In uscita il 29/9/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine settembre e inizio ottobre 2017 (3,99 euro)
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NICOLÃ’ MANISCALCO
IL CONFRONTO
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IL CONFRONTO Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-131-0 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Settembre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
I personaggi di questo racconto non sono realmente esistiti, anche se alcuni amici di gioventĂš e alcune situazioni realmente accadute hanno ispirato una trama del tutto inventata.
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CAPITOLO 1 Stavo per farlo quando fui assalito da una sensazione di paura e stupore.
Gli uffici dell’Advanced Software Consulting occupano i primi tre piani di un antico palazzo, nel cuore di Genova. L’edificio ha un atrio spazioso e dotato, verso l’esterno, di un portone di legno alto e massiccio, come d’uso per le costruzioni storiche di molte città italiane. Quella mattina, di buon’ora, lo superai percorrendo il tratto superiore di galleria Mazzini, vicino allo slargo verso via Roma, in direzione del centro cittadino. Galleria Mazzini ha tratti comuni con la più grande e famosa galleria Vittorio Emanuele II a Milano. Come la milanese è illuminata dalla luce naturale che attraversa il soffitto costituito da lastre di vetro sostenute da una pesante struttura d’acciaio. La galleria genovese in realtà è una strada pedonale, leggermente in salita e fornita di copertura, su cui si affaccia la doppia successione degli antichi edifici. In uno di questi ha sede la mia Società. All’interno della Galleria sono fitti i vecchi negozi della Genova ottocentesca: ottici, mobilieri artigiani, librerie e locali di ritrovo con sedie e tavolini. Ricordo molto bene il Savinelli, chiuso da tempo, specializzato in pipe preziose e accessori per fumatori. Sono molti gli avvenimenti allestiti in Galleria, tra questi il tradizionale mercato del libro nuovo e antico, appuntamento annuale dove i librai allestiscono bancarelle stracolme di volumi di ogni genere, dai classici ai fumetti. L’Advanced Software Consulting è la filiale italiana di una multinazionale europea specializzata nella creazione di banche dati. Tra le sue creazioni annovera database e software utilizzati dalla maggior parte delle polizie europee, prodotti famosi tra gli esperti del settore. Lavoro ancora in questa società, sono il direttore tecnico della divisione dedicata ai software per l’amministrazione giudiziaria. All’epoca dei
6 fatti ero stato promosso da poche settimane e da allora ho vissuto un periodo della mia vita dedito allo studio dei programmi più avanzati nella gestione dei dati. Ancora oggi il mio gruppo ha il compito d’istruire poliziotti e carabinieri all’utilizzo delle banche dati che archiviano profili di delinquenti. Le frequentazioni con i dipendenti delle varie questure, soprattutto quella di Genova, e le amicizie interne hanno fatto sì che fossi considerato uno di “famiglia”. La verità è che il legame si basa quasi unicamente sul documento nel quale sono riportati i miei dati e la dichiarazione di riservatezza. Tuttavia, in cuor mio mi presi la “patente” di poliziotto, e fu questo a dar origine a tutta la vicenda che seguì. La Questura dista un paio di chilometri da Galleria Mazzini, per questo all’archivio della Polizia di Stato vado sempre a piedi, evitando la solfa del parcheggio e d’altronde la passeggiata non può che aiutare il sovrappeso di chi ha raggiunto i famigerati “cinquanta”. Quella mattina l’aria frizzante mi suggerì di lasciar stare gli abituali acquisti nel negozio d’informatica di via XX Settembre e di proseguire verso la Questura. Bavero alzato, seguitai il cammino godendomi il sole e il vento di fine autunno. In questa città la tramontana di solito spazza via le nuvole e abbassa la temperatura. Durante il tragitto caricai di buon tabacco Dunhill Early Morning la mia Savinelli Autograph, la più pregiata pipa della mia collezione. In Questura mi aspettava l’ispettore Carelli, uno dei responsabili dell’archivio informatico. Come al solito, ero in forte anticipo. Quella volta mi recavo in archivio per un lavoro semplice ma molto lungo: dovevo trasferire dei vecchi file da un computer ormai obsoleto a uno nuovo, appena fornito alla sezione archivio. Questi file erano stati memorizzati nel vecchio computer utilizzando schede riportanti casi giudiziari della fine degli anni Sessanta e del decennio successivo. Le prime archiviazioni su dischi fissi risalivano ai primi anni Ottanta e, in precedenza, tutto ciò che doveva essere archiviato era memorizzato su schede perforate e, in seguito, su enormi computer a nastro. Il primo vero computer moderno era stato installato in Questura nei primi anni Novanta.
7 L’ispettore Mario Carelli era, ed è tuttora, un amico, un’amicizia consolidata durante l’estate precedente i fatti raccontati, in uno scampolo di ferie insieme alle rispettive consorti. Non saprei dire se Carelli sia o non sia il prototipo del poliziotto. Dietro il suo aspetto serio e professionale si percepisce il carattere di un ragazzo alto e grosso e, se s’impara a conoscerlo bene, ci si trova di fronte l’amico delle rimpatriate piuttosto che il burbero poliziotto. Intendiamoci, ne ho conosciuti tanti di poliziotti. Con qualche eccezione, brave persone. Carelli però non ha l’aspetto del tipo “lei non sa chi sono io”. Varcai il portone principale della Questura con il tesserino vidimato dal commissario Ventura e salutai il piantone mentre mi consegnava il solito pass che mi permetteva di accedere all’archivio. Misi la pipa in tasca ancora accesa per evitare discussioni e colsi il cenno di diniego e il sorriso sarcastico del piantone mentre guardava il fumo uscire dalla tasca. Arrivai nella sala computer in tempo per vedere Carelli inveire in direzione di uno schermo e feci appena a tempo a fermare il suo pugno diretto su una malcapitata tastiera. «Mario», esclamai con un sorriso, «un computer esegue solo le cose che gli chiedi e lo fa velocemente, impostalo in maniera corretta e…» «Ciao Davide» mi salutò interrompendo la mia inutile lezioncina. «È da stamattina che provo a… beh, non importa, vieni nella stanza del nuovo server.» Il server era appunto il nuovo computer piazzato in un locale climatizzato di circa trenta metri quadrati, con al centro altri più piccoli strumenti. Tutto questo insieme di computer era dotato di programmi, nelle più svariate versioni, per l’estrazione dei dati stampabili poi da una gigantesca stampante grafica posta appena fuori della stanza. «Il cavo di connessione con il vecchio è là» disse Carrelli, indicandomi un cavo di rete giallo e arancio che correva lungo i muri e attraversava un corridoio che raggiungeva la stanza dove risiedevano i computer degli anni Novanta. Mario, con il termine “vecchio”, intendeva il server ormai in disuso, quello dal quale dovevo prelevare i dati.
8 Lasciai che il mio amico Carelli continuasse la lotta con il computer e mi accinsi a collegare in rete i due server per iniziare la copia delle varie cartelle elettroniche con i file riguardanti chissà quali delitti e chissà quali nefandezze commesse nel trentennio passato. Nello scorrere quei vecchi documenti mi domandai che interesse ci fosse per i misfatti compiuti da un tizio qualunque più di venti o trent’anni prima, poi scoprii, proseguendo il lavoro, l’esistenza di una quantità di casi giudiziari ancora aperti, tutti racchiusi in varie cartelle denominate con strani acronimi indicanti casi insoluti. Questi misteri m’incuriosivano e ancora mi chiedo se il destino quel giorno decise di farmi scoprire l’origine della vicenda o se, più semplicemente, quella curiosità fosse legata all’antica mia passione per i romanzi gialli. Non ero autorizzato, certo, a mettere il naso in quei documenti, dovevo soltanto trasferirli da una banca dati all’altra, ma quel giorno la curiosità era al punto massimo e, inoltre, potevo approfittare del fatto di essere stato lasciato lì da solo. Così decisi di farlo. Decisi di spiare quei documenti. Con un gesto automatico mi ficcai in bocca la pipa ormai spenta, evitando di riaccenderla, così iniziai quell’illegittima esplorazione. Mi fermai quando arrivai ai documenti riguardanti i primi anni Settanta, la maggior parte erano criptati e le password erano conosciute solo agli addetti della polizia. Ma ero partito con l’esplorazione, sapendo bene che nel tentare di sbirciare dentro ai file stavo commettendo un abuso. Dopo aver scorso un po’ di cartelle, mi resi conto che la maggior parte dei fascicoli riguardava indagini della Digos su crimini politici o attività condotte da agenti del Sisde, perciò immaginai che si trattasse d’indagini riguardanti gli anni di piombo, i delitti commessi dalle BR, le “brigate rosse”, e da altri terroristi rossi o neri, attivi nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta. I casi top secret riguardavano i servizi segreti deviati, un altro brutto capitolo della storia italiana degli ultimi decenni del ventesimo secolo. Di colpo precipitai indietro di molti anni… venticinque, trenta. Erano gli anni Settanta, allora ero un giovane studente immerso in una società dove ragazzi come me erano affamati di una libertà che spesso non sapevano o non riuscivano a gestire.
9 Quello degli anni di piombo fu un brutto periodo per la democrazia italiana e per noi ragazzi che ci affacciavamo su una vita confusa e piena di contraddizioni, alla ricerca d’ideali sempre più difficili da individuare. Sorrisi al pensiero di quanto denaro sarebbero stati disposti a sborsare i giornalisti di quegli anni per avere le informazioni che in quel momento avevo sotto mano; informazioni che avrebbero potuto utilizzare per riempire le pagine dei giornali con notizie vere e non con le solite supposizioni e le vaghe interpretazioni della realtà ancora oggi in parte oscura e senza dubbio appartenente alla storia. Continuai il mio lavoro, là dove non dovevo. Seguii cartelle e documenti passare da un computer all’altro per circa un’ora, e arrivai così a metà dell’opera. «Come va Davide?» mi chiese Carelli, raggiungendomi con il sorriso sulle labbra, evidentemente aveva vinto la sua lotta personale con il computer di prima. «Bene, sono a buon punto.» «Vuoi una mano?» «Grazie, ma non è necessario, controllo solo che tutto proceda in maniera corretta.» Mi salutò con un gesto della mano e io, dopo aver risposto con un cenno del capo, ripresi a fissare le immagini delle cartelle passare da una parte all’altra dello schermo fino all’ora di pranzo. Lo svolazzare delle cartelle e il silenzio della stanza mi procurarono una discreta sonnolenza, al punto che, riposta in tasca la pipa sempre spenta, mi appoggiai al tavolino del computer con gli occhi socchiusi. Non so per quanto tempo sonnecchiai; a destarmi fu il vocione del commissario Ventura, il capo diretto di Carelli e solo allora mi accorsi di aver finito buona parte del lavoro, così da poter cominciare il controllo dei dati memorizzati nel server di backup. «Dottor Guasti è ancora al lavoro?» «Commissario…» risposi «… non sono dottore, gliel’ho detto più volte.» Complessivamente il modo di rivolgersi del commissario Nino Ventura non mi è mai piaciuto. Del resto non mi è mai piaciuto, e non mi piace
10 tuttora, lui come persona, ma è un cliente e anche se questi non ha sempre ragione, come recita erroneamente un vecchio detto, un cliente rimane pur sempre un cliente, perciò quella volta sfoggiai un bel sorriso cercando di essere il più gentile possibile, ma fui ancora interrotto. «In Italia, il titolo di dottore non si nega a nessuno» affermò con una risata stentata e fuori luogo. «È come se io la chiamassi questore» replicai. «Forse un giorno io sarò promosso questore» disse ammiccando con falsa modestia. «Io però per diventare dottore dovrei fare qualcosa in più che arrampicarmi socialmente.» Mi resi conto di aver esagerato, tanto che nella stanza l’aria si fece tesa. A stemperare la tensione ci pensò Carelli che mi fulminò con un’occhiata, ma subito dopo si rivolse nella mia direzione con naturalezza, ponendomi un braccio sulla spalla: «Pranzi con noi?» Ci pensai un secondo poi risposi di no, ringraziandolo per l’invito. Desideravo finire il lavoro al più presto e desideravo farlo da solo. Certo, il fatto che io rimanessi nelle stanze dell’archivio da solo non rispettava la procedura e forse Ventura stava per ricordarmelo, ma fu anticipato da Carelli: «Va bene, ci vediamo dopo, aspettami per farmi controllare il lavoro. Fuori c’è un agente, se hai bisogno, chiamalo.» I due si allontanarono e io potei tornare alle mie cartelle. Mentre scorrevo velocemente quelle riguardanti gli anni Settanta, notai una cartella non criptata. La tentazione di aprirla fu forte come il timore di essere pizzicato a sbirciare verbali e altri documenti che non ero autorizzato a vedere. Nonostante l’ansietà che mi pervadeva, la aprii. Riguardava casi di persone scomparse. Erano casi di normale amministrazione per quegli anni, c’erano giovani che scappavano da casa per partecipare alle “comuni dell’amore libero”, altri forse per darsi alla clandestinità e partecipare a bande armate. “No. In questo caso i file sarebbero stati criptati, quelle erano indagini della Digos” pensai.
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Probabilmente erano i soliti casi di persone scomparse come ce n’erano sempre stati e ce ne sono tuttora. «Ok» dissi a voce alta, a me stesso. «Se non è criptato, posso vederlo.» Non era vero, non ero autorizzato a farlo, ma ormai avevo già premuto il tasto INVIO sulla tastiera. La cartella aperta mostrava delle sottocartelle riguardanti l’anno della scomparsa e i luoghi di sparizione. La scelta era simile a una lotteria, m’interessava tutto e niente. Non avevo la minima idea di cosa volessi consultare e solo il caso mi portò al 1972, e aprii quella cartella. Conteneva un numero considerevole di altre cartelle. «Che cosa sto facendo?» mi rimproverai sottovoce. Rimasi lì per un po’ con tutte le cartelle chiuse, come se fossi in attesa dell’ordine di aprirle o di lasciarle per continuare con il lavoro che mi competeva. Quasi subito l’ordine arrivò. Lo diede il mio cervello: “Apri”. Scelsi tramite il mouse una cartella, poi un’altra e così via per un po’. Dopo vari minuti decisi che era meglio lasciar stare e tornare ai miei controlli. Stavo per farlo quando fui assalito da una sensazione di paura e stupore. “Paura di essere scoperto?” Sì, ma anche paura e stupore per quello che avrei visto nel file successivo leggendone il titolo: Andrea Rossi 080872. Che cosa avrei visto se, anziché chiudere tutto e farla finita con quell’insana curiosità, l’avessi aperto? Rimasi immobile per vari secondi guardando il video e ripassando quel nome, prima con lo sguardo e poi con i ricordi. «Andrea Rossi!» esclamai nel lieve rumore provocato dalle ventole del computer. Dopo un tempo che mi sembrò infinito mi riscossi e vidi le dita muoversi verso il mouse come se non mi appartenessero, fino ad aprire quel file. Sul video comparvero la foto e le generalità del soggetto: non c’erano dubbi, era Andrea.
12 Mi resi conto di aver già trascorso molto tempo nella stanza del server, Carelli poteva tornare da un momento all’altro. Non avevo la minima intenzione di farmi trovare lì con il file aperto a curiosare. Decisi di chiudere tutto, ma poi improvvisamente mi venne l’idea che diede origine a tutta la storia: non avendo il tempo di visionare seduta stante il file potevo stamparlo e guardarlo comodamente in seguito. A quel punto non potevo più indugiare perciò predisposi il programma fino a selezionare la stampa del documento, ma mi resi conto di aver commesso un errore. Non mi venne subito in mente, ma a ricordarmelo fu il computer, che aprì una finestra sul desktop con scritto: FILE ANDREA ROSSI 080872 INVIATO ALLA STAMPANTE DIGITARE LA PASSWORD PER STAMPARE “La password!” Ora ero a un bivio, potevo cercare di ingannare il computer con i programmi di ricerca che avevo con me, ma quanto ci sarebbe voluto? Oppure potevo chiudere tutto e sperare in Dio. La speranza in Dio fu il rimedio: infatti m’illuminò e io potei chiudere tutto in tempo perché Carelli, appena arrivato, non si accorgesse di nulla.
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CAPITOLO 2 Una notte che non dimenticherò mai…
Le cose da fare al lavoro di solito sono infinite, perciò, uscendo dalla Questura a metà pomeriggio, sarei dovuto tornare in ufficio per diminuire le infinite cose da fare, ma quel giorno la normalità non mi apparteneva. Ero a disagio. Un disagio dettato dal timore che la polizia scoprisse la mia esplorazione dei file d’archivio. Timore che Ventura o il Questore in persona mi mandasse a chiamare per comunicarmi di essere in stato d’arresto per violazione di segreti d’ufficio o chissà che altro. Paura che l’Amministratore Delegato dell’Advanced Software Consulting, a seguito del mio imprudente gesto, mi desse il ben servito dopo più di venticinque anni di carriera. Sapevo che tutta questa inquietudine era esagerata, soprattutto irrazionale, ma io sono fatto così, mi piace la liceità. Decisi di andare a casa. Forse le mura domestiche potevano rimediare allo stato di tensione che mi pervadeva, ma continuavo a pensare d’averla fatta grossa. La casa era piccola, nonostante i suoi centoventi metri quadrati, piccola come una… cella. Era lì che sarei finito. La casa era anche vuota, Silvia non era ancora tornata da scuola. Aprii la vetrinetta del mobile bar in soggiorno, un whisky o un cognac, ecco quello che mi ci voleva, ma nonostante non sia mai stato astemio, ancora oggi preferisco bere una birra o un po’ di vino a pranzo, perché i superalcolici nella mia mente sono soltanto un mero ricordo delle feste giovanili. Mi sono sbronzato due o tre volte un’infinità di anni fa, certo qualche canna in passato me la sono fatta, ma l’alcool non è mai stato tra i miei vizi.
14 Richiusi la vetrinetta, andai in cucina, aprii il frigorifero e mi scolai un’intera bottiglia da sessantasei di Beck’s ghiacciata, poi ne presi un’altra tornando in soggiorno. Mi scaraventai sul divano e accesi il televisore, era sintonizzato sulla Rai che trasmetteva i programmi pomeridiani. Intravidi un telefilm invaso da ragazzi americani abitanti una cittadina del Midwest che amoreggiavano e combinavano i casini che tutti ragazzi di tutte le epoche e in tutte le parti del mondo combinano. Sfatto per le due birre e per le scariche adrenaliniche, mi addormentai profondamente, sognando poliziotti, processi, condanne e carcerati… … Nel sogno cercavo di sottrarmi alla violenza dei compagni di cella, calci e pugni, più subiti che dati. Alla battuta partecipava anche una tigre che, di tanto in tanto, mi colpiva con zampate micidiali. A un certo punto la belva mi mostrò gli enormi artigli e fece per sferrare il colpo di grazia, ma lentamente la sua zampa si trasformò in una mano, poi l’intero animale si trasformò in una donna, sentii la sua voce, inequivocabilmente femminile. “Che ci faceva una donna nella sezione maschile del carcere?” La voce continuava incessantemente a chiedere: «Stai male?» «Cazzo! Certo che sto male. Mi state massacrando.» «Davide, Davide, svegliati, che cosa ti succede?» Aprii gli occhi. La cella scomparve e apparve il mio soggiorno. Le belve scomparvero e apparve Silvia. «Cosa ti è successo?» mi chiese preoccupata. «Come mai sei già a casa?» Le domande erano troppe e le risposte non potevano che essere confuse. In più di cinquant’anni ho imparato qualcosa sulle donne, ad esempio che è difficilissimo mentire, con Silvia poi è impossibile, capisce immediatamente se qualcuno cerca di prenderla in giro. «Lasciami riprendere da una brutta avventura e ti racconto tutto.» «Ok, ma ora vai a farti una doccia… puzzi.»
15 Era vero, ero madido di sudore, ma la doccia la feci più per pulirmi dai brutti pensieri che dall’odore nauseabondo. A cena le raccontai tutto. Lei non disse nulla, mi guardò con lo sguardo di un genitore che scopre la marachella fatta dal suo bambino, fece un diniego con la testa ma non emise parola. Silvia è così, bambina nell’intimità e genitrice severa di giudizi, ne sa molto mio figlio, ormai adulto, che ricorda ancora le sfuriate della madre. Mai conosciuta, però, una donna più altruista e buona di lei. Quella notte m’infilai sotto le lenzuola in silenzio, cercando di non sfiorarla per evitare di svegliarla. Dopo un tempo infinito d’insonnia fui preso da un malevolo dormiveglia, ma non erano soltanto fantasmi ben presenti, era subentrato anche il senso di colpa. A Carelli, a Ventura, al Questore e all’Amministratore Delegato, si era aggiunta Silvia. Il senso di colpa fu smorzato dai ricordi di un passato che riaffiorava fra veglia e sonno leggero. Fu una notte indimenticabile, ero tornato con i ricordi ai primi anni Settanta, ai miei sedici anni… … Ero nella mia classe e guardavo la professoressa di matematica, senza ascoltarla. In realtà non la vedevo neanche, i miei occhi seppur puntati nella sua direzione, erano fissi senza un bersaglio preciso, erano scollegati dai miei pensieri i quali andavano due file di banchi avanti al mio. Di tanto in tanto li ricollegavo a quei pensieri e li ruotavo verso i banchi davanti, verso quello di Nicola e Deborah. Anche loro non mostravano il minimo interesse per lo studio di funzione che appariva sulla lavagna, perché erano concentrati su loro stessi, sulle cose che avrebbe voluto fare ma che non potevano esternare liberamente in classe. Certo s’impegnavano seriamente ad abbozzarle. Vedevo, seppur a malapena, la mano di Nicola strisciare sul ginocchio di Deborah stando nascosta sotto il banco. Deborah in quella situazione sembrava a suo agio. Non riuscirò mai a capire come certi ragazzi abbiano la fortuna di mettersi con la più bella pur essendo stronzi e superficiali, ma forse il motivo del loro successo è proprio questo.
16 Ero sicuramente invidioso di Nicola Novi ed ero anche innamorato di Deborah, e lei lo sapeva. Giocava con i miei sentimenti, diceva di essere confusa su ciò che voleva realmente, ma ero certo che il suo fosse solo cinismo, non confusione. Da un po’ di tempo si era accorta che il mio interesse per lei cresceva, e le piaceva giocarci, come il gatto con il topo, un divertimento a senso unico. Come faranno le ragazze ad arrivare a capire certe cose molto prima di noi è un mistero, fatto sta che lei giocava con me e, a credere alle parole di Nicola, scopava con lui. Se tra tutte le ragazze della scuola ce ne fosse stata una sola disposta a concedersi più facilmente, questa sarebbe stata sicuramente Deborah Fogli, ma sapevo anche che questo era solo ciò che pensava la maggioranza dei ragazzi. Purtroppo io m’innamorai di lei, dico purtroppo perché mi sapevo troppo impacciato per essere il ragazzo adatto a un tipo come Deborah. Speravo con tutto il cuore che la professoressa staccasse, anche solo per un secondo, gli occhi da quella maledetta curva parabolica disegnata sulla lavagna e li sorprendesse, speravo che li potesse far vergognare. Speravo che li facesse smettere. La professoressa però sembrava cieca, non vedeva nient’altro che quella maledetta curva. Come una liberazione squillò la campanella, la professoressa cessò di spiegare e Nicola finì di palpare Deborah e io mi sentii svuotare, ora entrambi sarebbero andati da qualche parte, si sarebbero eclissati nel primo posto libero completando ciò che avevano iniziato. Questo era quello che immaginavo. Potevo denunciare la cosa ai professori, ma non ne sarei stato capace, non tanto per la mia moralità quanto per la mia scarsa propensione al coraggio. Andrea Rossi, il mio compagno di banco, mi aveva avvisato più di una volta. «Ascolta Davide, non è la ragazza per te» mi diceva spesso. «Lo vedi anche tu che è una troia, è la tipa giusta per quell’animale di Nicola.» Io, invece di dargli ragione, me la prendevo con lui perché dava della troia a Deborah. Certo, sul fatto che Nicola fosse un animale non c’erano dubbi, ma Andrea non doveva permettersi di giudicare Deborah.
17 Con me stesso, senza farlo trasparire, dovevo ammetterlo: Andrea aveva ragione anche su di lei. Il suo era un vero comportamento da “troia”, come l’aveva definita lui. Nei miei ricordi onirici il suono della campanella decretò la fine della ricreazione e io dalla porta della classe vidi arrivare Nicola e Deborah, lui le cingeva la vita con un braccio. Sentii un tonfo al cuore che si trasformò in rabbia quando notai lo sguardo di Deborah su di me, era uno sguardo che solo lei sapeva mandare, un misto di libidine e sberleffo. Era una gran troia, su questo non avevo alcun dubbio. «Ciao, bello» mi apostrofò Nicola, entrando in classe e tenendo sempre il braccio attorno al fianco di Deborah. Era uno stronzo, anche su questo non avevo alcun dubbio. L’estate precedente, prima di iniziare il terzo anno scolastico, Deborah aveva litigato con Nicola a causa di Roberto, ma questa è un’altra storia. Era molto arrabbiata con lui, tanto che decise di lasciarlo e di uscire con me. Ovviamente decise tutto lei, come, quando e perché. A me non rimase che fare tutto ciò che lei voleva, non mi chiese mai di superare la solita barriera delle toccatine, dei baci con la lingua e le altre cosette che ti condannano a subire delle crisi ormonali in mancanza di una vera conclusione. Non me lo chiese, ma io ero sicuro che lo volesse, come sapevo d’essere troppo insicuro per approfittare di quella situazione, troppo insicuro per prendere l’iniziativa. Il risultato fu che si rimise con Nicola, dopo un paio di settimane passate con me. In quel periodo la mia condanna era vederla quotidianamente con lui, a scuola e fuori; infatti, frequentavamo la stessa compagnia una volta finite le lezioni. Il gruppo d’amici si ritrovava il pomeriggio nel bar di Dino, il padre di Andrea, e lì passavamo il nostro tempo, tra il biliardo, il calciobalilla e i calci dati al pallone nel giardino pubblico antistante al bar. In quel giardino, dopo aver fatto un paio di passaggi, di solito ci sedevamo sulle panchine per chiacchierare un po’ e, a volte, si finiva per litigare; questo succedeva quando Andrea tirava fuori la politica.
18 Lui di tanto in tanto frequentava un centro sociale, diceva d’essere anarchico ma io ero sicuro che fosse solo arrabbiato con la vita. Andrea era orfano della madre. La poveretta morì quando lui nacque. Suo padre Dino, da solo, faceva un po’ fatica a mantenerlo a scuola, gestendo il piccolo bar frequentato da qualche pensionato e da noi ragazzi che consumavamo poco o nulla e facevamo solo un gran casino. Era difficile mantenere un’attività redditizia nella periferia di una grossa città come Genova, soprattutto negli anni Settanta. Andrea di pomeriggio aiutava il padre nel bar, anche se, di tanto in tanto, ne usciva per stare con noi, a volte giocando a pallone altre stando seduti sulle panchine dei giardini a chiacchierare. Tra una chiacchiera e l’altra capitava che Andrea parlasse di politica, facendo scattare automaticamente il litigio con Roberto e Nicola che erano di destra. Per la verità Roberto Riccobono era fermo nei suoi ideali ed era sicuramente fascista, ma Nicola si dichiarava tale solo perché era il leccapiedi di Roberto: qualunque cosa dicesse o facesse Roberto per lui era legge. Se Roberto fosse stato comunista, lui sarebbe stato più comunista di lui, se Roberto fosse stato musulmano, lui sarebbe stato jihadista. Nicola era troppo stupido per avere una sua idea, preferiva che qualcun altro si occupasse di trovargliela e questi non poteva che essere Roberto. Della compagnia faceva parte anche Riccardo Migliore, che noi chiamavamo Riccardino perché era magrissimo e piccolo, troppo piccolo per i suoi diciassette anni. Riccardo andava nello stesso liceo classico di Roberto, dove entrambi frequentavano il penultimo anno, ma in due classi diverse. Tra i due non c’era animosità, però erano troppo diversi perché potessero essere veri amici. Mi sono domandato più di una volta cosa ci facessi io in una compagnia tanto eterogenea. Provenivamo da realtà diverse, alcuni dalla piccola borghesia come Riccardino, Roberto e Alessandra, che vivevano nella via più bella del quartiere, altri da quella che ai tempi si chiamava la classe operaia, come Nicola, come Anna e come me. Anna Canobbio era l’amica del cuore e compagna di classe di Alessandra ed entrambe frequentavano il liceo artistico.
19 Alessandra Torre era la ragazza di Roberto, aveva due anni meno di lui ed era bellissima, ma non come Deborah. Non so cosa ci trovasse in uno sbruffone come Roberto, ma forse era proprio quel suo fare sicuro da comandante che la intrigava, certamente lui era il più bello della compagnia, alto, moro con un fisico statuario e una gestualità che affascinava le ragazze. Anna, l’amica del cuore, era l’opposto di Alessandra, piccola, un po’ grassoccia e molto sciatta, il tipo acqua e sapone, ma era solo un modo di dire per mascherare l’assoluta mancanza di erotismo che emanava. Per scherzo i ragazzi attribuivano ad Anna un amore profondo per Riccardino, ma la verità era un’altra; solamente Alessandra conosceva il piccolo segreto di Anna che si era presa una sbandata per me, ma, cieco com’ero, mi ci volle un bel po’ per accorgermi delle intenzioni di Deborah, figurarsi se potevo accorgermi dell’interesse di Anna. Lo seppi molti anni dopo, me lo disse Alessandra, Anna non ebbe mai il coraggio di dirmelo né la malizia di farmelo capire. Quella mattina le scuole erano in sciopero, o meglio il movimento studentesco aveva dichiarato il solito sciopero politico a causa del decesso di uno studente all’Università Statale Milanese, raggiunto da un candelotto lacrimogeno durante una delle mille manifestazioni di quegli anni. Dopo il 1968, che io avevo sfiorato a causa della mia giovane età, i ragazzi erano o neri o rossi, gli altri non interessavano a nessuno. Io, allora, non ero né nero né rosso e per darmi comunque un’appartenenza politica mi schieravo leggermente più a sinistra di quelli che non interessavano a nessuno, più per tradizione famigliare che per vera convinzione. In ogni modo, lo sciopero era un momento di svago per quasi tutti; sicuramente lo era per noi della compagnia, escluso Andrea che lasciava Dino da solo al bar per andare in corteo a urlare improperi verso la polizia, per i fatti di Milano, e verso Nixon per la guerra nel Vietnam che c’entrava sempre, in occasione di ogni manifestazione. Le ragazze erano condannate a stare in casa a causa della paura dei loro genitori per le situazioni che si venivano a creare nelle scuole con i picchetti e spesso con i pestaggi tra neri e rossi e tra questi e le forze dell’ordine.
20 Noi ragazzi eravamo più liberi, anche se la libertà per chi non andava in corteo era dedicata ai calci al pallone nei giardini o al biliardo nel bar. Quella volta, decidemmo per il biliardo. Il nostro gioco preferito erano le boccette e questa specialità continua a essere ancora oggi molto praticata nei bar di Genova. Le squadre, quando non c’era Andrea, erano le solite: Riccardino e io contro Roberto e Nicola. Riccardino era bravissimo, almeno una cosa, oltre lo studio, la sapeva fare. Inutile dire che anche Roberto era bravissimo, Nicola era semplicemente il suo rimorchio, forse era il peggiore di tutti, ma era l’unico che sopportava le sfuriate di Roberto in caso d’errore. Io non ero né carne né pesce, giocavo meglio a calciobalilla e me la cavavo con il pallone, ma al biliardo non mi riusciva proprio di dare confidenza. Toccava a me la bocciata al pallino, quando entrò Andrea, trafelato e con il viso sporco di sangue. Interrompemmo la partita per aiutare Dino a far sedere il figlio. Alle mille domande con le quali lo bombardammo, Andrea rispose solo dopo un paio di minuti e lo fece sputando in direzione di Roberto. «Bastardo, tu e i tuoi simili» disse dopo aver deglutito il resto della saliva e del sangue. «Sei impazzito?» gli chiese Roberto schivando lo sputo. «I tuoi camerati ci hanno aspettato una volta sciolto il corteo e ci hanno aggredito con dei bastoni. Codardi, non hanno avuto il coraggio di attaccare il movimento ma solo dei compagni isolati.» «Senti, cosa c’entro io in tutto questo? Stavo giocando a biliardo. Devi darti una calmata, “compagno”…» Fu interrotto da Dino che ci buttò tutti fuori del bar. Quelli erano i primi anni Settanta, gli anni subito dopo la strage del 12 dicembre 1969 con la bomba che esplose nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, quelli che precedettero di poco gli “anni di piombo”, quelli delle brigate rosse e delle stragi. Gli anni dove o eri rosso o eri nero, gli anni dove eri considerato un bastardo anche se giocavi a biliardo, per il solo fatto di pensarla come
21 quelli che ti picchiavano, gli anni dove rischiavi le botte per urlare al cielo la tua rabbia per la guerra contro i Viet, a volte senza sapere nemmeno dove si trovasse il Vietnam.
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CAPITOLO 3 … Quei pensieri non mi appartenevano.
Era arrivato giugno e con lui gli ultimi giorni di scuola… … Nicola rischiava seriamente di non ottenere la promozione al quarto anno; infatti, gli mancavano molte materie ed era più probabile una bocciatura di un esame di riparazione rinviato a settembre. Andrea, Deborah e io rischiavamo meno, avevamo qualche sei risicato, ma nella maggior parte delle materie la sufficienza era piena. Tra gli scioperi dei professori e quelli degli studenti i giorni di scuola effettivi erano stati pochi, solo chi riusciva a non andare troppo sotto si salvava. Non fu il caso di Nicola che lesse in bella evidenza sui quadri esposti nella bacheca dell’istituto, la parola “respinto” scritta in rosso. Deborah se la cavò con l’esame di riparazione a settembre per matematica e io ne fui contento, perché probabilmente, con qualche studio di funzione in più e qualche palpatina in meno avrebbe potuto evitare quella sentenza. Sorrisi a quel pensiero. «Merda, mi toccherà dare matematica a settembre» disse appiccicata ai quadri, scrollando la testa. «Che cosa dovrei dire io che sono stato trombato, mia madre mi ammazzerà di botte» rispose Nicola. Già, sua madre, Patrizia Furlan, era la vera padrona di casa, quella che portava i pantaloni. Suo padre Mimmo, invece, era uno sfigato, un po’ come il figlio. Aveva sposato una donna bellissima che non sapeva tenersi; infatti, lei passava più tempo con Dino, il padre di Andrea, che con il marito. La faccenda era di dominio pubblico, solo Mimmo non lo sapeva e forse neanche Nicola, ma più verosimilmente entrambi fingevano di non saperlo.
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Quell’estate Roberto aveva compiuto da poco diciotto anni e, neanche a dubitarne, i suoi gli avevano regalato la macchina in occasione della promozione all’ultimo anno di liceo. Non la solita cinquecento, utilizzata dalla maggior parte dei ragazzi d’allora come prima auto, ma una A112 Abarth, più confacente a una famiglia benestante com’era la sua. D’altro canto, suo fratello Giuseppe, più grande di lui di quattro anni, andava alla facoltà d’ingegneria a bordo di una Alfa 2000 Junior di color amaranto che consumava più benzina di un reattore d’aereo, inoltre i suoi gli mantenevano una barca a motore di sette metri e tutti noi eravamo certi che anche Roberto, alla fine, ne avrebbe avuta una. In ogni modo l’arrivo dell’auto, per noi, fu un avvenimento grandioso, pensavamo di avere un mezzo con il quale poter scorrazzare per Genova. In realtà avemmo una gran delusione quando capimmo che i nostri giri sarebbero stati rari perché chi si godé realmente l’auto fu Alessandra, scoprendo un modo più comodo per imboscarsi con Roberto. Così la maggior parte del nostro tempo libero non ci restava che passarla da Dino giocando a biliardo e a calciobalilla. La questione della macchina a noi creava solo invidia, ma sicuramente per Nicola era frustrazione. Una frustrazione dovuta alle lunghe assenze di Roberto durante i pomeriggi del sabato, ma soprattutto perché si sentiva tradito dall’amico. Roberto andava in camporella con Alessandra, Anna le teneva banco con i genitori, giurando che era con lei. Nicola era smarrito senza Roberto, tanto che anche il rapporto con Deborah stava incrinandosi. Quella, per me, fu un’estate memorabile per tre buoni motivi: il primo fu che Deborah decise di rimettersi con me, stanca delle stupide e infantili crisi di Nicola; il secondo motivo fu che quest’ultimo sparì per un po’ dalla circolazione non solo a causa dei cattivi rapporti con Deborah, ma soprattutto perché la madre aveva preso malamente il fatto della bocciatura, costringendolo a trovarsi un lavoro per l’estate; però, al di là di tutto questo, il terzo e vero motivo che rese particolare quell’estate, fu che io presi coscienza delle mie “capacità extrasensoriali”; forse è un po’ esagerato chiamarle così, ma allora non avrei saputo e, ancora oggi non saprei, in quale altro modo chiamarle.
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Le rare occasioni di sfruttare l’auto di Roberto erano legate alle gite al mare. Io occupavo il sedile posteriore con Deborah e con Anna che di solito serviva da “lasciapassare per genitori” a beneficio delle altre ragazze. Riccardino e Andrea ci raggiungevano in motorino a Nervi, sugli scogli a picco sul mare che utilizzavamo come stabilimento balneare personale. Nicola lo vedevamo di tanto in tanto ed era sempre più nevrotico e insopportabile, ovviamente non aveva digerito che uscissi con la sua ex. Il lavoro per tutta l’estate che gli trovò la madre come punizione per la bocciatura, fu scaricare cassette di frutta e verdura dai camion nel vicino mercato ortofrutticolo. Così la donna poteva cogliere l’occasione di stare con Dino nel bar e fuori, approfittando sia dell’assenza del marito, in officina, sia di quella del figlio, al mercato. *** Gli scogli che seguono il litorale lungo la passeggiata al mare di Nervi, sono impervi e per certi versi pericolosi perché i piedi si possono tagliare sulle punte aguzze. Proprio per questa loro caratteristica, però, racchiudono spazi simili a piccole grotte che Roberto e Alessandra, giunti al mare, utilizzavano per imboscarsi dimenticandosi del resto della compagnia. «Andiamo anche noi» mi sussurrò un giorno in un orecchio Deborah guardando la coppia scomparire tra gli scogli. Io guardai gli altri che di consueto facevano finta di nulla nonostante si sentissero esclusi e che, sicuramente, nutrivano un pizzico d’invidia; d’altra parte noi non potevamo uscire da soli in coppia perché, in quegli anni non c’era molta libertà per le ragazze. Alessandra non sarebbe potuta uscire senza la compagnia di Anna e di Deborah e, ovviamente, la cosa valeva per tutte. La cosa oggi fa un po’ ridere, ma all’inizio degli anni Settanta era la regola per quasi tutte le ragazze. In quel frangente la presenza degli altri ragazzi della compagnia serviva a evitare che Anna “reggesse il moccolo”, come si suole dire.
25 Memore dell’esperienza vissuta l’estate precedente e deciso ad abbandonare il ruolo dell’imbranato, non potevo che rispondere di sì, così trovammo anche noi un anfratto tra gli scogli abbastanza riparato. Ci sedemmo su una grossa pietra sotto un archivolto naturale di roccia. Il fatto di abbracciare Deborah, che aveva solo il costume in due pezzi, mi procurò la solita scalata ormonale con la conseguente erezione che cercai di nascondere, convinto che lei si sarebbe sentita a disagio. Oltre che imbranato ero anche stupido, infatti, non solo non si sentì a disagio, ma vi pose sopra la mano aumentando la concentrazione ormonale. Cercai di far scivolare lo slip in basso per liberare l’oggetto delle mie pulsioni, ma lei mi guardò sorpresa. «Non faccio nulla con il… “coso” di fuori» mi disse. “Chi sa capire qualcosa della psicologia femminile è bravo”. Deborah avrebbe fatto tutte le effusioni amorose possibili, anche le più ardite, da vestiti o quasi nudi, nulla più di questo. Sono sicuro che anche Nicola avesse vissuto la stessa esperienza raccontando però un sacco di balle per non fare la figura di quello mandato in bianco. Nell’anfratto, arresomi all’evidenza, ripresi il solito petting quando a un certo punto per la confusione mentale di quei momenti, nel mio cervello cominciarono a formarsi dei pensieri, si trattava di sensazioni strane, confuse… … Sentivo degli stati d’animo contrastanti, era un misto di voglie sessuali e d’inibizioni d’origine non ben definita. Piano piano mi resi conto che quei pensieri non mi appartenevano. Quello stato d’animo era distinto dal mio. Vari pensieri si stavano confrontando. Mi resi conto con terrore che i primi non erano miei, provenivano… da Deborah. Stavo vivendo il suo stato d’animo. Era entrata nel mio cervello. Mi sentivo in uno stato di trance, ma ero comunque lucido. Avevo una gran paura per quello che sentivo, ma nello stesso tempo stavo bene. Era un contrasto da far star male, ma io non mi sentivo per niente male.
26 Non saprei dire se quella volta prevalsero i miei pensieri o ebbero il sopravvento quelli di Deborah, fatto sta che mi rendevo conto di non riuscire più a gestire la situazione perché le immagini e le sensazioni fluivano ininterrotte finché m’immedesimai in Deborah e sentii un forte disagio, evidentemente la psicologia femminile non mi apparteneva, soprattutto se era dedita a voglie sessuali inframmezzate da inibizioni provenienti dall’educazione famigliare. Qualche istante dopo, il mio subconscio assunse il comando e sovrastò quello della ragazza. I due cervelli si confrontarono per un tempo che mi sembrò eterno, poi rallentarono fino a scemare e a lasciare da soli i miei pensieri. Il confronto era finito. In realtà il tutto non durò più di un paio di minuti, ma mi sfiancò come se avessi affrontato una maratona. Riaprii gli occhi e vidi Deborah spaventata. Aveva gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa, tutta la sua bellezza era scomparsa nel pallore del viso. Non sapevo se avesse vissuto la mia stessa esperienza o fosse solo terrorizzata dalla mia reazione. «Stai bene?» mi chiese. «Tremavi. Cosa cazzo ti è successo?» Io annuii e balbettai delle scuse: «No… non lo so, ma ora sto… bene.» O almeno credevo che fosse così. Non sapevo cosa fare se non sistemare il costume e uscire dall’anfratto, lasciando Deborah lì, inebetita con la bocca aperta. Non mi disse nulla per il resto della giornata, forse era offesa, forse era ancora spaventata, ovviamente non capiva il mio comportamento. Probabilmente pensò a una mia qualche malattia. La cosa peggiore era che neanch’io conoscevo il motivo di tutto quello che mi era capitato. Non sapevo cosa mi fosse successo e ne avevo paura. Quando Deborah uscì dall’anfratto sedendosi distante da me, gli altri amici si astennero da ogni commento, ma si leggeva sui loro volti la curiosità. Il giorno dopo Deborah si rimise con Nicola. Iniziò così il periodo più brutto della mia vita perché ero deriso dai ragazzi che, non sapendo la verità, mi consideravano il re degli incapaci
27 e non lesinavano ogni occasione per prendermi in giro. Anna era la sola a non farlo e io, ovviamente, non ne capivo il motivo. Bene o male l’estate passò; io mi sentivo a mio agio solo quando eravamo da Dino per il biliardo, ma soprattutto quando giocavamo a calciobalilla; infatti, essendo il più bravo, gli altri facevano a gara per avermi come compagno. Ci fu un fatto durante il mese d’agosto che ci rese annichiliti per giorni: Andrea sparì dalla circolazione, neanche Dino sapeva in quale meandro si fosse cacciato il figlio. I carabinieri dissero che a seguito delle indagini fatte e dopo averlo cercato in ogni dove, di più non potevano fare, era sparito. Era sparito il mio compagno di banco. All’inizio del quarto anno ne trovai un altro e insieme ci disponemmo in seconda fila, davanti a Deborah, così non sarei stato costretto a vederla. La sedia accanto alla sua era stata occupata da una ragazza nuova. Nicola era rimasto in terza. I due si vedevano durante l’intervallo, ma ormai la cosa non mi procurava più alcun fastidio, era incredibile come stesse pian piano scemando l’amore per Deborah dopo la storia di Nervi. Era come se il mio cervello avesse espulso il suo ricordo insieme al confronto che aveva sostenuto con il suo. Fui preso dal timore che la pazzia cominciasse proprio così, ma, a parte quella sensazione, la vita continuò a scorrere con i suoi alti e bassi. L’unica differenza rispetto a quel recente passato era che non nutrivo più alcun sentimento per Deborah. Di una cosa ero certo: non avevo nessuna voglia di raccontare la mia esperienza. Man mano che i giorni scorrevano mi stavo allontanando sempre più dalla compagnia, le mie frequentazioni si facevano più rare e passavo molta parte del mio tempo a studiare, stavo diventando un secchione. La compagnia stessa si stava disgregando, Andrea era sparito, Roberto e Alessandra si erano lasciati e, con Roberto, lei abbandonò anche la compagnia; ovviamente, Anna non si fece più vedere per solidarietà con l’amica. Mentre i miei genitori erano al settimo cielo per i miei splendidi voti, io mi chiudevo sempre più in me stesso.
28 Durante la mia gioventù non mi successe più di entrare nella mente di qualcun altro, tanto che cominciai a considerare la faccenda come una sensazione casuale, mi convinsi che Deborah non c’entrasse nulla con quello che avevo sentito e provato e che tutto fosse stato frutto della mia fantasia. Quel convincimento mi portò una rilassatezza che non provavo da molto tempo. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD