarla. Sei la sola speranza di salvezza per Idillio e per tutti i suoi abitanti. Vuoi aiutarci?» Federico si limitò ad annuire, troppo sconcertato per parlare. «Ma come posso…?» chiese infine ritrovando l’uso della bocca. «Sarà lei stessa a guidare i nostri passi.»


19 «A casa saranno preoccupati…» disse quasi in un sussurro, nel disperato tentativo di ritardare ancora un po’ quella che, ormai ne era certo, sarebbe stata l’inevitabile conclusione. «Senza di lei non hai possibilità di tornare nel tuo mondo. Se non accetti potrai solo condividere il nostro triste destino. Ti prego, aiutaci!» Il ragazzo fece una smorfia: quella supplica assomigliava un po’ troppo a un ricatto. Soddisfatto di ciò che lesse sul volto del terrestre, Meth-Han-Non allentò la presa. «Naturalmente non pretendo che tu mi dia una risposta immediata. Pensaci con calma. Va’ a riposare e lascia che il sonno ti ristori la mente e la liberi: solo così potrai sapere cosa ti riserva il destino.» Prima che Federico potesse aggiungere una sola parola, venne letteralmente trascinato via dal valletto, che si era materializzato al suo fianco come per magia. Venne ricondotto nella sua stanza e lasciato solo. «Ma che gabbia di matti!» esclamò appena la porta si chiuse alle sue spalle. *** Federico camminava su e giù per la stanza borbottando. Era tardi, non riusciva a prendere sonno e la necessità di muoversi lo aveva costretto ad alzarsi e camminare, camminare, camminare… Ma come cavolo fanno a pretendere una cosa del genere da me? pensava. È solo un ricatto bello e buono. Non era stato lui a voler arrivare là… va bene, era stata tutta colpa della sua dannata curiosità, lo ammetteva, ma non si sarebbe mai avvicinato a quella luce se avesse saputo che era una specie di portale. E gli venivano pure a dire che era bloccato lì: quello sì che era un incubo. Certo, non è che a casa l’attendesse il paradiso… E poi, anche se avesse voluto, come avrebbe potuto guidarli? Non conosceva quel mondo e aveva solo un bosco e un ruscello visti in sogno come punti di riferimento. Chissà quanti ce n’erano di posti così. Però i suoi occhi… L’immagine della ninfa prese forma nella sua mente, facendolo avvampare. No e no! È tutto troppo assurdo! La sua parte razionale, quella parte che si era sempre sforzato di ascoltare, non riusciva ad accettare ciò che stava accadendo. Ma tutto quello era reale… doveva esserlo, o avrebbe cominciato a dubitare persino di se stesso.


20 Era come se qualcuno gli stesse prendendo a martellate la testa. Il viso gli andava a fuoco. Sentì l’impellente necessità di un po’ di aria fresca. Aprì la finestra e lasciò che l’aria gelida gli raffreddasse il volto bruciante. Aveva smesso di nevicare e la coltre bianca che ricopriva ogni cosa scintillava lieve alle prime luci rosate che si levavano da est. Stanco più di quanto fosse mai stato, tornò a letto, chiuse gli occhi e cadde nel caldo e oscuro abbraccio del sonno. Era circondato dalle tenebre. Non riusciva a vedere nulla, tranne un minuscolo puntino di luce in lontananza. Si mosse in quella direzione, prima cauto, poi con crescente impazienza, nella certezza che lì avrebbe trovato la risposta a tutte le sue domande. Raggiunse la luce e vi precipitò, abbagliato dalla sua intensità. Quando finalmente riaprì gli occhi doloranti scorse davanti a sé la delicata figura di Illiria. La fanciulla sedeva in terra, circondata da un mare di fiori. Stavolta poteva vederla nitidamente e la sua bellezza lo lasciò senza fiato. Poi la ninfa parlò, senza muovere le labbra. La sua voce, dolce come una brezza di primavera, giunse direttamente nella mente di Federico. «Tu che sei giunto in questo sfortunato regno guidato dai tuoi sogni, non abbandonarmi! Da troppo tempo il mio mondo, i suoi abitanti e io stessa siamo privi di luce. Abbiamo bisogno del tuo aiuto. Ti prego!» Mentre queste parole gli risuonavano nella mente, gli occhi di Illiria si velarono e una lacrima le corse giù per la gota liscia e perfetta. Poi le tenebre tornarono ad avvolgere ogni cosa. Federico tentò di trattenerla. Allungò una mano per raggiungerla ma le sue dita incontrarono solo il drappo del baldacchino. Fuori era giorno fatto anche se il sole, pallido e distante, non riusciva a vincere il gelo dell’inverno. Si alzò tremando e si vestì in fretta: era tempo di dare la sua risposta a MethHan-Non. Percorse con qualche difficoltà i tortuosi corridoi che portavano allo studio del nano. Il giovane non aveva incontrato anima viva; quando entrò nella stanza trovò il consigliere seduto alla grande scrivania, così intento nello studio di un grosso tomo da non accorgersi di lui. Sembrava più stanco e più vecchio della sera prima e la sua barba di fiamma tremolava come sul punto di spegnersi. Il ragazzo bussò alla porta per attirare l’attenzione del nano che appena lo vide scattò in piedi. «Buongiorno, ragazzo mio. Hai… Hai dormito bene?»


21 «Sì, ti ringrazio. Sono venuto a comunicarti la mia decisione.» Meth-Han-Non non disse nulla, ma la barba azzurra ebbe un guizzo. «Vi aiuterò. D’altra parte non mi pare di avere molta scelta.» aggiunse con un mezzo sorriso. La fiamma azzurra avvampò di colpo quando il nano proruppe in un alto grido di gioia. Con un impeto che Federico non avrebbe mai sospettato, MethHan-Hon si lanciò su di lui e lo strinse in uno stritolante abbraccio di gratitudine. «Grazie! Grazie! È necessario preparare tutto per la spedizione, devo mettermi subito al lavoro!» mentre parlava si stava già allontanando. Poi, come ricordandosi di qualcosa, si volse di nuovo verso di lui «Nobile Federico, ciò che tu oggi fai per noi è qualcosa di così infinitamente grande che non potremo mai ringraziarti abbastanza.» E senza aggiungere altro corse fuori, lasciandolo lì da solo. Federico sorrise divertito poi, spinto da un impulso irrefrenabile, attraversò la porta che conduceva alla sala del ritratto. L’immagine di Illiria, splendida e perfetta in ogni dettaglio, lo osservava sorridendo gentilmente. Rimase incantato a guardarla, cercando di imprimere nella sua mente ogni dettaglio di quel viso. Non poteva fare a meno di chiedersi perché, fra tutti, avesse scelto proprio lui. Era talmente assorto nella contemplazione di quell’immagine che la voce alle sue spalle lo fece sussultare. «Buongiorno.» Si voltò di scatto e vide il comandante delle guardie che lo osservava, a braccia conserte, appoggiato allo stipite della porta. Aveva provato da subito una profonda antipatia per il cavaliere, reciproca da quanto aveva potuto constatare, antipatia che non era scomparsa con il sorgere del nuovo giorno. Tuttavia si sforzò di rispondere in modo cortese. «Buongiorno.» «Hai detto di sì, vero?» «Come…?» «Meth-Han-Non sta correndo per il castello come un fuoco d’artificio impazzito, blaterando un mucchio di sciocchezze su infinite cose da fare. È entrato come una furia in camera mia e se ne è andato senza dire una parola che avesse senso.» Il cavaliere rise e Federico si sorprese nel vedere come il suo volto ne fosse completamente trasformato. Era un sorriso aperto, cordiale e gentile. E non poté fare a meno di unirsi alla risata. «Comunque, sei hai fame tra poco sarà pronto in tavola.» «Grazie.»


22 «Non c’è di che.» Seguì un momento di imbarazzato silenzio. «Sei… sei stato… gentile a… Beh… grazie… per quello che…» sembrava che quelle parole uscissero davvero con molta difficoltà dalla bocca di Meganer. Federico si voltò verso il ritratto, per toglierlo dall’imbarazzo e l’incantesimo di Illiria lo avvolse di nuovo. «Non avrei mai potuto rifiutare dopo aver visto le sue lacrime.» disse in un soffio prima di rendersene conto. Si pentì immediatamente di aver pronunciato quelle parole. Tutta l’allegria fu spazzata via. Il sorriso si spense e la maschera fredda tornò a dominare sul volto di Meganer. «Ho detto qualcosa di …» «No» rispose bruscamente il cavaliere. «Ora scusami, devo andare a preparare il necessario per la spedizione.» Lanciò un rapido sguardo al ritratto, girò militarmente sui tacchi e uscì in fretta dalla sala. I suoi passi si spensero nell’eco del castello. Federico rimase lì, stupito da quell’improvviso cambiamento di umore. Cosa aveva detto di così sbagliato? Forse era perché la regina piangeva? Possibile, visto che dal suo sorriso dipendeva l’eterna primavera di Idillio. Lasciò la stanza, diretto alla sala del banchetto ma era così assorto nelle sue riflessioni che si perse. Girovagò per i lunghi corridoi, cercando invano di orientarsi. Alla fine giunse in un piccolo chiostro quadrato nel quale sorgeva un giardino completamente bianco di neve. Al centro si ergeva una grande roccia ricoperta da uno spesso strato di ghiaccio. Dal suo interno sgorgava una piccola fonte, anch’essa imprigionata dal gelo. Intorno a questa erano disposti alberi e aiuole, ma era difficile distinguerli sotto la neve scintillante. Nonostante il gelo, in quel luogo c’era una strana pace e Federico si sedette sotto i raggi tiepidi del sole invernale. «È così da quando la nostra regina è scomparsa.» Il ragazzo si voltò e si ritrovò davanti un Regogur sorridente e amichevole. «Questo era il giardino preferito di Illiria. Se ne occupava personalmente e ti assicuro che era un vero splendore. C’erano fiori e piante meravigliosi e dagli alberi nascevano i frutti più dolci che si possano immaginare» parlando il cavaliere si inoltrò nel giardino, affondando nella neve. «Da quando lei se n’è andata, però…» fece un gesto con la mano invitandolo a guardare.


23 Federico si avvicinò senza comprendere. Si chinò a osservare un cristallo di ghiaccio dalla strana forma e la realtà gli balzò agli occhi: il giardino fiorito c’era ancora. Gli alberi carichi di frutti c’erano ancora. Tutto era esattamente come Regogur lo aveva descritto… solo che era imprigionato nel ghiaccio. Ogni singolo fiore, ogni foglia, ogni filo d’erba era nell’esatto stato in cui si trovava quando il gelo aveva preso il sopravvento. Era una cosa straordinaria, straordinaria e terribile. «Qui tutto dorme. Tutto attende il ritorno di Illiria.» Restarono in silenzio per qualche istante, poi il cavaliere riprese. «Grazie. È molto importante quello che hai deciso di fare per noi.» «Hai parlato con Meth-Han-Non?» «Parlato?» esplose in una sonora risata e gli strizzò un occhio. «Pensi sul serio che ce ne sia bisogno?» Federico sorrise di rimando: gli piaceva quel cavaliere! «Ecco, prego ma… Non ho davvero idea di come potrò aiutarvi. Il nano mi ha detto che dovrò guidarvi però… non saprei da che parte iniziare.» «Non ti preoccupare. Lei ti ha contattato. Ti ha detto in sogno che sei colui che aspettava e proprio attraverso i sogni ti darà indicazioni. Abbi fiducia.» Il ragazzo sorrise ancora e poi starnutì. Stava tremando. «Andiamo, o ti prenderai un colpo, qui, in mezzo alla neve senza neanche un maglione addosso.» Federico avrebbe voluto fargli qualche domanda sul comandante, ma quando Regogur gli ricordò che la colazione li attendeva il pensiero del cibo e del calore della sala del banchetto ebbero la meglio su tutto il resto. *** Era già passata una settimana dal suo arrivo nel regno di Idillio e ancora non sapevano dove dirigersi. Le informazioni che Federico aveva fornito non erano sufficienti per intraprendere una spedizione e il ragazzo cominciava a temere che la sua presenza lì si sarebbe protratta all’infinito. Per ammazzare il tempo i cavalieri si dedicavano all’allenamento e a gare di lotta, mentre il giovane terrestre faceva da spettatore. Regogur e Ighiang erano impegnati in un incontro di lotta quando Neadar chiese a bruciapelo al ragazzo «Ti andrebbe di provare?» Federico aveva accettato con entusiasmo e i due si erano affrontati. Gli altri cavalieri interruppero il combattimento e si misero a osservarli con aria divertita, certi che il loro compagno avrebbe atterrato con facilità il giovane. Ma le loro previsioni si rivelarono errate.


24 Neadar era ben addestrato, abituato ai combattimenti, ma Federico aveva praticato il karate fin dalla più tenera età e con il suo modo di combattere, tanto diverso da quello conosciuto nel regno, mise Neadar in grave difficoltà. Evitava con relativa facilità i colpi dell’altro, deviandoli con movimenti fluidi e precisi, mentre il cavaliere aveva la resistenza dovuta ad anni di battaglie e combattimenti. L’incontro si concluse in parità: Federico aveva conquistato il loro rispetto tanto che promisero di insegnargli l’arte della spada e, dal giorno dopo, cominciarono gli allenamenti. Meganer non prese mai parte a quelle lezioni e un paio di volte Federico provò a chiedere spiegazioni ai suoi maestri. Gli risposero sempre di non preoccuparsi, che era indaffarato. Capì perfettamente che erano scuse, ma preferì non insistere. D’altra parte l’assenza del comandante non lo turbava affatto. Passarono così alcuni giorni. Poi una sera, dopo una lezione particolarmente dura, Federico si era messo a letto dolorante e pieno di lividi e graffi, addormentandosi all’istante. Stavolta ebbe l’immediata certezza di stare sognando. Camminava in una foresta fitta e cupa, fiocamente illuminata da una strana erba fluorescente che non aveva mai visto. L’aria era impregnata da un nauseabondo odore dal retrogusto metallico. Accanto a lui un fiume scorreva lentissimo. Assetato, Federico si chinò per bere e si ritrasse immediatamente, inorridito: quella che scorreva non era acqua, era sangue. Un fiume di sangue, rosso e cupo. Si voltò in preda a un conato di vomito e aprì gli occhi. Era nella sua stanza e sentiva ancora quel fetore di sangue nelle narici, per la prima volta davvero terrorizzato al pensiero di ciò che lo aspettava. *** I quattro cavalieri, Meth-Han-Non e Federico erano riuniti nello studio del nano, seduti intorno a un’altra grande mappa del regno. Il terrestre aveva raccontato l’ultimo sogno e ora gli sguardi di tutti erano puntati su una piccolissima scritta tracciata con cura sulla pergamena: Foresta degli Schritecht. Sotto di essa, direttamente a sud del castello, c’era una grande macchia verde che si estendeva per un buon tratto sulla mappa. La foresta era tagliata in due da una lunga linea azzurra che si tuffava in una chiazza dello stesso colore, su cui troneggiava il nome Lago Tohou, e poi ripartiva verso sud. Poco più giù la colorazione del fiume diventava di un cupo rosso vermiglio.


25 «Bene. Per prima cosa dovremo raggiungere la foresta e il lago Tohou. Da lì proseguiremo verso sud. Partiremo domattina all’alba» disse Meganer. Senza aggiungere una parola lui e gli altri cavalieri si alzarono e lasciarono la stanza. Federico guardò il nano, che stava ancora fissando accigliato la mappa. «Devo… devo andare anche io?» Meth-Han-Non alzò lo sguardo e lo fissò come se non lo riconoscesse. Poi, riprendendosi, rispose «Sì. Credo sia meglio che riposi quanto più possibile questa notte.» Senza aggiungere altro il ragazzo tornò nella sua camera. Cercò di dormire, ma ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva quella linea rossa, simile a un filamento incandescente. Così, quando venne l’ora di alzarsi, non aveva chiuso occhio. Indossò gli abiti che il nano gli aveva procurato e raggiunse gli altri sulla torre più alta del castello. Il solito valletto gli consegnò un caldo mantello e gli assestò una pesante borsa sulle spalle. Erano tutti in silenzio, intenti a osservare un punto imprecisato dell’orizzonte. Era quasi l’alba. Le stelle erano scomparse; il cielo era striato di rosa e violetto. «Cosa stiamo aspettando?» chiese sottovoce a Ighiang. Il cavaliere sorrise e rispose, sollevando il mento «Loro.» Federico strinse gli occhi cercando di mettere a fuoco. Dopo qualche secondo riuscì a distinguere dei puntini scuri all’orizzonte, che sembravano avvicinarsi velocissimi. A ogni istante diventavano più grandi e più vicini. Non ci volle molto perché il ragazzo potesse distinguere le grandi e lunghissime ali membranate, il becco lungo e affilato e la testa che culminava in una protuberanza appuntita. «P… pterodattili…» sussurrò. «Gnush.» lo corresse Ighiang «saranno il nostro mezzo di trasporto.» Prima che potesse ribattere qualcosa il nano gli si avvicinò. «Non ti ringrazieremo mai abbastanza. Cerca di avere cura di te, mio giovane terrestre. Sei pronto a partire?» Federico avrebbe voluto rispondergli No, certo che no, vecchio pazzo. Vuoi davvero che salga in groppa a quei mostri? Se proprio volevi farmi ammazzare non bastava una botta in testa? Ma scoprì di non avere abbastanza saliva in bocca per pronunciare neppure una sillaba. Si limitò a fare un breve cenno con la testa (che lui era assolutamente convinto volesse dire NO!), il nano gli diede una pacca sulla spalla, gli rivolse un ultimo sorriso e si diresse verso Meganer, già a cavallo di una di quelle bestie.


26 Come in trance il giovane si avvicinò a uno dei tre giganteschi esseri. L’immensa testa dell’uccello si chinò all’altezza della sua e per qualche istante di puro e gelido terrore, si fissarono negli occhi. Poi la bestia emise una specie di sbuffo, che investì Federico facendolo barcollare. «Cavalcheremo insieme.» gli sussurrò Neadar all’orecchio nel tentativo di rassicurarlo. «Fai come faccio io.» Si portò sul fianco dello gnush, si arrampicò su un artiglio (un artiglio!!!) che formava una specie di staffa e, lanciando una gamba sopra il dorso, salì a cavalcioni. Dopo aver agganciato saldamente i piedi sotto le ali allungò una mano e la tese verso di lui. Federico, rigido, con gli occhi sbarrati, lo imitò lentamente e si fece praticamente issare dal cavaliere. Fu sempre Neadar ad aiutarlo a mettere i piedi in modo da assicurarli sotto l’ala. «Ecco fatto.» disse alla fine «Ora non c’è pericolo che tu possa cadere.» Allora perché sentiva gocce di sudore freddo colargli sul viso? No, no, no, no… non posso. Non posso. NON POSSO! urlava la sua testa. «In volo!» gridò il comandante. Gli animali si raccolsero per un attimo sulle potenti zampe e schizzarono in alto, tanto velocemente che Federico fu certo di aver lasciato lo stomaco molti metri più in basso. «Buona fortuna!» gridò Meth-Han-Non. Ma le sue parole si persero nel vento. Gli gnush continuarono a salire per un bel pezzo, poi scesero in picchiata per un tratto e si assestarono in un volo orizzontale, più o meno ondulato, sfruttando le correnti d’aria. I cavalieri sembravano divertirsi un mondo, lanciando grida entusiaste. Ma lui non condivideva affatto l’allegria degli altri e rimase per circa un’ora disperatamente aggrappato alla vita di Neadar, stringendo convulsamente le gambe, con lo sguardo fisso al mantello del suo compagno di viaggio. «Tutto bene lì dietro?» gli urlò alla fine il cavaliere cercando di sovrastare il frastuono del vento. Si era voltato e la forza delle raffiche gli sferzò i capelli. Vedendo il pallore sul viso di Federico scoppiò a ridere e suggerì «Se hai paura urla! Servirà a scaricarti.» Federico ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma grida terrorizzate gli fuggirono letteralmente dalla bocca quando l’uccello preistorico si gettò in una vertiginosa picchiata. Tra le imprecazioni stupite degli altri, gli animali cominciarono a scendere sempre di più, disegnando larghe spirali, fino a quando toccarono terra con un tonfo che scosse fino al midollo le ossa dei viaggiatori. «S… Siamo… Siamo arrivati?» balbettò il terrestre.


27 Si trovavano proprio all’ingresso della foresta. «Che diamine fai, stupido animale? Non dovevamo atterrare!» fu la risposta di Neadar. I cavalieri cercarono in ogni modo di far riprendere il volo agli gnush, ma non ci fu nulla da fare. Non appena i rassegnati compagni scesero dalle loro cavalcature, gli animali spiccarono il volo e si allontanarono a tutta velocità. «Che succede?» chiese il ragazzo. «Dovevano portarci molto più in là, ma sembra proprio che non volessero proseguire oltre questo punto.» rispose Ighiang «È molto strano. Non si erano mai comportati così, prima.» «Inutile lamentarsi» intervenne Meganer «faremo meglio a metterci in marcia: ci aspettano molte miglia di foresta da attraversare.» L’unico felice di essere di nuovo con i piedi per terra era Federico. Qualunque foresta sarà meglio di quei cosi pensava. Ma si sbagliava.


28

VALCHIA

Erano ormai alcune ore che la piccola compagnia vagava per la foresta inesplorata, procedendo a fatica sul terreno ricoperto di fango e foglie, aprendosi con le spade un varco tra la fitta vegetazione. Guidavano il gruppo Ighiang e Regogur seguiti da Federico e Neadar. Meganer, silenzioso, formava la retroguardia. La foresta aveva un aspetto cupo e lugubre. Gli immensi alberi erano cresciuti contorcendosi per raggiungere la luce, che solo a stento filtrava tra il fitto fogliame e dava a tutto una colorazione malsana. I tronchi degli alberi erano ricoperti di muschio e funghi e grandi piante parassite vi erano avvinghiate in una presa soffocante. Ovunque aleggiava un vago odore di marcio. «Beh, pensavo peggio.» mormorò Federico. «Giovane terrestre…» incominciò Neadar. «Insomma! Piantala di chiamarmi così! Io sono Federico e basta!» lo apostrofò il ragazzo sorridendo. «D'accordo, Federico. Non farti ingannare dalle apparenze. Questa foresta è pressoché inesplorata non perché non ci sia nessuno che ci abbia provato. I temerari che hanno tentato l’impresa sono quasi tutti morti e i pochi che si sono salvati per poco non hanno perso la ragione. Sono stati questi ultimi a riferire l’esistenza dei mostri feroci e repellenti che danno il nome a questo luogo.» «Schritecht...» Federico trovava difficile pronunciare quel nome. «Esatto. Nella nostra lingua significa “essere vorace”.» «Ma se quelli che hanno detto di averli visti erano sull’orlo della pazzia… Potrebbero essere fantasie, suggestioni…» «Oh, non sottovalutare la fantasia, amico mio. Nel nostro mondo, ora, stanno prendendo il sopravvento gli incubi che nascono dalle fantasie umane. E, credimi, le menti di voi Abitanti del Mondo di Sopra sanno crearne di terribili!» «Hai ragione, avevo quasi dimenticato che non siamo sulla Terra. Certo che mi sembra ancora impossibile che…»


29 «Ora basta! Risparmiate il fiato! La marcia sarà ancora lunga e dobbiamo uscire da qui prima di notte. E state in guardia: non stiamo facendo una scampagnata!» Federico trasalì: non si era accorto che Meganer si fosse avvicinato tanto; ma prima che potesse dire qualcosa il comandante aveva già ripreso la sua posizione solitaria. «Sembra un pezzo di marmo!» commentò il ragazzo sottovoce «ma è sempre così?» Neadar rifletté per qualche istante prima di rispondere. «Ora sì, ma un tempo era molto diverso. Era una persona allegra e amava la compagnia, ma poi, dopo… ATTENTO!» Prima ancora che potesse capire cosa stava succedendo, Neadar lo spinse a terra con una spallata. Si voltò con l’adrenalina che gli scorreva nel corpo come un fiume e vide i quattro cavalieri schierati davanti a lui, con le spade sguainate, pronti ad affrontare una creatura spaventosa, un altro essere venuto fuori dalle favole per bambini. Era un rettile alto quasi tre metri, ricoperto di squame nere e dure come la pietra. Le zampe che fendevano l’aria davanti al muso erano munite di artigli lunghi e acuminati, chiazzati da macchie di sangue rappreso. Gli occhi dalla pupilla verticale erano vermigli e dalle fauci bavose e irte di zanne proveniva un verso rauco, grottesco, e un fetore da mozzare il fiato. Con uno scatto fulmineo della testa la bestia tentò di azzannare uno dei cavalieri che, con un balzo felino, schivò l’attacco. I compagni partirono all’assalto. Federico era gelato dal terrore. Non era vero. Non poteva essere vero! Guardava i cavalieri tirare colpi che rimbalzavano sulle squame durissime, tentare invano di colpire la bestia alla gola. Con un colpo fulmineo della zampa anteriore lo schritecht centrò Ighiang in pieno petto, mandandolo a schiantarsi contro un albero. Senza riflettere un istante di più Federico si alzò, sguainò la spada e accorse in aiuto dei compagni. «Sta’ lontano, imbecille! È troppo pericoloso!» tuonò Meganer infuriato. «Posso aiutarvi! Quel mostro…» «Ti ho detto di stare lontano!» Federico sentiva il sangue ribollirgli nelle vene: chi cavolo si credeva di essere quello? Non poteva trattarlo come un bambino! Avevano bisogno di aiuto ed è proprio ciò che gli avrebbe dato. Strinse la spada come un giavellotto e si scagliò contro il mostro lanciando un improvvisato grido di battaglia.


30 Prima ancora che avesse raggiunto la bestia, lo schritecht si accorse di lui e spalancò la bocca. Una lunga, viscida lingua scura saettò dalle fauci e si attorcigliò intorno al corpo del ragazzo. Poi lo trascinò irresistibilmente verso di sé. Raccogliendo tutto il suo coraggio e spronato dal terrore, Federico cominciò a menare colpi all’impazzata e con uno di essi riuscì a tranciare di netto la lingua violacea. Un grido di dolore e rabbia furiosa sgorgò dalla gola dell’essere insieme a un fiotto di sangue. Meganer approfittò di quell’attimo di debolezza: scattò in avanti e con un unico, preciso e poderoso colpo sferrato alla gola, staccò di netto la grossa testa. Il sangue, spinto dagli ultimi battiti di un cuore morente, sprizzò con forza dalle vene recise e ricadde sui compagni bruciando loro la pelle e impregnando l’aria di un tanfo insopportabile. La compagnia si allontanò in fretta, prima che quell’odore richiamasse altri predatori. Quando furono abbastanza lontani dal luogo del combattimento si ripulirono alla meglio, sciacquandosi in un piccolo corso d’acqua melmoso. Quindi ripresero il cammino, anche se l'atmosfera era visibilmente cambiata. Federico era in preda a sentimenti contrastanti: l’adrenalina che era ancora in circolo gli dava uno strano senso di euforia e di esaltazione, ma la parte razionale, quella che stava già riprendendo il dominio su di lui, gli mostrava chiaramente quanto fosse stato sciocco e impulsivo il suo comportamento. Era stato provocato, è vero. E non poteva restare a guardare mentre gli altri rischiavano la vita per lui. Ma avrebbe dovuto sapere che quello che aveva tentato di fare era al di là delle sue forze e della sua preparazione. Sentiva di dover dire qualcosa. Si fermò di botto, fece un profondo respiro (pessima idea, il fetore che avevano ancora addosso quasi lo fece soffocare) ed esordì, un po’ titubante «Ecco… Io…» «Tu sei solo un idiota!» ruggì Meganer, sporco di sangue, avvolto da un’aura di furia quasi palpabile e con la voce fredda come una lama «Ma ti rendi conto di ciò che hai fatto, pezzo di cretino? Se tu fossi morto, la nostra missione sarebbe fallita ancora prima di cominciare e noi non avremmo più avuto neppure una possibilità di ritrovare…» lo fissò per un istante con espressione truce poi, senza terminare la frase, si voltò e usando la spada come un machete, si diede da fare per aprire una strada nella vegetazione. Federico era rimasto di sasso.


31 Non aveva pensato. Non aveva pensato a nulla. Aveva agito d’istinto, in preda alla paura e alla rabbia. Quello che Meganer aveva detto era vero: lui era la loro guida. Solo a lui era apparsa in sogno la dolce Illiria, e solo lui poteva fornire le indicazioni per ritrovarla. Si sentiva un perfetto idiota! Riprese a camminare con lo sguardo ostinatamente basso, preda di una profonda vergogna: si era comportato come un bambino. «Non fare quella faccia. Meganer era solo preoccupato per te. Non temere, tra poco gli sarà passata. Che vuoi? È fatto così: lui è il comandante.» Il ragazzo alzò lentamente gli occhi e si sentì rinfrancato nel vedere sul volto fanciullesco di Regogur un sorriso comprensivo. Furono necessarie altre lunghe ore di marcia per uscire dal territorio degli schritecht e solo quando si resero conto che l’aria non era più impregnata dell’odore della putrefazione si concessero di riposare un po’. La sera stava calando rapidamente e avevano tutti bisogno di un buon bagno e di un pasto caldo. «Cerchiamo un posto per accamparci, sono distrutto!» propose Ighiang. «Se non sbaglio siamo vicini al lago Tohou» intervenne Regogur «lì vive una persona che potrà darci ospitalità per la notte.» «Cosa? Qui vicino? E chi sarebbe tanto stupido da vivere da queste parti?» chiese Ighiang scrutando il compagno con aria furbetta. Regogur arrossì fino alla punta dei capelli ma si limitò a borbottare, con aria cupa «Seguitemi e basta!» I cinque si avviarono, e dopo poco si inoltrarono in una macchia di alberi più rada delle altre. La superarono e davanti a loro si aprì una vasta area immersa nella luce della luna. La maggior parte di quello spazio era occupato da un grande lago dai riflessi argentei, da cui si levavano ampie volute di vapore, che stagnavano sull’acqua come una scintillante nebbiolina. Dal centro del lago sentirono levarsi un canto dolcissimo, che risuonava attraverso la nebbia in modo strano, quasi arcano. Si avvicinarono alla riva, attirati da quella voce ipnotica, immersi in un’atmosfera surreale. Al centro dello specchio d’acqua calda, adagiata su di una roccia, riposava una giovane ninfa completamente nuda, la cui pelle era resa argentea e lucente dalla luce lunare. La fanciulla, accortasi della loro presenza, interruppe d’improvviso il canto, si tuffò in acqua e nuotando sotto la superficie, si avvicinò, riemergendo a qualche metro dalla riva. «Da quando in qua è vostra abitudine spiare una fanciulla che fa il bagno? La vostra educazione è molto peggiorata, cavalieri, e la tua in particolare, Regogur.»


32 Federico e i cavalieri si voltarono stupiti verso il loro compagno che, un po’ imbarazzato, sghignazzò e fece le presentazioni. «Ragazzi, ricordate Lisea? Era prima danzatrice a palazzo ai tempi di Sua Maestà Illiria. Ecco lei… lei è una mia vecchia amica. Lisea, loro…» «"Vecchia"? A chi hai dato della vecchia? Modera il linguaggio, pupo, o vi rimando a dormire con gli schritecht. E lascia stare le presentazioni. Conosco bene la guardia del corpo della nostra regina. Anzi… no. Chi è il ragazzo?» «Piacere, io sono Federico.» «Federico…» ripeté lei con tono pensoso. «Certo, se ora foste così gentili da voltarvi potrei finalmente uscire dall’acqua e rivestirmi.» Tutti obbedirono, un po’ a malincuore. Lisea scivolò fuori dal lago e indossò una semplice tunica bianca sul corpo sinuoso. Quindi si diresse verso la casetta che sorgeva poco distante dalla sorgente. «Non penserete mica di entrare in casa mia così conciati, vero? Filate a farvi un bagno mentre vi preparo qualcosa da mangiare: avete l’aria di essere affamati!» I cinque si guardarono l’un l’altro e sorrisero, ricordandosi solo ora di essere ancora ricoperti del sangue ormai rappreso dello schritecht, che emanava un odore tutt'altro che piacevole. Lisea si allontanò in silenzio, seguita dallo sguardo di Regogur, mentre gli uomini si spogliarono e si immersero nelle acque calde della sorgente. Il calore diede una sferzata ai muscoli tesi e doloranti. Lisea portò loro del sapone e, dopo essersi finalmente liberati della puzza, i cavalieri e Federico si rilassarono e poterono godere del calore sulla pelle. Il primo a uscire fu proprio Regogur che, dopo essersi sommariamente asciugato e rivestito, entrò in fretta e furia nella casetta della ninfa. Neadar e Ighiang facevano pigramente i morti e Federico osservava con la coda dell’occhio il comandante. Meganer stava in disparte, immerso nell'acqua fino al petto, appoggiato a una roccia con gli occhi chiusi. Il suo corpo era molto più muscoloso di quanto non trapelasse dai vestiti, ed era cosparso di cicatrici, ricordo di mille battaglie, che spiccavano pallide alla luce della luna. I bellissimi capelli, che fino a quel momento erano sempre stati strettamente legati dietro la nuca, ricadevano ora lisci e lunghissimi sulle ampie spalle nude, galleggiando sull’acqua come fili di seta. Assomigliava un po’ alla statua di un dio, immobile e distante; sembrava completamente assorto nei suoi pensieri e inavvicinabile.


33 Federico non avrebbe mai osato disturbarlo, né lo desiderava, in verità. Sentiva una forte ostilità da parte sua e si stava scervellando nel tentativo di capire da cosa potesse derivare. Era un intruso, in quel mondo, era vero. E forse a Meganer dava fastidio dover dipendere dalle indicazioni del terrestre. Lo avevano definito “il prescelto”. Era per quello? Gelosia? Il tanto ammirato e rispettato comandante della guardia della regina era davvero così meschino? Così sciocco? No, non poteva crederci. Federico decise di lasciare da parte la questione, per il momento. Guardò verso la casetta; chissà quanto tempo avrebbero dovuto concedere ai due là dentro, prima di entrare. Con un sospiro stanco si lasciò andare a fare il morto anche lui. L’acqua calda lo cullò dolcemente. *** Regogur sedeva in silenzio su una sedia, osservando Lisea che, impegnata a preparare la cena, gli voltava ostinatamente le spalle. Il cavaliere sapeva per esperienza che quello era il modo della ninfa per raccogliere le idee prima di una bella discussione, quindi le lasciò tutto il tempo necessario. Erano almeno cinque anni che non si vedevano, cioè da quando il cavaliere era partito con i suoi compagni nella missione di ricerca. Quando aveva fatto ritorno al castello aveva scoperto che la ninfa se ne era andata già da un po’ per fare ritorno alla casa in cui era nata, qui sulle rive del lago Tohou. D’un tratto la fanciulla ruppe il silenzio e sbattendo il mestolo con cui rimestava la zuppa nella pentola, sbottò «Finalmente ti sei deciso a farti vivo!!! Lo sai che sono più di cinque anni che ti aspetto? Tranquilla: ci rivediamo appena mi libero un po’…» Al cavaliere venne da ridere: questa era la Lisea che ricordava, focosa e decisa. Ma si trattenne per non farla infuriare ancora di più. «E piantala di fare quella faccia da ebete! Di’ qualcosa. Dammi una sola buona ragione per cui non dovrei metterti questa pentola per cappello e cacciarti da casa mia.» Il cavaliere sorrise suo malgrado: sapeva che lo avrebbe perdonato… se le avesse saputo fornire una spiegazione abbastanza plausibile. «Hai perfettamente ragione a essere arrabbiata, ma non pensare che ti abbia dimenticata. In questi ultimi cinque anni abbiamo continuato disperatamente le ricerche di Illiria, qui su Idillio e sulla Terra.»


34 «Sulla Terra? Allora il ragazzo che è con voi… Avete trovato?…» «Beh, sarebbe più giusto dire che è lui che ha trovato noi…» e il cavaliere proruppe in una grassa risata che rese furente lo sguardo della sua compagna. «È stata una vera fortuna, per noi, perché non sarà più possibile il passaggio se non ritroviamo al più presto la nostra regina. I Cancelli sono definitivamente chiusi.» «Chiusi? Oh per Elthor, non dirmi che la Luce…» Il cavaliere si limitò a scuotere il capo con aria dolente. Poi, senza aggiungere nulla, uscì dalla casa per rientrare poco dopo. Fra le mani stringeva un piccolo cofanetto di legno finemente intarsiato che profumava di cedro. Lo posò sul grembo della ninfa e lo aprì. Al suo interno, su un cuscino blu notte, era adagiata una sottile catenina d’oro, appeso a essa un ciondolo a forma di goccia. Era una pietra, ma aveva la trasparenza dell’acqua del mare e lo stesso colore del cielo. Il pendente emanava una debolissima luminescenza che, a tratti, tremolava e si spegneva. Lisea allungò la mano tremante per sfiorarlo con le dita affusolate «Illiria, amica mia…» una lacrima si impigliò per un istante tra le ciglia lunghe e le scivolò sulla guancia. Il giovane cavaliere la prese tra le braccia e la strinse forte. «Coraggio, non tutto è ancora perduto, abbiamo ancora una possibilità… Grazie a Federico.» poi sollevò dolcemente il volto rigato di lacrime e la baciò. *** Dopo una gustosa cena, annaffiata da birra gelida e spumosa e accompagnata da racconti sull’arrivo di Federico e le ricerche che i cavalieri avevano svolto negli ultimi anni, il piccolo gruppo poté finalmente concedersi un po’ di riposo nei giacigli improvvisati che Lisea aveva preparato per loro. Era già tardi, ma Meganer non riusciva a riposare. Tormentato dai ricordi rinunciò presto al sonno, si alzò e, abbandonata la capanna, uscì nelle tenebre notturne portando con sé i suoi cupi pensieri. Anche Lisea era sveglia. Continuava a ripensare alle parole di Regogur, che giaceva al suo fianco, placidamente addormentato. Quando era ancora danzatrice a palazzo era stata una buona amica di Illiria, forse la sua migliore amica. Si raccontavano tutto e la regina era stata per ore a sentirla parlare del bruno cavaliere che le aveva rapito il cuore. Poi qualcosa era cambiato e Lisea l’aveva vista diventare sempre più triste, sempre più sofferente. Eppure Illiria non si era confidata con lei. Quando poi era


35 scomparsa aveva sperato che la regina si sarebbe in qualche modo messa in contatto con la sua migliore amica. Ma più il tempo passava più scemavano le sue speranze. Alla fine, dopo le numerose ricerche condotte dai cavalieri, si era convinta della sua scomparsa e l’aveva pianta, con sincero dolore, come morta. Con la scomparsa di Illiria il suo mondo era mutato: gli incubi avevano iniziato a prendere il sopravvento, convinti di poter assumere il controllo del regno. Le persone stesse erano cambiate, nessuno si fidava più degli amici, dei compagni, dei fratelli. A quel punto aveva capito che non aveva più senso per lei, restare a palazzo. Era andata a vivere ai limiti di quella che una volta era stata una lussureggiante foresta, nella capanna che l’aveva vista nascere. Erano passati tre anni, da allora. Rivolse nuovamente lo sguardo al cavaliere e gli scostò i riccioli scuri che gli ricadevano disordinati sulla fronte. Anni prima erano stati profondamente innamorati e lui le aveva persino promesso che l’avrebbe sposata… Ma dopo la scomparsa della regina ogni cosa aveva perso la sua bellezza, e lei era partita, convinta di avergli detto addio… fino a quel giorno. Chiuse gli occhi, fece un profondo respiro e li riaprì, come per controllare, ancora una volta, che fosse reale. In tutto quel tempo aveva spesso sognato a occhi aperti di rincontrarlo. Anche quella sera, mentre faceva il bagno, stava pensando a lui. Così non si era stupita di vederlo comparire tra le nebbie del lago. Quando poi aveva capito che era vero, tutto vero, che lui era lì, davanti a lei, era riuscita a stento a trattenersi dal corrergli incontro. Non poteva cedere così facilmente, o Regogur avrebbe pensato di poter fare sempre come voleva. Ma nel momento stesso in cui la voce di lui le aveva accarezzato le orecchie e il profumo della sua pelle l’aveva avvolta, Lisea aveva saputo che non aveva nulla da perdonargli. Sorrise quasi inconsapevolmente. Poi, senza il minimo rumore, scese dal letto e si avvicinò alla finestra aperta per respirare la fresca aria notturna. *** Meganer sedeva silenzioso sulla riva del lago osservando i riflessi della luna rincorrersi sull’acqua. La capanna e il lago erano immersi nel suo chiarore, una piccola isola di luce nel mare di vegetazione che la circondava.


36 Le immagini che avevano affollato i suoi pensieri, i ricordi dolorosi che avrebbe voluto incatenare in un angolo buio della sua coscienza, continuavano a ribollirgli nella mente, confondendosi con fantasie che lo tormentavano come allucinazioni: Illiria, il suo sorriso spento, i suoi occhi colmi di lacrime come quelle che lei aveva tentato invano di nascondergli nel momento in cui l'eterno inverno era sceso sui monti Hogan… Riviveva costantemente quei momenti, mentre lo stomaco si contraeva e la gola si chiudeva togliendogli il respiro. Tutto era silenzio, in quel luogo. Gli unici suoni erano i versi degli animali notturni e il lieve russare dei compagni nella capanna. Non sapeva da quanto si trovasse lì, immerso nei suoi pensieri, quando, d’improvviso, qualcosa lo riscosse. Era un suono estraneo a quel luogo, quasi un sussurro che gli era vorticato intorno per un breve istante, ma sufficiente per metterlo in guardia. Con tutti i sensi in allerta scrutò attentamente l’oscurità che lo fronteggiava, con una mano che sfiorava l’elsa della spada. Attese. Immobile. Poi quel suono si ripeté, simile a un soffio d’aria fredda che gli fece ghiacciare il sangue. Dall’immobilità della foresta, un’ombra emerse dalle altre, scivolando silenziosa come un fiocco di neve. L’ombra indugiò un istante sul limitare del cono di luce. Meganer estrasse la spada mentre un brivido freddo gli scorreva giù per la schiena. Sembrava che quell’essere stesse cercando un passaggio. Si muoveva avanti e indietro, simile a una belva in gabbia, senza decidersi ad attaccare. Era come se la valle fosse protetta da una barriera invisibile. L’ombra tentò di penetrarla, ma nell’istante stesso in cui mosse un passo verso la luce, esplose in un grido straziante di dolore e frustrazione. Rimase lì immobile, producendo quel sussurro agghiacciante. In quel momento Meganer riuscì a percepire una figura alta e incappucciata, avvolta in una cappa nera come la notte. Il guerriero non avrebbe saputo dire se il volto appartenesse a un uomo o a un animale, se quel grido fosse provenuto da un essere vivo o da uno spirito. Il viso di quella cosa era completamente immerso nell’oscurità del cappuccio e l’unica scintilla di vita era la luce sinistra che brillava dove avrebbero dovuto trovarsi gli occhi. Poi la cosa si ritrasse nella foresta e scomparve. Meganer era rimasto paralizzato: lui che aveva affrontato nemici di ogni genere e incubi raccapriccianti, tremava ora come un bambino, incapace di muoversi mentre il sudore gelido gli imperlava la fronte e gli colava sugli occhi.


37 Le gambe cedettero e crollò in terra. *** Lisea aveva seguito tutto dalla finestra. Dalla sua postazione non poteva vedere l’essere che Meganer stava silenziosamente fronteggiando e non capiva perché se ne stesse là in guardia… almeno fino a che l’aria non si era riempita di quell’urlo agghiacciante e inarticolato che l’aveva trapassata come la fredda lama di un coltello. Anche gli altri si erano svegliati, pallidi come lenzuoli, e si erano precipitati fuori dalla capanna per aiutare Meganer. Al loro arrivo trovarono il guerriero accasciato al suolo, ansimante e pallidissimo, mentre stringeva ancora in pugno la spada, tenendola così stretta che le nocche erano completamente bianche. «Meganer! Va tutto bene?» chiese Neadar inginocchiandosi al suo fianco. «Cos’era quella… quella… cosa… ?» Federico non sapeva come definirla. «Non ne ho idea» rispose il cavaliere con voce roca «ma qualunque cosa fosse era spaventosa! In tutta la mia vita non avevo mai provato nulla di simile: è stato come essere imprigionato nel ghiaccio.» «Forza, rientriamo: hai bisogno di qualcosa di forte per tirarti su!» Ighiang e Regogur aiutarono il comandante a rialzarsi e a rientrare nella capanna. Di lì a poco sedevano tutti intorno alla tavola con un bicchiere di vino caldo tra le mani. «Qualunque cosa fosse» concluse Meganer alla fine del suo racconto «non ha potuto penetrare il cono di luce della luna. Quindi dovremmo essere al sicuro, almeno per questa notte. Comunque sarà bene stabilire dei turni di guardia.» «Farò io il primo.» si offerse Ighiang «No, lascia che sia io a farlo!» Il gruppo si voltò verso Federico che sedeva un po’ in disparte, presso il fuoco. Il suo viso era tirato e profonde ombre violacee gli segnavano gli occhi. Era la prima volta che si trovava ad avere a che fare con creature che aveva sempre pensato esistessero solo nei libri e, almeno per quel giorno, ne aveva davvero abbastanza. Ma non aveva dimenticato quello che era successo la mattina ed era deciso a dimostrare agli altri che avrebbero potuto contare su di lui. Meganer lo fissò con uno sguardo profondo e indecifrabile, poi per un attimo inarcò un angolo delle labbra in quello che in altre circostanze sarebbe potuto sembrare un fugace sorriso. «D’accordo. Io farò il secondo. Ora direi che possiamo tornarcene a dormire. Domattina dovremo partire all’alba.»


38 «Io verrò con voi, naturalmente.» Lisea aveva parlato con estrema naturalezza, come per ribadire una cosa ovvia, ma nessuno sembrò considerarla tale. «Non dire sciocchezze!» sbottò Regogur. «Non dico nessuna sciocchezza. Io vengo con voi!» «Guarda che questa non è una scampagnata. Io ti proibisco…» «Tu… cosa? Non hai il diritto di proibirmi un bel niente, signor cavaliere.» «È troppo pericoloso! Non lo capisci? Tu…» «Pensi che non sappia difendermi? Mentre tu andavi in giro per il mondo io ho vissuto qui da sola con gli schritecht come vicini di casa! E poi se ci fosse anche una sola possibilità di trovare Illiria ancora in vita non potrei certo rimanermene qui ad aspettare! Quindi niente discussioni! E ora tutti a letto!» Regogur avrebbe voluto ribattere ancora ma vide l’espressione decisa sul volto della ninfa e si limitò a scuotere il capo, esasperato. Docili come bambini, tornarono tutti ai propri giacigli mentre Federico prese posto accanto alla finestra aperta, tenendo la spada sguainata appoggiata sulle ginocchia. Lentamente scese il silenzio nella capanna e i respiri si fecero profondi e regolari. Qualcuno, probabilmente Regogur, aveva cominciato a russare. Federico sentiva che gli occhi si chiudevano ma si costrinse a restare sveglio. Aveva qualcosa da dimostrare a se stesso e agli altri. Fu con estremo sollievo che, un’ora dopo, lasciò il posto di guardia al comandante. Si gettò sul pagliericcio senza nemmeno spogliarsi e piombò in un sonno profondo e senza sogni. *** L’alba venne presto, forse troppo per Federico che muggì con disapprovazione quando fu svegliato dal tocco di Lisea, che lo stava scrollando dolcemente. Benché ancora preda dei postumi del profondo sonno interrotto, il ragazzo si accorse che la giovane ninfa si era cambiata: la seducente e leggera veste bianca della sera prima era stata sostituita da un paio di pantaloni di cuoio che le si modellavano addosso sottolineando il fisico agile e scattante della donna. Una camicia calda le fasciava il busto mettendo in risalto le curve dolci dei seni, mentre i biondi capelli, lunghi e setosi, erano stretti in una treccia ondeggiante che scendeva fino alla vita e le lasciava scoperte le orecchie a punta. Al fianco portava un’antica spada leggera che, come scoprì poi, era di foggia elfica e le era stata data in dono dalla stessa Illiria. Infine ai graziosi sandali dorati aveva preferito un paio di


39 pesanti stivali. Nel complesso dava davvero l’impressione di essere perfettamente in grado di difendersi! Quando il gruppo si mise in marcia, dopo una veloce colazione, il sole non era ancora sorto del tutto e la nebbiolina lattiginosa aleggiava ancora nell’aria. Camminarono seguendo la riva del fiume emissario del lago, diretti ancora a sud. Regogur e Lisea stavano ostinatamente lontani, ancora irritati per la discussione della notte prima. Mentre il cavaliere, imbronciato, procedeva in testa alla piccola carovana insieme al comandante, la ninfa stava in coda, chiacchierando amabilmente con Neadar. Federico li osservò per un po’, quasi divertito. Poi si portò al fianco di Ighiang e gli chiese «Allora? Dove siamo diretti? Qual è la nostra meta?» «Valchia» rispose brevemente il cavaliere. Al ragazzo tornò in mente la linea rossa che aveva osservato sulla mappa di Meth-Han-Non ed esitò un po’ prima di porre l’altra domanda, di cui non era troppo certo di voler conoscere la risposta. «Perché…» dovette schiarirsi la voce e ritentare «Perché il fiume che ho visto sulla mappa era disegnato in rosso?» Ighiang continuò a guardare dritto davanti a sé, rimanendo in silenzio ancora per qualche istante. Poi trasse un profondo respiro e cominciò a spiegare. «Un tempo, come sai, tutto il regno era sotto il controllo di Illiria. Lei era l’unica che riuscisse a… contenere… l’esuberanza degli incubi, che allora formavano una piccola percentuale degli abitanti del nostro mondo. Lei governava su tutti con saggezza e loro sapevano che era inutile provare a opporsi. D’altra parte, essi vivevano in una regione del regno che apparteneva interamente a loro, senza venire disturbati da nessuno. Così potevano partecipare alla prosperità del regno varcando insieme ai sogni la porta che conduceva al Mondo di Sopra.» «Cosa? Li lasciavate passare? Perché?» Ighiang lo guardò un po’ sorpreso, poi, con un mezzo sorriso, rispose «Semplicemente perché anche gli incubi, come i sogni, fanno parte della mente di voi umani. Sono delle vostre creature e servono al mantenimento dell’equilibrio.» Federico rifletté per qualche istante sulla cosa. Certo, era logico. Ma ricordando alcuni dei suoi incubi peggiori si disse che avrebbe preferito farne a meno. Poi gli venne in mente che, se Idillio era il regno dei sogni e degli incubi, anche i suoi dovevano trovarsi lì, da qualche parte. Quel pensiero gli fece venire la pelle d’oca e si affrettò a riportare tutta la sua attenzione al cavaliere che aveva ripreso a parlare.


40 «Dopo la scomparsa di Illiria quegli stessi incubi pensarono di poter prendere il sopravvento e cominciarono a conquistare altre terre con lo scopo di creare un nuovo regno: Insomnia. Molti di noi, per poter resistere alla desolazione creata dagli incubi, si trasformarono essi stessi in incubi, anche se alcuni riuscirono a mantenere la propria indole. Altri ancora, pur non mutando nell’aspetto, persero se stessi nell’oscurità, fondendosi in essa. Poi gli incubi si divisero e si spartirono il regno, anzi, il mondo creato, poiché nessuno accetterebbe mai di governare un luogo simile. Ma benché ogni regione sia oggi abitata da un certo numero di incubi, per quanto paurosi e raccapriccianti, la regione di Valchia è senz'altro la peggiore. Nella terra di Valchia si stabilirono, in tempi remoti, alcuni dei più potenti maghi oscuri che siano mai esistiti nel nostro mondo. Bramando un potere sempre maggiore, e desiderando l’immortalità più di ogni altra cosa, trovarono il modo di fondersi con i vampiri, dando così origine a un vero e proprio regno nel regno. Per poter creare un ambiente adatto alla loro sopravvivenza cominciarono a rapire gli abitanti del territorio che circondava i loro insediamenti e, con un rito oscuro e potente, li uccisero riversando il loro sangue nel fiume, in modo da trasformare tutta l’acqua nel nutrimento che è essenziale alla loro sopravvivenza. A quel punto scoppiò una guerra fratricida tra i capi clan più potenti, ognuno dei quali voleva assumere il controllo assoluto della nuova razza. Non c’è modo di narrare le stragi e la distruzione che questa guerra ha causato nel nostro mondo ma quando terminò c’era un solo signore a regnare: Valk. Il nuovo signore dei vampiri era un mago potente e crudele. Tutti coloro che gli si erano opposti vennero sacrificati per realizzare la sua più grandiosa opera: il regno di Valchia. Nessuno sa di quali arti si sia servito, ma alla fine riuscì a creare un vasto territorio in cui la notte è perpetua e senza luna. I suoi principali nemici sono stati pietrificati e sono tuttora i pilastri del suo regno. I loro immensi poteri, che pure non sono bastati a sconfiggere Valk, sono quelli che sorreggono la cupola che ricopre il dominio dei vampiri.» Federico aveva la bocca asciutta e dovette provare varie volte prima di riuscire a deglutire. Trovare la voce per porre l’ultima domanda fu una vera sfida. «Quindi… questo fiume… è quello…» Ighiang annuì «Sì. E ci condurrà dritti nel regno di Valchia.» I volti dei due erano l’uno lo specchio dell’atro. Entrambi pallidi e ricoperti da un lieve velo di sudore, nonostante la temperatura tutt’altro che tiepida. Lisea li raggiunse e cominciò a chiacchierare con il cavaliere, che si affrettò a cambiare discorso, visibilmente sollevato.


41 Federico non riusciva a togliersi dalla testa le immagini suscitate dal racconto di Ighiang. Perché Illiria voleva che andassero proprio in un posto simile? Possibile che fosse prigioniera dei mostruosi maghi vampiro? Si chiese se avessero una qualunque possibilità di affrontare quegli esseri e di sopravvivere. Come si poteva combattere contro qualcuno che era immortale e poteva contare sulla magia nera? Meganer aveva un piano? O si stava precipitando alla cieca? In che cavolo di guaio si era cacciato! Basta! si disse Se continuo a pensarci impazzisco. Riportò la sua attenzione al presente e si ritrovò a osservare, divertito, un imbronciato Regogur che si infilava a forza tra Lisea e Ighiang, con evidente disappunto di quest’ultimo. *** Ci volle un intero giorno di cammino per arrivare al limitare della foresta. La sera stava già calando quando si fermarono. A poche centinaia di metri da dove si trovavano, gli alberi che li avevano circondati fino a quel momento si diradavano e si interrompevano bruscamente. Appena oltre la cortina di vegetazione, Federico poté scorgere chiaramente il confine del regno di Valchia. Era la cosa più strana che avesse mai visto. A poca distanza da loro la luce infuocata del tramonto sembrava venire risucchiata dalla tenebra della notte. Un’immensa cupola nera si levava altissima nel cielo ed era tanto grande da non riuscire a scorgerne la fine. «Quella è Valchia.» confermò Neadar avvicinandosi al terrestre. «Ci accampiamo qui.» ordinò Meganer. «Niente fuoco, mi raccomando, sarà una notte di luna piena, ci vedremo comunque. Cambio di guardia a ogni ora.» Ognuno si dedicò ai propri doveri. Appena un’ora dopo, quando il sole era ormai un ricordo e la luna spuntava da dietro l’orizzonte, dormivano tutti, distrutti dalla stanchezza. Quando fu certo che tutti riposavano tranquilli, Federico si alzò, si avvicinò al comandante che faceva il primo turno, e gli sedette accanto in silenzio. Non era certo di cosa volesse. Perché si era avvicinato a lui? Non gli stava neanche simpatico, e sapeva che la cosa era reciproca. Allora cosa lo aveva spinto a sedersi nel buio invece di godersi il meritato riposo? C’erano tante cose assurde, in quel mondo: era tanto strano che si comportasse in modo assurdo anche lui? Fece un profondo sospiro e, tanto per rompere quel silenzio che stava cominciando a diventare imbarazzante, chiese:


42 «Hai mai visto uno di quei… di quei vampiri?» Meganer si voltò verso di lui guardandolo come se si fosse accorto solo in quel momento della sua presenza. «Chi li ha visti non è tornato per raccontarlo.» rispose semplicemente, con il tono di chi dice una cosa ovvia. «Quante possibilità pensi che abbiamo di uscire vivi da questa faccenda?» «Non saprei. So poco riguardo i loro poteri. So che sono praticamente immortali e i più antichi conoscono l’uso della magia. Quando Ill… quando la regina è dovuta intervenire, alla fine della guerra fra clan, per ristabilire l’equilibrio è andata da sola. Non mi ha… non ha mai raccontato cosa sia successo quando si trovava nel regno di Valchia, ma al suo ritorno era molto debole. Se persino lei ha avuto difficoltà con i vampiri, non so quante speranze abbiamo noi. Credo che ci vorrebbe un miracolo… Il problema è che non sappiamo se lei si trovi davvero là. L’unica cosa certa è che dobbiamo entrare lì dentro.» e con il mento indicò in direzione della macchia più scura della notte stessa. «Possiamo solo seguire le indicazioni che ti ha dato e… sperare.» Federico lo vide per la prima volta sotto una luce nuova. Era un cavaliere, un soldato. Aveva affrontato mostri che lui neppure immaginava esistessero. Era il comandante di un gruppo di uomini che lo ammiravano e lo rispettavano. Il rispetto non era qualcosa che si potesse imporre. La disciplina si impone, il rispetto si conquista. Il ragazzo si chiese quali prove avesse affrontato per ottenerlo e gli tornò in mente l’immagine di Meganer, immerso nelle acque del lago Tohou, con il corpo ricoperto di cicatrici. Non sembrava molto più vecchio di lui, eppure nei suoi occhi poteva vedere qualcosa che non aveva mai visto prima: erano occhi di una persona che aveva vissuto mille vite, ognuna delle quali con il suo carico di sofferenze. «Quanti anni hai?» chiese d’impulso. Meganer era tornato a guardare la luna, che cominciava appena ad alzarsi oltre la linea degli alberi. Non si voltò per rispondergli. «Non è possibile risponderti in termini di anni. Noi abitanti di Idillio non abbiamo una vera e propria età. È… difficile da spiegare. Noi nasciamo dalla mente di voi umani, per diventare subito dopo quello che siamo. La nostra vita può avere termine solo in due modi. Se chi ci ha sognato ci dimentica, a quel punto invecchiamo come i mortali e moriamo… in un tempo infinitamente lungo, perché questo mondo non ha tempo. Se invece il nostro ricordo continua a vivere in un angolo della mente del nostro creatore viviamo per sempre, senza poter cambiare… eppure lo facciamo… anche questo è difficile da spiegare… Credo che si possa dire che viviamo sempre e non viviamo mai. Ma non credo che tu possa capire che significa.»


43 Federico rifletté per qualche istante. «Hai ragione, non capisco.» Si alzò e fece per andarsene. Poi, ripensandoci, si rivolse nuovamente al comandante. «Da quando sono qui, questa è la prima volta che parliamo… Ecco, mi dai l’impressione di non fidarti di me. Anzi, sembra che tu ce l’abbia con me. Non so perché sia stato scelto proprio io e non so neppure come finirà e se realmente potrò aiutarvi. Ma, visto che siamo sulla stessa barca, vorrei che potessimo collaborare da amici.» Meganer voltò lentamente la testa. In quel momento avrebbe potuto benissimo avere settant’anni, tanto la stanchezza che emanavano quegli occhi grigi sembrava profonda. «Giovane terrestre… anzi no… Federico. Tu sei l’unica possibilità che la nostra regina ci ha concesso e io per questo ringrazio della tua presenza.» fece una pausa, come se stesse cercando di esprimere a parole qualcosa di troppo profondo, per essere detto «Però, ogni volta che ti guardo io rivivo i miei demoni. Quindi mi dispiace, ma la tua amicizia non la voglio. Mi limiterò a svolgere il mio dovere.» Detto questo, sprofondò nuovamente nella contemplazione della luna. Federico era rimasto senza parole. Avrebbe voluto insistere, chiarire, magari picchiarlo. Ma il cavaliere era tornato a essere la statua del dio greco che aveva visto al lago. Comprese che, almeno per il momento, non avevano più nulla da dirsi e si ritirò in silenzio. *** L’alba arrivò ancora un volta troppo presto. Federico si alzò, stanco e dolorante, pensando con nostalgia a una bella tazza di caffelatte caldo mentre mangiava pane stantio e formaggio. Tutti erano stranamente silenziosi, mentre raccoglievano le proprie cose; persino la voce di Meganer suonò diversa mentre ordinava «In marcia.» Quando raggiunsero la cupola si trovarono davanti a un muro nero, compatto, apparentemente invalicabile. «Dite che si potrà passare di qui?» chiese Lisea. Ighiang si avvicinò alla parete e, con molta cautela, vi appoggiò sopra un mano che scomparve risucchiata nell’oscurità. La ritrasse con un ghigno teso «Sarà come passare sotto una doccia fredda, ma non è solida. Credo sia così scura per impedire a qualsiasi raggio di sole di penetrare.»


44 Uno alla volta oltrepassarono il confine. Quando fu il turno di Federico, il ragazzo trasse un profondo respiro, chiuse gli occhi e si lanciò contro la barriera. Fu proprio come passare sotto un fiotto d’acqua gelido ma non incontrò nessuna resistenza. Quando fu dall’altra parte andò a sbattere contro qualcosa di duro e il colpo gli svuotò i polmoni. Sentì una grande mano afferrarlo prima che potesse cadere. «Tutto bene?» era Regogur. «S… sì… credo.» Federico non era certo di avere gli occhi aperti e, per sicurezza, sbatté le palpebre un paio di volte. Ci vollero diversi minuti prima che i suoi occhi si abituassero all’oscurità pressoché totale di quel luogo. Il cielo era una pozza nera senza fondo in cui non brillavano né la luna né le stelle. L’unica fonte di luce proveniva dalla terra, interamente ricoperta da una specie di erba quasi bianca, formata da finissimi filamenti vagamente luminescenti. Accanto a loro scorreva il fiume, ma il lieve gorgoglio dell’acqua era scomparso. In quel buio non era possibile distinguerlo chiaramente, ma Federico sapeva che il liquido cristallino si era trasformato in qualcos’altro. Gli tornò in mente il sogno. L’aria era impregnata da un nauseabondo odore dal retrogusto metallico. Accanto a lui un fiume scorreva lentissimo. Assetato, si chinò per bere e si ritrasse immediatamente, inorridito: quella che scorreva non era acqua, era sangue. Un fiume di sangue, rosso e cupo. «Ehmm… non per dire ma…» sussurrò Lisea rivolta ai compagni «abbiamo almeno una vaga idea di dove dobbiamo andare?» Silenzio. «Ero presso il fiume» rispose Federico tentando di ignorare l’improvviso desiderio di vomitare «ma mi trovavo in mezzo a una foresta.» Tutti si guardarono intorno aguzzando la vista nell’oscurità. «Mi sembra che laggiù ci sia qualcosa.» avvertì Neadar indicando un punto non troppo distante proprio sul percorso del fiume. Si mossero in quella direzione fino a quando la luminescenza dell’erba non permise loro di distinguere la vaga forma dei primi alberi. Quando li raggiunsero, si resero conto che la foresta descritta dal terrestre era in realtà una vasta macchia di fusti rachitici e tormentati. Cresciute senza luce, le piante avevano un aspetto malaticcio con le chiome scarne e rade che fremevano simili a fantasmi nell’aria stagnante.


45 Si addentrarono nel bosco seguendo il fiume, ma quando si resero conto che si stavano avvicinando a un insediamento cambiarono direzione in tutta fretta e si allontanarono. Quando furono certi di essere a distanza di sicurezza si fermarono in una piccola radura, e si lasciarono cadere sull’erba. «Beh? Che si fa? Dove andiamo?» chiese Regogur rivolto al comandante sedendosi al fianco di Lisea. Meganer scosse il capo con aria abbattuta «Non ne ho davvero idea.» *** Naike sedeva scomposto sul suo trono in marmo nero nella grande sala del castello, e non ne aveva nessuna voglia. Il servo tremante che era entrato nella sua stanza sapeva di aver rischiato la morte, disturbandolo mentre era con quella vergine dalla pelle bianchissima, ma la notizia che portava non poteva attendere. Aveva comunicato al principe che era giunta un’Ombra a chiedere udienza e, sorpreso di non essere stato trasformato in un mucchietto di ceneri fumanti, aveva lasciato la stanza in tutta fretta. Il principe sedeva quindi in attesa, infastidito e incuriosito allo stesso tempo. Un’Ombra che “chiede udienza”. Sogghignò scoprendo i canini affilati. La prima volta che aveva sentito quell’espressione su quello stesso trono sedeva ancora Valk, e il giovane vampiro si era stupito nel vedere con quanta solerzia colui che veniva giudicato l’essere più potente e crudele del loro mondo si fosse piegato alle richieste di quella creatura. Solo dopo, quando aveva scoperto la verità, aveva capito. Ma quel giorno era nata nella sua mente l’idea che il suo sire non era invincibile. Idea che aveva pian piano preso possesso di lui e la sua determinazione, la sua sete di dominio e il suo potere avevano fatto il resto. Ora sedeva su quello che un tempo era stato il trono di Valk. Nonostante ciò, neppure lui aveva potuto opporsi alla richiesta dell’Ombra. Dannazione pensò non è ancora sufficiente. Fece scivolare lo sguardo lungo la sala. Solitamente immersa nell’oscurità quasi totale, era ora parzialmente illuminata da torce fiammeggianti che proiettavano lunghe ombre sulle pareti e sul pavimento di pietra adorno di tappeti. I vampiri non avevano bisogno della luce, né tantomeno del fuoco e del suo calore. La maggior parte di loro lo temevano addirittura… ma non lui. E d’altra parte era inevitabile. Non avrebbe avuto modo di vedere il suo ospite, senza quei giochi di luce.


46 Gli occhi di Naike si soffermarono su un pregevole ritratto affisso su una delle pareti. Vi era raffigurato, a grandezza naturale, un giovane dalla pelle candida e dal volto incantevole. I lunghi capelli neri e setosi scendevano fino alle spalle, confondendosi con il velluto dell’abito che indossava e che sottolineava il fisico asciutto e prestante da combattente. Il viso dai tratti delicati era illuminato dai grandi occhi simili a perle nere che sovrastavano il naso dritto e perfetto. L’unico tocco di colore era dato dalle labbra rosate, tirate in un sorriso scaltro che conferiva un che di inquietante alla figura. Il pittore umano che lo aveva dipinto, quasi cent’anni prima, era stato ripagato con il dono della vita eterna… ammesso che avesse creduto alle favole sulla vita eterna dopo la morte. Il vampiro guardò il suo ritratto e sorrise: era come guardarsi in un specchio, dopotutto. Una lieve corrente d’aria, che fece tremolare le fiamme delle torce, gli annunciò che l’Ombra era entrata nella sala del trono. L’alta figura incappucciata scivolava sul pavimento senza emettere il minimo rumore. Passava di luce in luce, scomparendo nell’ombra. Naike percepì il freddo che si avvicinava insieme all’essere senza volto. Quanto vorrei strappargli quel cappuccio per vedere che cosa nasconde lì sotto! pensò Naike. «Mio sire…» disse l’Ombra piegando la schiena ma non il capo. Come sempre la voce dell’Ombra arrivò prima alla sua mente che alle sue orecchie ma, sebbene la cosa non gli piacesse affatto, Naike sapeva bene di non potersi opporre. «Tu sei il Messaggero e io ti concedo il mio tempo» replicò quindi utilizzando l’antica formula insegnatagli da Valk. Ombre era senza dubbio la definizione migliore per quegli esseri, ma in realtà erano inviati dal loro padrone per svolgere incarichi di qualunque genere e Messaggeri era il titolo che gli era stato assegnato. «È un vero piacere rivedervi in buona salute, spero che la mia presenza qui non vi arrechi noia.» Quanto detestava quella finta devozione. Il vampiro sapeva perfettamente che il Messaggero si stava divertendo un mondo. «Non preoccuparti» disse sbrigativo «per quale motivo il tuo Signore ti ha mandato a me?» «Il mio Signore vi manda i suoi saluti e l’augurio che il vostro regno sia prospero e pacifico.» Naike dovette trattenere un ringhio. Riusciva a percepire distintamente il divertimento dell’Ombra, consapevole del fatto che attaccarlo sarebbe stato un errore. Un grave errore.


47 «Ringrazialo e ricambia l’augurio da parte mia. È solo questo che ti ha spinto qui?» «Egli mi ha mandato a voi per… informarvi… che ci sono degli intrusi sul vostro territorio. Il mio Signore conosce… i vostri calorosi benvenuti… ma è suo desiderio che gli siano consegnati vivi.» «Intrusi, dici?» Anche se non poteva vedere il suo volto, il vampiro fu certo che il Messaggero stesse sorridendo sotto il cappuccio nero. «Si tratta, in parte, di vostre vecchie conoscenze… immagino che vi farà piacere incontrarli di nuovo. Si tratta di quattro cavalieri, una ninfa e di un Abitante del Mondo di Sopra.» «Cavalieri…» ripeté il vampiro stringendo gli occhi, possibile che… «Il mio Signore li vuole vivi e vuole che ciò che portano con loro gli venga consegnato. Si è rivolto a voi, affinché vengano catturati, per… rispetto… nei vostri confronti. Ma appena li avrete presi saranno consegnati a me. Insieme ai loro bagagli.» «Perché gli interessano tanto?» «Questo non deve interessarti!» una fitta acuta trapassò il cervello del vampiro come una lama di ghiaccio, lasciandolo per un istante senza fiato. «Sapete bene che gli ordini del mio Signore non si discutono.» Il desiderio di strappare la testa al Messaggero era tale che Naike dovette aggrapparsi al trono per evitare di assalirlo. Con voce roca si limitò a rispondere «Farò come chiede.» L’Ombra sembrò soddisfatta e si esibì in un altro falso inchino «Bene, principe, attenderò umilmente e non temete, il Signore sarà subito informato della vostra solerzia e dedizione.» C’era una nota di scherno nella sua voce e un bagliore di divertimento nel guizzo della luce che era l’unica scintilla di vita in quelle orbite nere. L’Ombra scivolò via silenziosa come era venuta, mentre il principe rimase sul suo trono, a riflettere. Cavalieri sul suo territorio… sue vecchie conoscenze… Possibile che si trattasse dei cavalieri di Illiria? Se era così, cosa ci facevano nel suo regno? E con loro c’era un terrestre. Avevano qualcosa che il Signore voleva… Chiamò uno dei suoi servitori, diede disposizioni precise per la cattura degli intrusi e fece spegnere le fiaccole. Persino lui, Naike, l’assassino di Valk, il più potente vampiro e mago di tutti i tempi non riusciva a contrastare il potere dei Messaggeri e del loro padrone. Solo le Ombre conoscevano il suo volto e tramite loro governava il mondo occulto. Cosa potevano avere i cavalieri di tanto interessante per lui? Cosa portavano con loro da destare la sua attenzione?


48 Ci avrebbe riflettuto con calma… Ripensò alla giovane dalla pelle bianchissima che lo attendeva. Probabilmente si era addormentata nell’attesa del suo ritorno. Non importava… ci avrebbe pensato lui a svegliarla. *** La compagnia sedeva nella piccola radura, parzialmente nascosta dagli alberi rachitici, alla sola luce prodotta dall’erba luminescente. Non avevano acceso un fuoco per paura di essere individuati e si stringevano l’uno all’altro, confabulando a bassa voce, con le orecchie tese a cogliere qualsiasi rumore. «Pensate che possa trovarsi al castello?» stava chiedendo Lisea. Ogni volta che veniva posta una domanda, gli occhi di tutti saettavano verso Federico. Il giovane aveva raccontato più e più volte il suo sogno, nei minimi particolari, cercando di ricordare ogni dettaglio nella speranza di trovare qualche nuova indicazione. Ma non era emerso nulla di utile. Quegli sguardi, la tensione e la consapevolezza che le sue risposte erano inutili cominciavano davvero a farlo arrabbiare. «È inutile che continuiate a guardarmi così. Non lo so. Vi ho detto tutto quello che ricordo!» rispose brusco. «Se ci ha voluti qui deve esserci un motivo. Se c’è un posto dove può essere tenuta prigioniera è proprio il castello. Dobbiamo trovare il modo di entrare.» la voce di Meganer, seppure bassa, era ferma e decisa. «Temo che il problema non sarà entrare…» intervenne Ighiang. A quelle parole Lisea rabbrividì. Regogur la strinse più forte e propose «E se tentassimo un attacco diretto? Potremmo coglierli di sorpresa…» «Già. Sorprenderemmo un’intera popolazione di vampiri!» concluse Neadar facendo arrossire il guerriero. «Dobbiamo avvicinarci al castello e cercare una via d’ingresso. A quel punto potremo elaborare un piano. Io e Neadar andremo in avanscoperta. Voi ci aspetterete qui. Se non torniamo entro tre ore… tornate indietro il più in fretta possibile e uscite da questa cupola. Una volta al di là dovreste essere al sicuro.» Regogur scattò in piedi «Lascia che sia io a venire con te, comandante.» «No. Devi restare qui con Ighiang per proteggere gli altri in caso qualcosa vada storto. Sei il guerriero più forte. Ricordate che i vampiri non possono essere uccisi con le armi normali. Sarà compito tuo tentare di rallentarli il più possibile.»


49 Il cavaliere si lasciò ricadere pesantemente, conscio di avere un compito importante, vitale, ma restio a farsi lasciare indietro. «Prepariamoci» ordinò Meganer a Neadar. «Comandante» intervenne Ighiang alzandosi. «Posso parlarti un momento in privato?» Meganer lo guardò e rimase stupito dall’espressione angustiata del compagno. Fece un cenno affermativo con la testa e i due si allontanarono di qualche passo. «Comandante…» Ighiang fece un profondo respiro come se gli riuscisse difficile dire ciò che voleva. «Lasciami venire con te. Posso esserti più utile di Neadar.» «Cosa? Era questo che volevi dirmi?» Il cavaliere fece segno di sì con la testa. Meganer rimase in attesa capendo che c’era dell’altro. «Vedi io… non vi ho detto tutto…» Ighiang si sentiva strano. Sapeva che era giunto il momento che aveva temuto e aspettato ma non riusciva a trovare le parole. Scosse la testa. Poi la rialzò, deciso, fissando negli occhi il comandante. Doveva dirlo. Ora. Fece un altro respiro profondo Ora o mai più, pensò. «Io sono…» Senza preavviso Meganer gli fece segno di tacere. Tutti i compagni erano in allarme. Il silenzio assoluto si era improvvisamente riempito di un suono acuto e frusciante. «Che cavolo è?» chiese Federico terrorizzato. Come se qualcuno avesse steso una coperta su di loro, l’oscurità divenne ancora più totale, privandoli anche della luminescenza dell’erba. Improvvisamente brancolavano nel buio quando ogni altro suono fu coperto da un’esplosione di grida assordanti. Nel panico più totale i compagni sguainarono le armi mentre qualcosa gli vorticava furiosamente intorno, colpendoli e separandoli uno dall’altro. «Sono pipistrelli!» gridò Ighiang per sovrastare il frastuono «Vampiri! Non permettetegli di avvicinarsi! Teneteli lontani!» Federico udì gli avvertimenti mentre una tempesta di ali si abbatteva su di lui. Brancolando nel buio andò a sbattere contro qualcosa. Era Lisea. Si misero schiena contro schiena, continuando a roteare la spada alla cieca. Il giovane sentì ben presto il sangue schizzare e colargli addosso, impregnargli le mani rendendo scivolosa l’elsa della spada. Il braccio gli faceva male e i cadaveri invisibili dei pipistrelli caduti minacciavano di farlo scivolare.


50 Sentiva le grida dei compagni e il corpo della ninfa dietro di sé che si muoveva a ritmo frenetico. Le braccia cominciavano a perdere velocità e il peso della spada sembrava aumentare ogni istante di più. Quegli esseri erano troppi: per ognuno che ne abbatteva, Federico sentiva, più che vederli, che gliene piombavano addosso altri dieci. Artigli invisibili gli laceravano la pelle, affondavano nella carne. Ben presto si ritrovò a chiedersi quanto del sangue che lo inzuppava fosse suo. Solo il terrore lo costringeva ancora a muoversi e a sfidare i limiti del suo corpo. D’un tratto si accorse di essere solo. Lisea non era più alle sue spalle, non sentiva più il suo corpo. «Lisea!» gridò «Stai bene?» Il rimprovero della ninfa arrivò da qualche parte non troppo lontano da lui «Idiota non… AHHHHH!!!» «Che succede?» ma nell’istante in cui si voltò verso il punto da cui proveniva la voce si ritrovò avvolto in una nube urlante di ali nere. Tentò di colpire ancora ma l’attimo di distrazione era stato fatale: i pipistrelli lo afferrarono con i loro artigli piantandoglieli nella carne facendolo urlare di dolore. Federico si sentì tirare via e i suoi piedi si staccarono dal terreno senza che potesse evitarlo. Tentò di divincolarsi ma gli artigli si piantarono ancor più in profondità. Le forze gli mancarono e lasciò cadere le braccia. Non sentiva più le voci degli altri Qualcuno mi aiuti… pensò, poi le tenebre invasero anche la sua mente. *** Federico era immerso nelle tenebre. Aveva completamente perso l’orientamento mentre vagava senza meta cercando una via di fuga. Sentiva i pipistrelli, sempre più vicini, che lo incalzavano «Lisea… Regogur… Ci siete? Meganer, Neadar rispondete! C’è qualcuno?» Nessuna risposta: era solo! Continuava a cercarli avanzando a tentoni e gridando i loro nomi; aveva perso la spada e il panico cresceva a ogni passo. D’un tratto una luce, simile a una fiamma tremolante accesa a una grande distanza, brillò nell’oscurità, evanescente e lontana! Senza esitare prese a correre in quella direzione con gli occhi fissi sulla fiamma. Inciampò e cadde più di una volta, perdendola di vista, poiché il


51 sangue delle ferite gli colava negli occhi, ma continuava a correre disperatamente nel timore che la luce potesse svanire. Aveva perso la nozione del tempo e gli sembrava di correre da ore. Le gambe gli facevano male e pesavano come se fossero fatte di piombo, il petto bruciava insopportabilmente e ogni respiro gli procurava lancinanti fitte al fianco. Ma la luce era lì, sempre più vicina, sempre più grande … «Devo camminare, andare avanti. Se gli altri l’hanno vista si saranno diretti sicuramente anche loro verso la luce. I pipistrelli la odiano! Dai, ancora pochi passi … ancora uno … solo un altro …» e in un istante la luce accecante lo avvolse. Rimase immobile, abbagliato da quella luce splendente dopo l’oscurità assoluta, ansante e incapace di trarre un solo respiro. Poi, a poco a poco, gli occhi, che gli dolevano in modo insopportabile, si abituarono a quella luminosità e poté distinguere ciò che lo circondava. La scena che gli si presentò dapprima lo lasciò senza parole, poi lo gettò nello sconforto più totale. Davanti ai suoi occhi si stendeva una distesa immensa di sabbia dorata. Non si vedeva nulla a perdita d’occhio se non cielo, sabbia e dune. Il cielo era di un azzurro tanto intenso da far lacrimare gli occhi e allo zenit, a picco sopra di lui, splendevano in tutto il loro fulgore, tre grandi soli. Federico si voltò di scatto: alle sue spalle il buio tunnel era scomparso e il suo posto era stato preso da un’imponente distesa desertica. Sentì le lacrime brucianti e si chiese se fossero dovute alla luce o alla disperazione Prese a camminare in cerca di ombra. La temperatura era altissima e il vento caldo sollevava nuvole di sabbia che gli incrostavano le ferite seccandogli il sangue sulla pelle. La bocca divenne arida e asciutta, tanto da non riuscire più a deglutire. Ogni respiro era una lama ardente che gli affondava impietosa nei polmoni e la sete divenne un tormento tale da sovrastare ogni altro desiderio. Le ginocchia cedettero. Cadde a terra sfinito, incapace di fare ancora un solo passo. Sentiva il tocco bollente della sabbia che premeva sul suo corpo, ma l’accolse quasi con gioia. Perché affannarsi a cercare la salvezza? Che qualcuno mi aiuti… fa che qualcuno venga ad aiutarmi… pensò un istante prima di abbandonarsi all’oblio. Non sapeva da quanto tempo si trovasse lì. Una parte della sua mente, ancora cosciente, si chiedeva dove fossero finiti gli altri e sperò con tutto il cuore che non si trovassero anche loro nella sua situazione. Gli tornarono in mente le lezioni di storia sugli antichi Egizi.


52 Il caldo secco del deserto ha giocato un ruolo fondamentale nella conservazione delle mummie, e ha permesso che arrivassero praticamente intatte fino ai nostri giorni. Chissà se anche lui si sarebbe trasformato in una mummia. Magari qualcuno lo avrebbe ritrovato tra mille anni e si sarebbe chiesto cosa diavolo ci facesse un ragazzo, da solo, in un posto simile… Aveva scritto una tesina sulla conservazione delle mummie. Lo avevano affascinato i procedimenti utilizzati e la conoscenza che gli antichi Egizi avevano degli elementi chimici. Il professore ne era stato particolarmente soddisfatto. Segnando un nove sul registro, accanto al suo nome, aveva detto Ottimo lavoro, Federico! Federico… La sua mente tornò al presente: qualcuno lo aveva chiamato. La sabbia bruciava. Il calore del sole gli infuocava i vestiti. Tentò di deglutire, ma non aveva saliva nella bocca riarsa. Sentiva la lingua gonfia. Che razza di idiota, pensò, sono già alle allucinazioni… Tentò di abbandonarsi di nuovo a quello stato di semi-incoscienza che, quanto meno, non gli faceva sentire il dolore. Un refolo d’aria fresca gli stuzzicò l’orecchio. Federico. Aprì di scatto gli occhi e miriadi di scintille bianche gli esplosero davanti. Qualcuno lo aveva davvero chiamato. Ancora accecato, tentò di fare forza sulle braccia per sollevarsi, ma i muscoli cominciarono a tremare e poi cedettero, facendolo ripiombare col volto nella sabbia. Gli salirono di nuovo le lacrime agli occhi e colarono sulle guance scavando dei solchi nella polvere che gli ricopriva il viso. «Federico, svegliati.» e sentì il tocco di una mano, fresca e gentile, che gli accarezzava il volto asciugandogli le lacrime. A quel tocco il giovane sentì rinascere la speranza. Raccolse ogni residuo di forza che gli rimaneva in corpo per sollevarsi. Riuscì ad alzarsi e, sollevando la testa, vide inginocchiata accanto a lui la creatura di tutti i suoi sogni, la giovane regina dai capelli d’oro e dagli occhi di giada, la bella ninfa che andavano cercando. La osservò sbigottito mentre lei sorrideva dolcemente. «Perché ti disperi così?» la sua voce era come lo scorrere delle acque di un limpido ruscello di montagna e agì come un balsamo sul corpo ferito di Federico. «Tu?… Allora tutto questo è… ?»


53 Lei gli sorrise, se possibile, ancora più dolcemente «Sì, è un sogno. Ora coraggio: alzati e vieni con me.» Meccanicamente il ragazzo si alzò, mentre la fatica e il dolore diventavano solo un ricordo. La bella ninfa lo condusse all’ombra di una palma poco distante «Prima qui non c’era nulla!» «Te l’ho detto: questo è un sogno.» Federico la guardò per qualche istante senza parlare. Poi capì il significato della sua presenza. Allora… è un’altra indicazione? Non ti troveremo nel territorio di Valchia!» poi guardandosi intorno aggiunse «È questo quello che ci aspetta?». Restò sbigottito per un attimo. «Ma allora perché ci hai spedito in mezzo a quei mostri?» Illiria non rispose. Sollevò un lembo della sua veste d’argento e cominciò a pulirgli le ferite. Federico sussultò dal dolore. «AHIA! Ma non era un sogno?» Illiria sorrise indulgente «Ricorda che questo non è il tuo mondo. Questo è il mondo dei sogni e i tuoi, qui, diventano realtà. Quello che ti accade quando dormi è altrettanto reale di quello che fai quando sei sveglio.» I due, per alcuni istanti, rimasero in silenzio mentre la regina continuava a prestargli le sue cure. Federico non sapeva se fossero trascorse ore o appena pochi attimi ma, d’un tratto, lei interruppe il silenzio «Ora devo andare.» «Aspetta!» scattò in piedi: finalmente aveva capito, come aveva potuto essere così stupido? «Se ogni mio sogno è reale… allora tu sei veramente qui. Ora. Non devo fare altro che riportarti indietro! Il regno di Idillio ha bisogno di te! Gli Incubi stanno prendendo il sopravvento!» Il dolce sorriso della ninfa si tinse di dolore e la tristezza le offuscò gli occhi «Io… non posso. Si sta svegliando e io devo andare. E anche tu. I tuoi compagni hanno bisogno di te.» Poi la sua voce divenne lontana, come il sussurro del vento «Vi prego, fate presto» e mentre parlava una lacrima le tremò tra le ciglia e scivolò lungo la guancia. «No! Aspetta!» Federico non le avrebbe permesso di andarsene: se l’avesse riportata con sé sarebbe finito tutto. Tentò di afferrarla ma la terra prese a tremare con tanta forza da fargli perdere l’equilibrio. Un rombo sordo riempì l’aria rovente e si alzarono cumuli di polvere mentre il deserto si spaccava in due, aprendo tra di loro una voragine che si allargava a vista d’occhio, trascinando con sé una cascata di sabbia dorata. L’immagine della regina fu avvolta dalla polvere e scomparve, mentre il giovane precipitava nuovamente nelle tenebre supplicandola di non andare.


54

*** Naike sedeva ancora una volta sul suo trono, intento a fissare un mucchio disordinato di borse e armi, gettato a terra davanti a lui, accanto a un mucchietto di ceneri fumanti. Il principe vampiro era completamente immobile, ma la strana luce che gli brillava negli occhi rivelava il lavoro febbrile della sua mente. «Il Messaggero è qui, mio sire, e chiede il permesso di vedervi.» annunciò un servitore con voce deferente. Un lampo attraversò gli occhi di Naike e un sorriso di sfida illuminò per un istante la diafana pelle del viso. Sapeva che la "richiesta" del Messaggero era solo un modo per prenderlo in giro, ma questa volta sarebbe stato diverso. «Fallo entrare!» ordinò ansioso. Il Messaggero scivolò silenzioso attraverso le ombre della stanza comparendo, proprio come un’ombra che prende forma, ai piedi del trono. «Sire…» incominciò esibendosi nella solita parodia di un inchino. Naike sentì un brivido corrergli per la schiena. La capacità di incutere terrore era una delle prerogative che il Maestro aveva concesso ai suoi discepoli e permetteva loro di eseguire più facilmente i suoi ordini. Ma questa volta sarebbe andata diversamente. Aveva riflettuto a lungo e quello che era accaduto poco prima aveva rafforzato i suoi sospetti. Aveva iniziato a capire… e il Messaggero gli avrebbe dato la certezza. «Ho saputo che avete svolto il compito che vi era stato assegnato. Il Signore ne sarà compiaciuto.» Naike fece un cenno di ringraziamento con il capo, le labbra tese in un ghigno «Sono qui per servirlo.» «Dove sono i prigionieri?» «Nelle segrete. Li ho fatti accomodare lì.» «Sono tutti… vivi?» «Sì. I miei animaletti si sono limitati a giocarci un po’… avranno forse qualche ammaccatura ma sono decisamente vivi.» «Bene, molto bene! E…» Naike vide l’oscurità, sotto il cappuccio del servitore dell’Oscuro Signore, turbinare e inspessirsi. Poteva quasi vedere l’Ombra leccarsi le labbra, assaporando la vittoria. «Avete… perquisito i loro bagagli?» Naike inclinò leggermente la testa e socchiuse gli occhi, come se stesse pensando. Poi si alzò dal suo seggio e discese teatralmente i pochi gradini che lo separavano dal suo “ospite” sospirando «Ahimè!»


55 Sotto il cappuccio dell’Ombra l’oscurità si bloccò all’improvviso, con somma soddisfazione del principe «Cosa significa?» la voce del Messaggero era minacciosa, bassa, simile a un ringhio. Naike non rispose ma, assaporando quel momento di trionfo, la oltrepassò in silenzio. Si chinò sul mucchietto di cenere, ne raccolse una manciata e se la fece scorrere tra le dita. «C’era qualcosa in particolare… che interessava al mio Signore?» L’ombra rimase in silenzio per qualche istante. Quanto poteva rivelare a quel vampiro? Sapeva di potersene sbarazzare in pochi istanti, se fosse stato necessario. Ma era possibile che il Maestro potesse ancora sfruttarlo. Si decise ma, a ogni buon conto, intensificò la sua aura. «Una pietra.» Naike sentì il potere del Messaggero premere contro di lui, strisciargli sulla pelle e afferrarlo alla gola, ma questa volta gli avrebbe dimostrato con chi aveva a che fare. Attingendo ai suoi poteri creò intorno a sé una barriera. Poteva ancora sentire l’aura dell’Ombra su di sé, ma riusciva a sopportarla. «Perché il Signore dovrebbe scomodare una sua Ombra per una semplice pietra?» chiese con affettata ingenuità. Il respiro del Messaggero, più simile al sibilo di un serpente, era l’unico rumore udibile nella stanza. «Sire… sapete bene che il Signore non ama i ficcanaso! Egli vi ha ordinato di trovare quella pietra… e voi avete un solo dovere: obbedire!» Naike sentì una fitta acuta trapassargli il cervello. Il suo potere era spaventoso ma non gliel’avrebbe data vinta: doveva avere una conferma. Il vampiro si concentrò ignorando il dolore. «Certo, ogni ordine del Signore sarà eseguito… ma… ammetterai che la cosa sia… per lo meno curiosa. Mi sono chiesto: quale pietra può avere così tanto valore per Colui che è, per il … mio Signore?» Il dolore aumentava come un ruscello che si gonfia sotto un acquazzone. Naike sentì la sua volontà vacillare. Perché non cedere e fare in modo che smettesse? No! Qualcosa gridò dalle profondità del suo essere. Se hai ragione, può cambiare tutto! «Questo non deve interessarti! Dimmi della pietra!» ordinò il Messaggero avanzando minaccioso verso il principe. Dov'è finito il voi? pensò Naike assaporando l’ebbrezza della vittoria incombente mentre il dolore gli martellava furiosamente in testa quasi oscurandogli la vista. «Li abbiamo perquisiti, ma nessuno aveva una pietra di qualsiasi tipo, in quanto ai loro bagagli…» sorrise mettendo in mostra i bianchi canini affilati e


56 fu tentato di tergiversare ancora, ma una nuova scarica particolarmente violenta lo convinse a portare avanti il “gioco” «Non è stato possibile neppure toccarli!» Il dolore cessò all’istante lasciando il vampiro esausto e dolorante in preda a una sorta di ebbrezza. L’Ombra gli scivolò vicino, tanto che Naike percepì il freddo intenso che emanava da sotto il largo manto. Il principe rabbrividì: se non avesse già conosciuto il gelo della morte sarebbe caduto lì, in quell’istante, trafitto da migliaia di aghi di ghiaccio. Ma lui era un vampiro… per fortuna. Il respiro del Messaggero era più freddo della morte stessa. «Per… quale… motivo?» volle sapere il Messaggero trattenendo a stento la propria collera. Naike indicò il mucchietto di cenere ai suoi piedi «Sono protetti da una volontà potente e antica. Quella polvere è tutto ciò che rimane di chi ha provato a toccare i bagagli. Il fuoco che da essi si è sprigionato ha divorato i miei servi.» Sembrò che la rivelazione avesse colpito nel segno e, se fosse stato possibile, avrebbe detto che l’Ombra era impallidita. Allora continuò a voce più alta e chiara «Erano fiamme blu! Mi è già capitato di vederle… Molti, molti anni fa. Solo una persona può averle create: il consigliere della Regina, il nano Meth-Han-Non.» Il suo sorriso si accentuò, bramoso, mentre i suoi occhi cominciarono a scintillare di fiamme rossastre «E… se egli la protegge con le sue arti quella pietra può essere solo…» ma non poté terminare la frase, sommersa dal ruggito di rabbia dell’Ombra. Un’onda di energia di inaudita potenza travolse il principe dell’oscurità, lo sollevò da terra scaraventandolo attraverso la sala, fino a farlo schiantare contro il trono di pietra. Nel momento dell’impatto Naike sentì le ossa della spalla frantumarsi come gusci di noce vuoti, ma trattenne un grido di dolore strozzandolo nella gola. Mentre si rialzava con il mantello lacerato, la spalla e il braccio contorti in modo innaturale, la smorfia di dolore si trasformò in un ghigno di trionfo. Dunque era vero: aveva lì, a portata di mano, la Pietra di Luna, il potere di Illiria. Neppure l’Ombra poteva toccarla e sarebbe stato necessario un intervento diretto del suo Maestro. Era per questo che avevano bisogno di lui: senza il suo aiuto il Signore delle Ombre non avrebbe potuto averla. «Verme bastardo!» la voce del Messaggero era carica di odio e il freddo glaciale congelava il braccio ferito del vampiro anche a quella distanza. Ogni traccia di ironia e di finto servilismo era scomparsa, sostituita da una vampata d’odio quasi palpabile. «Ho capito benissimo le tue intenzioni,


57 avanzo di carne putrida. Ma sappi che non ti conviene metterti contro il mio Signore!» «Non sia mai detto! E non capisco cosa intendi dire, Messaggero» rispose Naike con studiata voce melliflua. «La mia era una semplice supposizione. Naturalmente vi consegnerò la pietra appena entrerà in mio possesso. Sono al servizio del mio Signore» concluse con un inchino teatrale e scoccando all’Ombra incappucciata uno sguardo penetrante: ora le parti si erano invertite. Sembrò che l’Ombra si trattenesse a stento dallo strappare la testa al vampiro, ma la sua aura aveva invaso la stanza e oscurato la luce delle torce. «Me lo auguro… per voi… Sire. Ma sappiate che avete tempo solo dodici ore per consegnarmi quello che dovete. E non temete: il Signore sarà messo al corrente di ogni parola del nostro incontro.» Toh? Siamo tornati al voi, pensò fugacemente Naike, ma il Messaggero si era nuovamente fuso tra le ombre. Sicuramente era corso dal suo padrone a riferire l’accaduto. Naike si accasciò dolorante sul trono di pietra. La partita è iniziata: non posso più tirarmi indietro! Ora che la tensione era calata, il braccio e la spalla lo tormentavano insopportabilmente. Poco male, mi sto giocando tutto, quindi si rialzò e, dopo aver mandato a chiamare la guaritrice, si rinchiuse nelle sue stanze per riposare. *** Meganer giaceva supino sul freddo pavimento di una cella. Era tornato in sé già da qualche minuto, ma la constatazione che ogni movimento gli procurava dolori strazianti ai muscoli e alla schiena lo convinse a rimanere ancora sdraiato, tentando di ricostruire quello che era accaduto. Quando i pipistrelli li avevano attaccati era stato diviso dal gruppo e privato della vista dall’oscurità artificiale e dalla massa dei pipistrelli. Stremato, alla fine era stato sopraffatto, preso prigioniero e condotto privo di sensi in quel luogo oscuro che, tirando a indovinare, doveva essere una qualche prigione, forse nelle segrete del castello di Valchia. Probabilmente anche agli altri era toccata la stessa sorte. Gli altri! Intontito com’era dal dolore delle ferite e irrigidito dal duro giaciglio non aveva più pensato a loro.


58 Si mise a sedere con uno scatto improvviso che gli strappò un grugnito di dolore e dovette appoggiarsi al muro per frenare le vertigini prodotte dagli spasmi. I suoi compagni erano tutti nella cella: privi di sensi e ricoperti di graffi e sangue, ma vivi. Prese a scuoterli uno ad uno e ben presto si ripresero tutti, a eccezione di Federico. Non potendo fare nulla per lui, lo coprirono con un mantello e lo lasciarono riposare, con Lisea a vegliarlo. «Qualcuno di voi ha idea di dove siamo?» chiese Neadar. «Così, a naso, direi… in una prigione!» gli rispose ironico Ighiang ricevendo in risposta un'occhiataccia truce dal cavaliere. «Piantatela! Non è certo il momento!» intervenne Regogur tentando di tamponare il sangue che gli scorreva da un grosso taglio sopra un sopracciglio «La situazione non è delle migliori…» «Prenditela con quell'idiota!» «Idiota? Ti manca il senso dell’umorismo!» «Visto che tu invece ne hai tanto…», rispose sprezzante Neadar, «avresti dovuto fare il buffone, non il cavaliere!» Il volto di Ighiang divenne paonazzo dalla rabbia, e stava già alzandosi per riportare all'ordine lo “sfrontato”, quando intervenne Meganer «Piantatela, voi due! Non è il momento di litigare» e chiuse la questione rivolgendo a entrambi uno sguardo tutt’altro che scherzoso. Gli animi si placarono all’istante ma Neadar si andò a sedere vicino a Lisea, impegnata a curare alla meglio le ferite di Federico. «Allora, comandante, che ne pensi?» chiese Regogur «Se le mie supposizioni sono esatte ci troviamo nelle segrete del castello. Non credo ci siano altri prigionieri: da quando siamo qui non ho sentito nessun suono provenire dalle altre celle.» «Ma perché non ci hanno uccisi invece di catturarci?» «Non lo so: è possibile che vogliano interrogarci sul perché siamo entrati nel loro territorio.» Ighiang sbottò in una risata cupa. «Cosa ci trovi di tanto divertente?» chiese Regogur acido «La paura ti ha fatto impazzire?» «No, non me. I pazzi siete voi se credete una cosa simile. E non sapete nulla dei vampiri: non prendono prigionieri. Li mangiano. No… devono volere qualcosa di più da noi.» «Da noi? E cosa…?» Regogur e Meganer si guardarono colti dal medesimo sospetto.


59 «Bravi! Finalmente ci siete arrivati: cosa abbiamo noi, di così importante che possa privare quei mostri del piacere di succhiarci il sangue fino all’ultima goccia?» Lo sguardo di Meganer era cupo e nel silenzio che era calato le parole di Regogur, appena sussurrate, risuonarono come un colpo di gong in una chiesa «La Pietra di Luna.» Il silenzio che seguì fu bruscamente interrotto dal richiamo di Neadar «Comandante! Vieni, presto, sta accadendo qualcosa di strano!» I cavalieri si avvicinarono preoccupati e si guardarono l’un l’altro senza capire. Poi Lisea disse: «Guardate le ferite! È incredibile!» Meganer si inginocchiò accanto al terrestre «C’è qualcosa… e sta aumentando a vista d’occhio! Sembra…» con cautela prese un pizzico della sostanza che incrostava la pelle del ragazzo, la strofinò con le dita e la saggiò con la punta della lingua. «È sabbia » dichiarò sputando i residui. «Sabbia?» ripeté incredulo Regogur «E come diamine c’è finita della sabbia nelle ferite di Federico?!» «L’unico luogo che conosco nel regno in cui si trovi della sabbia» disse pensoso Neadar «è il Deserto dei Tre Soli. Ma si trova a sud, molto oltre il confine di Valchia.» «È possibile che non ci troviamo più nella terra dei vampiri?» ipotizzò Regogur. «Non sappiamo per quanto siamo rimasti svenuti e i pipistrelli potrebbero averci portato chissà dove.» «Ma i pipistrelli sono animali notturni» chiarì Lisea. «Non possono averci trasportati così lontano. Inoltre, che io sappia, non ci sono costruzioni di pietra, nel deserto. Non hanno mai costruito città, lì.» «No. Penso che Lisea abbia ragione. Siamo ancora a Valchia. Anche se non riesco a spiegarmi da dove arrivi la sabbia. Nessun altro di noi ne ha addosso.» ammise Meganer. «Oltretutto fino a poco fa non c’era nulla. Lo stavo medicando e mi sarei accorta di tutta questa roba.» chiarì Lisea. Per alcuni momenti il gruppo rimase in silenzio, assiepato intorno al corpo di Federico. Ighiang si chinò sul ragazzo e si rialzò con un sorrisetto enigmatico «Ne volete una migliore? La sabbia sta svanendo senza lasciare traccia!» «Non ho mai visto nulla di simile!» dichiarò Neadar confuso. «Forse…» «Cosa, Ighiang? Hai qualche idea?» chiese il comandante.


60 «Può darsi… ma è solo un’ipotesi. Credo dipenda dal fatto che Federico è un terrestre. Nel nostro mondo i sogni sono reali e forse… quelli di Federico lo sono anche di più. Quello che lui sogna diventa realtà.» «Può darsi. Comunque pare proprio che non possiamo farci niente. Dobbiamo solo sperare che si svegli.» concluse Meganer scuotendo la testa. Quindi si alzò e tornò a sedersi con la schiena appoggiata contro il muro. «Spero che si decida presto a farlo: mi preoccupa il fatto che sia ancora privo di sensi!» Regogur rivolse alla ninfa uno sguardo pieno di tenerezza e di affetto. Poi, tentando di confortarla, disse «Stai tranquilla: si riprenderà! Piuttosto, se è vero quello che dice Ighiang, speriamo che sogni una pioggia di cibo. Ho una fame che non ci vedo!» La battuta di Regogur allentò un po’ la tensione e tutti si sistemarono il più comodamente possibile nell’attesa degli eventi. Passò circa un’ora prima che giungesse un nuovo richiamo da parte della ninfa «Si sta svegliando!» Tornarono tutti accanto a Federico, che giaceva con gli occhi spalancati e il respiro affannoso. Lisea, inginocchiata accanto a lui con lo sguardo preoccupato, lo aiutò a mettersi seduto «Fede, come ti senti? Eravamo preoccupati!» Il ragazzo non rispose, con gli occhi stretti e la testa fra le mani nel disperato tentativo di ricordare ogni più piccolo particolare del suo sogno. Gli altri attesero in silenzio. «Federico…» la familiare voce di Regogur lo richiamò alla realtà. Il ragazzo si alzò di scatto e perse l’equilibrio. Il cavaliere lo afferrò prima che sbattesse contro il pavimento di pietra. «Non è qui!» gridò. « C’era un deserto immenso e …» «Calmati. Riprendi fiato. Stai bene?» Federico si guardò intorno spaesato «Sì… grazie Regogur… Ma possiamo andare via da qui! Lei non c’è… Ma… dove siamo? Che ore sono?» Lisea lo tenne giù e lo costrinse a bere dell’acqua dalla sua borraccia. «Probabilmente ci troviamo nelle prigioni del castello di Naike, il principe vampiro.» gli rispose Neadar «in quanto all’ora… non saprei proprio cosa risponderti: questa notte perpetua mi ha fatto perdere totalmente il senso del tempo.» Federico guardò meccanicamente il suo polso sinistro «È l'una! Ma non so se di giorno o di notte» sentenziò infine. Tutti lo guardarono perplessi e lui, stupito, rispose incredulo «Ho… guardato l'orologio…» poi allungò il braccio e mostrò lo strumento. Dalle facce degli altri comprese che non lo conoscevano


61 «Serve per misurare il tempo!» «Federico, di’ un po’… Non è che hai sognato di riempirti le tasche di cibo, per caso?» era stato Regogur a parlare. *** Il Messaggero sedeva a terra circondato dall'oscurità più assoluta. Chiunque fosse entrato in quella stanza avrebbe creduto di essere stato avvolto da una bolla di tenebra, ma nessuno avrebbe osato davvero penetrarvi o disturbare in alcun modo la concentrazione del discepolo. Il Messaggero era preoccupato: al suo signore, Thobien, il cui nome era conosciuto solo dagli altri dei e dalle sue Ombre, non piaceva ricevere brutte notizie e l’adepto tremava al pensiero di quale sarebbe potuta essere la sua reazione. In quelle condizioni era difficile stabilire il contatto. Quella era una delle pratiche che richiedeva maggiore concentrazione e lui stesso l’aveva potuta apprendere solo dopo lunghi anni di noviziato. E solo dopo aver pronunciato il giuramento finale. «Maledizione!» sibilò. Fece un profondo respiro per svuotare la mente da ogni pensiero, lasciò che la sua coscienza scivolasse lentamente su un altro piano e cominciò a cantilenare sottovoce le parole dell’incantesimo di contatto dondolandosi ritmicamente avanti e indietro. Seppe che la magia aveva avuto successo quando sentì nella sua mente la voce profonda e grave del suo padrone «Eccoti, finalmente. Pensavo sapessi che non amo attendere!» «Vi chiedo perdono, padrone, ma si sono… verificati dei fatti che mi hanno trattenuto.» «È successo qualcosa alla pietra?» «No, mio signore» si affrettò a rassicurarlo il suo discepolo «ma …» la voce gli tremò. Sapeva fin troppo bene come Thobien fosse facile all’ira e quanto potessero essere terribili le sue reazioni. Nonostante il timore, gli riportò ogni particolare, dalla cattura dei prigionieri al colloquio-scontro con Naike, fino alla scoperta delle protezioni applicate da Meth-Han-Non. Mentre parlava, l’Ombra sentiva la rabbia di Thobien crescere come una marea nera. Quando raggiunse il culmine la sentì premere nella sua testa annebbiandogli i sensi e minacciando di sopraffarlo. Sapeva che se avesse perso la


62 concentrazione la sua mente si sarebbe dissolta per sempre nello spazio del contatto. Un brivido lo percorse al pensiero che non sarebbe mai più stato in grado di rientrare nel suo corpo. Sarebbe rimasto vuoto come un guscio di lumaca… Ricacciò indietro a forza quel pensiero, in fondo aveva rinunciato al suo corpo quando si era messo al servizio del suo signore. Era per quello che lui e i suoi compagni erano chiamati “Le Ombre”. Lottò per qualche momento per recuperare il controllo sui suoi pensieri e riportò al massimo la concentrazione. Dopo alcuni istanti, che al suo adepto parvero eterni, Thobien parlò con voce profonda e vibrante d’ira «Devi fare in modo che i cavalieri di Illiria consegnino la pietra. Prendete in ostaggio la donna, in modo che non possano usare i loro trucchetti!» «Me ne occuperò personalmente.» «No. Non devono vederti. Ordina a Naike di farlo.» «Mio Signore, la fedeltà di Naike…» L’ira di Thobien si abbatté sull’Ombra come una frusta, che gli lasciò una traccia rovente nella mente. «Sì, mio signore. Farò come ordinate.» si affrettò ad assicurare il Messaggero. «Non è tutto. Appena avrai la pietra dovrai consegnarmela. Usa il condotto. E bada che nessuno sopravviva… Fanne gentile omaggio al principe Naike.» «Come volete, padrone. E… avete ordini per quanto riguarda il vampiro?» «A lui ho intenzione di pensare personalmente. Ma tu non intervenire in nessun caso senza avermi contattato! Hai già commesso questo errore una volta, al lago: non sperare di ottenere ancora il mio perdono!» Il discepolo non osò neppure assentire e rimase in silenzio in attesa di altri ordini. Invece Thobien lo congedò. «Ora va’. Contattami quando avrai eseguito i miei ordini!» «Sì, padrone.» Sentì il contatto svanire e riportò la mente allo stadio normale. Si trovò ansante e sconvolto da un irrefrenabile tremito. Il Messaggero si stupiva ogni volta di come, pur essendo senza corpo, potesse sentire e utilizzare i suoi sensi senza venire tuttavia intaccato da nulla. Si lasciò scivolare sul dorso e rimase ansante sul pavimento domandandosi come avesse reagito alla prova il suo corpo fisico che, in quel momento, era così distante da lui. Doveva mettersi all’opera al più presto, ma poteva concedersi qualche istante ancora. Il suo Signore gli aveva concesso un’altra possibilità, ma sarebbe stata l’ultima. Non avrebbe potuto deluderlo ancora.


63 Sogghignò al pensiero di quello che il suo padrone avrebbe riservato al principe vampiro. Si rimise in piedi e si accinse a eseguire gli ordini di Thobien. *** Naike sedeva in una comoda poltrona nella sua stanza, illuminata solo dal fuoco del camino che emanava bagliori rossastri. Non aveva bisogno né del suo calore né della sua luce, ma trovava divertente poter godere di ciò che avrebbe distrutto molti dei suoi simili. Benché la spalla e il braccio fratturati gli facessero male, sul suo volto troneggiava un’aria soddisfatta e una luce delirante gli brillava negli occhi. Fu distolto dai suoi pensieri quando bussarono alla porta. «Sono Serenia, mio signore, mi avete mandata a chiamare?» «Entra pure: devi offrirmi i tuoi servigi.» La fanciulla che entrò nella stanza era di una bellezza incredibile. Le forme snelle e aggraziate erano sottolineate dalla pelle perfettamente bianca, tanto da sembrare di porcellana. Il viso, dai tratti delicati, era incorniciato da una fluente massa di capelli neri, spartiti nel mezzo, che le ricadevano sulle spalle con la morbidezza della seta. Un sottilissimo cerchietto d’oro le cingeva la fronte, anche se la sua lucentezza era nulla al confronto degli occhi profondi e vellutati come due perle nere, così simili a quelli del suo Sire. La sua bellezza era talmente priva di difetti da mettere paura. Serenia si avvicinò al principe con movimenti agili e morbidi e, mentre la lunga veste che le fasciava il corpo si apriva lasciando scorgere il candore abbagliante delle belle gambe, s’inchinò, poggiando un ginocchio a terra e incrociando le mani sul petto, come era usanza. «In cosa posso servirvi, mio Sire?» Naike la osservò avidamente: lei era una sua creatura. «Ho avuto un “colloquio” con un Messaggero, e il mio braccio ne ha un po’ risentito.» Con nessun altro il principe avrebbe parlato così liberamente. Se fosse stato in grado di amare, lei sarebbe stata la sua compagna. Serenia, con le perfette sopracciglia aggrottate, gli si era avvicinata per constatare i danni. Slacciò dal collo marmoreo un talismano d’oro e, imponendo le mani, intonò la cantilena di un incantesimo di guarigione. Naike la guardava. Il dolore stava rapidamente diminuendo – Serenia era infallibile – e ben presto scomparve del tutto.


64 La giovane vampira rimase a terra ancora qualche istante per riprendere le forze consumate dall’incantesimo, poi, risollevando il capo, domandò «Il mio signore si sente meglio?» Naike la fissò direttamente negli occhi finché lei non distolse lo sguardo, quindi annuì in silenzio. «Mio signore, ora le ossa sono a posto, ma se fossi in voi eviterei questi scontri: non vi fanno bene!» Se chiunque altro avesse osato parlare in quel modo a lui, il principe Naike, sarebbe stato incenerito all’istante. Invece Naike proruppe in una sonora risata e le chiese «Dimmi, Serenia, ti piacerebbe poter viaggiare liberamente per tutto il regno?» la donna sorrise facendo brillare i canini bianchi e acuminati. «Che domande, mio principe. Chi di noi non lo vorrebbe? In tutta la nostra vita non abbiamo visto che i confini del vostro territorio. Varcarli di giorno ci costerebbe la vita.» Il vampiro sorrise in modo enigmatico lanciandole un’occhiata penetrante «Se fosse possibile? Pensa: non essere più rinchiusi in uno spazio così angusto, poter varcare le soglie della cupola che ci protegge e che allo stesso tempo ci tiene prigionieri.» «Certo, sarebbe meraviglioso, ma…» Serenia era preoccupata: una luce delirante brillava in fondo agli occhi del suo principe. O era il riflesso del fuoco? Forse s’ingannava? Naike continuò a parlare fissandola intensamente e, questa volta, lei sostenne il suo sguardo. «Sai perché il Signore delle Ombre ne ha mandata una qui? No? Sappi che gli uomini che ho fatto catturare e condurre nelle segrete sono i cavalieri di Illiria… e hanno con loro la Pietra di Luna!» Per un istante Serenia pensò di non aver capito Poi, con appena un filo di voce, ripeté come un’eco lontana «La pietra di Luna.» Cadde il silenzio. L’unico suono che si percepiva era il crepitio dei ceppi che ardevano sul fuoco. La prima a riprendersi fu la donna «Il Messaggero… Il Signore vuole la pietra!» «Non l’avrà!» La fanciulla ebbe un brivido e gli occhi le si dilatarono per la paura «È troppo pericoloso.» «È la nostra unica possibilità per essere liberi. E poi non posso permettere che il Signore, qualunque sia il suo nome, diventi troppo potente. Già così è un pericolo troppo grande. Ma se avessi la pietra… Serenia!» Lei sollevò meccanicamente il capo e lui glielo prese tra le mani rese fredde dalla morte.


65 «Pensaci: il potere di quella pietra è immenso! Saremmo liberi e l’intero regno cadrebbe in nostro potere… e io ne sarei il signore incontrastato! Neanche il padrone delle Ombre potrebbe ostacolarmi!» «Liberi…» «Sì, liberi.» I loro volti erano, ora, vicinissimi. Lui la baciò mordendole le labbra e lei non tentò di sciogliersi da quell’abbraccio. *** FINE ANTEPRIMA CONTINUA...


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