In uscita il 30/9/2016 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine settembre e inizio ottobre 2016 (4,99 euro)
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EUGENIO LEUCCI
IL COLLEZIONISTA DI CORPI
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IL COLLEZIONISTA DI CORPI Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-026-9 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Settembre 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
A Stefano. “Così… Per ridere!”
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Capitolo I Il clandestino antartico
Un pinguino nel mio tinello. No, non chiedetemi come c’era finito. So solo che una mattina me lo ritrovai là, spaparanzato sul divano di casa, che sbraitava e mi guardava torvo. All’inizio pensai a uno scherzo della mia fantasia, magari ai postumi alcolici della sera precedente. E invece no. Mi strofinai gli occhi, presi un bel respiro, bevvi un gran bicchiere d’acqua e il pennuto era ancora lì. Più vero che mai. Con le sue belle piume bianche e nere e il suo brutto becco da rapace. Avete presente un pinguino imperatore con i suoi quaranta chili di peso, il ventre bianco e il becco aguzzo? Beh, questo era il tizio e non c’era proprio verso di mandarlo via. Non appena lo vide, Alessandra diede subito la colpa al riscaldamento globale. Il riscaldamento globale? Tsè! A voi pare logico? Certo che no! Eppure, secondo la mia ragazza era per via dello scioglimento dei ghiacciai che questo benedetto animale aveva preso possesso del nostro salotto. Diceva che trovava più confortevole il divano di casa piuttosto che le ormai troppo calde lande dei poli. In un certo senso era una sorta di profugo ambientale. A me come spiegazione non sembrava affatto plausibile. Ma quando Alessandra si ficcava una cosa in testa, non c’era verso di farle cambiare idea. Mi fissò con quei suoi occhietti piccoli e distanti, quelle due lame di sguardo separate da un nasone decisamente sproporzionato, con quella sua espressione da roditore incazzato, qualcosa simile a un castoro, ma, beninteso, più stronzo, decisamente più stronzo di un castoro. E a quello sguardo minaccioso io non potei non darle ragione, ma cercai, quanto meno, di raccattare un po’ di maschia resistenza
6 rinfacciandole quanto poco mi permetteva di tenere accesi i caloriferi. «Te l’ho detto, Alessandra, questa casa è una ghiacciaia: è chiaro che ci ritroviamo la casa invasa dai pinguini!». Ma ormai la “tesi Greenpeace” andava per la maggiore e, sollevando quel suo nasino napoleonico, lei mi rispose prontamente con una logica ineccepibile: «Caro mio, funziona proprio al contrario. Se noi accendiamo i termosifoni, produciamo Co2. E se produciamo Co2, la Co2 va nell’atmosfera, l’effetto serra aumenta, il riscaldamento globale pure, i ghiacciai continuano a sciogliersi e noi ci ritroviamo la casa invasa dai pinguini!». In effetti, come ragionamento non faceva una piega, bisogna riconoscerlo. Ma, adesso, sostenere per davvero che quel pennuto era arrivato a casa nostra per colpa delle mie incomprensioni col termostato, beh, questa mi sembrava proprio una sacrosanta cazzata. Non bastava la bolletta del gas a ricordarmi il mio utilizzo troppo prodigo dei termosifoni, ora ci mancava pure il testimonial della crisi ecologica dei poli. E poi, diciamola tutta, per quanto Alessandra simpatizzasse per Greenpeace, questo cavolo di pinguino non piaceva neppure a lei. E quando, dopo infinite discussioni, si convinse finalmente che la sua ipotesi catastrofista era solo una vile scusa per rinfacciarmi l’ultima bolletta salata, la mia ragazza attaccò con la faccenda della “liberazione animale”. Ora, si mostrava assolutamente convinta del fatto che quel pennuto l’avessi raccattato io da qualche circo. Sì, insomma, per liberarlo. E per convincerla dell’assurdità della cosa ce ne volle. Chiariamoci, non che sarei stato contrario a un atto del genere, ma, benedettiddio, con tutta la buona volontà del mondo, come avrei potuto pensare di portarmi a casa un pinguino imperatore? A questo pensiero, abbozzai un sorriso, seguito da un pallido tentativo di sdrammatizzazione. «E poi, di’ un po’ Alessandra, tu lo hai visto mai un pinguino in un circo? La tigre, sì, l’elefante pure, anche la zebra volendo! Questi sì che sono animali da circo! Ma il pinguino, dì, tu ce lo vedi un pinguino in un circo? Poveraccio! Che figura ci farebbe davanti a tutte quelle Signore Bestie?».
7 Ma lei non aveva alcuna voglia di sdrammatizzare. «Ma non dire cazzate, Emilio! E parla piano che ti sente!». E già, perché era anche permaloso l’amico, dovevo parlare piano. Detto fra noi (molto a bassa voce) il nuovo arrivato aveva proprio un caratteraccio. Pensate che quando ci siamo incontrati la prima volta – quella mattina sul divano di casa mia – non mi permise neppure che facessi un caffè. «Va bene» gli avevo detto ancora convinto che fosse il frutto delle mie nebbie alcoliche, «ammetto che sono molto sorpreso della tua presenza… Ma posso almeno bere un caffettino per riprendermi?». Niente, non aveva voluto saperne il bastardo. E io, in effetti, lo stavo sottovalutando: lo trattavo ancora come una mia visione da postumi, come un bisticcio dei miei neuroni intorpiditi. E invece non capivo che era lì, in carne e ossa, e che mi gridava contro furente, sbattendo le ali come il più pazzo fra i pennuti. «Per la miseria! Che avrò chiesto mai? Un caffè! Un caffè! Se vuoi, lo faccio anche per te!». Niente, cafone di un pinguino, non voleva. «Lo devi fare sparire! Lo devi fare sparire!» continuava a ripetermi Alessandra intabarrata nel suo bel pigiamino di pile arancione. «Ok, lo faccio sparire». Ma come? Ci avevo provato a prenderlo quel diavolo di un pennuto, eccome se ci avevo provato. Ma ci stavo rimettendo un occhio, dannazione, non scherzava! Mi ero avvicinato al divano con una scusa e lui, zac, mi aveva dato una beccata sulla fronte così forte che a momenti ci stavo per rimettere un occhio! Così, quella sorta di clandestino antartico si stabilì nel mio tinello, non accennando minimamente a sloggiare. Anzi, faceva i suoi porci comodi, il tizio, si trattava da signore. E, alla fine, imparò anche a farsi accettare da Alessandra. È così che si procurava da mangiare. Era furbo, il ragazzo, la muoveva a compassione. Appena la vedeva si buttava giù a pancia all’aria e rimaneva immobile, come se fosse morto. E allora lei, che un attimo prima mi aveva detto “sbarazzatene”, cosa
8 faceva? Gridava: «Aiuto! Aiuto! È morto! Hai acceso i termosifoni, vero? Di’ la verità, bastardo, li hai accesi?!». «Ma no, no, no che non li ho accesi! Non vedi che finge?». «Lo hai ucciso, bastardofigliodiputtana, lo hai ucciso! Ma tu lo sai che questa bestia potrebbe essere in via di estinzione? Lo sai, bastardo, lo sai?». Era sempre la solita pantomima. Si ripeteva circa due volte la settimana, sicché iniziai a chiedermi se Alessandra fosse consapevole di essere presa in giro. Un giorno, dopo l’ennesima scenata, mi feci convinto che, sì, ne era consapevole. E che tutto quel teatrino era solo un modo (molto femminile, diciamocelo) per non ammettere di amare quel che si odia. E poi c’era anche un’altra questione che è bene che voi sappiate: i pinguini mangiano pesce. Normale, direte. Peccato che io il pesce non avevo la benché minima intenzione di comprarlo. E gliel’ho dissi subito al “profugo”: «No, guarda, io sono vegano, il pesce non lo mangio, pensa te, non mangio neanche le uova (a proposito, ma tu le fai le uova?)… E poi, anche se lo mangiassi, non te lo comprerei. Vai piuttosto a cercartelo il pesce! C’è il Ticino a Pavia o, a pochi passi da qui, il Naviglio!». Insomma, il più classico “và a laurà che l’è mei”. Sono stato un po’ cattivo, quella volta, lo ammetto. Anche perché, preso dalle sue voglie ittiche, il pinguino aveva finito per seguire davvero il mio consiglio e la mattina dopo era tornato con il frutto di un’intera giornata di pesca. “Povere creature!”, pensai, “Sacrificate per far mangiare uno stronzo come questo!”. E forse quei pesci, dal profondo dello stomaco di quel farabutto, avevano dovuto sentirmi, perché, qualche ora dopo, il pennuto cominciò a piegarsi in due dal dolore. Una colica, forse sarà stata una colica. Del resto, i pesci di Pavia saranno quantomeno radioattivi. Con tutto quello che le aziende scaricano nei corsi d’acqua questo è il minimo che ci si possa aspettare. Alle volte, il Naviglio viene giù così schiumoso che sembra proprio che, a monte, qualcuno si sia fatto uno shampoo. E quando, per qualche oscura ragione, il livello dell’acqua si
9 abbassa, ecco che avviene il miracolo: magicamente compaiono a pelo d’acqua televisori, tubi di ghisa, copertoni, palloni da calcio, ferri da stiro, batterie d’auto, frigoriferi… Ovvio che poi la sua piccola fauna fatta di nutrie, anatre, carpe e tutto il resto, cominci a sviluppare superpoteri e, dall’aldilà, si vendichi di essere stata cacciata. Ma devo confessarvi che, per quanto lo odiassi quel pinguino scroccone, di fronte ai suoi terribili spasmi, mi sentii terribilmente in colpa: insomma, non volevo che crepasse quel maledetto! Volevo solo che sloggiasse dal mio divano. Del resto, chi meglio di me poteva comprenderlo? Era stato cacciato da casa, la sua, da quella bella ghiacciaia naturale che è il Polo Sud per essere costretto a rifugiarsi in questo schifo di posto, freddo, nebbioso e per giunta inquinato (come vedete, la “teoria Greenpeace” aveva fatto presa anche su di me!). Mi faceva compassione, povera bestia. Ma io che c’entravo col riscaldamento globale? Che colpa avevo io? Sì, certo, direbbe Alessandra, io e i miei caloriferi avevamo una certa responsabilità, d’accordo. Ma, d’altro canto, io risparmio sulle emissioni da trasporto perché vado sempre a piedi e poi c’è la questione del non mangiar carne: vuoi mettere quanta Co2 risparmio io che non mangio prodotti di origine animale? Potrò dunque concedermi qualche piccolo lusso distruggi-pianeta ogni tanto? Mentre lei, Alessandra, che faceva? La carne rossa non la mangiava, no, perché le faceva pensare alla povera mucca o al cavallino. E quella bianca? No, quella le faceva schifo. Ma il pesce… Ebbene, quello non lo mangiava: se lo divorava! E, allora, eccola che solidarizza col pennuto. Eccola, che mossa a compassione, comincia a portare a casa secchiate e secchiate di pesce: trote, spigole, merluzzi, lucci, orate... Un giorno tornò con un intero salmone sotto il braccio. «Perdio, il salmone no!» le dissi. «Anche perché il pinguino, come lo prepari tu, sulle tartine col burro, non se lo mangia!». Ma lei non voleva sentire ragioni: «O il salmone lo si mangia sulle tartine col burro o non lo si mangia!». Avete capito bene, con le tartine spalmate di burro, come si fa capodanno o nei pranzi di matrimonio. E il signorino all’inizio faceva pure lo schizzinoso, le guardava con sospetto quelle fette di pane
10 imburrato. Ma era tutta una farsa. Dopo averle mangiate una prima volta, ci prese gusto e iniziò a pretenderle tutti i giorni. I tempi selvatici del pinguino cacciatore da fiume erano miseramente tramontati: ora solo chili e chili di salmone, ogni santissimo giorno. Così, in meno di un mese, facemmo fondo a tutti i nostri risparmi. «Tanto sparagniamo sul riscaldamento!» si giustificava Alessandra. Eh, grazie mille! Eppure, nonostante tutto questo interesse per le bizze alimentari del nostro “ospite”, la mia ragazza continuava a insistere affinché quella bestia lasciasse la nostra casa. Sì, avete capito bene: lo nutriva, lo coccolava, lo vezzeggiava e poi lo voleva fuori dalle palle. Avevano proprio un bel rapporto, esattamente come due fidanzatini. Era amore e odio, si cercavano e si sfuggivano, era attrazione e repulsione. E io quasi ne ero geloso. A lei un giorno saltò in mente anche di battezzarlo, intendo dire “cristianamente”. «Finché sta qui almeno chiamiamolo per nome» mi disse. E già: non sia mai che, tra tanti pinguini in giro per casa, lo si confondesse. Così, il giorno dopo si presentò don Alcide, il parroco della zona, in perfetta tenuta da battezzo, armato fino ai denti dell’aspersorio e di tutti i paramenti adatti al caso, scalpitante di estendere la propria cura d’anime ben oltre i confini di specie. Con un tentativo piuttosto maldestro, Alessandra fece per mettergli una medaglietta al collo, come quelle che si mettono ai cani, ma il pinguino quasi gli strappò un occhio, a lei e al prelato, che, bontà sua, la dissuase quasi subito da quell’insano proposito. Ma ritornando al nome: secondo il calendario gregoriano – ci informò don Alcide –, quel giorno là, il 28 ottobre, era San Gervasio, martire della cristianità, fratello gemello di santo Protasio, anche lui trucidato per amore di nostro Signore Gesù Cristo con un bel colpo alla nuca, e anche lui figlio di altri due santissimi, San Vitale e Santa Valeria, due devoti sposini con alle spalle una frizzante carriera di martirio: anche loro decapitati, bruciati, scuoiati, crocefissi sempre in difesa della nostra Santissima Fede. «Ecco come ti chiamerai» disse Alessandra, «Gervasio… Ma per gli
11 amici sarai soltanto Jerry!». Ecco. San Jerry dai Poli. Don Alcide storse il naso e anch’io. «Jerry? Vuoi scherzare? Ma è un nome da pappagallo, non da pinguino!» ma lei fece finta di non sentirmi. Come sempre, del resto, quando si trattava di decidere qualcosa di molto importante. E dare un nome ai propri animali domestici, credetemi, ha un’importanza da non sottovalutare.
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Capitolo II La congiura del basilico
Un giorno non ce la feci più e diedi di matto, con lei e con il pinguino. Cominciò tutto da una loro assurda pretesa. Avevo messo una bella piantina di basilico sul davanzale interno della cucina, ben piantata davanti alla finestra, proprio sopra il termosifone che – “chissà per quale ragione” – era freddo. Non appena la vide, Alessandra ovviamente non si trattenne. «Ma che cosa hai comprato, pirla? Ti sembra stagione da basilico? È pieno inverno, lo sai, testina?». Pieno inverno. Certo che lo sapevo. Che domande. «È che l’ho vista al supermercato… Insomma, mi è dispiaciuto vederla lì, fra le scatole di sottaceti e il banco frigo…». Alessandra mi guardò inebetita. Poi scoppiò a ridere. «Sei proprio un coglione, Emilio! Basta che ti mettano una cosa sotto il naso e tu te la compri! Saresti capace di portarmi a casa anche uno stronzo di mulo, se te lo impacchettassero per bene!», e con grande e ineguagliabile femminilità fece il gesto di incartare un’invisibile deiezione bovina. Ma io le mie buone ragioni ce le avevo. Davvero, vi dico. «Semplicemente mi sembrava mortificante vedere una piantina di basilico al supermercato. Tutto qui. Insomma, le piante sono belle nei giardini, nelle aiuole, nei parchi… al massimo hanno un senso nelle fiorerie. Ma che senso ha una pianta al supermercato, me lo spieghi?». Lei mi aveva risposto con una grassa risata piena di scherno. E il pinguino, che, come sempre, era sdraiato sul divano, non fu da meno. «Gnack! gnack! gnack!». Evidentemente, i due avevano stabilito una muta alleanza. Probabilmente si erano anche accordati per infliggermi quell’inutile
13 umiliazione, perché, di colpo, sotto gli occhietti soddisfatti di Alessandra, la bestia afferrò la piantina e cominciò a falcidiarla col suo becco aguzzo. «Lasciala, ma che fai? Sei impazzito?» gridai io. E grazie al cielo, con non poca difficoltà, riuscii a strappargliela dalle zampacce. Non lo avessi mai fatto. Fu come violare una vergine: il pinguino cominciò a dare in escandescenze e Alessandra con lui. «Bè? Che modo è di trattare gli ospiti, me lo spieghi? Non vedi che si stava solo scherzando?» tuonò. Ospite? A quella parola non ci vidi più. «Ah, è un ospite quindi? E di chi, CARA MIA? Io non ho invitato nessuno! E poi mi sembra che già lo trattiamo con tutti i riguardi! Mangia tartine al salmone ogni santo giorno, caca per tutta casa e occupa sempre l’intero divano. E come se non bastasse non mi fa mai uscire di casa!». «Ah, è lui che non ti fa uscire di casa, vero? No, CARO MIO, sei tu che non sei capace di farlo visto che sei un povero depresso! Dimmi, di recente quante volte sei uscito per cercarti un lavoro? Te lo dico io: nessuna! Tu rimani tutto il giorno a casa a scrivere quei raccontini di merda che nessuno si sognerà mai di pubblicare! E ci credo! Cosa ti aspetti? Ti credi John Fante, tu! John Fante o quell’altro, come si chiama… Jim Kimuac!». «Jack Kerouac!». «Come cazzo si chiama, si chiama… Ha ragione mia madre: sei solo un terroncello nullafacente! Sono io, qui, quella che suda sette camicie! Sono io, qui, quella che porta a casa la pagnotta! Se non ci fossi qui io, tu continueresti a fare lo studentello mantenuto! E poi ti lamenti che non vuoi nemmeno pulire quattro schizzi di merda! Ma và a laurà, barbun!». Qualche schizzo di merda? Sfido io. La casa sembrava la megalettiera di un gatto dissenterico! E poi era lui, quel pennuto bastardo che, ogni giorno, appena Alessandra usciva per andare a lavoro, si metteva davanti alla porta di ingresso e non mi permetteva neppure di affacciarmi per ritirare la posta. E io dovevo stare lì, in casa, a pulire le
14 sue deiezioni, a tostare pancarrè su pancarrè, e a imburrare tartine al salmone per lui e per quella stronza della mia fidanzata! E poi non è che non volevo lavorare, davvero non lo trovavo un impiego. E quelle riviste del cavolo, ci credo che non volevano pubblicarmi niente! Sappiamo tutti come funziona questo Paese: raccomandazioni, raccomandazioni, raccomandazioni, ecco come funziona. In questo Paese devi avere delle conoscenze anche per pisciare! Ci credo che non riuscivo a pubblicare mai nulla! E poi, a me questa situazione non andava più bene. C’era solo lei e il pinguino, Alessandra e Jerry. Io non esistevo più, ormai ero trasparente. Pigliamo la sera, per esempio, sul divano, di fronte la tivù: c’era posto soltanto per loro due. Quando io cercavo di infilarmi lì in mezzo, quel diavolo di un pennuto iniziava a gridare come un dannato: «Gnack! Gnack! Gnack!». E lei cosa faceva? Se la prendeva con me! Diceva che ormai era impossibile anche solo guardare la televisione in santa pace. E così ero costretto a star seduto su qualche scomoda sediolina di plastica tutta la sera, fino a che non mi venivano i crampi, il culo mi diventava una tavoletta di legno tarlato e entrambe le gambe venivano assalite da un esercito di formiche invisibili. È chiaro che me ne andavo a letto. Ma non dormivo, no che non dormivo! Sentivo i loro schiamazzi, i loro odiosi schiamazzi risuonare per tutta la casa. Ridevano. Ridevano sguaiatamente, quei figli di puttana, ridevano dei programmi deficienti visti alle tele, oppure ridevano di me, ne son sicuro. Spesso li sentivo anche digerire le loro cene, percepivo i brontolii dei loro stomaci, udivo con chiarezza i loro flati fragorosi. E, anche se chiudevo la porta e ficcavo la testa sotto il cuscino, continuavo ad avvertirli come se fossero vicini a me, in quella stessa stanza. Potevo sentire il rigurgito acido e l’odore di burro e salmone, così che mi prendevano una tristezza e una rabbia talmente grandi che addormentarsi era quasi impossibile. Le poche volte in cui avevo voglia di fare l’amore con la mia fidanzata, poi, lei non c’era mai. Ogni notte veniva a letto sempre più tardi, e quando si ficcava fra le coperte io ero già bello e stracotto dalle mie paturnie, perso in chissà quali sogni di gloria e di riscatto. Chissà cosa faceva Jerry per riuscire a tenersela sempre al suo fianco. A
15 volte, lo sognavo il bastardo, sognavo che con tutte le sue belle penne lucide si gonfiava come un pavone e montava la mia bella ruttona. Avevo visto una volta un documentario sui pinguini. Sono furbi i ragazzi: noi umani abbiamo la patetica pretesa di essere gli unici in natura ad avere un cervello degno di questo nome. Pensiamo che solo noi siamo capaci di amare, odiare e provare rabbia, pensiamo che solo noi abbiamo voglia di stare in compagnia, di ricevere affetto e di fare l’amore. E ci crediamo anche gli unici in grado di ingegnarci per ottenere ciò che desideriamo. Poveri illusi! Prendete il pinguino, per esempio: anche il pinguino maschio ha, come tutti i maschi, una gran voglia di scopare. L’etologo o il naturalista lo chiamerebbero “istinto di riproduzione”, ma io non sono né un etologo né un naturalista, e per me la voglia di scopare è voglia di scopare e basta. Ebbene, più o meno come succede nel mondo umano, le femmine del pinguino sono esseri esigenti. Non si accontentano del primo scemo che capita a tiro: per riprodursi cercano l’esemplare più “adatto”, ovvero quello più in gamba, più forte, più brillante. Per esempio, al pinguino basso e mingherlino preferiscono quello alto e pieno di sé, al pinguino introverso e riflessivo preferiscono quello caciarone e superficiale, e al pinguino povero preferiscono il pinguino ingranato. Tutto nella norma, insomma. Fatto sta che una volta ingravidate, spetta a loro occuparsi di costruire il nido dove deporranno le uova e, per farlo, hanno bisogno di un bel po’ di pietre. E cosa fanno allora i pinguini sfigati rimasti a bocca asciutta? Semplice: raccattano un bel po’ di sassi (che, sappiatelo nel caso vi mandassero al Polo Sud per raccogliere pietre, non se ne trovano facilmente) e li cedono alle dolci femmine in cambio di qualche ora lieta. Ed è così che le voglie dei pennuti vengono soddisfatte o, come direbbe il naturalista, “la continuazione della specie è assicurata”. Vi sembra ora meno strano il fatto che io sognassi quel belloccio di Jerry il pinguino fregare la mia bella? Che vi paia assurdo oppure no, è proprio quello che stava succedendo. Guarda caso, a mano a mano che i giorni passavano, le sortite antipinguino di Alessandra si facevano sempre più rare. I suoi periodici “sbattilofuoridicasa” erano dettati più da una necessità di etichetta –
16 cioè dalla sua inspiegabile esigenza di dover recitare a tutti i costi la parte della ragazza rompicoglioni – piuttosto che dalla seria intenzione di ostracizzare il nostro strano ospite. Era diventata, insomma, solo una scusa per lamentarsi e parlar male di me con la sua amichetta rumena, Nadia o come diavolo si chiamava quella zitellona che abitava sul nostro stesso ballatoio. Una donna che non perdeva mai occasione per farsi i fatti di tutto il condominio e che, data la vicinanza dei nostri appartamenti (ci separava solo una parete), aveva deciso di eleggerci a sua principale preoccupazione. Un atteggiamento del tutto assecondato da Alessandra, la quale riusciva sempre a stuzzicare la sua curiosità. Così, ovviamente, quando Jerry comparve a casa nostra, lei fu la prima a saperlo e immediatamente si precipitò a vedere il nuovo arrivato. «Ma che bello!» esclamò. «E guarda che penne! E guarda che becco! E che zampe! E che culetto… Certo, Alessandra, potevi aspettare un po’ prima di metterti con Emilio!». «Ah, ah, ah!». Ridevano. Grasse risate. Ma poi, come sempre, il tono del discorso cambiava e la mia ragazza cominciava col suo solito piagnisteo: «Emilio non è capace di far niente! Non è in grado neppure di buttare fuori di casa questo pinguino scroccone! A volte mi chiedo se è un uomo o un eterno bambino… E, soprattutto, mi chiedo che razza di padre potrà mai essere uno che non riesce neppure a farsi rispettare da un pennuto!». E Nadia, la megera, Nadia, la zitella rumena, Nadia, la lingua lunga, Nadia, la quale, ne son sicuro, non vedeva un uomo nudo almeno dai tempi di Ceausescu, annuiva, le dava ragione, le dava pieno sostegno e piena comprensione: «Eh, come ti capisco, non ci sono più gli uomini di una volta!». La nostra “simpatica” vicina fu presente anche durante il famoso affare della piantina di basilico. Quel giorno, avrebbe detto in seguito, “casualmente” aveva sentito le urla feroci di Alessandra e del pinguino, e subito si era precipitata sul ballatoio, preoccupata com’era per quella cagnara: insomma, “era suo dovere di buona vicina assicurarsi che la situazione non degenerasse”. Così mi ritrovai anche lei coinvolta nel processo al mio piccolo vaso di basilico. Mi chiese addirittura di
17 ripetere quanto avevo appena finito di dire per giustificare il mio acquisto. E io come uno stupido la assecondai: «L’ho comprata perché mi faceva pena vedere una piantina al supermercato… Dov’è la naturalezza in un supermercato?». Insomma, davvero troppo naïf per quel terzetto di iene. E allora giù a ridere più e più volte, Nadia, Alessandra e il pinguino. Fu quello il momento scelto dal detonatore del mio sistema nervoso. Di essere umiliato dalla mia fidanzata potevo anche sopportarlo. Potevo mandare giù anche la derisione di un pinguino scroccone. Ma non potevo accettare le risate stridule di una zitella pettegola! Con un ruggito degno del più feroce fra i predatori, presi una sedia, la feci volteggiare sopra le loro teste e, con uno scarto da lanciatore di martello, la scaraventai contro il televisore mandandolo in frantumi: ecco come Alessandra avrebbe guardato d’ora in poi le sue telenovele! Presi poi il divano per i piedi, lanciai un altro terribile ruggito e, con tutta la mia forza, lo ribaltai. Jerry che sedeva sopra, terrorizzato, saltò per aria e, sbattendo le ali, finì proprio in braccio a Nadia, che alla vista di cotanta esibizione di testosterone era tutta divampata in un imbarazzato rossore. Ma io ancora non ero soddisfatto. Così corsi in cucina, presi tutte le riserve di salmone custodite gelosamente nel freezer e, invitando tutti i gatti del quartiere a un’improvvisata adunata mangereccia, le scaraventai giù dal ballatoio con un grido degno del più sanguinario fra i predatori: «Uhaaaaaaa!». Mi sentivo potente, spietato, un uomo della giungla, contento di dare finalmente la stura a quella mia selvatichezza repressa. In casa, di fronte allo spreco di tutto quell’ittico ben di dio, Jerry cominciò a disperarsi e, sbattendo le ali, cercò di volare verso il cortile esterno per difendere il suo bel pesce dagli attacchi dei felini. Ma Nadia, sempre più livida in volto e gonfia nel petto, lo stringeva contro i suoi grossi seni inturgiditi, in una morsa così stretta da impedirgli di muovere anche solo un muscolo, e, così facendo, singhiozzava, terrorizzata dalla mia reazione ed eccitata dalle morbide piume dell’animale.
18 Solo Alessandra restò impassibile di fronte al mio sfogo. E guardandomi dritto negli occhi con quel suo sguardo da roditore assassino, rimase in silenzio. Il silenzio che ovviamente precede la tempesta. Fu un attimo: emise uno strillo così potente che io fui sbalzato all’indietro sin contro il muro, travolto da un’inarrestabile vento sonoro. E in meno di un minuto, pronunciò tanti di quegli insulti e tante di quelle imprecazioni da far arrossire un camionista. Ma il colpo di teatro doveva ancora venire: levando al cielo la mia piantina di basilico, raccolse tutta l’enfasi drammatica di cui era capace e, strizzando le palpebre, rese ancora più tagliente quel suo sguardo da coltello, affondandolo con tutto l’odio di cui era capace nel mio e facendo a fette in un solo istante tutta il mio patetico tentativo di ribellione. Poi, finalmente, lanciò la sfida: «Scegli, allora: o me o lei!». E quel “lei”, cari signori, era proprio la mia bella piantina di basilico, la mia profumata amante, quella bellezza vegetativa e fuori stagione che io avevo salvato dal gelido biancore dei neon da supermercato per restituirla al sia pur pallido sole della Pianura Padana. Era amore, cari miei: dentro quel minuscolo vasetto di plastica, in quell’umido terriccio pieno zeppo di pesticidi, fra quelle timide foglioline verde smorto, io, che ci crediate oppure no, ci vedevo qualcosa: la mia vita, la mia libertà, tutto l’amore del mondo. Come se quel lembo di terra abusata mi ricordasse qualcosa che non avevo mai visto ma che conoscevo da sempre, come se risvegliasse dentro di me memorie ataviche e sentimenti mai sopiti. Insomma, c’è chi dice che l’uomo è sempre stato attratto dal fuoco perché nelle sue vampate ci vede se stesso, il suo passato, il ribollire del suo inconscio. Bene: a me capita di vedere tutto questo quando osservo attentamente un albero, una pianta, un fiore: e, per l’appunto, in quella piantina di basilico, io avevo trovato un minuscolo pezzettino di me stesso imprigionato in una vita non sua. In quella piantina fuori stagione, costretta fra banco frigo e reparto scuola, io ci avevo visto un ritratto vegetale di me stesso. E Alessandra tutto questo doveva averlo intuito. Lei, la protettrice degli orsi e dei pinguini polari, lei, la Licia Colò degli inacidati, lei che non aveva mai letto né Walt Whitman né John Keats, né tantomeno
19 qualsiasi altro cazzo di poeta, insomma, lei che la natura era solo fiorellini e prato inglese, lei doveva aver intuito tutto questo, lei doveva aver capito quale strano e invisibile legame univa me e quella piantina. Ed era gelosa, ve lo garantisco, era gelosissima, lo era sempre stata, pur non amandomi più, forse pur non avendomi mai amato. Sapevo che, se avessi scelto la piantina, Alessandra sarebbe uscita dalla mia vita per sempre. Non era una che le cose le diceva tanto per dire. Sapevo che se avessi scelto il basilico al posto di quella terribile ecologista da divano, lei avrebbe immediatamente fatto le valigie e se ne sarebbe andata. Per un attimo questa idea mi galvanizzò: sarei stato solo, finalmente! Solo, per la prima volta nella mia vita. Libero! Sarei andato in giro per il mondo, zaino in spalla, la borsa piena di libri, forse qualche indirizzo in tasca. Oppure no! No! All’avventura, allegramente allo sbaraglio, dormendo sotto il cielo infinito e pieno di stelle, oppure sulle panchine di un parco pubblico, o in una tenda improvvisata, o nel letto di qualche bella sconosciuta incontrata per caso a Londra, a Parigi, ad Amsterdam, a New York. E poi, da lì, in California, Los Angeles, sulle orme di Fante, on the road, come il buon vecchio Jack, lasciandomi dietro un torrente di inchiostro prontamente raccolto nel mio taccuino, un grosso fascio di manoscritti sotto il braccio destro, la mia bella piantina di basilico sotto quello sinistro. Io e lei, da soli, insieme, in giro per il mondo, tutti intenti a seguire le nostre “vie dei canti”, fino a che un bell’editore non mi avrebbe incontrato per strada, a me, Emilio Celinovi, bello e barbuto come ogni anima raminga che si rispetti, e fissandomi intensamente negli occhi, con quel piglio tipico da talent scout americano, a metà fra il mandriano e l’intellettuale ingranato, mi avrebbe detto: «Ehi, ragazzo! Aspettavamo proprio un tipo come te! Firma qua!». Contratto di edizione. Tiratura di migliaia di copie. Prima ristampa. Seconda ristampa. Terza ristampa. Tradotto in ventidue lingue e passa. Emilio Celinovi, che nome! Che penna! L’olimpo degli scrittori non aspetta che te! Orgasmo. Orgasmo intellettuale in piena regola. Che sudata! Che viaggio! Ma come ogni orgasmo che si rispetti, non durò che pochi istanti.
