In uscita il 28/6/2019 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2019 ( ,99 euro)
AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.
ANGELA BORGHI
IL DESTINO DEL GATTO
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/
IL DESTINO DEL GATTO Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-318-5 Copertina: immagine Shutterstock.com
Se io v’amo al par de la mia propria vita donna crudel, e voi perchè non date in tanto amor al mio tormento aita? Marco Venier a Veronica Franco sec. XVI
S’esser del vostro amor potessi certa per quel che mostran le parole e ’l volto che spesso tengon varia alma coperta Veronica Franco a Marco Venier sec. XVI
5
GAIA
Uno spettro gli veniva incontro nella nebbia della mattina di autunno. La sua voce gelida lo toccò come fosse la punta di una spada e lo fermò. Era Gaia, sua sibilla personale. Marco Venier, ispettore capo della Squadra Mobile sezione crimini contro la persona, in sostanza la Squadra Omicidi, di Venezia, amava le giornate brumose e amava il profumo umido di putrefazione delle calli, però quella mattina sentiva un disagio sottile nelle ossa. Inseguiva ancora con il pensiero immagini sfumate di un sogno dolce e luminoso che ricordava appena, ora che era uscito dal tepore delle coperte. Ma le inquietanti parole di Gaia Lorenzi, segretaria della medesima Squadra Omicidi e, purtroppo, sua vicina di casa nel sestiere di San Marco, dispersero persino il ricordo di ogni calore. «Questa notte ho fatto un sogno terribile, ispettore.» Gaia, nome che evocava caratteri solari e leggere atmosfere, e quindi inadatto a lei, usava le parole come bombe a mano e iniziava sempre così i suoi discorsi. Uno spettro non spreca parole in inutili saluti o formule di cortesia. Così lei se li dimenticava, tutta presa dalle sue previsioni catastrofiche o notizie pessime, che spiattellava così, a freddo, prima appunto di darti il buon giorno, prima che avessi il tempo di sfuggirle. Accidenti, quella mattina prima ancora del cappuccino. «Me lo racconterà dopo, in ufficio», disse lui con un’occhiata di nostalgia alle luci sfumate dell’insegna del bar che si trovava nel campiello. Ma la difesa dell’ispettore era troppo debole. «Quello che ho sognato deve avere un significato…» proseguì lei implacabile. «Quella mano bianca voleva dirmi qualcosa.»
6 Di solito coi sogni ci azzeccava, la maledetta. Aveva previsto lei più morti ammazzati in quei due anni da quando era stata misteriosamente assunta alla Omicidi che Nostradamus in tutte le sue quartine. Gaia a volte veniva chiamata dai colleghi anche Suspiria, sia per una certa somiglianza, e non solo nella pettinatura, con il noto regista, sia per il sospiroso tono della voce quando pronunciava profezie o anatemi. Era in forze alla Omicidi come segretaria amministrativa. Solo che il suo dirigente, Venier, non ne aveva mai richiesto l’assegnazione, neppure prima di conoscerla. Non era tipo da accorgersi che servisse una segretaria amministrativa. Ma lei, appunto in una di quelle brumose mattine che lui amava tanto, era apparsa come per magia, tutta vestita di nero come lo sarebbe stata nei due anni successivi. Aveva appoggiato una foto di un orribile gattone bianco sulla scrivania, aveva bagnato il pothos dell’ufficio del Capo che agonizzava da settimane e aveva, bisognava darle atto, impugnato le redini di quel marasma burocratico-amministrativo che regnava alla Omicidi. Peccato che sembrasse spedita lì da Lucifero in persona. «Una mano di un morto», la voce di Gaia inseguì l’ispettore fin dentro il bar. Non c’era alcun bisogno di precisarlo. «Ne parliamo dopo!» ripeté lui già proteso verso un conforto qualsiasi: l’aroma del caffè, il profumo di violetta di Miriam Stocchetti, qualche parola della gente. La padrona de “I baicoli” stava versando “un’ombra” mostrando il petto generoso ai primi clienti. L’aria era umida e fredda e il bottiglione del vino bianco era in funzione da ore. Però quel bel toso dell’ispettore capo stava sul classico cappuccino con brioche al cioccolato, quindi Miriam non aspettò neppure che li ordinasse. Con in mano la tazza calda, Venier godette per un attimo di un tempo sospeso, di un momento perfetto. Fuori, passi solitari e frettolosi, il motore scoppiettante di un barcone, le voci nella nebbia. Una tregua da quello che lo attendeva, ne era conscio, perché Gaia non sbagliava quasi mai: un cadavere sopra un tappeto antico o tra i rifiuti di una calle buia, oppure galleggiante a faccia in giù in un canale.
7 Il trillo del cellulare sottolineò quel pensiero. Mentre usciva per rispondere gettò un’ultima occhiata al rosso carota dei capelli di Miriam e al suo sospiro materno, e furono le ultime immagini simpatiche di quella giornata appena iniziata.
8
VERONICA, QUALCHE GIORNO PRIMA
“Le fresche rose, i gigli e le viole Arse ha’l vento de’ caldi miei sospiri e impallidir pietoso ho visto il sole” Parole mormorate a mezza voce da una bionda che scendeva i gradini della biblioteca. Le consegnava a una brezza che le disperdeva nell’aria. I passanti erano rari da quel lato ombroso del campo, così nessuno faceva caso a quello che diceva Lidia Arlan. “E impallidir pietoso ho visto il sole”. Ma quando mai, pensava: il sole che inondava in quel momento il grande campo veneziano non era certo pallido né pietoso, e neppure comprensivo per la sua tristezza. Una giornata tiepida di ottobre illuminava la città di colori. Orribile. Il cielo blu intenso, i crisantemi gialli del fioraio, i maglioni rossi dei bambini alla fontanella, tutto così disgustosamente splendido. E lei così triste. Molto meglio allora l’accoglienza burbera di qualche giorno prima, della città e del barcaiolo di casa Farsetti. La città perché aveva messo in scena un pioggerellina gelida, l’acqua marrone dei canali dall’odore greve, la muffa delle paline, Toni, che l’aspettava con il motoscafo davanti ai gradini della stazione, perché l’aveva degnata a malapena di un cenno di saluto ed era partito levando in fretta l’ormeggio. Poi via, sfiorando vecchi angoli sbrecciati, in un silenzio scontroso benedetto che non richiedeva conversazione. Lidia si sedette su una panchina del campo di Santa Maria Formosa a riordinare gli appunti della sua tesi su Veronica Franco, la poetessa del Cinquecento, l’autrice dei versi che così spesso si trovava a mormorare. Era Veronica che l’aveva attirata a Venezia, era anche colpa sua se ora era, per così dire, intrappolata a casa dei Farsetti, ricca famiglia veneziana di nobili origini, amici di lunga data di sua madre, che l’aveva convinta ad andare da loro. Aveva avuto l’impressione che, più
9 che desiderare la conclusione dei suoi studi, sua madre volesse liberarsi di lei e del suo umor nero. Povera donna, come darle torto. Dopo la disavventura sentimentale Lidia girava a vuoto come una vite spanata: non mangiava, non usciva, non dormiva, non leggeva se non versi del Cinquecento. E odiava tutti. Ma forse qui a Venezia iniziava timidamente a sentirsi meglio, si era alleggerita quella cappa di angoscia che la opprimeva. Camminava tra le calli, annusava l’odore salmastro della laguna, scopriva angoli segreti, ritrovava Veronica Franco nel silenzio delle sale di biblioteca e si dimenticava di se stessa. Iniziavano a sfocarsi un poco i contorni di quella specie di film dell’orrore che erano stati i due giorni precedenti il suo mancato matrimonio. Il penoso colloquio con il fedifrago, l’imbarazzo nel dover informare sua madre e i parenti di ogni ordine e grado, la restituzione dei regali. Eccetera. Ma la pillola più amara di tutte era stata la consapevolezza di essersi ficcata lei stessa in quel guaio, a testa bassa, senza difese. Che leggerezza era stata aver aderito con incosciente entusiasmo a una proposta di matrimonio da parte di Andrea, abbagliata dalla sua personalità solare, dalle promesse sussurrate, dalla sua abilità nel farsi amare. Senza aver ascoltato gli inviti alla prudenza di sua madre, senza aver considerato i segnali della sua irresponsabilità e, soprattutto, senza aver capito, nelle ultime settimane in cui lei si era persa nei preparativi, che lui si era perso invece in sentieri tortuosi, che si arrampicavano verso montagne di dubbi, di paure, di problemi non affrontati. Già, era stata anche messa in guardia. Per fortuna amici e parenti, più pietosi di lei stessa, le avevano poi risparmiato i “te l’avevo detto”. Ci aveva pensato da sola a ripeterseli. Si alzò dalla panchina e fu presa dallo sconforto di doversi dirigere subito nel tetro palazzo Farsetti e di rinchiudersi. Rischiava anche di dover sostenere una conversazione con Bianca Farsetti, la padrona di casa. Non sapeva mai cosa dire. Parlare con lei era un po’ come essere seduti in un banco di tribunale, con gli occhi inquisitori della pubblica accusa puntati addosso ad aspettare un eventuale passo falso. Senza contare lo sguardo maligno di Epifanio, il gatto di casa, persiano di
10 razza pregiatissima che trascorreva la maggior parte della giornata tra le braccia della sua padrona. Inseparabili, anche se i due sembravano odiarsi per come si guardavano a vicenda, con diffidenza e un lieve disprezzo. Doveva essere una prerogativa aristocratica, quello sguardo, perché la signora lo indossava come un uniforme. Chissà perché poi l’aveva invitata, forse aveva insistito quella sconsiderata di sua madre. Forse Bianca si sentiva rinfrancata nel vedere l’effetto della disillusione anche su altri, oltre che su se stessa. La delusione gliela si leggeva in faccia. La bella casa, il bel marito, i bei figli, più tutto quello che la ricchezza poteva comprare evidentemente non bastavano per darle la felicità. Telefonò a sua madre da lì, a casa Farsetti aveva sempre l’impressione che qualcuno ascoltasse le sue conversazioni. Forse stava diventando anche paranoica. Non aveva mai conosciuto suo padre, sparito di scena prima ancora che lei nascesse e prima di avere il tempo o la voglia di sposare sua madre. Morto in giovane età, così le era stato detto, e nulla più. L’argomento era di sicuro doloroso anche se a sua madre non aveva amareggiato gli anni seguenti né guastato il carattere. Una donna vitale e piena di spirito. Ma come faceva a essere amica di Bianca Farsetti? «Mamma, ma come fai a essere amica di Bianca Farsetti?» le ripeté al telefono. Risata. «Da giovane era una compagna piacevole.» «Sarà.» «Noi quattro eravamo inseparabili.» «“Noi quattro” chi?» Strana quella confidenza buttata lì in quel momento. «Io, Bianca e i gemelli Farsetti. Ma sì, mi sembra di avertene già parlato. Edoardo aveva un fratello gemello, Alfonso. Morto di leucemia. Ma insomma, tu come stai?» «Bene», tagliò corto Lidia e si era già distratta pensando a una legatoria che voleva cercare, una di quelle piccole botteghe veneziane piene di quaderni ricoperti da carte meravigliose e di articoli costosi che lei non
11 si poteva permettere. L’aveva vista due giorni prima vicino alla chiesa dei Padri Gesuiti. Chiuse la telefonata dopo i saluti e si avviò alla ricerca. Avrebbe cercato qualche cosa che fosse accessibile alle sue tasche, le era venuta voglia di fare un acquisto prezioso. Ma non aveva messo in conto che a Venezia è raro trovare quello che si sta cercando mentre si viene improvvisamente premiati con quello che non si spera più di rivedere. Poi Lidia commise subito un primo errore: invece di dirigersi verso le fondamenta passò per il ponte oltre il canale. Le bastarono pochi minuti per perdersi tra le calli. Attraversò un altro ponte e un altro ancora, girò un angolo e un altro ancora e si trovò in un fondo chiuso, passò per un sottoportego e il percorso sembrò già visto. Il sole era sparito e la nebbia si insinuava tra le case. Le venne freddo e quel sottile disagio che ti prende quando smarrisci la via. Nessuno passava per chiedere informazioni. Un rumore di passi di contralto al suo, però, l’accompagnava da qualche tempo. Le venne paura, così, all’improvviso e senza motivo. Tentò una furtiva occhiata dietro le spalle: un ragazzotto vestito di nero, con un giubbotto di pelle aveva imitato le sue svolte casuali. Era molto alto e questa cosa inspiegabilmente lo rendeva minaccioso ai suoi occhi. Oppure era la cresta di capelli, di un biondo innaturale. Improbabile che dovesse fare la sua stessa strada, il percorso tra le calli più insensato del mondo. Il cuore le partì a un ritmo incontrollabile, non si voltava più, non osava, ma i passi si facevano sentire puntuali dietro di lei. Camminò più veloce, ma non riuscì a distanziarlo. Girò due angoli e lui la imitò. Sentì qualcosa di molto simile al panico. Stava esagerando, se ne rendeva conto, doveva essere l’effetto-Venezia e la sua aria di mistero. Ma che diavolo voleva da lei? Sbucò in un campiello che le prospettò delle alternative: tre calli in uscita con le relative diramazioni laterali e portoni di abitazioni. Si infilò in uno di questi e poi su per le scale buie, più silenziosa possibile. Salì fino al secondo pianerottolo dove da una delle porte proveniva il concitato litigio a suon di insulti di due voci infantili. Le sembrò un coro angelico. Si appiattì nella penombra, contro la parete, se l’avesse
12 seguita fin lì si sarebbe attaccata al campanello. I due angioletti erano di sicuro a casa con qualche adulto. Trattenne il fiato quando lo sentì entrare nel campiello, ma poi il passo svanì nell’intrico delle calli. Ci mise un poco a scendere e a tornare all’aperto. Ora si sentiva ridicola per tutta la paura che aveva avuto. Tornò indietro, girò a vuoto ancora per qualche minuto e poi riuscì a sbucare davanti alla bianca facciata barocca che stava cercando. Di lì in poi tutto sembrò facile, ritrovò la bottega del legatore, anche se le era, a quel punto, passata la voglia di fare acquisti. Ripiegò sul bar accanto, aveva bisogno solo di trovarsi gomito a gomito con un po’ di gente. Dopo essersi seduta si era già rinfrancata, dopo un punch ad alta gradazione alcoolica non aveva più paura, dopo due chiacchiere con il suo vicino al banco, un uomo di mezza età che era alla quarta “ombra”, le sembrava proprio di aver esagerato e dopo un quarto d’ora la sua avventura le sembrava quasi uno scherzo della fantasia. “Giubbotto di pelle” forse stava passeggiando per i fatti propri e la foschia e Venezia avevano creato un’atmosfera da film giallo. Non si attardò nel bar sebbene ne avesse voglia: a casa Farsetti la cena era servita puntuale e richiedeva il cambio dell’abito.
Quella sera Lidia incontrò Fabio Grimani, psichiatra di chiara fama, invitato a cena al palazzo. Fin dalle presentazioni l’approccio del dottore era stato brutale o forse la provocazione era una tecnica della moderna psichiatria. “La piccola Lidia piantata dal fidanzato davanti all’altare” aveva risposto un poco piccata ma non dispiaciuta del tutto. Forse era meglio così piuttosto che i pietosi giri di parole che la gente le aveva riservato dal fattaccio in poi. Grimani aveva un certo fascino, lo doveva riconoscere. Un poco prevedibile, molto sicuro di sé, innamorato della sua voce. Si era presentato come uno dei medici di fiducia della famiglia Farsetti, mentre rivolgeva un grazioso gesto da uomo di mondo in direzione della signora Bianca che lo fissava con un sorriso di miele.
13 Solo Fiammetta, la figlia dei padroni di casa, gli lanciò uno dei suoi sguardi a metà tra l’ironico e il diffidente che sembravano una sua specialità, ma Lidia non ebbe il tempo di approfondire le dinamiche che il dottore scatenava nella famiglia Farsetti, la cuoca stava iniziando a portare in tavola le prime portate. Nella sala settecentesca imperava ora il tintinnare delle forchette sui piatti di porcellana. “I fini marmi e i porfidi lucenti cornici, archi, colonne, intagli e fregi figure prospettive, ori ed argenti…” avrebbe detto Veronica Franco. Lei sì che sarebbe stata perfetta a una cena come quella, graziosamente seduta con il suo ampio vestito trapuntato di perline dorate e col collo di pizzo come filigrana d’argento. Invece Lidia si sentiva fuori posto in quella raffinata compagnia. Si era vestita con eleganza, però, e aveva raccolto i capelli. Faceva di certo la sua figura, ma aveva il segreto timore di sbagliare qualche posata o di rompere un cristallo. La cena riuniva tutti i componenti della famiglia Farsetti: il biondo Sebastiano, il figlio maggiore, la signora Bianca dall’eleganza fuori moda ma raffinata, il suo fascinoso marito Edoardo, Fiammetta vivace come il padre, bella come la madre, perfida come il gatto. Formava una coppia strana con Silvio Albrizzi che le era stato presentato come il fidanzato e che fissava il consommé come se volesse leggervi dentro un imperscrutabile futuro e a lei sembrava vagamente sperso, immoto come una particella fagocitata da una cellula più grossa di lei, in questo caso la cellula si chiamava Fiammetta. Aveva un viso dai lineamenti fini, non sgradevole, ma era uno di quei volti che ti dimentichi pochi minuti dopo averli incontrati. La cena si svolse senza particolari avvenimenti, come tutte le cene mondane da secoli: conversazioni intelligenti ma con qualche banalità, molta cultura, modi da aristocrazia vecchio stampo, qualche cattiveria lanciata sulla tavola ricoperta di fiandra.
14 Fu una serata gradevole, tutto sommato, e precedette l’ultima notte tranquilla per Lidia a palazzo Farsetti.
Già la sera dopo in casa regnava un inspiegabile malumore: Bianca imbronciata, Edoardo stranamente scontroso, la governante arrabbiata con la cuoca, Fiammetta litigiosa e sgarbata con il fidanzato, con il fratello e anche con il gatto. Epifanio, superiore a quelle piccole baruffe umane, dava però il suo contributo all’umore generale: il pelo era meno morbido del solito e gli occhi arancioni erano dilatati. Dopo la cena Lidia, a disagio per quell’atmosfera, aveva tentato una prima fuga cercando di ritirarsi presto, ma era stata bloccata da Edoardo che, riscosso dal suo silenzio, si era dimostrato incrollabile: quella sera le avrebbe finalmente fatto vedere la sua collezione di monete antiche. Lidia era stata costretta a rinunciare alla ritirata strategica e a seguirlo nello studio. Aveva simulato un composto e cortese interesse per le tantissime monete che lui le aveva raccontato oltre che mostrato, e poi aveva potuto andare in camera sua. Però, una volta raggiunto il letto, non riusciva a dormire. Si girava e non prendeva sonno, si rigirava e le sembrava di sognare che qualcuno la stesse inseguendo, si girava un’altra volta e i passi di chi la seguiva nel sogno si trasformavano in un altro suono, si rigirava e il suono era diventato un sibilo, un soffio. Il soffio di un animale, come di un gatto quando è impaurito o aggressivo. Un gatto. A quel punto si era sollevata dal letto e due occhi arancioni brillavano nel buio a pochi centimetri dal suo viso. Urlò. Epifanio, accucciato sul comodino, pelo irto e dorso inarcato le soffiò in risposta ancora più forte. Una visione dell’inferno. Automaticamente Lidia lo afferrò con le mani, evitando in modo quasi miracoloso di farsi graffiare e lo catapultò senza tanti complimenti in direzione della porta socchiusa, dalla quale la mala bestia sparì in gran fretta. La mente felina le era estranea e non riusciva a capire che cosa il gatto potesse volere da lei. Ma la domanda importante, quella che le
15 avrebbe tolto il sonno per il resto delle ore, era: perché la porta della sua camera era aperta? Alla decima giravolta nel letto decise di alzarsi a bere una tazza di latte caldo. Il rimedio raccomandato dalle nonne per l’insonnia forse l’avrebbe chetata. Veramente i corridoi oscuri del palazzo le facevano un poco paura, magari la belva era ancora in agguato dietro a qualche angolo. Ma non sopportava più di stare a letto, e poi la cucina non era lontana, bastava “solo” andare fino in fondo a quel corridoio, girare a destra, scendere due rampe di scale, passare davanti a due o tre porte chiuse, attraversare il buio atrio d’ingresso e poi l’avrebbe raggiunta. Si mise un maglione, rinunciò ad armarsi con l’ombrello, respirò profondamente e si tuffò nell’oscurità di palazzo Farsetti. Il viaggio fu tranquillo e così la sua incursione in cucina. Fu al ritorno che udì le voci. Strano non averle sentite anche all’andata, passando davanti alla porta dello studio del padrone di casa. Una voce era alterata dalla rabbia ma inconfondibile, ed era quella di Sebastiano Farsetti. L’altra persona faceva lunghe pause di silenzio, forse annichilita da quel torrente di frasi che Sebastiano le stava riversando addosso e lei non riuscì a riconoscerla. Si rallegrò anche di non distinguere le parole, sarebbe stato imbarazzante essere coinvolta in un litigio familiare. Si diede alla fuga, allungò il passo e guadagnò le scale verso i piano superiori.
16
LIDIA, LA MATTINA DOPO
Erano seduti di fronte, al tavolo della colazione, Lidia e Sebastiano, in gara a chi avesse le occhiaie più profonde. «Vai anche oggi per biblioteche?» le chiese distratto mentre tormentava con le dita una brioche. Ma si capiva che della risposta non gli importava molto. Lei rispose “sì” con un sorriso cortese, finì in fretta il suo thè e si preparò a uscire. Ma quel giorno fece di nuovo lo stesso brutto incontro. Era mezzogiorno passato e lei perdeva piacevolmente tempo su una panchina da pensionati, addentando un panino alle melanzane. Il sole brillava sicuro. Forse, pensando all’ex fidanzato, non era più così convinta… “…chè’l viver senza voi m’è crudel morte e i piaceri mi son tormenti e guai”. Veronica probabilmente non aveva mai addentato un panino così buono al sole autunnale. La brezza di mare che si levava dalla laguna le soffiava via la tristezza. Ma quello stato di grazia durò poco. Quando la voce di un gondoliere che attirava i turisti le fece alzare gli occhi dal panino le sembrò di ripiombare in un incubo. A pochi metri da lei un ragazzo leccava un gelato fissandola in modo beffardo, anzi, lo faceva come se la provocasse. Stesso giubbotto di pelle, stessa cresta minacciosa. Il suo inseguitore del giorno prima. Ma ora ne vedeva anche lo sguardo, e non era rassicurante: era indecisa se definirlo più ottuso o più arrogante. Gli occhi, nei quali si leggeva anche un’ombra di rancore, puntavano dritti su di lei, sul suo panino e sulla sua appena ritrovata gioia di essere viva. Cercò di stare calma, in fondo tra la gente non le poteva succeder nulla, e se si fosse avvicinato forse avrebbe saputo che cosa voleva da lei. Magari lei avrebbe anche avuto il coraggio di chiederglielo.
17 Ma lui non si avvicinava, si limitava a guardarla con la chiara intenzione di spaventarla. E ci riusciva, alla perfezione. Le sembrava di non essere più in grado di deglutire gli ultimi bocconi del panino, quando vide camminare poco più in là Silvio Albrizzi, il fidanzato di Fiammetta, con il suo passo strascicato. Quel passo non le era mai sembrato così aitante e lui stesso così simpatico. Lo chiamò subito: «Silvio!» «Ciao», esitò lui, incerto se intraprendere una conversazione o no. Lidia non gli lasciò il tempo di decidere, si alzò dalla panchina con un balzo e gli si mise al fianco. «Scusa sai, se ti fermo, ma c’è un ragazzo con un giubbotto nero che mi sta fissando», cominciò lei goffamente. Sorrisetto imbarazzato di Silvio. «Ma sì, mi è sembrato minaccioso», si sentì in dovere di spiegargli. Sguardo di incredulità, sempre di Silvio, anche perché nessuno nei paraggi corrispondeva alla descrizione, infatti il ragazzo era sparito, lui, il suo gelato, il suo giubbotto. Al suo posto stazionava un grasso piccione che becchettava per terra, come se si fosse trasformato come mago Merlino nel suo famoso duello. La storia di Lidia perdeva consistenza, ma lei completò il racconto comunque: l’aveva già visto, anzi le era sembrato che la seguisse, due giorni prima. «A Venezia spesso si continuano a incontrare le stesse persone», e con un gesto della mano liquidò la questione. Comunque la accompagnò per un tratto. Il resto della giornata non riservò a Lidia altre cattive sorprese. Quella sera, invece, ci fu un nuovo incidente con il gatto. Dopo cena aveva gettato uno sguardo dalle finestre del salotto: per la nebbia a mala pena si distinguevano i davanzali del palazzo di fronte. Aveva rinunciato a uscire, come invece avevano già fatto i figli Farsetti ed Edoardo. Non sapeva proprio dove andare e non era tempo da passeggiate solitarie. Ma una serata da sola con la signora Bianca che presidiava la televisione le sembrava un programma non attrattivo.
18 Diede la buona notte che non erano neppure le dieci decisa a ritirarsi per leggere. Fu mentre apriva la porta della sua camera che ebbe di nuovo un incontro ravvicinato con Epifanio. Il gatto, inferocito, le schizzò addosso balzando da dietro il battente della porta. Qualcuno l’aveva rinchiuso da chissà quanto nella sua stanza. Calmato il batticuore e constatato i danni che consistevano in un piccolo graffio sull’avambraccio sinistro, Lidia decise di affrontare finalmente quella faccenda e imboccò le scale per scendere. Quasi si scontrò con la grossa figura della signora Ersilia, la governante di casa Farsetti. L’impatto smorzò la sua furia, ma non riuscì a tenere calmo il tono di voce: «È già la seconda volta che qualcuno fa entrare Epifanio nella mia stanza. Lui non sembra proprio gradirlo, e io ancora meno. Ogni volta mi assale come una tigre.» «O povero piccolino…» rispose tranquilla l’altra. «Si vede che l’ha chiuso dentro lei prima di cena, quando si è cambiata. È silenziosissimo e sa rendersi invisibile con quel pelo così scuro.» «Ma non c’era nella mia stanza, prima!» rispose sconcertata Lidia, ma la governante era già salita di qualche gradino e non l’ascoltava più. «“Povero piccolino…”!?» borbottò completamente smontata. Chissà perché tutti cercavano di farla passare per visionaria.
19
LA MANO
Una stanza in penombra, una lama di luce lattiginosa che disegnava un livido rettangolo sulla tappezzeria color magenta. Il parquet di legno pregiato, invecchiato con stile, lordato da una grossa macchia scura. La macchia lambiva il bordo del tappeto persiano, ma si era fermata lì, risparmiandolo. Dalla parete, il fascio di luce proseguiva sul pavimento e illuminava una figura dalla posa innaturale. Il dorso rivolto in alto, il capo rovesciato all’indietro, le gambe abbandonate. Nella direzione della porta si protendeva un’estremità bianca, immobile, una mano. Contratta nella rigida posizione della morte. La mano ben descritta da Gaia Lorenzi, la mano del sogno, la mano della scena del crimine. L’ispettore capo Venier non aveva bisogno delle foto della Scientifica, che pure erano state scattate come da prassi, per fissarsi nella mente quella scena. Le aveva prima fotografate con gli occhi, che sembravano svagati ma non lo erano. La sua mente analitica aveva registrato molti particolari della medesima scena., ma non aveva potuto fare a meno di farsi prendere dallo scoramento davanti alla sua crudezza. Ogni morte violenta racconta una storia oscura di violenza, o di paura, o di disperazione, anche se si è consumata nelle eleganti stanze di un palazzo aristocratico. Lui amava la cultura, la vita raffinata. Perché aveva scelto quel lavoro? Ora aveva davanti giorni di interrogatori e di investigazioni che, quando lo assalivano quegli attacchi di indolenza e di disgusto, era restio ad affrontare. Sapeva di dover dipanare una matassa che non era mai semplice, mai inoffensiva, mai senza conseguenze umane.
20 Ma quegli attimi di sconforto non duravano molto, in genere, e lui poi si lasciava prendere dalla passione del ricercatore di moventi e di bugie, dello sperimentatore di ipotesi audaci, dell’esploratore di pensieri. Aveva scelto quel lavoro perchÊ lo amava.
21
L’INTERROGATORIO DELLA SIGNORA ERSILIA
Sì, sono a casa Farsetti da tanto tempo, da quando i due bambini erano piccoli. Si può dire che li ho cresciuti io, i due tosi. Oh, ispettore, come è potuta succedere una cosa così orribile? No, nessuno screzio, nessun problema in famiglia. No, neanche negli ultimi tempi. Sì, lo so che ha già parlato con la signorina Lidia, ma mi sembra un po’ esaurita, povera tosa, sempre pallida, con le occhiaie. So che è stata lasciata dal fidanzato poco prima delle nozze, sarà per quello… una sera mi è piombata in casa terrea. Sembrava avesse visto il diavolo in persona, tra le calli di Venezia. Sì, forse era la sera della cena, lo ricordo perchè le ho consigliato di cambiarsi in fretta. Aveva gli abiti stazzonati e a casa Farsetti tengono molto che a cena ci si presenti vestiti in un certo modo. Poi tutte quelle storie per il gatto. Sì certo, anche Epifanio in questi giorni sembrava strano, si comportava come non aveva mai fatto. Ma non credo che qualcuno lo abbia rinchiuso nella sua camera intenzionalmente. Lui non lascia quasi mai la signora Bianca, quando lei è in casa. Mi sono stupita anche quando la signorina Lidia mi ha raccontato di averlo trovato sul suo comodino, la notte. Non aveva l’abitudine di girare per le stanze. E adesso… quella cosa così orribile. Come? Oh sì, ho detto che anche Epifanio sembrava strano… beh veramente intendevo dire che era l’atmosfera di casa che era strana, ultimamente. Forse la presenza della signorina Lidia… No, nessun problema evidente, ma una certa tensione, tutti un po’ intrattabili, Fiammetta, Sebastiano, persino Toni, il barcaiolo. Forse mi sembra ora così perché c’è stato il delitto.
22 Sì, anche quella sera avevamo ospiti, non per cena, però. Era sabato sera e la signora riunisce spesso qualche amico per il caffè nel salotto azzurro, al primo piano. Aprivo io la porta agli ospiti e li accompagnavo di sopra. Il primo ad arrivare fu il dottor Grimani, lo psichiatra. Sì, viene almeno una volta alla settimana, a trovare la signora. Parlano nel salottino al pianterreno. Lei lo invita spesso anche a cena o quando ha ospiti. È un uomo affascinante, piace a tutti. Beh, veramente al signor Edoardo forse non era molto simpatico, ma non ha mai fatto commenti su di lui. Non in mia presenza. Solo una volta gli ho sentito dire qualche cosa alla moglie riguardo all’influenza che poteva avere su Sebastiano. No, non so cosa intendesse. No, non mi sembra che Sebastiano gli dimostri un attaccamento particolare. Non gli rivolge quasi mai la parola, veramente, quando è qui. È Fiammetta che lo punzecchia, come fa con tutti e con il dottore ci prova ancora più gusto. Agli Albrizzi non ho aperto io. Sono venuti con il motoscafo e quindi li ha accolti Toni, dal canale. Sì, sono i genitori di Silvio, il fidanzato di Fiammetta. Lui era già qui da più di un’ora, si era fermato a cena. Il signor Albrizzi è un industriale, ha un’azienda sulla terraferma, di non so che cosa. Quando sono arrivati si sono chiusi per dieci minuti nello studio con il signor Edoardo. No, non so perché. Beh veramente ho avuto l’impressione che parlassero di affari. No, non ho sentito nulla, ma ricordo che l’ho immaginato perchè quando sono usciti sembravano ancora impegnati in una conversazione non proprio di cortesia. Silvio? Fiammetta ne fa quello che vuole, da sempre. Anche se ultimamente mi pare che litighino, qualche volta, il perché non lo so. Sebastiano era in casa anche lui, sabato sera. Esce spesso, dopo cena, ma di solito non dice a nessuno dove va.
23 No, non credo abbia una fidanzata. Non ha mai portato qui nessuna ragazza, né ne ha mai nominata una. E a me l’avrebbe detto! L’ho cresciuto io. È un bel ragazzo, vero? Biondo, con i lineamenti fini e i polsi sottili. Un vero aristocratico. Non si può dire proprio un buon rapporto con il padre, no. Sono così diversi, di carattere intendo. Comunque non li ho mai sentiti litigare. Beh, forse sì, ultimamente c’era stata anche qualche discussione, ma non proprio litigi. Sì, non c’era nessun altro quella sera. In tutto nove persone, compresi i signori Farsetti. Poi nella casa c’eravamo anch’io, la cuoca e Toni. No, nessun’altra cameriera a quell’ora. Vengono di giorno due donne, una a stirare, l’altra ad aiutarmi nelle pulizie. La cuoca se n’è andata presto, dopo aver riordinato la cucina, non certo dopo le nove e mezzo. Di sabato sera pulisce sempre abbastanza in fretta, e in modo molto sommario. L’ho detto tante volte alla signora Bianca che quella non è affidabile. Per quanto riguarda Toni non saprei dire a che ora è andato a casa. Abita qui vicino, da solo, va e viene dalla parte del canale senza dir niente a nessuno. Spesso si ferma in darsena a pulire il motoscafo oppure me lo ritrovo in cucina a chiacchierare con la cuoca. Dei perdigiorno senz’arte né parte, tutti e due. Non lo vedo mai attraversare l’atrio, è silenzioso come un gatto. Io ho una stanza su nella loggia. No, non mi sono ritirata tardi. La signora Farsetti mi permette di andare a dormire anche quando ci sono ancora gli ospiti, a meno che non sia una cena di gala. Sa che al mattino sono in piedi fin dall’alba. Solo gli Albrizzi se n’erano già andati quando sono salita in camera, si sono fermati pochissimo. Certo che la porta era chiusa a quell’ora. No, il chiavistello viene messo quando non deve uscire o rientrare più nessuno. Com’era più tardi, non so. È la signora personalmente che di solito accompagna gli ospiti quando io mi sono già coricata.
24 No, non ho udito nulla, mi sono addormentata quasi subito. Dalla mia stanza non si sentono i rumori della casa, e io ho il sonno pesante. Mi sono svegliata solo quando sono venuti a bussare per quell’orribile cosa, per il delitto, insomma.
25
L’INTERROGATORIO DI FIAMMETTA
Ho accompagnato io Silvio alla porta, dopo mezzanotte. Sì, certo l’ho chiusa dietro di lui, ma non con il chiavistello. Nel salotto azzurro, al piano di sopra, rimanevano ancora Fabio Grimani, i miei genitori e Sebastiano. Lidia era sgattaiolata verso la sua camera al secondo piano mentre noi imboccavamo le scale per scendere. Sembrava una visione spettrale con i lunghi capelli chiari sciolti sulle spalle e il viso pallidissimo. Probabilmente era esausta della serata, come me, del resto. Quelle riunioni familiari possono essere prove molto dure, e la presenza del dottor Grimani le rende ancora più impegnative. Perché? Si comporta come se fosse una specie di oracolo, al quale noi peraltro continuiamo a chiedere consigli e rassicurazioni. Ma lui non rassicura nessuno, anzi, non abbassa mai lo sguardo indagatore, come se stesse perquisendo la tua anima per farne venire alla luce la parte peggiore. E poi è come se fosse sempre in servizio. È uno psichiatra molto alla moda, a Venezia, le signore dell’alta società cittadina lo trovano irresistibile, e così mia madre. No, non è sposato. Non so neppure se è fidanzato. Si sentono strane voci sulle sue inclinazioni sentimentali, ma non vorrei far pettegolezzi. Che cosa ne pensa mio fratello? Oh, Sebastiano… Chi può indovinare i suoi pensieri? Il suo silenzio è proverbiale, in famiglia. Probabilmente la sua vita inizia al di là di quel portone che dà sulle calli. Appena messo piede fuori lui forse finalmente si anima, vive, vede gente, frequenta amici. Ma, qui dentro, per noi è come una specie di fantasma. No, non era con me che litigava, di notte, nello studio. Non lo sapevo neppure. Alle volte abbiamo avuto qualche battibecco, in passato, niente di importante, le solite baruffe tra fratelli.
26 Sì, quella era una sera particolare, sembrava che la nebbia dall’esterno fosse entrata fin nel salotto e avesse reso ovattata l’atmosfera. Suoni e voci attutiti e visi sfumati, discorsi fluttuanti nell’incertezza, chiacchiere stentate e imbarazzate. O forse è tutta una mia fantasia, dopo quello che è successo. Sì, è vero, gli Albrizzi avevano parlato con papà nello studio, riguardo a una sua partecipazione in un affare che sta trattando Silvio. Aveva pregato i suoi genitori di fare un tentativo presso mio padre, ma lui era restio a lanciarsi in queste operazioni. Ormai quello di cui si occupava veramente era la sua collezione di monete. La passione della sua vita. Dopo aver accompagnato Silvio alla porta io me ne sono andata a letto subito. Non ho udito nulla fino a quando Lidia non ha urlato. Un grido acuto ma non forte, quasi trattenuto. Forse per questo l’ho sentito solo io. La porta della mia stanza è proprio vicino alle scale, ed è l’unica camera da letto della casa al primo piano. Anche se erano le due di notte ero ancora sveglia, nel buio, a contare le ore e i minuti. Non so perchè faticavo a prendere sonno, ma mi capita qualche volta. No, prima del grido, nulla. I passi restano attutiti dalla passatoia sulle scale e fino a quel momento il silenzio era stato assoluto. Invece… Quando sono scesa al piano terreno lei era accucciata per terra, sembrava inginocchiata. Era pallida come una morta e non riusciva a spiegarsi. Ripeteva solo: “Ho sentito un rumore…” Solo dopo un poco mi sono accorta di quello che teneva in mano: sembrava un mucchio di stracci scuri. Invece era Epifanio, il gatto, con la gola tagliata, come sapete. E sangue, tanto sangue, per terra e sulle sue mani. Io ero paralizzata. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata: “E adesso, chi lo dirà a mia madre?” Il cervello mi si era incagliato in quello stupido pensiero. Finchè, quasi in contemporanea, ci siamo voltate verso la porta dello studio. Era aperta e la luce era accesa. Sono stata io a entrare per prima.
27
L’INTERROGATORIO DI BIANCA
Non lo so! Non lo so… Sì, è vero che ho accompagnato io alla porta l’ultimo ospite che ha lasciato la casa, il dottor Grimani. Ma non ricordo assolutamente se ho chiuso la porta come al solito, con il chiavistello. Probabilmente sì, ma potrei anche averla lasciata aperta come voi l’avete trovata… mio Dio! E così potrebbe essere entrato chiunque! In questi giorni ero così tesa. No, ispettore, preferisco non parlarne, per adesso, i motivi erano personali. Sì, forse la presenza di un’estranea in casa. Oh, non che Lidia abbia dato fastidio, no, è una ragazza molto discreta. L’ho invitata con piacere quando ho sentito che era stata lasciata dal fidanzato proprio prima delle nozze. Ma è così strana… Si è persino immaginata che l’avessero seguita, più di una volta. Sì, Fiammetta ha tentato di spiegarle che è una sensazione comune, tra le calli di Venezia, ma lei sembrava spaventata davvero. Certo. Mio marito naturalmente le ha mostrato la collezione di monete. Lo fa con tutti quelli che frequentano la nostra casa. Io la osservavo mentre Edoardo le spiegava tutto e le apriva i suoi astucci. Probabilmente l’argomento le era indifferente, ma era gentile e gli prestava ascolto, mostrava di essere interessata, ha preso in mano anche qualche pezzo particolare. Io li avevo seguiti nello studio. Ero annoiata, quella sera, non avevamo altri ospiti e alla televisione non c’era nulla di interessante. No, Lidia non ostentava certo entusiasmo per le monete di mio marito. Però il giorno dopo, durante la cena, lei nominò a mio marito uno dei pezzi che aveva visto. Non ricordo quale… sì… deve essere stato lo scudo d’argento veneziano, quello con il leone di San Marco su tutti e due i lati. Disse che aveva colpito la sua fantasia.
28 Non lo so, non lo so se è quella sparita. Sì, ho sentito dire che uno degli astucci era vuoto, ma io non ho mai prestato molta attenzione a quelle monete! Comunque esiste un catalogo, tenuto sempre in ordine da mio marito. Potete verificare. Lui le disse, quella sera a cena, lo ricordo molto bene: “Quello è uno dei pezzi più pregiati della mia collezione, Lidia, allora non è vero che non te ne intendi!” No, non fui io l’ultima a salire ai piani superiori, quella notte. Quando accompagnai il dottor Grimani era ancora alzato Sebastiano, che scese le scale dietro di noi e andò in cucina. Disse che voleva bere un bicchiere d’acqua. Era l’una, più o meno. Anche Edoardo era ancora in piedi. Dorme pochissimo, non viene mai a letto prima delle due. Sì, nello studio, come sempre la sera, con le sue monete. Beh… perquisire la mia casa… Sì, sì… L’arma del delitto, la moneta sparita. Capisco, avete ragione, fate come volete. Io sono così sconvolta dall’altra notte. Ed Epifanio, in un lago di sangue… anche lui… Pensate che sia lo stesso assassino, vero? Ma perchè anche il gatto? È troppo orribile! Eppure la mia mente continua a ritornare lì, su quel piccolo corpicino senza vita, sul pavimento dell’atrio. È come se i miei ricordi si fermassero sulla soglia dello studio, rifiutandosi di entrare. Io non rammento nulla di quello che ho visto in quel locale, quella notte. Ma niente credo sia stato toccato fino a quando non siete arrivati voi. Non avremmo potuto proprio farlo, del resto, nessuno di noi riusciva a resistere a lungo di fronte a quella visione così orribile. E io, per quanto mi sforzi, non riesco a riaprire gli occhi su quella terribile scena. Come se fosse scesa nel mio cervello una nebbia, a ricoprire la visione del corpo di mio marito immerso nel sangue.
29
MARCO VENIER, LA SERA
Gli interrogati del delitto di casa Farsetti lo seguirono fino a casa, quella sera. Come degli ospiti appena tollerati o fantasmi che si accingevano a prender possesso di una nuova dimora. Era sempre così, per l’ispettore, era raro che non si portasse i pensieri del lavoro nel suo attico nel palazzetto antico di campo Santo Stefano, se stava investigando su un caso importante. Quello, senza dubbio, lo era, anche per la risonanza mediatica dovuta all’importanza della famiglia coinvolta. Delle persone che aveva sentito, Lidia Arlan era quella che lo aveva colpito di più. A parte la bellezza della ragazza, che sembrava una fata che si era smarrita nelle terre dei mortali e dalla quale aveva cercato di non essere distratto, le era sembrata così fuori dagli schemi, fuori dall’usuale, quasi fuori dal tempo. Tanto da essere indefinibile anche per lui che si vantava di saper inquadrare le persone. Anche se, in realtà, chi poteva dire in tutta sincerità di poter costringere in una cornice le donne? Avrebbe definito il carattere di Lidia Arlan più crepuscolare che solare, era di sicuro intelligente e sensibile e mostrava una timidezza naturale che, però, non le aveva impedito di raccontargli con ricchezza di particolari gli avvenimenti della fatale serata. Anzi, gli aveva fatto un resoconto dettagliato dei suoi giorni precedenti, milanese alle prese con le magie e gli inganni di Venezia. E parlato della compagnia di Veronica. Che non era un’amica incontrata tra le calli, ma molto di più. Sembrava che Veronica Franco, la poetessa veneziana del Cinquecento, avesse preso per mano Lidia per traghettarla al di là di una corrente pericolosa, una di quelle che si incontrano a volte nella vita. Anche Marco Venier ne sapeva qualcosa e aveva subito intuito quale fosse il rapporto tra la ragazza e una donna morta cinquecento anni prima. Lo intrigava poi quella passione per una poetessa che nessuno conosceva.
30 Lui stesso si ricordava a malapena di averla sentita nominare, ma condivideva quegli amori per artisti sconosciuti, quella voglia di strappare all’indifferenza dei più il ricordo di opere, personaggi o luoghi di cui nessuno si interessava. Lui stesso non aveva forse passato giorni a leggere tutto quello che trovava su Giusto de’ Menabuoi dopo aver visto degli affreschi nella chiesa del Santo a Padova? Per non parlare di scrittori che avevano prodotto un solo grande romanzo e poi erano caduti nell’oblio. E così via. Perciò, con la signorina Arlan si era lasciato trascinare in un dialogo dell’assurdo del tipo: come ha incontrato Veronica Franco? È lei che mi ha cercato, ispettore, mi è venuta a trovare in un vecchio libro scovato sulle bancarelle. Il tutto condito da citazioni dalle poesie che, evidentemente, la ragazza conosceva tutte a memoria. Per fortuna si era riscosso e aveva riportato il discorso nei binari dell’indagine. Ma l’impressione era rimasta tale che al ritorno dalla Questura era passato da un libraio in campo Sant’Angelo, l’unico che potesse avere un libro sulla poetessa Veronica Franco. Ecco perché ora fissava la desolazione del suo frigorifero e della sua cucina senza riuscire a decidersi che cena preparare, la deviazione in libreria gli aveva fatto scordare di fare un poco di spesa. Distolse subito lo sguardo dalle scatolette di tonno che gli sembravano troppo tristi e dalla busta di pasta e fagioli Knorr che aveva comprato in un momento di sconforto, un sacrilegio in una città come Venezia dove le trattorie servivano una pasta e fasoi da resuscitare i defunti. Decise per un piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino con un bicchiere di prosecco, che si armonizzava con tutti i cibi e con tutti gli stati d’animo. Certe volte cedeva a un borghesissimo desiderio di avere una moglie, una compagna che lo accudisse, in serate come queste. Ma non l’aveva mai confessato a nessuno, tanto meno a una delle sue numerose fidanzate. Perché ne aveva avute, naturalmente. Era un bel ragazzo, brillante. Ma dopo un po’ tutte si erano stancate di lui e del suo lavoro totalizzante, o lui di loro. Comunque, anche la solitudine aveva i suoi lati positivi. Dopo cena mise a dormire le ombre degli indagati di casa Farsetti, indossò una vecchia tuta e si rilassò sul divano con il libro su Veronica Franco. A noi due, le disse, rivelami i tuoi segreti!
)LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
INDICE
Gaia ............................................................................................... 5 Veronica, qualche giorno prima .................................................... 8 Lidia, la mattina dopo ................................................................. 16 La mano ...................................................................................... 19 L’interrogatorio della signora Ersilia .......................................... 21 L’interrogatorio di Fiammetta..................................................... 25 L’interrogatorio di Bianca........................................................... 27 Marco Venier, la sera .................................................................. 29 Il dottor Improta .......................................................................... 31 Lidia ............................................................................................ 38 Fiammetta ................................................................................... 40 La signora Ersilia ........................................................................ 41 Sebastiano ................................................................................... 43 Loris ............................................................................................ 44 L’arma ......................................................................................... 45 Toni ............................................................................................. 47 Lidia, la notte .............................................................................. 48 Elsa.............................................................................................. 50 Fabio ........................................................................................... 55 La fotografia ............................................................................... 57 Lidia, sul ponte............................................................................ 59 L’ispettore Selvini....................................................................... 61 La sera ......................................................................................... 64 L’ispettore Venier, la mattina dopo, sul ponte ........................... 67 Fabio e Sebastiano ...................................................................... 69 Casa Farsetti ................................................................................ 71 Silvio ........................................................................................... 73 Loris ............................................................................................ 75 Il telefono .................................................................................... 76
Lidia ............................................................................................ 78 Fiammetta ................................................................................... 80 Loris ............................................................................................ 81 Lidia ............................................................................................ 83 Il dottor Improta .......................................................................... 85 Rosa ............................................................................................ 87 Poliziotti ...................................................................................... 89 La sera, casa Farsetti ................................................................... 91 La mattina dopo .......................................................................... 97 Il pomeriggio............................................................................. 100 Il ponte dei Pugni ...................................................................... 108 Indiziati ..................................................................................... 113 Nel palazzo................................................................................ 125 Gran finale ................................................................................ 138 L’ultimo giorno ......................................................................... 154
AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Seconda edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2019) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.