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Attiliano Gambaretto
IL BUIO DENTRO
ZeroUnoUndici Edizioni
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IL BUIO DENTRO Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-547-9 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Aprile 2022
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1979
Milano, la notte gli faceva paura. Aveva udito gli ultimi passi dei condomini già da qualche ora e il mercoledì, ne era certo, rientravano presto. Era solito ascoltare i rumori che provenivano dalle scale seduto in tinello, vicino la finestra che dava sulla strada, immerso nell'oscurità. Ascoltava guardingo, analizzando anche il più piccolo rumore, come una vedetta partigiana ma senza la possibilità di rispondere se il nemico si fosse materializzato di fronte. Eppure ne era sicuro: prima o poi sarebbe accaduto. Gli anni della guerra non erano mai usciti dalla testa, ogni notte si materializzavano volti e accadimenti di quel tempo. Qualche volta gli capitava anche di piangere. La moglie era a letto, come tutte le sere si era coricata presto. Lui no, era rimasto in tinello con la luce spenta. Succedeva spesso e rimaneva così fino a notte fonda, a volte fino al mattino, con gli spettri nella mente e i rimorsi da cui non riusciva a rinfrancarsi, ma senza inibire la percezione dei rumori. Un sibilo lo scosse. Piegò la testa e indirizzò l'orecchio. Rimase in attesa per un intero minuto, poi scostò la tenda della finestra senza alzarsi dalla poltrona e guardò giù verso la strada rischiarata dai lampioni.
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L'udito era ancora buono e nessuno lo avrebbe colto di sorpresa, lo avrebbe affrontato a testa alta pronto a qualunque epilogo. Lo disse a se stesso per farsi coraggio, in realtà sapeva che la paura era una compagna che non lo avrebbe mai lasciato. Un leggero rumore alla serratura lo scosse ancora. Questa volta ne era sicuro, qualcuno si era già mosso dal pianerottolo e ora stava per entrare nell'appartamento. Rimase immobile, gli occhi sbarrati per scrutare possibili ombre, i pugni chiusi e la bocca semi aperta per modulare il respiro che con il passare dei secondi diveniva più frequente. Un lampo di luce, poi ancora buio. Il sonnifero, pensò, mia moglie di certo non sente nulla e fino domattina dormirà come un ghiro. D'un tratto la porta si aprì, un cono di luce lo accecò e d'istinto mise la mano sugli occhi. «Rimani dove sei, tanto tua moglie non può sentirci.» Una voce, al di là della luce. «E tu come lo sai?» borbottò stringendosi le mani. «Ho visto i flaconi sul comodino» rispose ancora la voce, «non è la prima volta che perlustro la tua casa.» «Chi sei?» sbraitò Giacomo. L'uomo indirizzò la torcia contro se stesso illuminando il viso. «Non ti conosco» urlò. La luce di nuovo sugli occhi, abbagliante, la mano d'istinto sulla fronte, a visiera, per proteggersi e osservare le gambe dell'uomo. «Suvvia, Giacomo. Prova pensarci.»
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«Se sei venuto per regolare i conti di quegli anni, sei venuto per niente. Ci ha già pensato il rimorso a distruggermi!» L'uomo rise. «Ritieni che ciò sia sufficiente?» ancora la voce, sarcastica. «Non ti conosco. Vuoi soldi? Cosa vuoi da me?» la voce di Giacomo tremava. «Dovresti saperlo» rispose l'uomo della torcia. Il fascio di luce cambiò ancora direzione, di nuovo sulla faccia dell'intruso: «Non mi riconosci?» Giacomo sgranò gli occhi, la fronte corrucciata, le sopracciglia arcuate. L'uomo era fermo, con la torcia puntata su di sé. «Tu!» esclamò Giacomo e puntò le mani sui braccioli sollevando il busto. «È la resa dei conti per quello che hai fatto» disse l'uomo mentre la luce si spostava per fermarsi contro una chiave. «Quella chiave non serve più a nulla» esplose Giacomo, adirato. «Te la sei tenuta qui!» «La terza chiave è solo un ricordo, l'ho custodita per dovere.» «Tu parli di dovere? Tu che non hai nemmeno avuto la pietà di raccontare alla madre del ragazzo qualcosa che fosse diverso dal motivo reale per cui gli hai sparato, come ti aveva suggerito il comandante?» «Le ho raccontato la verità. Era giusto così!» «Idiota! Vivi nella miseria in questo lurido buco, ti sei fatto usare da quelli!» La risata rabbiosa fece tremare la torcia.
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La luce lo abbagliò ancora, alzò la mano contro il fascio per proteggersi gli occhi. «Ora è troppo tardi» mormorò l'uomo. Due colpi di pistola risuonarono nella notte.
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1936
Il gorgoglio dell'acqua attirò l'attenzione di Cesira, la governante di casa Curiani. Si avvicinò al camino e controllò la pentola, poi si prodigò per caricarla di tutte le verdure che aveva raccolto nell'orto. Le aveva prese nel pomeriggio, prima che il tempo peggiorasse. Ripulite dalla terra, raschiate e lavate erano rimaste sul tavolo della cucina in attesa del momento giusto per cuocerle. Dovevano essere pronte per l'ora di cena. Sapeva che Tano veniva spesso a fare un salto in cucina, prima dell'imbrunire. L'uomo entrò e annusò l'aria aspirando anche i peli dei baffoni che gli davano un'aria così austera. «Cosa c'è di buono in pentola?» domandò piantandosi nel bel mezzo, con le maniche arrotolate e la pancia prominente che sbordava sopra un paio di pantaloni di fustagno. Cesira lo fissò con le mani nei fianchi. Lui fece qualche passo in avanti per sostare con il naso proprio sopra la pentola mentre lei lo seguiva con lo sguardo. «Non è ancora pronto» sospirò Cesira e seguitò con le faccende senza curarsi più dell'uomo. Dopo qualche istante, tonfi sordi provennero dal corridoio tra la cucina e le sale interne della Villa. Cesira protese l'orecchio. «Il padrone è in arrivo» e in un lampo scrutò tutta la stanza per verificare che tutto fosse a posto.
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La porta si aprì di scatto. «Cesira, sai dov'è finita mia moglie?» fece capolino il padrone. La governante pulì le mani nel grembiule, si avvicinò dopo avere spostato da un lato Tano che era rimasto impalato vicino al camino. «No, sono sempre stata indaffarata... » e incrociò le dita delle mani. Augusto guardò l'uomo di sbieco. «Tano, tu che ci fai qui?» e mise le mani in tasca con le gambe divaricate. «Volevo parlare con voi, signor Augusto, e mi sono fermato in cucina per assicurarmi con Cesira che avesse tutto quello di cui ha bisogno...» «Ho fretta, devo andare dal podestà per alcune faccende di ordine... con i paesani se non bastano le parole bisogna usare la frusta!» mentre lo diceva mimò con la mano quello che voleva fare intendere con le parole. Cesira continuava a pulirsi le mani con il grembiule ma lo sguardo era vigile e notò che il padrone la squadrava. «Prepara la tavola per Giuditta e dille che io sarò in ritardo per la cena...» si fermò un istante. «Tano, piuttosto, volevi dirmi...» «Ieri sono stato da mia sorella Rosina. Sapete che abita a Gambellara. Il marito della sua vicina di casa, una tale Maria Tebaldi... il marito si chiama Saverio Ronzo...» Mentre Tano parlava, Augusto iniziò a palpare con la mano il legno della porta e con le nocche dare qualche colpo. «È da mettere a posto» e grattò con le unghie la vernice. «Avanti e indietro ogni santo giorno, si è usurata anche questa... pensaci tu Tano... la settimana prossima avrai un altro aiutante,
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lo farò alloggiare nella vecchia cascina. Viene da Arzignano, il podestà me lo ha raccomandato. Il padre ubriacone lo riempie di botte ogni sera. Il ragazzo si chiama Sergio, è un convinto fascista e non potevamo abbandonarlo. Sembra che se la cavi un po' con tutti i lavori, fallo fare a lui questo...» e seguitò a guardare la porta. «Sì certo, ci penso io con il ragazzo non preoccupatevene... ma vi stavo dicendo...» parlava e toccava il legno nella stessa maniera del signor Augusto. «Saverio Ronzo, una bravissima persona, ha bisogno di lavorare. In questi ultimi tempi non è più stato chiamato nei campi...» Augusto lo puntò negli occhi: «È un fascista convinto?» «Sì, lo è. Si è sempre distinto in questo» e Tano mostrò il palmo delle mani scuotendole. Cesira girava il minestrone, la testa roteata indietro per guardare e ascoltare i due. Tano si strinse le mani nervosamente: «Se voi dite, lo faccio venire qui e potrete verificare di persona... potrebbe essere utile per la vostra campagna...» Augusto estrasse l'orologio dalla giacca, aprì la custodia metallica, diede un'occhiata e la richiuse. «Ora devo proprio andare, va bene portamelo qua. Se ti è di aiuto possiamo prendere anche lui.» Uscì in un lampo e la porta rimase aperta. Tano aspettò il rumore dell'ultimo passo poi la richiuse. Cesira, vicina al camino, lo guardò dritto negli occhi. «Non mi avevi detto niente!» lo incalzò. «Sono tante le cose che vorrei dirti ma tu non me lo permetti...» Tano aprì la porta che dava sul retro, uscì di gran carriera
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e lei lo vide allungare verso le stalle. Un ticchettio intenso proveniva dai vetri delle finestre, Cesira ascoltò il fruscio dei rami che si piegavano al vento. Rimase ferma, guardò la pioggia attraverso la porta ancora aperta. Vide Tano in prossimità del portico che si prendeva una vecchia giacca e se la tirava sulla testa. Sospirò, poi chiuse la porta e riprese i lavori in cucina. Piovve tutta la notte, solo all'alba il tempo smise. Fece colazione come al solito con latte e pane biscotto, uscì ancora una volta per controllare e seguitò a guardare il cielo. L'aria era fresca, l'umidità si faceva sentire, si tirò su il bavero della giacca e diresse lo sguardo verso il portone grande, l'ingresso dei braccianti della campagna. Vide spuntare una bicicletta, le ruote schizzavano l'acqua delle pozzanghere da tutte le parti. Saverio scese e l'appoggiò con cura al muro della stalla, sotto il portico. Tano si avvicinò e gli sorrise. «Hai preso la pioggia partendo presto questa mattina?» «No, me la sono lasciata alle spalle» e si asciugò le mani bagnate dall'umidità. «Vieni dentro» se lo prese sottobraccio, «un buon bicchiere ti rimetterà in forza.» Saverio si sedette, mise le mani sulla tavola, sembrava uno scolaretto al primo giorno di scuola. Aspettò che fosse versato il vino e bevve a piccoli sorsi. Tenne la testa bassa e aspettò che Tano finisse il suo. «Hai parlato di me al signor Curiani?»
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«Sì, proprio ieri. Questa mattina lo vedrai tu stesso... desiderava incontrarti al più presto!» Saverio aveva le mani callose, piegate a protezione del bicchiere che teneva tra le due. I capelli folti, pettinati e composti anche dopo il tragitto fatto in sella alla bicicletta su strade sporche di fango e sassi. Le braccia lunghe e robuste, lineamenti gentili e un naso proporzionato al volto. L'aspetto era di un attore del cinematografo. «Su muoviamoci» disse Tano e lo indusse ad alzarsi. «Farai una bella figura con il signor Augusto.» «Sono tutto sporco» e cercò di spolverarsi con le mani. «Ti dico che il signor Curiani apprezzerà la tua persona.» Lo prese per un braccio e lo tirò verso di sé. «Mi raccomando... sei sempre stato fascista!» gli sussurrò all'orecchio. Saverio sorrise, ricambiò battendogli la mano sulla spalla. Il padrone della Villa batteva la pipa sul muro della falegnameria per liberarla dal tabacco, il rumore della ghiaia misto a schizzi d'acqua delle pozzanghere gli fece roteare la testa. La figura longilinea di Saverio che gli comparve davanti gli rallentò la frequenza con cui batteva sul muro. I due uomini si fermarono quasi di fronte, Saverio al fianco di Tano. Augusto mise la pipa in bocca e con calma l'accese. Soffiò sul fiammifero ed emise un alone di fumo dopo averlo aspirato. «Quindi tu saresti Saverio» gli disse tenendo la pipa su di un lato della bocca. «Me la cavo con tutti i lavori della campagna. Potete chiedere di me anche al podestà di Gambellara, mi conosce bene.»
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Il signor Curiani puntò lo sguardo sulle scarpe e la parte bassa dei pantaloni: «La pioggia di questa notte ha infangato le strade e la campagna. Si farà fatica, oggi, entrare nella terra con i carri. Sarà bene dare un'occhiata ai braccianti, vero Tano?» Tano annuì con la testa e Saverio rimase bellamente fermo in attesa. Si aspettava una qualche osservazione da parte del signor padrone della Villa, anche sgradevole, in fin dei conti erano tutti della stessa pasta: lavorare tanto, poche pretese e non lamentarsi mai. Lo sapeva già: cappello in mano, occhi bassi, atteggiamento umile per poter sperare. Il signor Augusto aspirò in silenzio diverse boccate di fumo, poi si voltò verso la falegnameria: «Vieni, ti faccio vedere gli attrezzi che abbiamo» gli disse. Fece strada e Tano, che aveva lasciato proseguire l'altro, rimase sulla porta. «Devi rimettere in sesto il carro, quello sfasciato nella primavera scorsa durante il trasporto del fieno; la ruota è entrata malamente nel fosso di fianco la strada, si è rovesciato e per poco non abbiamo perso anche il cavallo...» e guardò Tano che annuì immediatamente. «Puoi cominciare subito...» si mise di nuovo la pipa in bocca, serrò la mascella, fissò Tano e sbiascicò: «Ora pensaci tu con lui.» I due uomini, rimasti soli, si guardarono. «Pensavo peggio» disse piano Saverio.
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«Ti avevo anticipato che avresti fatto una bella figura agli occhi del signor Augusto, magari io avessi la tua corporatura» e guardando in direzione della cucina, abbassò lo sguardo e s'incamminò. «Vieni» indicò a Saverio la direzione. Con le maniche della camicia arrotolate si sputò nelle mani e le strofinò una contro l'altra, camminò intorno al carro, osservò le parti da eliminare e quelle da riparare. Vide che alcuni pezzi erano già stati smontati. Pensò che fosse opportuno chiedere a Tano e andò a cercarlo, appena lo vide gli si fece incontro. «Alcune parti sono state tolte ma avrei bisogno di vederle per capire se è possibile aggiustarle» parlava e si puliva le mani nel grembiule che aveva trovato in falegnameria. «Non riuscirai mai a rimettere in sesto quel carro» rispose Tano accigliato, «se non le trovi là dentro, non perdere tempo a cercarle.» Si avvicinò quasi a toccarlo. «C'è la signora Giuditta nei paraggi» aggiunse sussurrando. La porta strisciò sul pavimento, la luce all'interno era poca, aprì maggiormente il balcone della finestra per illuminare tutto l'ambiente. Girò la testa in tutte le parti. Vide che c'era un'altra porticina che non aveva notato durante l'incontro col signor Augusto. Le diede una spinta per vedere l'interno ma dei passi leggeri alle spalle gli impedirono di entrare, si girò di scatto. Giuditta era lì che lo osservava: «Tu saresti il nuovo aiutante?» Saverio si mosse verso la parte maggiormente illuminata.
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«Devo aggiustare il carro che mi ha ordinato il signor Augusto» disse sorpreso. Lei era già entrata di qualche metro nella falegnameria, si muoveva con le braccia incrociate, gettò lo sguardo sul pavimento fatto di terra. Si fermò per un istante, alzò un poco la gonna per non sporcarsi e si avvicinò lentamente a lui. Saverio prese a guardarsi la camicia e tutto il resto. «Dovete stare attenta a venirmi a presso, vi sporchereste tutta.» «Non correrei mai questo rischio!» e rise. Gironzolò ancora per qualche minuto nella falegnameria, gettava occhiate distratte verso gli utensili sparsi alla rinfusa da tutte le parti. «Non credo che riuscirai a mettere tutto in ordine oggi...» Saverio allargò le braccia e scosse la testa. «Forse, ma potrei sorprendervi...» Giuditta stava già uscendo, si girò e gli gettò un'occhiata ambigua. Saverio cercò di seguirla con lo sguardo ma ora si trovava con la faccia verso la luce che penetrava dall'esterno. Alzò la mano e la portò alla fronte per proteggersi gli occhi. Vide appena la sagoma della signora incorniciata dalla porta che lo stava fissando. Si spostò di lato per evitare la luce diretta, ma lei se ne era già andata. In paese non si parlava d'altro che della imminente campagna d'Abissinia. In primavera i lavori nei campi assorbivano tutti i braccianti della famiglia Curiani. Tano, suo malgrado, dovette far visita a un tale, amico del signor Augusto, che aveva una fattoria con allevamento di bovini poco lontano da Alessandria.
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«Tu conosci tutto quello che serve per portare avanti una stalla con centinaia di capi di bestiame. Ho promesso al conte che gli risolverai tutti i grattacapi...» gli aveva anticipato, senza evitare di dire che la persona che aveva bisogno del suo servizio era anche un gerarca del partito. «Non posso lasciare i lavori in mano a Sergio, non è in grado di portarli avanti da solo…» aveva cercato la scusa per evitare il viaggio, ma non ci fu verso di smuovere il signor Augusto. «Sergio con l'aiuto di Saverio se la caverà benissimo» e non aveva ammesso altre repliche. Salì su un camion diretto verso Verona e poi, giunto in città, ricevette un ulteriore passaggio sopra un altro mezzo che lo condusse direttamente sul posto. Il signor Curiani non gli aveva detto quanto sarebbe durata questa storia, ma capì subito che non si sarebbe trattato solo di qualche giorno. E così fu. L'assenza di Tano obbligò Saverio e Sergio a tutte le incombenze della stalla compreso il resto di cui di solito si occupava lui. Lasciò Sergio da una parte, tanto ormai aveva imparato cosa fare e come fare, e s'incuneò nella falegnameria persuaso di finire l'ultimo pezzo del carro, quel lavoro era stato fin troppo procrastinato. La ruota posteriore, sfasciata e ricostruita, stava per essere ultimata. La fissò bene alla morsa e si mise a cercare il martello nel banco di lavoro adiacente. Spostò il materiale accumulato e palpò con le mani la superficie di un sacco al cui interno presupponeva ci fossero gli attrezzi. Ma il cigolio della
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porta lo fermò all'istante. Rimase con la faccia rivolta al banco e sorrise ma lei non poteva accorgersene. «Stai cercando quello che non c'è...» udì la voce alle sue spalle. «Una ventata fresca precede sempre il vostro arrivo, signora. Ed è tutto ciò di cui ho bisogno...» Udì appena i passi felpati della signora Giuditta che giungevano alle sue spalle. Saverio trovò il martello e percepì lei a un passo dalla schiena, sempre più vicina, fino a sentire il suo alito sul collo. Lasciò cadere il martello e si girò. Le sue labbra, calde e accoglienti, gli toccarono la bocca. Strinse con le mani il bordo del banco, voleva staccarsi ma lei gli era addosso sfregando il corpo al suo. La baciò e rilasciò le mani. Le labbra di Giuditta erano braci ardenti e piene di desiderio. Lui la prese e la trascinò nel piccolo magazzino. Finirono a terra avvinghiati, lei gli fu sopra ma di scatto si mise in piedi, alzò la sottana e si tolse l'indumento intimo. Si mise sopra di lui e iniziarono a muoversi come le onde del mare. Saverio soffocò i gemiti fino all'ultimo spasmo per non farsi udire. Giuditta rimase ancora sopra di lui, inarcò la schiena e volse il viso verso il soffitto con gli occhi chiusi. Li aprì e puntò il suo sguardo: «Non credo che tua moglie riesca a farti godere così!» Lo strisciare della porta raggiunse l'orecchio di Saverio. Cercò di muoversi ma in un lampo comparve Sergio nel magazzino. Giuditta era ferma e Saverio ancora dentro di lei.
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Vide gli occhi di Sergio sbarrati, sembravano schizzargli fuori dalla testa. Saverio spinse Giuditta da una parte e provò a ricomporsi. Si voltò ma sentì solo il tonfo sordo della porta. Lei sistemò la sottana e cercò di togliersi la polvere di dosso. Quando la donna ebbe finito incrociò il suo sguardo, gli diede un bacio sulla guancia e se ne andò. Saverio portò le mani alla testa e si lisciò con durezza i capelli, poi sferrò un pugno sullo scaffale sfasciandolo. «Stupido!» disse a se stesso con la mano che già sanguinava. Tano era ancora ad Alessandria e quindi poteva ancora arginare Sergio. Lo trovò che spargeva la paglia alle bestie, tutto assorto nel suo lavoro. Si avvicinò con una scusa: «Nel fienile, verso l'esterno, ho notato che il legno può staccarsi. Sarebbe meglio dare un'occhiata insieme e ripararlo prima che il padrone se ne accorga.» Sergio alzò la testa, puntò le mani sul manico del forcone incrociandole. Un sorriso sghembo comparve sulla sua faccia: «Quindi hai fatto l'amore con la signora Giuditta!» Saverio ebbe la tentazione di mettergli la mano sulla bocca per evitare che parlasse, si contrasse quando Sergio lasciò cadere l'attrezzo e gli si avvicinò. «Io, invece, non ho ancora avuto il piacere» sbiascicò rabbioso. La testa di Sergio toccava la fronte di Saverio. «Non è affare tuo quello che è successo tra me e la signora. Se hai bisogno di sfogarti puoi cercarti tutte le donne che vuoi fuori di qui...» soffocò le parole digrignando i denti.
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Lo spinse duramente con entrambe le mani, Sergio cadde scomposto in mezzo allo sterco della stalla. La radio accesa trasmetteva il discorso del Duce. L'Italia è in guerra con l'Etiopia. Augusto Curiani sedeva sulla poltrona di fianco, fissava il pavimento e con l'orecchio ascoltava ogni parola; Giuditta era sull'altra più lontana. «Se urli più forte l'ultima rosa dell'anno che ho reciso schizzerà fuori dal vaso...» disse Giuditta fintamente annoiata. «Screanzata» la insultò lui. «Non hai rispetto neanche del nostro Duce!» «È giunta l'ora solenne!» ripeté lei, osservandosi le unghie della mano. Augusto spense la radio e distese il braccio rivolto al quadro che ritraeva il duce. Giuditta aspettò nella speranza che si esaurisse l'entusiasmo, si alzò e scostò il vaso verso il bordo del tavolo: «Ho visto Tano questa mattina...» e prese in mano una rosa, l'annusò e la ripose subito dopo. Augusto ancora in preda all'euforia si tastò con la mano la tasca per trovare i fiammiferi. Stringeva già la pipa tra i denti. Se la sfilò dalla bocca e guardò la donna: «Anch'io l'ho visto e mi ha consegnato un biglietto di ringraziamento.» Si accostò al mobile veneziano, aprì il cassetto e lesse: «Il vostro Tano ha svolto brillantemente il suo lavoro. Se avete bisogno di qualsiasi cosa per la vostra campagna sarei onorato di ricambiare con qualcuno dei miei...eccetera, eccetera...»
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Lesse solo le prime righe e lo ripose con una smorfia di approvazione. «Quindi, anche tu sai che è tornato ieri mattina» aggiunse. Lei si mosse all'interno della sala e prese in mano un altro vaso con dei fiori stinti. «Il giardino, deve essere ripulito per l'autunno e ci sono molti lavori da organizzare... ho bisogno di parlargli.» Il signor padrone la guardò. Lei ripose il vaso e si incamminò per raggiungere la porta, si fermò davanti. Prima di aprirla girò la testa verso di lui, vide che si era adombrato. Non esitò più e se lo lasciò alle spalle. Uscita nel corridoio tra la sala e la cucina incontrò Cesira impalata da sembrare una statua, si stringeva le mani: «Signora, il volume era talmente alto che ho sentito tutto. Siamo di nuovo in guerra...» «Io ho bisogno di vedere Tano...» disse lei e proseguì senza curarsi della governante. Nel cortile, si accorse che Sergio si era appartato con il vecchio in fondo al portico, vicino al carro rimesso in sesto. Si fermò all'istante, fissò da lontano i due uomini. Strinse una mano sul polso, con le unghie si graffiò la pelle. Indietreggiò e si volse verso la falegnameria. Un sudore freddo iniziò a bagnarle la fronte. Giuditta sentiva il braccio come dentro a una morsa, le gambe distese erano graffiate dalle assi del pavimento. Augusto la trascinava per la sala e lei cercava con tutte le forze di non urlare, senza riuscirci. Cacciò un urlo selvatico dal dolore, il ginocchio aveva battuto contro lo spigolo della porta.
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Quando entrò Cesira, ormai le urla riecheggiavano nelle stanze. «La prego, non le faccia del male» implorò la governante. Da terra vedeva la donna, alzò il braccio per farsi aiutare ma Augusto la gettò in un angolo. «Quel bastardo me la pagherà cara...» urlò con la faccia che toccava la sua. Cesira cercò di fermarlo, lui la spinse da una parte. Giuditta vide la sua mano vibrare, un colpo forte al viso la fece ruzzolare sul pavimento. Sentiva gli occhi gonfi, gli zigomi bagnati dal sangue. Un calcio sulle natiche la fece strisciare fino alla parete; si rannicchiò, cercò di proteggersi il ventre, strinse con le mani la pancia. Cesira si lanciò in mezzo, tra il padrone e la signora. «Abbiate pietà, se non per lei almeno per il bambino!» Augusto rimase con il braccio alzato, bloccato dalle parole della donna. Si calmò solo per qualche istante, si approssimò al mobile più vicino, i gomiti sopra il ripiano, la testa abbassata appoggiata sul dorso delle mani, poi iniziò di nuovo a imprecare. Giuditta, dal pavimento, lo guardò ansimando. «Quel bifolco di Saverio, lui è il padre!» Cesira prese coraggio: «E voi come lo sapete?» Giuditta chiuse gli occhi. «Mi ha raccontato tutto Sergio!» lo disse con il viso infuocato, poi iniziò a bestemmiare. Otello li vide arrivare dall'altra parte della strada. Scesero dal camion uno dopo l'altro, maniche di camicia arrotolate, il fez in testa. Non perse tempo e corse a chiamare Ma-
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ria, sua mamma. «Sta per succedere qualcosa di brutto, i bastardi sono arrivati!» disse con fatica. Maria gettò il secchio da una parte, il latte fresco sbiancò la terra. «Avvisa papà!» implorò. Otello scese dalla parte opposta e accostò il camion senza farsi vedere. Troppo tardi per avvisarlo, Saverio era già tenuto ai fianchi da due con la camicia nera aperta davanti. Il terzo, di fronte, gli diede uno schiaffo e un pugno sul fianco. Papà si afflosciò sulle ginocchia, i due lo lasciarono cadere mentre il terzo gli diede un calcio. Saverio per terra piegò le gambe, le ginocchia toccarono il petto. I due lo ripresero, lo trascinarono sotto il portico. Otello si morse le dita della mano, si gettò a terra per vedere cosa gli facevano. Alzò la testa, con gli occhi perlustrò il fossato. Forse poteva buttarsi senza farsi notare, poi si sarebbe gettato tra loro. No, impossibile. Non ce l'avrebbe fatta, erano in troppi. Udì le grida di sua madre. Maria correva, aveva una mano chiusa a pugno, con l'altra si teneva la gonna sopra le ginocchia. Uno della squadraccia la bloccò, prendendola per la vita. Lei cadde, il fascista la lasciò e Maria, da terra, gli diede un calcio. L'uomo inveì contro, offendendola. Otello si alzò d'istinto, corse con lunghe falcate verso di lei. Un pugno lo prese sulla pancia, si accasciò tenendosi le mani sul ventre, non riusciva più a respirare. In quel momento, da terra, vide il fuoco. Bruciarono tutto e poi, come erano venuti, se ne andarono ridendo e cantando a squarciagola.
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Saverio era davanti casa, disteso sul fianco che piangeva. Otello, drizzato in piedi, si scostò i capelli che gli coprivano la fronte e si aggiustò la camicia sporca di polvere e sangue. Si trascinò verso il padre e si inginocchiò per potergli passare la mano sotto la schiena. Lo aiutò a rialzarsi e giurò vendetta, senza farsi sentire da lui.
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ANNI DI GUERRA
Pioveva così forte che era impossibile lavorare nei campi. Carmen giocava con Sergio al riparo dalla pioggia. «Tu sei la mamma» gli disse e accomodò le sue braccia per posarvi sopra le bamboline di pezza. «Ora devi dare da mangiare alle tue bambine» prese il cucchiaio da terra, glielo diede in mano. «Devi imboccarle, hanno fame!». Sergio ubbidì, tentò di prendere qualcosa che potesse assomigliare al cibo ma non riuscì a farlo stare nel cucchiaio. Con l'altra mano prese allora un sassolino, lo coricò sopra, avvicinò il cucchiaio alla testa di una delle bamboline, lo appoggiò alle labbra: «Ora mangia, altrimenti resterai piccina e non avrai mai la forza per difenderti» disse e guardò Carmen che lo controllava con attenzione. Lei gli sorrise, diede un bacio a lui e alle bambole: «Sergio, sei il mio fidanzato» rispose, poi abbassò la testa. Subito dopo gli prese una mano, se la posò sul capo come per farsi accarezzare. Lui la ritrasse, si piegò verso di lei e la strinse al petto alzandola da terra. Infine, rotearono insieme tra le risate. Tano entrò in cucina, in mano quanto gli aveva chiesto Cesira. «Quel ragazzo non mi piace» esordì e posò le verdure sul tavolo. Cesira prese il catino con l'acqua, iniziò a pulirle dalla terra rimasta attaccata. «È un fascista anche nell'anima» sussurrò.
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«L'ho visto litigare, in paese, per delle sciocchezze» seguitò Tano. In quel momento la governante chiamò Carmen. «Devi stare lontana da Sergio» le disse accostandosi all'orecchio. «Non fidarti di lui» concluse, prima di lasciarla andare. Si sedette sotto il portico, su una piccola sedia di legno. Vide Sergio, sullo scalino della cascina, sporco e con la testa abbassata. Poi lo vide alzarsi di scatto, i pantaloni di fustagno marrone rattoppati dietro. Anche lei si alzò e fece due passi verso di lui ma prima di essergli addosso, si fermò. Sergio con uno scatto era già entrato in casa. Tornò sui suoi passi e si sedette come prima, in attesa. Forse, pensò, sarebbe uscito nuovamente. Carmen prese una bambola in mano, rivide Sergio sull'uscio. Si avvicinò a piccoli passi, rimase a qualche metro dallo scalino che dava sull'ingresso e iniziò a giocherellare. Sergio iniziò a parlare con voce bassa: «Mio padre era sempre ubriaco. Tornava a casa pieno di vino, si sfogava su di me. Mi dava delle bastonate con il manico della vanga. Sei uno sfaticato, un incapace, non porti a casa nulla che serva, mi diceva.» Carmen alzò la testa e orientò l'orecchio verso di lui, Sergio biascicava le parole. A carponi si avvicinò di più, stringendosi le ginocchia incrociò il suo sguardo. La puzza del vino le entrò nel naso. Sergio continuava a parlare: «Qualcuno in paese disse a mio padre che io non ero suo figlio, che mia madre andava con tutti pur di ricevere un po' di denaro per tirare avanti la famiglia. Papà non la prese bene. Quando tornò a casa mi diede un pugno sullo zigomo, il sangue mi imbrattò tutta la camicia, si volse verso mia madre, la prese a schiaffi e pugni. Una furia
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che non avevo mai visto prima. Decisi quel giorno che me ne sarei andato via al più presto». Carmen gli si accostò, guardò il suo viso e gli accarezzò la guancia. «È qui che ti ha preso?» gli toccò lo zigomo. Sergio mise la mano sopra la sua e abbassò lo sguardo. Nella piazza c'erano tutti, gerarchi, avanguardisti, balilla, figli della lupa: il sabato fascista. Sergio camminava impettito con la divisa nera, la spilla che mostrava l'effige del duce, le giberne con i fasci littori. Cesira, appostata poco distante, vide tutto. Rientrata dalla piazza, si diresse verso l'ingresso della Villa. Tano, aiutato da un altro del paese, inforcava il fieno per accomodarlo nel fienile. Si fermò, posò il forcone vicino la stalla. «Tu continua, io devo parlare alla governante» disse al suo aiutante. In un baleno i due si appartarono. «Cosa c'è che non va?» le chiese. Cesira si strinse le mani: «Lo detesto, quel bracciante imbecille!». Tano aggrottò le sopracciglia: «Se è per questo, io lo prenderei a schiaffi e calci, a manate su quella zucca vuota!» Entrata nella cucina, cominciò a preparare il pranzo; ripensato a quanto detto prima, si vergognò. «Non è colpa sua se è così... lo hanno fatto diventare così... quanto lo hanno maltrattato!» parlò senza che nessuno sentisse, spinse la sedia con un rumore stridulo. Uscì nuovamente, tormentata, si diresse nei pressi di Tano che era tornato ai lavori nella stalla: «Come fai a non ridurti così se hai un padre alcolizzato e violento!» disse al suo aiutante, sotto
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lo sguardo di Cesira che era ritornata nei pressi. «Quel ragazzo passa facilmente da uno sguardo assente a uno torvo, minaccioso, indecifrabile. Potrebbe commettere qualunque cosa...» Parlava, ma l'altro non capiva a cosa si riferisse e non gli dava retta. Cesira era ancora lì, impaziente, con le braccia incrociate. Fece per dire qualcosa, ma desistette e tornò definitivamente ai lavori in cucina. Tano chiamò Sergio nella stalla, aveva bisogno di una mano per le pulizie. Le vacche dovevano essere governate, era necessario sostituire la paglia impastata negli escrementi con quella pulita. Dentro la stalla si vedevano allineate le staccionate da riempire con il fieno, nella parete in fondo si trovavano le balle di paglia pronte per l'uso. Tano lo fece lavorare, ma lontano da lui. Non lo voglio tra i piedi, pensò. Poi, lo costrinse a passare dalla parte opposta alla sua. Notò, sorpreso, che puliva tutto senza lamentarsi. Si fermò a osservarlo, mise il gomito sopra la scopa di ramoscelli. Poi, decise di avvicinarsi. Nel mentre, vide che aveva la fronte bagnata di sudore e così pure la camicia. Quindi, ritornò nel fondo della stalla ma prima gli diede un'altra occhiata di sbieco. Ci pensò sopra, infine disse: «Vieni qui ragazzo!» Tirò fuori dalla sacca quello che aveva preso. «Prendi qualcosa da mangiare» e gli offrì del salame con un pezzo di pane. «Bevi un bicchiere» disse dopo un po' e gli versò del vino, ma poi si affrettò a mettere via il fiasco. «Questa volta decido io quanto ne devi bere!» Sergio biascicò un grazie.
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Osservò ancora il ragazzo intento a mangiare: «Cerca di non cacciarti nei guai e stai lontano da quella gentaglia, vogliono indurti a passare nella Milizia. Non ci cascare!» Lo fissò e aggrottò le sopracciglia. Sergio posò il cibo, tracannò l'ultimo bicchiere di vino, guardò Tano con occhio torvo e si avviò all'uscita. «E vai a lavarti che puzzi come una bestia!» gli urlò adirato il vecchio. «Il padrone mi ha dato un lavoro e un tetto sulla testa» disse con gli occhi bassi. Tano lo guardò in silenzio. «Tutti rispettano il padrone, in paese» seguitò Sergio, teneva ancora lo sguardo rivolto al terreno. Tano ascoltava. «Ora che il signor Augusto è partito, non sarà più come prima.» Il vecchio mise le mani sui fianchi. «Il signor Padrone, il capitano Curiani, il ventidue di Giugno è partito per la Russia.» Tano ancora in silenzio, ciondolò la testa. «È andato a servire la Patria, Mussolini, il Re.... il signor Augusto è un vero fascista!» «Tu non lo sei?» Lo interruppe e incrociò le braccia sgranando gli occhi. «Certo che lo sono!» si affrettò a dire Sergio, alzò lo sguardo e fissò dritto l'uomo. «Anch'io servirò il Duce!» concluse. «Ah sì? Così ubriaco?»
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Scostò il balcone della finestra per poter scrutare il cortile. Tano e Cesira, ne era sicuro, se ne erano andati a dormire già da un paio d'ore. Capitava di rado, ma quella sera si erano coricati presto. Si erano augurati la buonanotte, quando li aveva visti per l'ultima volta quel giorno. Nella Villa, sapeva, c'erano solo Giuditta e Carmen. Fuori era buio, la luna allungava ombre sinistre. Decise di uscire, camminò rasente i muri della casa. La porta della cucina era sempre aperta, la spinse facendo forza sulla maniglia in modo che non grattasse il pavimento. La socchiuse e se la lasciò alle spalle. Con la mano tastava i mobili, le pareti. Percorse il corridoio al buio. Con la mano che faceva da guida, tastava anche l'aria oltre che il muro. Allungò entrambe le braccia fino a toccare la porta che dava sulla sala. Dalla fessura vide Giuditta con la bambina in braccio, la testa sulla spalla, la mano a penzoloni. Appena vide che aveva imboccato la rampa della scala, aprì tutta la porta, si introdusse nella sala e la richiuse appoggiandola allo stipite. Senza alcun rumore. Nella penombra, fece scivolare la mano sulla ringhiera, uno scalino alla volta, in punta di piedi, fino arrivare al piano di sopra. Un passo dopo l'altro, vide la porta della camera appena appoggiata. Sbirciò l'interno con un occhio che sfiorava il bordo. Giuditta aveva appena finito di coricare Carmen a letto. Rimboccate le coperte, piegò la veste della bambina adagiandola sulla sedia a lato. Sergio fece un passo indietro, si scostò mettendosi nella parte della parete dove la porta andava a girare, uscendo dalla possibile visuale della donna. Vide vibrare la tenue luce, poi dirigersi verso l'altra camera.
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La porta socchiusa. Osservò Giuditta spogliarsi, sfilare gli indumenti intimi, indossare la camicia da notte e infilarsi tra le lenzuola. Sergio eccitato, scrutò ogni movimento, ogni parte del corpo della donna. Giuditta piegò la testa di lato, un soffio, il buio. Sergio rimase fermo nella sua posizione. La luce fioca della luna attraversava il balcone. Gli occhi si abituarono presto al buio, le sagome degli oggetti tornarono a farsi vedere. Bramava quella donna. Si mosse senza che lei lo potesse notare, felpato come un gatto. S'infilò dietro il tendaggio. Sentiva il suo profumo, il suo respiro. Udì Giuditta rigirarsi nel letto. Cerca una posizione più comoda, pensò. Un sussulto di desiderio lo inondò. Troppi erano i giorni che pensava a lei, ora sentiva che poteva averla. Il desiderio spingeva tutto se stesso verso il letto, a lungo aveva fantasticato quel momento. Uscì dal tendaggio, attento a non fare rumore. Uno scricchiolio impercettibile, si fermò di colpo. Nel buio, la sagoma della donna si alzò. Vide le sue braccia protendersi. Prima che cacciasse un urlo, Sergio si mosse così in fretta da premerle la bocca con la mano, riuscendo a soffocarlo in tempo. «Stai zitta, non voglio farti del male» sussurrò all'orecchio. Giuditta tremava; con le mani si aggrappò alle sue braccia. Sergio alleggerì la pressione: «Non urlare, ti prego, voglio solo starti vicino» disse piano, con tono infantile. «Non devi aver paura, perché tremi?»
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Il respiro della donna si fece molto frequente. Sergio l'accarezzò. Giuditta lo riconobbe: «Cosa vuoi da me? Torna nella cascina e lasciaci stare, ti prego!» In quel momento la prese per le spalle: «Perché mi parli in questo modo?» «Non scuotermi, mi fai male!» Ma lui, con una mano la teneva ferma e con l'altra le accarezzava il seno. Giuditta lo graffiò e Sergio la strinse ancora più forte, rovesciandola sul letto. Immobilizzata, le bloccò entrambe le mani stringendole nel pugno. Mise il ginocchio sulla schiena, si calò i calzoni, le alzò la camicia. Giuditta cacciò un urlo disperato. Sergio la penetrò con forza; gli occhi sgranati, la bocca aperta, un rantolo risuonò nella stanza. Un tonfo alla porta, in quel preciso momento. Piegò la testa verso il rumore, era ancora sopra Giuditta quando vide la bambina sulla soglia. Carmen Strillò. Sergio alzò il braccio e si sporse verso di lei, con la mano cercò di coprire la vista alla bambina e si accorse che un'altra ombra si allungava. Dietro la bambina, dall'oscurità, dapprima fioca, poi sempre più brillante, uscì una luce. Non riusciva a vedere chi teneva in mano la lampada, fino a quando non comparve la figura di un uomo, di grande stazza. Comparve alle spalle di Carmen: era il padrone, Augusto Curiani. Sergio si svincolò da Giuditta che rimase ferma, estrasse il coltello che teneva vincolato alla camicia. In un balzo scese dal letto. Augusto spostò la bambina, ma con l'altra mano teneva la
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lampada, non fece in tempo a parare il colpo che gli sferrò con forza. Il coltello si piantò sul petto, all'altezza del cuore. Stramazzò sul pavimento in un lago di sangue. Carmen urlava, Giuditta si riversò sul corpo del marito. Sergio indietreggiò, rovesciò una sedia, si attaccò al tendaggio, cadde strappandolo, posò la schiena sul pavimento di legno con un tonfo. La bambina indietreggiava, si fermò addosso la parete. Sergio scomposto, si alzò, scrutò Carmen con le pupille dilatate. Si volse verso la finestra, l'aprì tirando con forza. Si gettò di sotto e cadde, ruzzolò sulla ghiaia, si alzò e barcollò per qualche passo. Corse lungo il cortile strisciando le scarpe, scaraventava la ghiaia di lato; barcollò ancora, rischiarato da una luce debole in un cielo di luna piena. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
INDICE
1979........................................................................................... 3 1936........................................................................................... 7 ANNI DI GUERRA ...................................................................... 23 1944, FINE MARZO.................................................................... 70 APRILE 1945 ............................................................................ 78 1950......................................................................................... 81 ANNI SESSANTA ....................................................................... 83 1978....................................................................................... 111 MARA .................................................................................... 126 EPILOGO................................................................................. 139
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI
La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.