In uscita il 30/11/2017 (14, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine nombre e inizio dicembre 2017 ( ,99 euro)
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ANTONINO MARINO
IL CUSTODE DI ANIME
ZeroUnoUndici Edizioni
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IL CUSTODE DI ANIME Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-151-8 Copertina: immagine Shutterstock
Prima edizione Novembre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Ai miei due angeli
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CAPITOLO UNO SEMPRE LO STESSO SOGNO
Pensava solo a correre, senza mai voltarsi indietro, e con affanno cercava l’uscita da quel tunnel di cui vedeva solo un’accecante luce bianca. I piedi calpestavano pozzanghere di acqua putrida che qua e là trovava nel suo cammino. Da lontano sentiva l’eco di una voce che con tono speranzoso ripeteva: «Corri, finché sei in tempo, corri!». Non solo la stanchezza della corsa, ma anche la paura che sentiva addosso lo stavano facendo sudare in tutto il corpo e sentire prossimo a crollare a terra per la fatica. Ma le sue gambe non dovevano cedere proprio all’ultimo. La mano destra impugnava una grossa spada che lo aiutava a destreggiarsi tra gli ostacoli che, come se messi apposta sul suo percorso, gli si paravano davanti. Il cuore gli batteva forte, ma voleva e doveva farcela. A un tratto si ritrovò all’interno di una luce bianca. Mentre si copriva gli occhi con la mano libera, pregò con tutta l’anima che ce l’avesse fatta, che il tempo non fosse scaduto. Erik si svegliò di soprassalto con il cuore in gola. Era nel suo letto, la sveglia stava trillando come ogni mattina, e proprio come ogni mattina era immerso in un bagno di sudore. Le coperte, che l’avevano protetto dal freddo della notte, erano
6 sparse a terra, bagnate, per via di quel bicchiere che di sicuro la sera prima conteneva dell’acqua. «Sono le sette, svegliati pigrone!» gridò con forza una voce femminile dal piano inferiore. Erik non ci fece caso: era ancora sotto shock per via del sogno che aveva fatto, quello stesso sogno che ormai turbava tutte le sue notti. Un sogno bizzarro, enigmatico, del quale ricordava poco, se non la fine, la disperata corsa attraverso il tunnel. Il sudore gli scendeva dalla fronte, gli occhi avevano l’iride dilatata, sicuramente per lo spavento. Il suo comportamento era quello di una persona scossa, ma allo stesso tempo rassegnata. Diede un colpetto deciso alla sveglia per interrompere l’assordante cicalio che l’aveva riportato alla realtà. Stanco, provò a cominciare la sua giornata. Ancora mezzo addormentato, con profonde occhiaie nere simili alle toppe di un panda, scese dal letto, raccolse il bicchiere da terra sistemandolo senza troppa attenzione sul comodino e con il piede sinistro spostò le coperte bagnate. Aprì la porta della camera e si diresse verso il bagno per sciacquarsi il viso, rituale che segnava l’inizio di ogni sua giornata scolastica. Una volta rinfrescato, si sentì un po’ meglio e pronto a scendere per la colazione. Dal piano di sotto, si sentiva forte lo strusciare delle pantofole di Erik sul parquet già usurato dal tempo. Si sa che gli studenti sono sempre svogliati la mattina, resi apatici dalla prospettiva di dover andare a scuola, ma la stanchezza che Erik sentiva da qualche tempo non sembrava essere normale. E mentre seduto a tavola continuava a mescolare con il cucchiaio i cereali, diventati pappa nella sua tazza di latte, non