20 Qualche secondo, a essere buoni. Poi la realtà ritornò in tutta la sua gravezza. E in quel momento per me assunse l’aspetto terrificante di un mostro a tre teste: quelle di Alessandra, Nadia e Jerry. E l’alito acre del dubbio. Con quali soldi sarei andato in giro per il mondo? E la casa? Mica si poteva lasciare così, senza preavviso. E poi c’erano ancora le bollette da pagare. D’altronde, il gas era intestato anche a me. E poi davvero si può dormire su una panchina pubblica a New York? Dopo cinque minuti, se ti va bene, ti rubano anche le mutande; e, se ti va male, il giorno dopo qualcuno ti ritrova pallido, gonfio e già ampiamente degustato dai vermi di Central Park. E poi Alessandra. Quanto tempo avevamo passato insieme? Due, tre, quattro anni? Non me lo ricordavo più. Dopotutto io l’amavo ancora. Non era perfetta, ma era pur sempre la mia ragazza. La mia bella ruttona. Cosa avrei fatto senza di lei? E, soprattutto, cosa avrei fatto solo contro quel pinguino? D’un tratto ebbi l’immagine di me, tapino e senza un soldo, costretto a indebitarmi con qualche usuraio per comprare salmone, chino sull’ennesima cacata del pennuto, mortificato dall’ennesima incursione di Nadia, sequestrato in casa da quel perfido mangiatore di tartine al burro. Almeno Alessandra sapeva come prenderli entrambi, la ficcanaso rumena e il clandestino antartico. Almeno, con lei, le bollette sarei riuscito a pagarle e anche l’affitto. Niente sfratti, niente interruzioni di corrente, niente ufficiale giudiziario… Alessandra interruppe questo deprimente (ma rassicurante) flusso di pensieri: «Allora, brutto figlio di puttana, ti vuoi svegliare? Ti ho detto di scegliere: o me o quella dannata piantina!». E, a quel punto, l’uomo della giungla si arrese: «Te! Scelgo te… ovviamente!». Ma di ovvio c’era solo che avevo la voce strozzata dal pianto e che quella risposta era proprio ciò che Alessandra si aspettava. E, infatti, prima ancora della mia dichiarazione di resa, aveva già cominciato a roteare il braccio come la pala di un elicottero, afferrando la bella piantina per la sua criniera verdeggiante e lasciando cadere il vasetto di plastica fucsia in cui qualche criminale della grande distribuzione
21 l’aveva riposta. Proprio laddove, un attimo prima, era finito il salmone di Jerry, volò anche la mia piantina, lanciata dalla mano lesta e grassoccia di quella strega che continuavo a chiamare “la mia fidanzata”. Oh, crudeltà, rapir via da me il mio vaso di basilico! Vidi la piantina volare sopra i panni bianchi stesi al sole, lasciando nell’aria una scia di terra umida e foglie verdi, e, per l’ultima volta, ne intuii il profumo denso e delicato. L’estremo saluto prima di vederla stramazzare al suolo, fra le lische di pesce e i gatti indifferenti a ogni dramma umano. Jerry – finalmente libero dalle grinfie della zitella rumena – se ne stava ritto sulle sue zampe, appollaiato sopra il tavolo e, senza battere ciglio, per un istante interminabile, mi guardò col suo occhietto opaco e ineffabile.
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Capitolo III “Gli uomini sono tutti uguali… anche quelli con le piume!”
Ormai ne avevo la certezza e dovevo farmene una ragione: Alessandra amava più quel lercio pinguino che il suo fidanzato. E la questione del basilico lo stava a dimostrare. Era stato sicuramente Jerry a ispirare la condanna a morte della mia piantina. Non gli piaceva, pinguino maledetto, non gli piaceva il mio basilico! Probabilmente lo trovava troppo “estivo”. E lui, che aveva nostalgia del freddo polare, lui, che proprio a causa dalla lenta tropicalizzazione del mondo aveva dovuto lasciare la sua casa, lui, che con la sua bella pelliccia di piume bianche e nere poteva permettersi di stare in panciolle anche sul più gelido dei ghiacciai senza neanche un brivido, lui, non poteva neppure tollerarlo il pensiero dell’estate. Alessandra, da brava donna innamorata, si era fatta esecutrice della sua volontà e se n’era sbarazzata. Superare la mia opposizione, per lei, era stato un gioco da ragazzi. Sapeva come prendermi, conosceva i miei punti deboli: quindi, prima aveva tentato di umiliarmi, e poi mi aveva posto dinanzi a un aut aut. E io c’ero cascato come un allocco. La paura di essere abbandonato era stata più forte di ogni altra cosa. Avrei potuto sbarazzarmi di quella donna spregevole una volta per tutte, mi sarebbe bastato dire: “Scelgo il basilico! Scelgo il fresco e profumato basilico!” e lei sarebbe sparita per sempre. Ma non ci riuscii. Avrei potuto tornare ai miei giorni felici da studente universitario, quei giorni sereni trascorsi nell’ozio, a leggere e rileggere John Fante e a sperimentare ricette nuove sui miei due fornelli arrugginiti: sugo al basilico, pesto alla genovese, salsine verdi, ragù di verdure, penne alla crudaiola... Quanti piatti prelibati che avremmo potuto creare io e la mia piantina! Mi sarebbe bastato dire: “Lei, scelgo lei!”. Ma non ci ero riuscito. E
23 Alessandra era ancora lì, a mangiare crostini col burro e il salmone insieme al suo amante antartico e a ruttare fragorosamente di fronte a una nuova puntata di “Vento di passioni”. Ormai, la notte, ogni santa notte, mentre io mi giravo e rigiravo nel lettone vuoto in attesa di prendere sonno, li sentivo anche copulare sul divano. Erano versi del tutto sgraziati quelli che arrivavano alle mie orecchie, versi che mi facevano rimpiangere i bassi baritonali della digestione della mia ragazza. Me li immaginavo quei due, sudati e nudi (lei più del pinguino) sul divano di fintapelle, a dimenarsi come due ossessi. Ma la cosa più abominevole era che non riuscivo a distinguere i gemiti di Alessandra da quelli del pennuto: entrambi erano strilli rauchi e animaleschi, che non capivi se erano di sofferenza o di piacere. Ma, in fondo, non me ne importava più di tanto: non ero geloso, o almeno non lo ero più. Ero solo preoccupato per me stesso. Dovevo uscire da quella casa, o quantomeno dovevo sbarazzarmi di quei due. Come avrei fatto proprio non lo sapevo, ma avrei colto al volo la prossima occasione di liberazione, se mai mi fosse capitata di nuovo. Una notte – avevamo una nuova televisione –, Jerry e Alessandra avevano appena finito di guardare l’ennesimo reality e io ero a letto aspettando, come ogni sera, che cominciassero ad accoppiarsi. Ma non accadeva niente. Dall’altra stanza proveniva solo un silenzio pesante e carico di tensione. Una tensione che proruppe soltanto quando Alessandra prese a gridare furiosamente una caterva di insulti. «Bastardo! Me l’aspettavo! Bastardo! Siete tutti uguali, voi uomini … anche quelli con le piume! Credete che tutto vi sia dovuto! Bastardo…figlio di putt… maledetto pezzo di…», eccetera, eccetera, eccetera. La bestia però non rispondeva e, a questa impenetrabile atarassia, la mia ragazza si infuriava ancora di più. Dopo ogni raffica di insulti, si dava appena il tempo di riprendere fiato che già ricominciava a ricoprirlo di improperi. Cercava lo scontro, una reazione violenta dell’altra parte, ma ogni sua parola si infrangeva miseramente contro la laconica indifferenza dell’animale. Me lo immaginavo quel figlio di puttana: petto gonfio e sguardo impassibile, fiero come un guerriero spartano e sereno come il saggio della montagna. Proprio come io avrei
24 voluto essere. «Ho capito! Ho capito! Bastardo!» concluse a un tratto Alessandra. E, sbattendo la porta del tinello, venne a coricarsi nel lettone. Era nuda e sudata e il suo fiato puzzava tremendamente di pesce. Fece un grande respiro, così simile al ringhio di una bestia strana, poi eruppe in un lungo singhiozzo che diffuse per la stanza l’odore stantio di un acquario dimenticato. Non disse nulla: era come se io non esistessi e non ci fossi mai stato. Mi guardò solo un attimo, ma come si guarda attraverso una vetrata. E io, per parte mia, scomparvi, immergendomi sotto le lenzuola e sprofondando beatamente nei miei mille pensieri. Ma nel silenzio della notte, la faccia schiacciata contro il cuscino, riuscivo a stento a trattenere le risa. Il giorno seguente, Alessandra si alzò presto e andò a lavoro. Il pinguino, come era sua abitudine, si piazzò di fronte la porta e là si addormentò. Io ero ancora a letto e tremavo per il gelo in cui era immersa la casa. Quello doveva essere sicuramente il giorno più umido dell’anno. Mi alzai e guardai fuori dalla finestra. Non mi sbagliavo: Pavia era coperta da una spessa e soffice coltre bianca, una po’ neve e un po’ nebbia. Non potevo sopportare tutto quel freddo. Guardai il termostato come un bambino guarda il giocattolo dei suoi sogni spuntare dalla più scintillante vetrina della città. Fu allora che presi la decisione che avrebbe cambiato la mia vita. «28 gradi!» dissi con un gran senso di liberazione girando la manopola del termostato. «Anzi facciamo 30! Alla faccia di Alessandra e di quel maledetto animale da ghiacciaia!». E, come per magia, le stalattiti di ghiaccio che cominciavano a scendere dal soffitto si sciolsero, le macchie di umido che affrescavano le pareti fermarono per un momento la loro espansione, il pavimento smise lentamente di essere una pista da pattinaggio. La casa cominciava a scaldarsi, i miei nervi intorpiditi riacquistarono a poco a poco elasticità e il sangue riprese timidamente a scorrermi nelle vene. Ma io sapevo che da un momento all’altro Jerry avrebbe cominciato a entrare in agitazione. E invece… E invece ecco che avvenne il miracolo! Il pennuto non solo rimase
25 impassibile all’innalzamento della temperatura, ma addirittura mostrò apprezzare di quel tepore. Come un gatto, si stiracchiò pigramente nella sua cuccetta, si leccò accuratamente ogni parte del corpo riuscisse a raggiungere e allungò penne, zampe e alette come per far penetrare il calore in ogni piega della sua pelliccia. Poco prima delle due di pomeriggio, spensi i caloriferi e aprii tutte le finestre: Alessandra sarebbe arrivata due ore dopo e io non potevo farmi scoprire. Quando rincasò aveva una cera orribile: scura in volto, fissava Jerry con uno sguardo torvo ed era così nera che non mangiò neppure un crostino al salmone. Non li mangiò neppure il pinguino che invece spazzolò in un lampo la sua porzione di aringhe e la sua orata al cartoccio. E, per la prima volta, tentò addirittura di assaggiare un pomodoro! «Mi ha chiamato la padrona di casa» esordì Alessandra. «Dice che gli dobbiamo ancora due mesi di affitto arretrato…». «Bene» risposi, «e che aspettiamo a darglieli?». Era una provocazione. Sapeva che io non avevo un soldo e che facevo affidamento soltanto su di lei. «Non ho più un euro…» rispose un po’ sorpresa di quella sua stessa ammissione. Io non mi scomposi. «Bene. Immagino che i soldi risparmiati sul riscaldamento tu li abbia investiti in un’impresa ittica norvegese: il freezer è pieno di salmone. Ho pensato che potremmo aprire un negozio di surgelati con tutta questa roba». ‘Un negozio di surgelati’. Bravo, Emilio! Non male questa! Fu proprio un’uscita brillante: e soprattutto fece incazzare Alessandra così tanto che si alzò da tavola e si precipitò fuori di casa, tornando solo a tarda sera. Nel frattempo io e il pinguino restammo soli, faccia a faccia: io, lui e quel suo comportamento a dir poco sbalorditivo: non gridò, non mi lanciò sguardi minacciosi, mi permise addirittura di uscire a fare la spesa, evitò persino di cacare sul pavimento. Doveva sentirsi sereno quel giorno, Jerry. Forse era per via del clima. Non faceva altro che
26 scivolare col petto sull’asfalto gelato, poi immergeva la faccia nella neve e sbatteva allegramente le ali, spruzzando coriandoli di ghiaccio tutto intorno. Si sentiva a casa. Forse, per la prima volta da quando era arrivato a Pavia, si sentiva realmente a casa. La sera, sul divano, eravamo ancora soli, io e lui, e in silenzio bevemmo anche un goccio di vino. Non era mica malvagia quella bestiaccia! Si sentiva soltanto molto lontana da casa. E, in più, scopava con la donna sbagliata. A rifletterci bene, a parte le piume e il becco, non eravamo tanto diversi io e lui, se non fosse per il fatto che Jerry i propri sbagli amorosi li aveva capiti subito. Indubbiamente molto prima di quanto il sottoscritto avesse capito i suoi. L’indomani Alessandra riprese l’argomento “affitto”. E non solo quello. «Non abbiamo più un soldo, Emilio! Dobbiamo assolutamente trovare una soluzione… E poi mi è arrivata una lettera dall’amministratore del condominio: i vicini si lamentano del trambusto degli ultimi giorni. Gli ho spiegato che non è colpa nostra, che abbiamo avuto solo una visita improvvisa, un ospite particolare… Sì, ho detto così: particolare. Ma gli ho anche detto che avremo risolto quanto prima… Anzi, direi anche subito!». E il suo occhio furbo e spietato fulminò Jerry il pinguino che se ne stava bellamente colle chiappe al caldo nella sua cuccetta pulendosi ogni singola piuma con quel suo atteggiamento sempre più felino e sempre meno antartico. «Cosa vuoi dire, Alessandra?» chiesi fingendo di non capire. «Voglio dire che ti devi decidere a sbatterlo fuori quel pennuto di merda!». Io e Jerry ci guardammo. Proprio come quelli dei gatti, i suoi occhi erano calmi e sereni, anzi sarebbe il caso di dire indifferenti: non tradivano la benché minima emozione. Era davvero un perfetto animale zen. «Se non sbaglio, quel ‘pennuto di merda’ ha un nome. Glielo hai dato tu stessa, ricordi? Hai chiamato anche don Alcide per battezzarlo!». «Me ne fotto di come si chiama! E me ne fotto anche di don Alcide!
27 Non lo rischio lo sfratto per un cazzo-di-pinguino, hai capito? Ce ne dobbiamo liberare. Adesso! Subito! Basta rimandare! È qui da due mesi ormai: io non ne posso più!». La mia risposta fu subitanea. E secca. «No, Alessandra. Jerry è nostro ospite e resta qui». Lei mi guardò sbigottita. «Come sarebbe a dire?». «Sarebbe a dire che è nostro ospite e io gli ospiti non li caccio: per me l’ospitalità è sacra». Ed ecco che, al primo impennarsi dei decibel della conversazione, prontamente, irruppe in casa l’immancabile Nadia. Era nell’aria un altro litigio, anzi era già iniziato, e la zitella non se lo sarebbe perso per nessuna ragione al mondo. Alessandra sapeva che non poteva deludere la sua amichetta rumena e così si profuse nella miglior performance di cui era capace: iniziò a bestemmiare con una velocità davvero inaudita, passando in rassegna tutti i diavoli e i santi dell’empireo, lanciando improperi contro qualsiasi cosa si trovasse a tiro e regalando, a me e al pinguino, le più succose offese che mai mente femminile sarebbe stata in grado di partorire. Cercò di umiliarmi e di umiliarci sotto ogni punto di vista. Ma noi rimanevamo fermi e zitti, immobili come due statue di cera, imperturbabili come vecchi della montagna, antichi monaci sull’orlo del baratro, le mani giunte, come in preghiera, ad attendere pazientemente la fine della burrasca. E, alla fine, la burrasca cessò, ma non prima di avermi messo ancora una volta alla prova. Con il più classico dei movimenti femminei, Alessandra si tirò indietro i capelli, allungò le mani piccole e grassocce, sbatté un palmo sul tavolo e con la stessa enfatica drammaticità di qualche giorno prima, gridò rauca: «Scegli, allora, o me o il pinguino!». E grande fu la mia soddisfazione nel risponderle a pieni polmoni: «SCELGO JERRY! SCELGO IL PINGUINO!». Come nelle migliori fiabe, in un istante, Alessandra scomparve per sempre dalla mia vita. E io e Jerry ci ritrovammo soli. Felici e contenti. Ma il nostro idillio non sarebbe durato che un battito d’ali di pinguino.
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Capitolo IV Una strana serie di efferati delitti
Ora io e Jerry vivevamo insieme, condividevamo una casa fredda ma accogliente e, soprattutto, sui caloriferi eravamo d’accordo: accenderli sei ore al giorno nei periodi di maggior freddo era un compromesso ragionevole fra le nostre esigenze e quelle del Pianeta. Anche per quanto riguardava il basilico, così come per tutte le altre piante aromatiche, avevo avuto partita vinta, e il nostro appartamento era diventato una sorta di serra: rosmarino, prezzemolo, salvia, timo, erba cipollina facevano bella mostra di sé in ogni angolo della casa. Malgrado lui storcesse il naso – pardon, il becco –, non appena ne trovavo una al supermercato, cercavo di restituirle la poetica naturalezza sottrattale da quel luogo infame. Nella bella stagione, poi, tutta questa florescenza si riversava sul balcone, espandendo le sue fragranze per tutto il ballatoio e diventando, ben presto, il fiore all’occhiello del condominio di via Bengasi. Jerry mi rivelò anche il suo segreto per aver successo con le donne, o quanto meno, per riuscire a sopportare le loro sfuriate: la meditazione zen. Sedevamo ogni giorno almeno un’ora su un cuscino da meditazione e stavamo lì, come degli stoccafissi, a guardare il muro di fronte a noi. Ben presto, scoprii che questa cosa non solo faceva bene al mio rapporto con l’altro sesso, ma mi riempiva anche di fiducia in me stesso e di serenità. Così, cominciai a coltivarla assiduamente. Costruii un piccolo altarino dotato di tutto l’armamentario per il rituale meditativo: incensi, campana tibetana, fiorellino rituale, e poi una splendida statuetta di legno raffigurante il Buddha seduto in stato meditativo, il quale di volta in volta sembrava cambiare espressione: alcune volte era serafico, altre volte assumeva un’aria sorniona, in alcuni momenti invece pareva del tutto indifferente a ogni mio stato d’animo, e, trasparente come il vetro, non mi degnava neppure di uno
29 sguardo. Sull’argomento pesce, invece, io e Jerry dovevamo ancora lavorarci su. Il pinguino aveva del tutto abbandonato l’arroganza e l’aggressività dei primi giorni e, superando ogni mia aspettativa, si era rivelato un ragazzo dalle larghe vedute, abituandosi all’umido clima pavese e, soprattutto, convincendosi, poco a poco, ad adottare una dieta più o meno vegetariana. Il che ovviamente non poteva che riempirmi di gioia e di soddisfazione. Su un punto però eravamo d’accordo: almeno per un bel po’ di tempo, di donne in quella casa non ne sarebbero entrate. Insomma, sparita Alessandra, si sarebbe potuto dire che i due amici fossero destinati a vivere per sempre felici e contenti, proprio come nelle storie a lieto fine. Purtroppo non fu così. Il nostro idillio durò solo un anno e mezzo, perché, un brutto giorno, avvenne l’irreparabile. E tutto il nostro bel mondo andò in frantumi. Una cupa sera di settembre io rincasai più tardi del solito. C’era stata la finale degli Europei di calcio – Italia-Francia, se non ricordo male – e l’Italia aveva stravinto. Tutta la città era in festa, almeno come poteva esserlo Pavia dopo le ventidue e trenta: qualcuno per le strade semivuote sventolava timidamente una bandiera tricolore, poche sparute auto correvano per i viali deserti suonando svogliatamente il clacson e un gruppetto di ragazzotti lanciava gridolini da un balcone sprofondato nella nebbia. Ma per quel che mi riguardava, quella sera l’Italia avrebbe potuto vincere anche i mondiali: non me ne fregava niente. Con un amico calciofobico come me avevo comprato una cassa di birra, mangiato due pizze marinare con tanto aglio e trascorso la serata a rigurgitare insulti di ogni tipo contro gli eroi in maglia azzurra, sperticandoci in pretestuosissime spiegazioni pseudofreudiane per cercare di capire, una volta per tutte, di quale carenza psicoaffettiva soffrissero gli appassionati di calcio. Odiavamo tutta l’Italia quella notte, e questo, insieme con l’alcol, l’aglio e la passata di pomodoro, ci scaldava il cuore di un’allegra e malinconica inquietudine.
30 Quando tornai a casa alle tre di notte, ero un concentrato di compiaciutissima misantropia anti-italiana, che non vedevo l’ora di continuare a sfogare con il mio coinquilino piumato fino alle prime luci dell’alba. Salendo le scale della semicorte che incorniciava il nostro appartamento non mi stupii di vedere la luce del soggiorno ancora accesa, né di trovare aperta la porta che dava sul ballatoio. Anche se non usciva un granché, Jerry era un nottambulo. “Chissà in quali sporche faccende sarà impegnato quell’uccellaccio della malora!”, mi chiesi, e, nel più oscuro silenzio, salii le due ripide rampe del palazzo. Ma, appena entrai in casa, lo shock mi strappò ogni parola di bocca. Jerry era per terra, le piume bianche e nere orrendamente insanguinate, il cranio fracassato e ficcato fin dentro il frigorifero. «GESÙCRISTOMIO!!! Lo hanno ucciso! Lo hanno ucciso!». E la mia voce rimbalzò da parete a parete, scese giù per tutti i pianerottoli, si riversò in strada in un grande e cavernoso boato, fece vibrare vetri e tremare le bandierine tricolori appena messe alle finestre. Ero in preda alla disperazione più nera, ma nessuno si affacciò: le mie grida affondarono nel silenzio indifferente della città. In compenso, qualche minuto dopo, si presentò alla porta una vecchia divisa in sovrappeso, baffo grigio, mano sull’arma, posa da film western di quart’ordine. Era con lui un ragazzino sbarbato, l’occhio opalescente e semivuoto come quello di una trota, il cervello fuggito chissà dove, chissà quanti anni prima. «I vicini dicono che c’è un po’ di casino qui! Fate festa in piena notte, per caso?». Lo guardai come un astronauta guarda una banana fluttuare nello spazio intergalattico, e fu così per qualche interminabile lugubre secondo. Allora il vecchio sbirro spinse il naso oltre l’uscio di casa e vide il corpo del povero Jerry ficcato dentro il frigorifero. «SANTAMARIASANTISSIMA!» esclamò. «Porca puttana!» gli fece eco con poca convinzione il ragazzo trota e, probabilmente, fu l’unica cosa degna di nota che disse in tutta la sua vita. Era nato per quella battuta, così subito dopo scomparve. L’anziano cowboy invece si fece scuro in volto e, assumendo un tono grave e assertivo, sbottò minaccioso:
31 «Giovanotto, ma lei si rende conto di quello che è successo qui?!?». «Certo!» risposi io ancora sconvolto, «Hanno ammazzato il mio coinquilino!». Al che la divisa perse la sua aria da John Wayne consumato dai cheeseburger e scoppiò in una grassissima risata. «Sì, sì, sì…lo hanno ammazzato! lo hanno ammazzato!» disse facendomi il verso. «E chi lo ha ammazzato, giovanotto?». Ingenuamente, non mi passò neppure per l’anticamera del cervello che quel botolo in divisa stesse sospettando di me. Così, ci pensai su un secondo, ma in realtà diedi solo il tempo alla birra, alla passata di pomodoro e all’aglio di miscelarsi ancora una volta nel mio stomaco, schizzare su per l’autostrada del mio esofago, salirmi nel naso, slittare sulla rotonda della mia materia grigia, e con qualche bella sgommata brucia-neuroni mettermi in bocca il primo sospetto che la mente di un cretino ubriaco fosse in grado di partorire. «Il matto, il matto, il Giovane Matto! Lo ha ucciso lui!» e di nuovo la mia voce risuonò per tutta la via, roteando come una balla di fieno in qualche film di Sergio Leone. Finalmente, là sotto, sentii schiudersi un uscio. «Senta, giovanotto» disse il poliziotto, riassumendo la posa del serio servitore dello Stato. «Non mi importa davvero un accidenti se lei o qualche altro pirla avete ucciso quest’animale. È solo un’animale, okay? Piuttosto, si rende conto che lei deteneva un esemplare di una specie esotica? Ce l’ha l’autorizzazione per questo genere di cose?». «Autorizzazione?» ripetei io, come se scoprissi per la prima volta sul dizionario quello strano termine. «Cristo! Lei non sa che per detenere una bestia come quella ci vuole almeno un patentino di classe A? E che per tenerla in salotto avrebbe dovuto debitamente compilare il modello 16591 pagando ogni quattro mesi una marca da bollo di 14 euro e 50? E poi, perdio!, buonsenso vorrebbe che lei contenesse quell’animale in un acquario o che quantomeno lo facesse cagare in una lettiera: qui c’è una puzza di merda che non si respira! Potrei farle passare i guai se solo volessi…». La banana nello spazio continuò a volteggiarmi davanti con l’eleganza mistica di una ballerina di Degas e il fascino esotico di un ardente
32 asteroide tropicale. Forse la divisa non se ne accorse. Forse aveva anche lui un’incredibile voglia di festeggiare la vittoria degli eroi azzurri nella pazza notte pavese. Fatto sta, che, chissà per quale strano motivo, lo sbirro si convinse che io fossi profondamente contrito per quelle “gravi inadempienze”. «Facciamo una cosa, giovanotto: io faccio finta di non aver visto niente, d’accordo? Ma lei…cazzo!» disse turandosi il naso ancora una volta. «Lei dia una cazzo di pulita a questa capanna e faccia sparire quel coso che ha dentro il frigo, okay?». «Augh, viso pallido!» rispose qualcuno dentro di me. E, con uno scatto, il cowboy girò i tacchi, tirandosi dietro a fatica quella posa da mandriano ingrassato che aveva tentato di mantenere tutto il tempo. Lo vidi scendere le scale mostrandomi il suo enorme culo da pachiderma. Il ragazzo trota era già alla guida della volante e, allo sbattere pesante dalla portiera, schizzò via nel buio battendo le pinne a sirene spiegate. Poi tutto tornò nel silenzio. Pavia era ancora mezza addormentata, ma in un angolo qualcuno si ostinava ancora a festeggiare mestamente gli eroi nazionali. Io avevo il sangue agli occhi, il cadavere del mio amico nel frigo e la convinzione che il suo assassinio fosse in libertà, pronto a tornare, secondo la migliore tradizione giallista, sul luogo del delitto per fare fuori anche me. Non lo fece, almeno non quella notte. Di colpo, sentii di nuovo il rumore di un uscio, questa volta che si chiudeva. Ne ero sicuro: qualcuno aveva osservato attentamente la scena e ora, al riparo da occhi indiscreti, nella sua tana, si gustava la tempesta di emozioni che si andavano scatenando sul mio viso. Adesso, birra o non birra, ero convinto di sapere di chi si trattasse: era lo stesso individuo responsabile della morte del mio amico. «BASTARDO! BASTARDO! BASTARDO!» ringhiai nel buio sporgendomi quanto più potevo dalla ringhiera del ballatoio. Ma, anche questa volta, la notte rispose con un nuovo più torbido silenzio. L’uscio si chiuse definitivamente, il matto andò a dormire e un piccione irriverente e senza sonno mi fece il verso.
33 «HU-HU-HU!». Fu dura, ma cercai di superare il lutto. Dimenticai la storia dell’assassinio e tutto il resto. Non avevo prove per accusare qualcuno dell’omicidio del mio amico. Che mi piacesse oppure no, erano tutte mie congetture. Ma, mi dicevo, prima o poi sarebbe arrivato il momento della giustizia. Così, una settimana dopo, ero già alla ricerca di un nuovo coinquilino. Le mie aspettative erano piuttosto alte, non ve lo nascondo. Chiunque si fosse trovato a prendere il posto di Jerry in via Bengasi avrebbe dovuto essere all’altezza del mio defunto amico. Diffusi in varie bacheche della città un annuncio pieno di pretese, in cui affittavo a un “prezzo modico” la “stanza lasciata libera da una bestia rara”, venuta da lontano, ma solo “ad artisti e a vegetariani”. Solo un animo artistico, infatti, sarebbe stato in grado di sostituire il mio vecchio coinquilino. Non importava di quale delle nove muse fosse seguace: scrittori, pittori, musicisti, ballerini, andava bene tutto. Bastava che fosse un artista o che almeno si atteggiasse a tale. E che poi non mangiasse né carne né pesce, era ovvio. Inoltre, in accordo al mio campanilismo pugliese, rivolsi esplicitamente l’annuncio a salentini e a sardi, poiché salentino son io e sardi son sempre stati i miei migliori amici. E poiché avevo fatto una lista davvero “poco” esigente di tutti i miei desiderata, pensai bene di richiedere anche che avesse una sorella, bella e disposta di tanto in tanto a farci una visitina. Passarono parecchi giorni e non chiamò nessuno (chissà come mai). Quando già avevo perso le speranze, si presentò a casa mia uno spilungone magro magro, baffi da narcotrafficante colombiano, che pareva uscito fresco fresco da una pellicola sulla Milano violenta degli anni ’70. Non era uno scrittore, non era un musicista, non dipingeva né sapeva muovere un passo di danza; mangiava con gusto salsicce e fettine di maiale, e aveva soltanto un fratello, brutto almeno quanto lui. Ma era sardo, beveva un sacco di birra e aveva l’aria piuttosto marcia e trasandata… e tanto bastò per rendermelo più o meno simpatico. La stanza fu subito sua. Il nuovo venuto mostrò sin da subito un umorismo all’altezza dei suoi
34 baffi. Girava per casa perennemente in mutande, mostrando le sue discutibili grazie pelose e smagrite a tutto il ballatoio, seminando qua e là tabacco e carte da filtro, fumando una sigaretta dopo l’altra e bevendo strani intrugli a base di acqua, limone e rosmarino. «È la bevanda dell’estate, man!» mi diceva alzando il calice. Peccato che fosse ottobre avanzato. Inebriato da questo cocktail alle erbe, il suo passatempo preferito era aspettare che io fossi sovrappensiero – o, meglio ancora, seduto in meditazione – per strisciarmi alle spalle e gridare a squarciagola: «GOOOOOAL!». E alle mie vivaci proteste lui si giustificava semplicemente continuando a gridare: «GOAL! GOAL! GOAL del Bari, man!». Probabilmente, sapendo dell’odio calcistico che intercorre fra le tifoserie del Lecce e del Bari, e ignorando la mia idiosincrasia per il calcio, pensava di farmi cosa “gradita” annunciandomi i futuri goal del Bari nel prossimo derby. Per me non aveva alcun senso, ma, dopo tutto, andava bene così. Man, chiamava tutti, uomini e donne, così tutti lo chiamavano alla stessa maniera: “Man”. Ma, al secolo, era Stefano Cacciaburru Un giorno Man tornò a casa tutto trafelato. Erano passati già due mesi dal suo arrivo, due mesi durante i quali aveva preso piena confidenza col vicinato: aveva fatto amicizia con chiunque e tutto il palazzo lo conosceva, molto più di quanto fossi riuscito a fare io in più di tre anni passati là. «Oooh, man!» gridò, «C’è il vicinato in subbuglio!». «Perché?». «Hanno accoppato il gatto del vecchio di sotto!». Una lama mi attraversò il cervello da parte a parte. Un déjà vu freddo. Come la testa di un pinguino nel frigorifero. «Ma stai scherzando?» chiesi con un filo di voce. «No, l’hanno ammazzato veramente!». «Ma il gatto di chi?». «Del vecchietto solitario, quello che cammina di notte!». «E chi è?». «Come chi è? Lello, Lello “vinello”!». Lello “vinello”. Un uomo avanti con gli anni. Viveva al pianterreno e
35 come unica compagnia aveva Micia, un bel gattone giallo che amava portarsi in giro di notte, nelle sue passeggiate sotto casa, quando, per sfidare l’insonnia, passava il tempo a camminare su e giù per via Bengasi. La gatta lo seguiva come se fosse un cane, rispondeva al richiamo, si metteva seduta a comando e si divertiva a riportargli i rametti che lui le lanciava fino alle sei del mattino. Questo comportamento insolito non poteva non richiamare l’attenzione dei vicini che subito avevano cominciato a rumoreggiare sulle abitudini del vecchietto. «L’è matt» diceva uno. «Sì, l’è rincoglionito!» faceva eco un altro. «No, no, el beve!» diceva il più stronzo. «Sì, sì, el beve! E l’ha ammaestrà al gatt a bere insem’a lü!». «Tu pensa che un giorno mi ha detto che alla gatta piace il vino rosso… e che glielo dà sempre insieme alla carne!». «Nooo, grama bestia!». «Sì, sì, dev’essere un ubriacone quel là!». «Sì, sì, sicuramente! L’è un ciucaté!». Così era stato ribattezzato Lello “vinello”. Ma, checché se ne dicesse, era un buon diavolo. Lo potevi trovare là fuori a ogni ora del giorno e della notte e con ogni condizione climatica. Irriverente, fischiava dietro alle vecchiette del condominio come se fossero state ventenni tutte curve. Poi alle volte, senza una ragione apparente, cominciava a bestemmiare e a minacciare le peggiori sciagure, ma sempre con un sorriso sardonico sulle labbra. In quei momenti là, ce l’aveva con tutti e con nessuno, gatta compresa. «Miciaaaaa! Sei una troia!» gridava. E quando era certo che i più si fossero affacciati al ballatoio per capire cosa gli fosse capitato, strillava: «Qui cade tutto, cade tutto! Vien giù, che è una meraviglia! Ve lo dico io che non bevo. Per la Madonna! C’è una crepa da farci passare una vacca!». Allora qualche sciura fingeva di crederci e subito chiamava l’amministratore di condominio il quale, puntualmente, accorreva tutto trafelato per controllare che la casa non cascasse in pezzi per davvero. Era sempre la solita storia: ora il balcone che crollava, ora la fogna che
36 esplodeva, ora una fuga di gas che di certo ci avrebbe fatto saltar tutti per aria. Lui lo faceva per ridere e le altre, le beghine, gli davano retta. Così, tanto per passare la giornata. Ma quando Man se ne venne con la terribile notizia della morte di Micia non si trattava affatto di una bufala, e ne ebbi la triste conferma quando, precipitatomi sul ballatoio, vidi Lello inginocchiato per strada, che stringeva al petto una palla di pelo giallognolo senza più un fremito: «Miciaaa! Miciaaa!» gridava piangendo, «MALEDETTI!!!MALEDETTI!!! Me l’hanno ammazzata!». Fu una scena straziante. Un incendio mi esplose nel petto e un odio bieco mi salì dalle viscere sin dentro le narici. Io sapevo chi era il responsabile di quell’ennesimo assassinio: il Giovane Matto aveva colpito ancora e io giurai che, presto o tardi, gliel’avrei fatta pagare. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD