GIOVANNI DI BALDO
IL CONTRADDITTORIO DI CIBOTTOLA
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IL CONTRADDITTORIO DI CIBOTTOLA Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-503-8 Copertina: “La corte di Cibottola” di Rossana Ventricelli
Prima edizione Marzo 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
Foto di copertina: “La corte di Cibottola” di Rossana Ventricelli Quando ero bambino vedevo mio padre come il solo padre possibile; l’unico vero padre al mondo. Ricordo perfettamente lo spirito compassionevole con cui guardavo i miei coetanei che si erano dovuti accontentare di surrogati di padre, a mio avviso neanche tanto credibili, dal momento che quello autentico era toccato a me. Credo non ci sia niente di strano in tutto questo. Credo che quasi ogni bambino al mondo veda il proprio come l’unico padre plausibile. L’aspetto ridicolo della questione risiede nel fatto che oggi, alla soglia dei cinquant’anni, per me è ancora esattamente così. Questo libro è dedicato a mio padre
Premessa Della seconda guerra mondiale tutti quanti abbiamo visto foto e filmati, letto articoli e libri, nonché sentito interviste, ricostruzioni e racconti. Ovviamente è capitato anche a me, innumerevoli volte. Fra tutte le testimonianze, quelle che maggiormente hanno finito per fissare nella mia mente i connotati più significativi del grande e spaventoso conflitto sono senza dubbio i racconti dei protagonisti i quali, a seconda del loro coinvolgimento, hanno saputo esprimere ciò che la guerra ha significato per gli uomini e le donne che hanno avuto l’onore e la sfortuna di viverla. Le immagini che si sono impresse indelebilmente nella mia fantasia sono fotogrammi in bianco e nero, dai contorni smozzicati e dalle tinte sbiadite. I giorni sono tutti uguali, né assolati né nuvolosi, né limpidi né foschi. Sono semplicemente le immagini di quel periodo, istantanee di fatti e personaggi di cui ciò che conta non sono i colori ma l’essenza di ciò che sono stati e di come hanno vissuto. Le vicende che qui ho scelto di raccontare non vogliono in alcun modo avere il valore della ricostruzione storica né,
tanto meno, fornire spunti per formulare giudizi, emettere sentenze, dispensare assoluzioni. Nonostante gran parte dei luoghi, dei personaggi e degli accadimenti narrati provenga dalla realtà, o si discosti da essa esclusivamente per imperfezioni mnemoniche, il tessuto connettivo del racconto, destinato a organizzare i vari fotogrammi in una storia da raccontare, è puramente frutto della mia fantasia. Così come dalla mia fantasia provengono molti tasselli mancanti, necessari per la ricostruzione di alcuni episodi che, proprio perché mi sono pervenuti da racconti basati esclusivamente sulla memoria dei di protagonisti indiretti, risultano spesso frammentari. Avrei voluto raccontare lo sfollamento così come lo avrebbero raccontato mio padre e gli altri testimoni con cui ho avuto la fortuna di entrare in contatto. Poi, però, ho preferito raccontare quelle memorie non così come loro le ricordavano ma così come a me piaceva raccontarle. Il risultato è questa storia fantastica (da intendersi come frutto della fantasia), basata su personaggi e accadimenti reali. D’altro canto, sono profondamente convinto che per l’essere umano sia impossibile registrare, memorizzare e mettere nella giusta relazione e nella giusta sequenza temporale tutti i fattori che determinano un qualsiasi
evento reale. Ne consegue che senza ricorrere alla fantasia non sia possibile raccontare alcunché. Ci vuole tanta fantasia per raccontare quanta ne serve per inventare. Senza fantasia non c’è memoria. La realtà vera di qualsiasi evento sparisce per sempre nel momento stesso in cui esso questo si verifica. Qualsiasi accadimento, nell’attimo esatto in cui accade avviene, diviene memoria. Quindi fantasia.
Prologo La guerra era finita da un pezzo, nella primavera del 1948. Se n’era andata portandosi via per sempre un sacco di cose: la casa dei miei nonni paterni, ogni fonte di sostentamento della mia famiglia, il sorriso di mia madre. E poi cos’altro? Ah, sì, mio padre! Rimase vittima del bombardamento del Collegio di Propaganda Fide. Nel febbraio del 1944 l’intelligence anglo americana aveva ricevuto informazione della presenza di truppe tedesche all’interno della villa pontificia, territorio neutrale dello Stato Vaticano, che si estendeva tra Castel Gandolfo e Albano Laziale. In realtà la villa e l’annesso collegio di Propaganda Fide erano pieni zeppi di rifugiati provenienti dai paesi limitrofi che erano stati bombardati nei giorni precedenti. La zona, a dispetto dell’impegno preso dagli alleati di rispettare i territori neutrali, fu bombardata a più riprese. Il bombardamento colse tutti di sorpresa. Tutti eccetto i tedeschi. I nazisti, in realtà, non avevano mai occupato i territori vaticani e comunque avevano già provveduto a evacuare la zona, come sapevano tutti. Tutti eccetto gli alleati.
Mio padre si era precipitato, insieme con altri volontari del luogo, a soccorrere le vittime della prima ondata, e c’ero anch’io con lui. Quando un sibilo sinistro annunciò l’imminenza di una seconda razione di bombe, mio padre mi ordinò di fuggire, indicandomi un atrio all’interno del cortile semidevastato in cui ci trovavamo e urlando a me e forse a tutti i presenti: «Fuori di qui! Fuori!» Evidentemente gli era chiaro quale fosse l’obiettivo specifico dell’aviazione alleata. Io obbedii e cominciai a correre nel corridoio che al di là di una grande porta a vetri portava all’esterno del collegio. D’un tratto sentii lo stomaco premere come risucchiato verso il basso e vidi i vetri di fronte a me accartocciarsi come fogli di giornale calpestati, prima di finire in frantumi. Accadde tutto molto lentamente e in perfetto, assoluto silenzio. Continuai a correre tra la polvere che mi riempiva occhi e polmoni, e tra calcinacci e vetri che scricchiolavano sotto le scarpe. Durante quella corsa che mi parve durare un’eternità pensai a un sacco di cose. Pensai a come affrontare mia madre e la sua severità, per spiegarle come avessi potuto lacerare e impolverare in quel modo le mie scarpe seminuove, memore com’ero della sberla che mi aveva
rifilato mentre mangiavo il gelato, il giorno della mia prima comunione, quando si era accorta che una rondine aveva centrato in pieno il mio berretto bianco alla marinara. Pensai che se ero ancora vivo, in quel momento, lo dovevo al fatto che le vacche non sono in grado di volare. Pensai che, visto che da fermo ero stato un facile bersaglio per il guano degli uccelli, forse correndo a perdifiato sarei riuscito a evitare quelle bombe che esplodevano mute intorno a me. E continuai a correre come un forsennato. Potrà sembrare strano, ma non uno di quei pensieri si rivolse a mio padre che pure adoravo, che avevo lasciato esattamente dove era avvenuto lo schianto e che, come mi riportarono in seguito, giaceva intatto, con un po’ di polvere sul bavero del gessato scuro e quarantuno anni da compiere. Io invece dovevo compierne quindici e fui l’unico dei due a portare a termine la propria missione. E riuscii a farlo anche grazie all’aver continuato a correre, correre, correre fino a fermarmi tra le braccia di mio zio Luigi, giardiniere capo delle ville pontificie e fratello minore di mio padre. Solo in quel momento mi resi conto di cosa mi ero lasciato alle spalle. La guerra però finì per lasciarmi anche dei bellissimi ricordi di adolescente e soprattutto per apparecchiarmi un futuro che non poteva che essere migliore. Il futuro che stava nascendo nel ‘48 rappresentava già un
miglioramento. Avevamo tutti la sensazione che si stesse facendo l’Italia e che i nostri sforzi avrebbero determinato la società nella quale ci saremmo ritrovati a vivere. In realtà si stava solo decidendo a chi consegnare l’Italia. Anzi, forse era già tutto deciso. Io naturalmente lo ignoravo. Insieme ad altri due ragazzi dell’Azione Cattolica, una sera stavo affiggendo i manifesti elettorali a sostegno della Democrazia Cristiana, convinto che fosse la cosa giusta, quando mi accorsi che eravamo seguiti a pochi passi di distanza da un gruppetto di uomini, alcuni più maturi, altri della mia età, ma tutti impegnati a staccare i nostri manifesti con la stessa meticolosa dedizione con cui noi li stavamo incollando alle superfici destinate alla propaganda. Mi avvicinai e chiesi cortesemente il perché di quello strano comportamento: «Perché ce li state staccando? Abbiamo lasciato su ogni pannello più della metà dello spazio libero, se volete affiggere i vostri.» Mi si parò davanti quello che credo fosse il più anziano del gruppo. Aveva i capelli neri e fitti, tagliati a spazzola e pettinati all’indietro. Indossava una camicia a quadri bianchi e celesti, chiusa fino al collo e con le maniche arrotolate fino al gomito, dalle quali spuntavano due avambracci enormi e irsuti come prosciutti di cinghiale che
egli teneva incrociati sul petto. Prima di rivolgermi la parola mi indicò sporgendo nella mia direzione i baffoni da tricheco, affinché fosse chiaro che ce l’avesse proprio con me. «Perché qui non c’è posto per i vostri manifesti.» Io non sono mai stato tipo da menare le mani, meno che mai per la strada, e sono sempre stato contrario a qualsiasi forma di violenza, soprattutto se rivolta al sottoscritto, Qquindi, per mia natura, avrei alzato i tacchi e lasciato il campo all’energumeno. Ma non andò così. Quella specie di Stalin delle campagne laziali ignorava, oltre a una schiera piuttosto nutrita di altre cose, che lo sbarbatello che aveva di fronte aveva assistito all’episodio che, benché ignorato dalle cronache del tempo e dai libri di storia, aveva di fatto sancito la frattura insanabile tra marxismo e capitalismo, tra blocco sovietico e occidente. Quel frangente storico cui spetterebbe il titolo di simbolo della guerra fredda più ancora di quanto lo meritino il Checkpoint Charlie e il muro di Berlino. Se fosse passato alla storia, alla maniera della Strage di San Valentino e dello Schiaffo d’Anagni, quell’evento oggi sarebbe noto a tutti come il Contraddittorio di Cibottola. E quel giorno io c’ero. Ero stato in un certo senso protagonista e testimone dei
primi vagiti della guerra fredda, io! Quindi non potevo, non avevo il diritto di recedere dinanzi al tricheco che incalzava: «Di’ un po’, com’è che i preti adesso mandano i chierichetti con la faccetta pulita a fare ‘sti lavori?» E così contrattaccai: «Forse perché i burini con la faccia da zozzone sono stati tutti reclutati dai socialisti!» Come detto, non sono mai stato un cuor di leone. Anzi, quando, citando un filosofo che mi pare di ricordare fosse Hobbes, dico che il giorno in cui sono stato partorito nacquero insieme un bambino e la paura, mi viene sempre da domandarmi che fine abbia fatto il bambino. In effetti ho avuto paura di tante cose, in vita mia. Ma non ho mai avuto paura di dire ciò che penso, persino a costo di mettere a rischio il posto di lavoro o l’incolumità fisica e, almeno in buona parte, credo di dovere questa spavalda sfrontatezza al fatto di essere stato presente al Contraddittorio di Cibottola e di esserne uscito indenne. Comunque, mi resi conto immediatamente di aver imboccato la strada più diretta verso un brutto quarto d’ora. E quello era proprio uno di quei casi in cui i quarti d’ora arrivano a durare delle mezze giornate. Pare che un’esperienza comune tra gli uomini che si sono ritrovati a guardare la morte negli occhi sia quella
rappresentata dal ripercorrere in un istante tutta la propria esistenza. Come se la mente volesse rivivere ogni cosa un’ultima volta, prima di abbandonare tutto per sempre. Probabilmente la mia situazione non era così drammatica e fu forse per questo che la mia mente abbandonò idealmente quel luogo e quella circostanza per volare decisa verso un solo segmento della mia vita, quello che più d’ogni altro aveva attinenza con il presente e ne costituiva la ragione principe. Così mi trovai a rivivere in un istante il Contraddittorio di Cibottola, ripercorrendo tutti gli eventi che mi avevano condotto là, in prima linea, nella primavera del ‘46.
IL CONTRADDITTORIO DI CIBOTTOLA
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I Dei giorni che seguirono il bombardamento di Propaganda Fide non ho un ricordo nettissimo. Certo, sono passati tanti anni ma, nel ricostruire il susseguirsi degli eventi di quel periodo, i primi giorni dopo la morte di mio padre mi sono sempre tornati alla mente in maniera nebulosa e frammentaria. Ricordo mia madre che piangeva e pregava, e ricordo che ci trasferimmo all’interno della villa pontificia dove, con qualche coperta e poche cose portate via dalla casa che avevamo lasciato, passavamo il tempo seduti sulle scale di giorno e sdraiati sulle scale di notte. Ogni tanto quella monotonia, fatta di lamenti e preghiere che tutte le donne andavano sussurrando, era rotta dal suono di una sirena solitamente seguito da una serie interminabile di esplosioni. Quei boati erano angoscianti ma erano anche l’unica cosa in grado di arrestare per un poco, solo per un poco, le lacrime di mia madre. Rimanemmo in quella situazione infernale per una settimana esatta, durante la quale vedemmo tante famiglie salire su mezzi di trasporto messi a disposizione
21 da non so chi e partire per non so dove. Finalmente salimmo anche noi su uno degli ultimi mezzi rimasti, un camion a carbonella di lignite, e partimmo alla volta di Assisi. Perché Assisi? Non l’ho mai saputo. Ricordo lo strano effetto che mi fece il salire sul camion, dopo aver issato a bordo mia madre, mia sorella, mio fratello e la sua polmonite di mio fratello, e il ritrovarmi a condividere quello spazio con la famiglia di mia madre quasi al completo. Era il 17 febbraio e faceva discretamente freddo, anche se con il sole del primo pomeriggio e il calore proveniente dal gassogeno posto in coda al cassone scoperto non si stava malaccio. Per lo meno fin quando il sole tramontò e arrivammo al valico della Somma, dove le ruote di gomma piena del camion cominciarono ad annaspare nella neve. Là quelli più robusti e in salute, oltre, secondo me, a quelli con la faccia più antipatica, furono invitati a scendere e a proseguire per un tratto a piedi. Arrivammo ad Assisi molto tardi, dopo mezzanotte. Fummo sistemati qua e là a gruppetti, dove c’era posto. Io, mia madre e i miei fratelli fummo destinati alla casa di un fornaio che, resosi conto della febbre alta di mio fratello, decise di cederci la sua stanza, dove alloggiava un enorme letto matrimoniale, caldissimo, dal momento che
22 era sistemato esattamente al di sopra del forno. Più che quel calore avvolgente, s’impresse indelebilmente nella mia memoria, come elemento sensoriale associato a quella notte, l’odore del pane, più caldo del calore del forno, caldo come l’accoglienza di quella gente. Nella mia mente quell’odore inebriante che raggiungeva la stanza da letto permeando misteriosamente le assi e i mattoni del pavimento si unì indissolubilmente al concetto di serenità e ogni volta che lo fiuto nell’aria, ancora oggi, una serenità sfacciata e irragionevole s’impadronisce di me, come accade nella notte di Natale. Il giorno seguente, quell’odore si materializzò in consistenza e sapore fatti a fette. Fette pallide, calde e croccanti di quel pane bianco che avevo da tempo dimenticato. Anzi, a dire il vero, quello strano pane senza sale non lo conoscevo proprio, ma lo trovai fantastico. Dopo la colazione c’era da risolvere il problema della sistemazione: bisognava trovarne una che fosse più stabile e più autonoma, e soprattutto che riunisse la famiglia sotto un unico tetto. A zia Teresa, una delle sorelle di mia madre, tornò in mente che in un paese vicino Perugia si era trasferita la sorella del suo fidanzato, lo zio Nino, che a quel tempo si trovava in Germania, gentile ospite di Eichmann, in un lager nazista dal quale tornò, fuggiasco, non propriamente rigenerato.
23 Per tre volte si era ritrovato nudo nella neve, ordinato in una fila di deportati, dalla quale, a posizioni alterne, a volte i pari e a volte i dispari, venivano scelti a caso quelli della metà da liquidare seduta stante con un colpo di pistola alla nuca. Per tre volte era stato destinato all’altra metà e ne era rimasto alquanto scosso, povero zio Nino. Essere scartati per tre volte consecutive è un’umiliazione difficile da digerire. Se era vicino a Perugia, allora quel paese non doveva essere troppo distante da Assisi. Bettona si chiamava. Sì, Bettona! La zia ne era certa perché ricordava che, quando lo aveva sentito pronunciare per la prima volta, quel nome le aveva riportato alla mente Bettoni. Il motivo per il quale Bettoni fosse così prepotentemente mnemonico per la zia Teresa, però, è sempre rimasto un mistero. Non se lo ricordava proprio. Da qualche parte (per quel che ne so, dal nulla) spuntò una bicicletta. Lo zio Ugo, il più piccolo dei fratelli di mia madre, la inforcò, fece accomodare zia Teresa sul manubrio e iniziò a pedalare alla volta di Bettona che ricordava Bettoni che nessuno ricordava chi fosse. Tornarono ad Assisi nel tardo pomeriggio. Era già buio e loro erano esausti ma soddisfatti. Era stato loro assicurato che la signorina Edvige, una zitell... un’elegante signora nubile di Bettona, possedeva in paese un appartamento
24 sfitto e che al modico prezzo di non so quanto ce lo avrebbe messo a disposizione già dal giorno seguente. La cifra, qualunque fosse, fu valutata in linea con le possibilità di spesa imposte dal piccolo gruzzolo che mio nonno Giuseppe era riuscito a portare con sé, in fuga da Albano. Mi sono fatto l’idea che gli sfollati, tutti gli sfollati del mondo, abbiano immancabilmente la stessa espressione, soprattutto lo stesso sguardo. Gli occhi sono leggermente sgranati, nel tentativo vano di scorgere il proprio destino in un futuro imperscrutabile, e fissi in avanti, nel tentativo altrettanto vano di dimenticare ciò che si sono lasciati alle spalle. Nel paese che era rimasto alle nostre spalle, quando io ero bambino, le persone adulte avevano quasi tutte un soprannome, proprio o di famiglia, col quale erano note a tutta la cittadinanza e in assenza del quale potevano essere additate come forestiere o, comunque, non inserite nella comunità. Il soprannome, che spesso si estendeva ai discendenti diretti del portatore, era abitualmente più popolare del nome e del cognome, tanto che l’aggiunta dei nomignoli dei defunti ai dati anagrafici sui manifesti funebri era una pratica quasi abituale. Erano passate meno di quarantott’ore da quando avevamo lasciato Albano, da dove eravamo partiti come sfollati a bordo di un camion per sfollati e con facce da sfollati,
25 quando, la mattina del 19 febbraio 1944, nonno Giuseppe detto Peppuccio, a bordo di un camion a carbonella e a capo della sua famiglia quasi al completo, arrivò per la prima volta a Bettona, in pieno centro. Piazza Garibaldi, per l’esattezza. Io fui il primo a saltare giù dal cassone e a correre, manco a dirlo, verso la parrocchia. La mia era una famiglia a prevalenza cattolica, non esclusivamente ma profondamente cattolica. Era cattolica la famiglia di mia madre e lo era una buona metà di quella di mio padre, dove gli undici figli si erano quasi equamente divisi tra l’influsso apostolico di mia nonna e quello marxista di mio nonno. Io frequentavo scuole cattoliche al mattino e servivo messa al pomeriggio. Non avevo bisogno di guardare né di capire. Per me correre verso la chiesa di un qualsiasi agglomerato urbano del mondo era un fatto del tutto istintivo, come lo è per le neonate tartarughe marine il correre verso il mare subito dopo la schiusa delle uova. Bettona è tutt’oggi un meraviglioso borgo medievale di origine etrusca e la Collegiata di Santa Maria Maggiore, una chiesa originaria dei primi anni del Cristianesimo, domina un angolo della piazza principale, piazza Cavour, che allora mi sembrava enorme, anche per via della totale assenza di auto, e che è adiacente a piazza Garibaldi, dove il resto della famiglia attendeva a bordo del camion.
26 Non feci in tempo a raggiungere l’entrata della chiesa, perché ne era uscito il parroco che mi era venuto incontro come se mi stesse aspettando. Il giovane prete mi guardò con espressione interrogativa e io gli spiegai trafelato chi ero, cosa facevo lì e chi stavo cercando, facendo una gran confusione a causa di una fretta affannosa che si era impadronita di me, a dispetto dell’assenza di qualsiasi ragione plausibile. Il ragazzo in tunica rimase pazientemente e a lungo a guardarmi farfugliare. Il volto bonario, sormontato da una folta capigliatura riccia, era collocato in cima a una fila interminabile di bottoncini neri. Crescendo e comprendendo come nessuna azione dell’uomo sia priva di uno scopo preciso, ho capito che quel numero esagerato di bottoni sul davanti delle tuniche dei preti è stato messo là con il preciso intento di dissuaderne il portatore da eventuali tentazioni carnali. Sfilarsi una giacca e slacciare una cintura per cedere alla tentazione sono operazioni rapide che possono essere consumate in un unico gesto, sospinti dall’impeto di un momento, ma liberare dalle asole tutti quei bottoncini, uno a uno, dà tutto il tempo al tentato di riprendere il controllo di sé e alla tentazione di rivolgersi altrove. Quando ebbi terminato la mia esposizione concitata e sconnessa, il giovane pio ‐ forse per scelta, forse per
27 costrizione, ma sicuramente pio ‐ mi invitò a seguirlo fino a quella che per un paio d’anni sarebbe stata la casa mia e di quel che rimaneva della mia famiglia. Così tornammo indietro per la strada che avevamo già percorso entrando in paese, fino quasi a uscirne di nuovo. Facevamo strada io e il parroco che mi teneva un braccio sulle spalle, come se guardandomi avesse capito che quel braccio paterno sulle spalle non lo avrei avuto più. Ci seguiva uno strano trabiccolo a vapore che ansimava, ondeggiando insieme al suo carico di Peppucci. A una ventina di passi da Porta Santa Caterina, Don Mario (così si chiamava il giovane prelato) ci indicò l’appartamento sfitto della signorina Edvige, che si trovava al piano terra, oltre un portoncino di legno che, lasciandosi alle spalle il centro del paese, rimaneva sul lato sinistro della strada, e ci disse che mentre lui cercava di rintracciarne la proprietaria noi avremmo potuto scaricare là le nostre cose. Le pietre antiche e pulitissime, i colori, i profumi e soprattutto il silenzio e la quiete che riempivano l’ambiente, in quel momento mi sorpresero, e mi resi conto che forse la guerra, quel conflitto esteso e terribile da cui eravamo fuggiti, ma dal quale era impossibile fuggire perché era ovunque, in quei luoghi non era arrivata o, quanto meno, non ve n’era traccia.
28 La sensazione che ebbi in quel frangente fu la stessa che si ha entrando nella hall di un grande albergo e lasciando fuori il traffico di una metropoli all’ora di punta. Il frastuono scompare all’improvviso, apparendo d’un tratto lontanissimo e impensabile, in quell’ambiente ovattato di moquette e di luci soffuse riflesse nell’ottone lucido, dove tutti si muovono senza fretta e parlano sottovoce. E noi, senza fretta e sottovoce, scaricammo il cassone del camion e prendemmo possesso dell’appartamento sfitto della signorina Edvige. FINE ANTEPRIMA. Continua...