7 faceva altro che chiedersi come mai quel sogno lo stesse tormentando da più di dieci giorni. La cosa alquanto strana era che non si ricordava mai, una volta svegliato, l’inizio di quel sogno o quello che succedeva durante. E quella voce? Di chi era la voce che lo incoraggiava a non mollare e a uscire in fretta? Scosse la testa: erano domande che, come ogni mattina, non avrebbero trovato risposta. Erik era un ragazzo che come tutti i suoi coetanei: usciva con gli amici, perdeva la testa per le ragazze ed era sempre indietro con i compiti. Aveva diciotto anni, un fisico normale, anche se per la nonna materna era sempre troppo magro. La voce che prima gli aveva ricordato i suoi obblighi di studente era quella della madre, professoressa di religione in un istituto privato e con una fede incrollabile. Risalire le scale per un ateo sarebbe stata una tortura: una ventina di quadri e crocefissi, che raffiguravano santi o passi del vangelo, erano tutti appesi in fila su una parete color salmone. Non aveva mai detto niente a sua madre, soprattutto perché mettere in discussione la sua fede avrebbe provocato grossi problemi e urla a più non posso, ma Erik trovava quella parete piuttosto bizzarra. Si vestì in fretta per non perdere l’autobus, sistemò i libri nello zaino e per qualche minuto rimase immobile a guardare la sua immagine riflessa nell’enorme specchio del bagno. Le sue palpebre avevano grande difficoltà a restare sollevate. Non riusciva più a nascondere quei cerchi sotto agli occhi e sapeva con certezza che le gocce per dormire prescritte dal dottore si erano rivelate inutili. Il medico aveva spiegato a Erik e a sua madre che probabilmente tutto dipendeva da qualcosa
8 che lo preoccupava. Diverse potevano essere le cause che avevano scatenato l’insonnia. Un compito in classe imminente, l’ansia per un brutto voto, un litigio in classe tra compagni, una faticosa conquista amorosa. Insomma, un problema rimasto irrisolto che, durante la notte, si manifestava sotto forma di incubo e che lui, come succede a molte persone, tendeva una volta sveglio a non ricordare più. Erik credeva che il medico potesse avere ragione, tuttavia non riusciva a comprendere quale fosse questo problema tanto insormontabile da mandare in tilt le sue notti. Scese di corsa le scale e, prima di uscire, passò un secondo dalla cucina per rubare ai suoi genitori un po’ di caffè, il cui odore nel frattempo si era propagato per tutta la casa. Seppur di nascosto, era arrivato a prendere tre caffè in tutta la giornata. Il lato comico di quella faccenda era che sua madre era assolutamente convinta che non gli piacesse il caffè. Per sua madre, ma anche per suo padre, Erik era ancora “il loro bambino”, e facevano fatica ad accettare che stesse crescendo. Il caffè – diceva sua mamma– lo berrai quando sarai più grande. Il motivo? Temeva che potesse creargli dipendenza, proprio come l’alcol o qualche altra droga. Uscì per prendere il pullman e, chiuso il portone, si accorse che lo scuolabus era già lì, in perfetto orario.
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CAPITOLO DUE L’OMBRA
Dal finestrino abbassato di quel pullman giallo stinto e piuttosto vecchio, Erik guardava il panorama che ormai conosceva a memoria, senza curarsi di chi gli stesse intorno: erano tre anni che l’autista faceva sempre lo stesso percorso, senza mai una piccola deviazione. Sapeva addirittura il numero di case che separavano casa sua dalla scuola: erano 67, tra condomini, piccoli appartamenti e villette indipendenti. Sul pullman c’erano i suoi due migliori amici, Mark e Loren, ma la stanchezza non lo faceva partecipare alle chiacchiere mattutine, anzi, senza neppure cercare di non farsi vedere, abbassò le palpebre, non per dormire, solo per far riposare gli occhi. Nemmeno fece in tempo ad abbassarle che l’autista fece una frenata talmente brusca e improvvisa da provocare le urla di tutti i ragazzi. Alcune di spavento autentico, altre, forse la maggior parte, solo per fare confusione. Erik, colto di sorpresa, a differenza degli altri spalancò gli occhi e vide, nel tempo di qualche secondo, l’ombra di una figura che spariva nel momento stesso in cui l’autista e gli altri ragazzi con timore riaprivano gli occhi. Stava per dire qualcosa, ma si bloccò: c’era la concreta possibilità che, visto il suo stato, tutti pensassero che fosse
10 ancora mezzo addormentato. Lo scuolabus si fermò nel parcheggio della scuola e l’autista informò subito il preside di quello che era successo. Raccontò di aver visto un ragazzo in mezzo alla strada e che aveva frenato solo per evitare d’investirlo. Quello che più lo aveva stupito era che dopo aver inchiodato, si era accorto che davanti al muso del bus non c’era più nessuno. Sapeva di non aver colpito nessuno perché non c’era stato un urto, ma il ragazzo non c’era più. Per accertarsi di non averlo colpito era addirittura sceso, chiedendo poi a quelli sulle prime file se anche loro lo avevano visto. Avevano scosso la testa. Giusto per precauzione, aveva controllato che non mancasse all’appello nessuno studente. Arrivato tra gli ultimi posti, il suo sguardo si era bloccato su Erik. «Eri tu, sì, eri tu». Erik lo aveva guardato con aria interrogativa, senza capire di cosa stesse parlando. Lo sentì addirittura chiedere agli altri ragazzi se fosse salito quando aveva aperto lo sportello per andare a controllare di non aver ucciso nessuno. Ma un ragazzo, compagno di Erik, aveva scosso la testa: «No, Erik è salito tre o quattro fermate fa, come ogni mattina!». Aveva di nuovo scosso la testa: «Sul bus, dopo che lei ha aperto, non è salito nessuno!» L’autista, poco convinto di quella risposta, aveva guardato di nuovo Erik per poi tornare al suo posto. Il preside valutò attentamente il suo resoconto, giungendo alla conclusione che si fosse trattato solo di un gioco di luci. L’importante era che nessuno studente si fosse fatto male. Consigliò comunque all’autista di scusarsi con i ragazzi, giusto per pura formalità, mettendo a tacere definitivamente quella
11 faccenda. Erik, stordito sia dall’incubo sia dalla frenata, scese dallo scuolabus e aspettò Mark e Loren per dire semplicemente loro che anche quella notte il suo sonno era stato un tormento. Mark e Loren, che sapevano ormai da qualche giorno di quella storia, si erano resi conto di come Erik si stesse spengendo. Sempre stanco, facilmente irritabile, distratto. Sempre mezzo addormentato. Era una situazione che lo stava schiacciando e che, se non fosse arrivata a una conclusione, avrebbe mandato in malora la vita di Erik. Loren, comprensiva, prese il palmo della mano di Erik e gli consegnò un sacchettino. «Come ti avevo promesso, ho fatto raccogliere alla mia cara nonna dell’ottima valeriana, con questa dovresti sentirti meglio tanto da riposare come un angelo» disse la ragazza. Erik la ringraziò, anche se in cuor suo sapeva che non sarebbe bastata la valeriana per farlo dormire serenamente. Ma questo non lo disse ovviamente: Loren aveva dimostrato di essere molto premurosa e di tenere davvero a lui. Prima di entrare in classe, Erik si accorse di non aver con sé il quaderno di matematica. Rimuginò qualche istante, poi gli venne in mente che forse la frenata poteva averlo fatto scivolare sullo scuolabus. Di corsa, tornò al parcheggio. Vide l’autobus, ma dell’autista nessuna traccia: doveva essere già andato al solito bar dove ogni mattina faceva colazione. Tutta la zona era ormai deserta a quell’ora. Si avvicinò allo scuolabus e sospirò quando si accorse che le porte erano aperte. Salì e andò verso il suo posto, guardando con attenzione il pavimento. Non fece in tempo ad arrivare posto sul fondo del mezzo che
12 vide il quaderno sotto a un sedile. Lo raccolse e si voltò indietro per tornare a scuola. Quando era vicino all’uscita, di colpo le due porte dello scuolabus e tutti i finestrini si chiusero. Erik sobbalzò per lo spavento e dietro di sé, senza bisogno di voltarsi, percepì un leggero sbuffo d’aria sul collo. Chiuse gli occhi. Non era solo.
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CAPITOLO TRE QUEL SENSO DI SPOSSATEZZA
Si voltò intimorito, ma non c’era nessuno sul pullman. Era solo. Si diresse allora verso la porta anteriore per uscire e constatò con amara sorpresa che era chiusa. Provò ad aprire quella posteriore e a sollevare i finestrini, ma era tutto serrato. D’istinto prese il cellulare per chiamare i suoi amici, ma fu impossibile: non c’era rete. Provato da quella situazione assurda e dalla stanchezza per le troppe notti insonni, Erik si appoggiò a uno dei sedili e, con aria di resa, decise che avrebbe aspettato l’autista. Di sicuro non avrebbe fatto troppo tardi al bar. Dalla posizione in cui si trovava, si accorse che sotto uno dei sedili, poco più avanti, c’era qualcosa che luccicava. Spinto da curiosità, si avvicinò e lo afferrò. Nell’istante in cui le dita di Erik sfiorarono l’oggetto misterioso, le porte e i finestrini del pullman si riaprirono, facendolo sobbalzare. Senza pensarci due volte, Erik si mise quello che aveva trovato in tasca per poi affrettarsi a uscire. Erano le otto e dieci, era già in ritardo e non voleva prendere una nota di richiamo. Se fosse successo, sua madre avrebbe di sicuro fatto una scenata ed era l’ultima cosa di cui Erik avesse bisogno.
14 L’insonnia rendeva difficile, anzi, quasi impossibile essere lucido durante le ore di lezione. Durante le pause tra un corso e l’altro correva a sciacquarsi il viso, e Mark, durante le spiegazioni, lo colpiva con i gomiti. Non era mai stato il primo della classe, ma la media dei suoi voti si era abbassata di colpo, sfiorando livelli troppo bassi perfino per uno come lui: i test scritti erano un disastro, per non parlare delle domande a bruciapelo che lo coglievano sempre di sorpresa e, con la capacità di risposta ridotta praticamente a zero dal troppo sonno che pesava nella sua mente, non riusciva mai a rispondere. Da dodici giorni a quella parte, Erik aveva cominciato a vivere l’improbabile sensazione di provare la fatica di almeno tre persone. Anzi, aveva iniziato a dubitare addirittura della sua lucidità mentale perché anche le decisioni più semplici, come la scelta di cosa mangiare in mensa, lo mandavano in crisi. Una parte di lui lo spingeva verso un hamburger, mentre un’altra gli faceva desiderare una porzione abbondate di spaghetti con le polpette. Una terza, disgustata addirittura da entrambe le scelte, lo spingeva a scegliere un’insalata, con il solo risultato di trasformare quella semplicissima scelta in una vera e propria tragedia, ritrovandosi sempre poco soddisfatto da quello che aveva nel piatto. Riflettendoci su, comprese che non c’era stata una scelta, in questi dodici giorni, che l’avesse veramente convinto. Dopo aver parlato con il suo medico, era arrivato alla conclusione che si trattasse di un acuto stato di apatia e insoddisfazione cronica. Il problema era capire – secondo quanto sosteneva il medico –
15 da cosa derivasse tutto ciò. Le lezioni della giornata terminarono come di consueto alle quattro ed Erik si diresse insieme ai suoi amici al bar del campus per salutare una ragazza, Anita, che dava una mano come barista nel locale. Anita era l’amore di Erik da quando aveva sei anni e insieme frequentavano le scuole elementari. Anche durante gli anni delle scuole medie si erano ritrovati nella stessa classe, ma Erik non era mai riuscito a dichiararsi. Le superiori li avevano divisi: erano in classi diverse, senza contare che frequentavano attività extrascolastiche differenti. Erik, dietro consiglio del padre, aveva scelto le attività sportive vista una sua naturale predisposizione per il baseball; Anita, invece, aveva optato per il club di disegno. Il suo sogno era infatti diventare pittrice. Appena li vide entrare, Anita uscì da dietro al bancone e li raggiunse. Nonostante tutto, avevano mantenuto un bel rapporto, tanto che Erik aveva confidato anche a lei degli incubi che tormentavano il suo ormai malandato riposo. Accennando un piccolo sorriso, Anita disse: «Come è andata questa notte?». Erik, con la sua solita, stupida emozione, che si manifestava ogni volta che i suoi occhi incrociavano lo sguardo della ragazza, rispose: «Male!» e scosse la testa sconsolato. «Sto iniziando ad avere il terrore di addormentarmi!». Anita si dimostrò dispiaciuta, ma come i suoi amici non aveva una soluzione concreta per il problema di Erik. Così, in modo piuttosto goffo, ma sentito, si limitò a dargli una pacca sulla spalla, dicendogli che presto tutto sarebbe tornato alla normalità. Nel frattempo, il gestore del bar la richiamò per
16 servire ai tavoli. La ragazza prima di andarsene diede un bacio sulla fronte a Erik e facendogli occhiolino sussurrò: «Anche se è solo pomeriggio, consideralo il bacio della buona notte». Un sorriso, poi: «mi raccomando, sogni d’oro!». Erik, per la profonda spossatezza, non si rese neppure conto di quello che era effettivamente successo. Se fosse stato in condizioni migliori, sarebbe prima diventato rosso come un peperone per poi svenire dall’emozione per il bacio ricevuto. Indeciso se prendere o meno un caffè, alla fine scelse di tornare a casa per conto suo, lasciando che Loren e Mark passassero del tempo da soli. Voleva riposare un po’, magari distendersi soltanto sul letto, giusto per rilassarsi, nella speranza di schiacciare un pisolino che lo avrebbe di sicuro aiutato. Salutò Anita e poi uscì dal locale.
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CAPITOLO QUATTRO L’ECLISSI SOLARE
Dopo un’attenta riflessione, scelse di non prendere il pullman e percorrere la strada a piedi. Non avrebbe mai rivelato a nessuno che quello che era successo quella mattina lo aveva scosso a tal punto che la prospettiva di salire nuovamente sull’autobus era causa di preoccupazione. A un certo punto, deviò per una scorciatoia e, quando era circa a metà strada da casa, si ricordò dell’oggetto che aveva raccolto sullo scuolabus. Lo tirò subito fuori. Era una statuetta di argilla raffigurante un uomo con un bel paio di ali sulle spalle, che impugnava una spada nella mano destra e un bastone nella sinistra. Nella sua base era incisa una scritta in una lingua che Erik non riconobbe. Forse era latino, si disse, anche se non ne aveva la più pallida idea. Se la rigirò tra le mani poi, in modo distratto e con scarso interesse, la ripose in tasca. Arrivato a casa, si erano fatte già le cinque. Non si accorse dell’assenza dei suoi genitori o di sua sorella, Terry, più piccola di cinque anni. Da una settimana ormai il suo unico scopo era diventato salire le scale e dirigersi verso il corridoio che lo avrebbe portato alla sua stanza e quindi al suo letto. Non voleva dormire, voleva solo riposare gli occhi, senza
18 cadere nel bel gioco di Orfeo, anche se gli sembrava impossibile. Quel pomeriggio la stanchezza si stava facendo sentire in modo molto più pressante. Gettato lo zaino sulla scrivania, si lasciò poi cadere sul letto a faccia in giù. Il problema stava diventando capire se il riposo gli faceva bene o no, perché chiudere gli occhi avrebbe comportato fare di nuovo quegli incubi spaventosi. Con la coda dell’occhio vide cadere dallo zaino il sacchettino di valeriana datogli da Loren. Lo guardò un attimo, poi pensò che tentare non gli sarebbe costato niente. Era un’erba rinomata per le sue qualità benefiche di rilassamento del corpo e soprattutto della mente. Forse si sarebbe rivelato un metodo inutile come gli altri, ma perché non provare? In fin dei conti, fatto trenta, poteva benissimo trentuno! Allungando la mano, lo raccolse e fu in quel momento che vide la sagoma della statuetta fare capolino dalla tasca del cappotto. Allungandosi ancora di più, la tirò fuori per appoggiarla sulla scrivania. Facendo uno sforzo enorme, si alzò dal letto e scese in cucina dove mise a bollire l’acqua per la valeriana. Aspettò che cominciasse a bollire, versò l’infuso nella tazza e dopo averla lasciata raffreddare, iniziò a prenderla a piccoli sorsi, sorreggendosi con la mano libera il viso. Solo allora si rese conto di essere solo. Corrugò la fronte. Possibile che fosse già arrivato il giorno del saggio di danza di Terry? Stava cercando di sforzarsi per darsi una risposta quando sentì suonare al portone. Si alzò barcollante per andare ad aprire e, senza neppure
19 guardare dallo spioncino, la spalancò, chiedendo: «Sì, chi è?». Fuori però non c’era nessuno. Lo scherzo di qualche ragazzino idiota, pensò. Perdonabile comunque, dato che solo fino a un paio di anni prima anche lui si divertiva a fare quel genere di scherzi. Con un leggero sorriso si ricordò di quando fu scoperto dal signor Williams, mentre stava per suonare al suo portone alle tre di notte. Il bersaglio di quello scherzo notturno non era il signor Williams, bensì sua moglie Rose, colpevole di aver raccontato ai suoi genitori del disastro che aveva combinato con la sua palla da baseball. Niente di grave, se non fosse stato per lo specchietto della loro macchina andato in frantumi. Sorridendo chiuse il portone, prese la tazza che aveva lasciato sul tavolo e tornò in camera. Si mise a sedere a gambe incrociate sul letto, osservando ipnoticamente il fondo della tazza. Non voleva conoscere il suo destino come fanno quei veggenti da quattro soldi che dicono di poter prevedere il futuro dalla posizione delle foglie di tè rimaste sul fondo di una tazza, cercava solo di riflettere senza addormentarsi. A un tratto, dalla finestra, si accorse che il cielo si stava oscurando. Guardò meglio, ma non vide nessuna nuvola. Fu allora che ricordò: in televisione avevano parlato di un’eclissi totale di sole. Era da più di un mese che tutti, anche a scuola, non facevano che parlare di quello splendido e raro evento astronomico. Non ne aveva mai vista una e la sua fortuna sarebbe stata doppia perché, stando a quello che avevano detto gli esperti, quella sarebbe stata la più lunga della storia. Sarebbero serviti almeno altri duemila anni perché si ripetesse un evento del
20 genere. Erano stati pubblicati molti romanzi sulla possibile fine del mondo causata dagli effetti catastrofici che l’eclissi avrebbe provocato al pianeta, ma Erik non credeva a tutte quelle sciocchezze. A lui piaceva, di tanto in tanto, guardare le stelle con il suo telescopio e da tempo aveva ormai capito che gli unici eventi catastrofici capaci di distruggere il pianeta erano quelli causati dalla stupidità umana. Non fece in tempo nemmeno a indossare gli occhiali con le lenti oscurate che la stanchezza si fece sentire. E, mentre appoggiava la tazza sulla scrivania, gli sembrò che dalla statuetta provenisse una luce, e chiedendosi cosa volesse dire la frase incisa sulla base, la prese in mano e disse: «Cum dies nox erit, tres animae in uno corpore coniungentur!». Quando il giorno si farà notte, le tre anime si ricongiungeranno in un solo corpo. E poi il buio.
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CAPITOLO CINQUE UNA FITTA NEBBIA
Erik aprì gli occhi e si accorse di non essere più nella sua camera. Sollevò la schiena a fatica: era sul ciglio di una strada poco illuminata. Al posto dei suoi vestiti, ne aveva altri che non gli appartenevano: una tunica bianca e un paio di stivali. Chi era stato a mettergli addosso quei vestiti? si chiese tra sé e sé. Si alzò in piedi e con timore provò a capire dove fosse. «Non può essere che un altro sogno!» disse ad alta voce. Si guardò intorno, disorientato: non aveva mai ricordato niente dell’incubo che aveva turbato le sue notti, se non la corsa finale. All’improvviso ci fu un fascio di luce e in lontananza sentì riecheggiare dei suoni quella strada deserta. Aguzzando la vista, vide una figura venire verso di lui. Si rese conto che l’individuo era vestito in modo uguale al suo. Tunica e stivali. Si fermò a pochi passi dal ragazzo, lo squadrò, poi disse: «Vieni con me, non c’è tempo da perdere. Fai presto, ti stanno aspettando!». Erik ricambiò lo sguardo poi, nonostante tutto, fece quello che gli era stato ordinato. Non aveva molte alternative, specie se
22 voleva fare chiarezza in quella situazione surreale. Si misero in marcia e, durante il cammino, Erik chiese più volte: «Chi è che mi aspetta?». Non ebbe nessuna risposta dall’uomo che nemmeno si era presentato. Erik aveva dei tremendi capogiri, non capiva quale poteva essere il motivo. Aveva notato che intorno a loro si stava creando una nebbia piuttosto fitta, al punto che aveva difficoltà a distinguere l’uomo pochi passi davanti a lui. Fu alla fine costretto a mettere una mano sulla spalla dell’uomo per non perderlo. Proseguirono in quel modo per un tempo indefinito, poi, all’improvviso, nella nebbia si accesero tanto piccole luci. Solo dopo aver camminato ancora capì cos’erano: una grande folla di persone che camminava, strattonandosi, in mezzo a numerose bancarelle. Un mercato. «Dove siamo?» domandò Erik: la curiosità era tanta e sentiva il bisogno di ottenere risposte che però, l’uomo davanti a lui, sembrava non volergli dare. Erik iniziò a guardarsi attorno con curiosità: notò che erano vestiti in un modo che ricordava quello delle illustrazioni dei libri di storia e che quasi tutti, avevano armi appese alle cinture e chi non ne aveva stava contrattando il prezzo di spade e asce con i venditori ambulanti. Si rese anche conto che la maggior parte degli uomini indossavano tuniche bianche e stivali, conferendo loro un’aria indefinita, quasi come se fossero intercambiabili. Un pensiero strano che arrivò così, all’improvviso, ma che rendeva bene l’idea di quello che stava vedendo. Passò poi a guardare gli edifici e pensò che qualunque città fosse, doveva essere molto
23 antica. Non c’erano lampioni a illuminare le strade, ma grossi ceri disposti ai lati. Sembrava un posto tranquillo ma c’erano troppe cose strane fuori dall’ordinario, ed Erik rimase senza parole quando vide una persona piccola di statura che, per discutere con un mercante, aveva i piedi sollevati da terra di almeno venti centimetri. «Non è possibile!» si ripeteva di continuo, cercando di capire se stesso sognando o meno. Nel frattempo la nebbia era quasi scomparsa del tutto. Arrivati a un bivio, senza esitare l’uomo svoltò a destra. Agli occhi di Erik, sembrava un robot, soprattutto per i suoi movimenti rigidi mentre si districava tra le persone. La strada che prima, seppur piena di gente, era molto larga, passo dopo passo si era fatta sempre più stretta, diventando poco alla volta stretta come un vicolo dove potevano procedere solo in fila indiana. Alla fine rimasero solo loro due. L’uomo si fermò bruscamente davanti a una piccola strada che portava al cancello di una casetta. Lentamente si voltò verso il ragazzo. Per qualche minuto entrambi si guardarono senza parlare. Erik, cogliendo questa nuova opportunità, con tono deciso chiese: «Chi sei? Dove mi stai portando? Cos’è questo posto?». L’uomo, ignorandolo, senza batter ciglio si girò, dando di nuovo le spalle, per poi scomparire nel nulla, dissolvendosi. Erik era allibito e spaventato, provava a darsi dei pizzicotti per vedere se tutto ciò fosse solo frutto di un altro dei suoi sogni. A quel punto aveva due sole scelte: imboccare la stradina, oppure tornare indietro e provare a capire qualcosa di ciò che
24 stava succedendo, forse domandando alle persone che aveva incrociato poco prima. Erik pensò sul da farsi attentamente e dopo qualche istante decise di proseguire verso la casetta. Il cancello era già aperto. Sulla porta era stampigliata una scritta a caratteri cubitali: SUONARE PREGO. Senza starci troppo a pensare, Erik lo fece. Nessuno venne ad aprire la porta. Erik riprovò una seconda volta, senza successo. Dai piccoli rumori che provenivano dall’interno, però, capì che qualcuno era dentro. Si sentiva, infatti, il rumore di una sedia che veniva spostata, il gocciolio di un rubinetto lasciato aperto che faceva scorrere incessantemente l’acqua. Senza esitare, gridò: «C’è qualcuno?». Ma nessuno rispose. Il paradosso era che adesso la situazione sembrava essersi invertita: non era più lui ad avere paura, ma chi era dentro quella benedetta casa. Giustamente, era più che plausibile che chi viveva in quella casa non fosse propenso ad aprire a chiunque bussasse alla sua porta, tuttavia, il dubbio restava: perché mai l’uomo scomparso nel nulla si era fermato proprio lì davanti? «Al diavolo!» sbottò, pronto per girare i tacchi e tornare da dove era venuto. D’un tratto, però, la porta si aprì. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD