RINO CASAZZA
IL FANTASMA ALL’OPERA Un libretto in cinque atti con Auguste Dupin
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com
www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/
IL FANTASMA ALL’OPERA Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-679.0 Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Febbraio 2014 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Questo romanzo è opera di fantasia, ogni riferimento a fatti o personaggi viventi o realmente esistiti è da ritenersi puramente casuale.
Ad Angelica, che rende insufficiente ogni definizione. A Francesca, unica nipote e nipote unica.
Erano prigionieri e non si vedeva la prigione; cavalcavano, ma non si vedeva il cavallo; combattevano, ma le spade erano di canna; morivano, e poi si rialzavano. Jorge Louis Borges
Potenza della lirica, dove ogni dramma è un falso con un po’ di trucco e con la mimica puoi diventare un altro. Lucio Dalla
ATTO PRIMO Chi ben comincia è a metà dell’opera. Detto popolare (Ouverture) Allegro minaccioso
9
Scena prima
(N.1 - Cavatina fatale) Nel buttare l’occhio su quell’articolo di Le Figaro, il vice ispettore Juve ebbe un presentimento immediato. Di solito non leggeva la pagina degli spettacoli, e questo rafforzava la sensazione che il destino ci avesse messo la mano. Confermato l’uso del ventaglio di Floridablanca alla prima del Teatro alla Scala di Octave Mirbeau Come i nostri lettori sanno, nella prossima festività di Santo Stefano la stagione di Carnevale al Teatro alla Scala di Milano si aprirà con la messa in scena dell’opera-comique “Carmen”, capolavoro nato dalla collaborazione tra tre nostri connazionali: il compositore Georges Bizet e i commediografi Henri Meilahac e Ludovic Halévy, autori del libretto. Per la cultura del nostro paese è un grande onore, tanto più che il ruolo principale, quello della zingara Carmen, é affidato a una stella francese del bel canto: Madame Emma Calvé. Com’è tradizione del teatro milanese, particolare cura sarà riposta alle scenografie, la cui realizzazione si basa sui bozzetti del maestro fiorentino Galileo Chini, mentre i figurini sono opera del castigliano Raimundo Navarro. Indiscrezioni dicono che i costumi sono molto colorati e appariscenti, in un pieno recupero della tradizione folcloristica spagnola, terra dove si svolge la storia. Per rendere ancora più viva l’ambientazione, e aumentare l’interesse del pubblico, il direttore di scena Corrado De Pretis ha proposto di chiedere al Museo del Prado, per la scena più famo
10
sa dell’opera, la “danza dell’habanera”, il “ventaglio di Floridablanca”. Questo oggetto in legno é stato ideato e realizzato - su commissione di José Monino y Redondo, Conte di Floridablanca - da Francisco Goya, che ha dipinto su entrambe le facce incantevoli scene notturne. Il nobile e uomo politico spagnolo vi fece incastonare - con qualche rammarico del pittore aragonese - numerosi brillanti per raffigurare le stelle e lo donò alla moglie, Fernanda Uribarreta de los Palos, per le loro nozze d’argento nel 1779. Finora due ostacoli rendevano difficile l’operazione: la riluttanza del museo madrileno a concedere al teatro milanese un oggetto artistico di valore così elevato, e la resistenza del giovane ma intransigente direttore d’orchestra. Per quanto riguarda il primo aspetto, i buoni uffici del direttore del teatro, Giulio Gatti Casazza, sono riusciti a coinvolgere la polizia italiana e quella spagnola nella sorveglianza del cimelio durante la sua breve trasferta milanese (il ventaglio di Floridablanca verrà utilizzato solo nella serata di inaugurazione del 26 dicembre). Più difficile per Gatti Casazza convincere Toscanini. Questi, dall’alto del suo concetto di direzione d’orchestra, considerata giudice inappellabile su ogni aspetto di una rappresentazione lirica, riteneva disdicevole l’impiego di un “attrezzo di scena” solo per esigenze pubblicitarie. Non é chiaro se Gatti Casazza e De Pretis siano riusciti a dimostrare al riottoso musicista parmense l’attinenza del ventaglio al progetto drammaturgico, o se Toscanini si sia piegato al compromesso, ma possiamo annunciare che gli spettatori presenti la prossima settimana alla prima della Scala potranno ammirare nelle mani di Emma Calvé, sia sulla scena sia in esposizione durante il primo intervallo, il dono di anniversario matrimoniale dei Floridablanca. Per parte nostra non possiamo che plaudire all’evento, pur con qualche inquietudine al ricordo delle incresciose vicende che hanno accompagnato la presenza del “Gran visir” di madreperla al Grand Cercle di Parigi lo scorso aprile. Juve diede uno sguardo al calendario a strappo, che indicava venerdì 18 dicembre, e poi oltre i vetri della finestra dell’ufficio, al cielo carico di nuvole grigie. Molto presto, non c’erano dubbi, avrebbe visto imbianca
11
to lo scorcio di Lungosenna su cui si affacciava quell’ala della Sureté. Per la polizia parigina era stato un autunno tranquillo. Pareva che le temperature assai rigide avessero come rallentato e impigrito la vita in città, e con essa le attività malavitose. Sui fatti del Torneo Internazionale di Scacchi, e le conseguenti dispute in ordine al ruolo, e anzi all’esistenza stessa del Fantasma, sembrava esser calato l’oblio. Quello appena letto era il primo accenno giornalistico, dall’aprile scorso, all’ultima impresa del criminale. Tirò fuori il taccuino con gesto meccanico, allontanando per il momento qualsiasi altra riflessione. Il numero del “Parnassus sur terre” stava lì dove ricordava di averlo annotato.
(N.2 - Recitativo a distanza) Alzò la cornetta e chiese al centralino di chiamarglielo. Essendo le undici del mattino sperava in una rapida attesa, e fu accontentato. La voce che uscì dal ricevitore era quella metallica e un po’ tremolante delle conversazioni telefoniche, che rafforzava la sua antipatia per lo strumento. «Buon giorno, sono Georges Tullier, direttore del Parnassus. In cosa posso esserle utile?» Juve detestava quella ricercata formula di cortesia, soprattutto perché l’esperienza gli aveva insegnato esser la preferita dai reticenti. Replicò in un modo così spiccio da rasentare la scortesia. «Mi passi il signor Auguste Dupin, prego.» «Temo di non poter soddisfare la sua richiesta, signor ispettore» disse l’altro con la solita affettazione «il signor Dupin ci ha lasciati.» Juve rimase di sasso. Tullier percepì il suo sconcerto e si affrettò a rassicurarlo:
12
«Non mi fraintenda; il signor Dupin nonostante la veneranda età, gode di buona salute! Intendevo dire che al momento non è tra i nostri ospiti. Però mi aveva preannunciato una sua telefonata.» Juve drizzò immediatamente le orecchie. Come sempre il cavaliere era un maestro nell’arte di prevedere le mosse altrui. «Prima di partire mi ha pregato di lasciare un numero di telefono per lei se l’avesse cercato. Se vuole annotarselo…» Qualche minuto dopo Juve attendeva che il centralino della Sureté gli passasse il numero dettatogli dal sussiegoso Tullier. Poiché Dupin aveva fornito solo una sequenza di cifre, senza altre indicazioni, continuava a non avere la minima idea di cosa il padre degli investigatori stesse riservandogli. Una sensazione poco piacevole, soprattutto alla luce di quanto era accaduto nell’indagine di aprile, nel corso della quale Dupin più di una volta si era servito di lui come di una pedina del suo gioco. Il cavaliere l’aveva sempre negato, assicurando che mai, per la stima che nutriva verso le sue qualità investigative, si sarebbe sognato di strumentalizzarlo. A lui però era rimasto più di un dubbio.
(N.3 - Recitativo a distanza) La voce dall’altro capo del filo era chiara e ben impostata, ma parlava in un francese palesemente scolastico. «Buon giorno signor ispettore. Il centralino ci ha riferito del suo desiderio di conferire con il nostro albergo. Mi chiamo Marco Migliavacca, sono il responsabile della Reception. A nome del “Duca d’Aosta”, sono lieto di mettermi a sua disposizione.» «Com’è il tempo lì a Milano, signor Mighliavaccà?» chiese Juve di getto, sicuro al cento per cento di aver indovinato il luogo. «Non ci possiamo lamentare, nonostante la forte nevicata di domenica.
13
Fa freddo, ma il cielo è limpido. Se desidera alloggiare qui da noi, si troverà bene.» «Sì? Mi permetta di chiedere qualche referenza a uno dei vostri ospiti, il signor Auguste Dupin.» «Il signor Dupin?» Migliavacca, dimostrando un perfetto aplomb, non si era minimamente scomposto «mi pareva di averlo scorto qualche minuto fa nella hall… ah, eccolo qui! …si sta giusto avvicinando al banco della reception. Buongiorno signor Dupin, ho al telefono una persona che…»
(N.4 - Cavatina e duetto) In sottofondo si sentì l’inconfondibile voce del cavaliere, decisa malgrado un po’ di affanno. «Mi passi l’ispettore, grazie.» Questa volta Migliavacca non poté nascondere la sorpresa. Comunque cedette docilmente il ricevitore al cavaliere, allontanandosi per discrezione. «Come al solito è in ritardo sulla tabella di marcia, Juve. Io sono a Milano dall’altro ieri.» Il rimprovero era scherzoso, ma fino a un certo punto. Dupin non mancava mai di sottolineare il divario tra lui e il suo giovane discepolo. Che non aveva mai nutrito alcuna soggezione verso il “maestro” e sapeva rispondere colpo su colpo. «Sicuramente lei è stato avvantaggiato, cavaliere.» «Ottima deduzione» concesse Dupin «in effetti ho goduto di un qualche vantaggio. Il nostro comune amico si è premurato di avvisarmi, sia pure in modo un po’ criptico. Ma non è il caso di parlarne al telefono. Immagino che lei, da quel lavoratore instancabile che è, abbia un bel po’ di ferie arretrate, ispettore. Penso che per Natale potrebbe chiedere di assentarsi per una decina di giorni.»
14
«Cavaliere…» «Mai stato a Milano? Città bella e interessante! Posso invitarla a trascorrere una vacanza qui con me, all’Hotel Duca d’Aosta, in piazza della Repubblica? A due passi dal Duomo, dalla Galleria Vittorio Emanuele II, dalla Scala?» calcò la voce su quest’ultimo nome «ne ho già parlato con l’amico Gatti Casazza, e si é mostrato entusiasta di ospitare anche lei.»
15
Scena seconda
(N.5 - Cavatina fantasma) Corrado De Pretis, o meglio chi si celava sotto la sua identità, scese dalla carrozza in piazza Scala e si avviò a passo spedito verso la portineria del teatro, guidato nel buio dalle lampade a gas accese sotto il porticato di via Filodrammatici. Faceva un freddo cane. Alle sei del mattino, del resto, non ci sarebbe stato da aspettarsi altro, in quel gelido dicembre in cui la temperatura stazionava sotto lo zero e la città era ingombra di residui di neve ghiacciata. Il sedicente De Pretis si domandava come facessero al teatro a sopportare Toscanini. Era preparato al suo carattere spigoloso, ma era da quando aveva preso il posto del vero direttore di scena che doveva fare i conti con la provocatoria ostilità del direttore d’orchestra. Che per l’appunto aveva fatto i capricci per indire una riunione di compagnia a quell’orario antidiluviano solo per far dispetto a Depretis, refrattario al lavoro mattutino per l’abitudine a trattenersi fino all’alba nei locali festaioli del quartiere Brera… quando naturalmente era libero da congressi carnali con qualcuna delle sue numerose conquiste. De Pretis gli piaceva molto; aitante, mondano, talentuosissimo nel montaggio degli spettacoli… scapolo molto ambito per l’appartenenza a una facoltosa famiglia piemontese, preferiva la bella vita da dongiovanni al matrimonio. Gli era dispiaciuto doverlo uccidere. “Come si dice” ghignò tra sé “sono sempre i migliori ad andarsene.” L’idea di portare alla Scala il ventaglio di Floridablanca, ne era sicuro, gli sarebbe piaciuta moltissimo. Di più: avrebbe tranquillamente potuto
16
averla lui stesso. Il direttore Gatti Casazza, impresario accorto, l’aveva approvata con entusiasmo non appena aveva saputo dal fittizio De Pretis che le due maggiori ditte europee produttrici di ventagli, una torinese e l’altra di Granada, erano disponibili a finanziare il progetto, in cambio di pubblicità, con una generosa donazione al Museo del Prado e alla Scala. L’iniziativa avrebbe dovuto incontrare il gradimento di Toscanini, visto che apriva la strada a quel congruo aumento dei compensi direttoriali che reclamava con sempre maggiore insistenza. Invece il tignoso musicista l’aveva presa come un affronto alla purezza della sua arte. C’era voluto del bello e del buono a piegarne la resistenza, almeno a livello di facciata, perché il falso De Pretis sospettava che, sotto sotto, i vantaggi economici dell’operazione gli aggradassero assai. Il risultato era che da quel momento in poi il maestro, tanto sublime nell’interpretazione musicale quanto scorbutico sul piano umano, aveva iniziato per ritorsione a fare la guerra a De Pretis, esasperando il naturale conflitto tra i loro due ruoli nell’ambito dello spettacolo. Non che la cosa intralciasse seriamente i suoi piani, ci voleva ben altro, ma il finto direttore di scena doveva spesso reprimere reazioni aggressive verso Toscanini. Ma non poteva permettersi di rovinare l’impresa per non saper rimanere calato nella parte di De Pretis, noto per la sua affascinante signorilità. Tra poco, c’era da metterci la mano sul fuoco, sarebbe arrivato Dupin. Attraversato l’ingresso con un cordiale saluto al portiere di turno, intirizzito e un po’ assonnato, si avviò su per lo scalone che portava al piano della direzione. Poco dopo faceva il suo ingresso nel locale dove si tenevano le riunioni importanti, la “Sala Gialla”, così chiamata per il predominare del colore giallo oro in tutti gli arredi. C’erano già tutti, seduti al grande tavolo centrale.
17
(N.6 - Coro muto) Al falso De Pretis non dispiaceva affatto essere arrivato per ultimo, soprattutto per l’occhiataccia scontenta, cui rispose con un lieve inchino, che gli lanciò il maestro Toscanini, sistemato a una estremità del tavolo in mezzo a Emma Calvé e Giulio Gatti Casazza. Il direttore d’orchestra aveva trentacinque anni ma, nonostante il viso giovanile e il fisico asciutto, ne dimostrava molti di più. Non soltanto per l’abbigliamento austero (indossava una redingote grigia su un gilè abbottonato fino al colletto, che soffocava la cravatta scura) quanto soprattutto per l’espressione burbera degli occhi profondi, sormontati dall’alta fronte stempiata, e resi ancor più severi da un paio di baffetti alla Umberto I. Emma Calvé era un pezzo di donna con un petto fiorente. Indossava un tailleur lungo blu con maniche strette agli avambracci e spalle en gigot, e un vezzoso cappellino in tinta. Benché sui quarantacinque anni, rivaleggiava in avvenenza con le altre donne presenti, anche con la più giovane Angiolina Palmento, seduta vicino a Gatti Casazza. Un vestito tutto pizzi, audacemente scollato, esaltava la prorompente freschezza della soprano italiana. La bella Angiolina fece un allegro cenno di saluto al De Pretis fasullo, suscitando l’imbarazzo del direttore, un pacioccone elegante col pizzetto e gli occhi furbi, preoccupato per il prevedibile malumore che il gesto avrebbe prodotto in sua Maestà il maestro concertatore e direttore d’orchestra. Toscanini era sposato con Carla De Martini, rampolla della buona borghesia emiliana, che gli aveva dato già tre figli. Tuttavia nell’ambiente della lirica tutti sapevano che Angiolina Palmento era la sua amante. Forse non lo ignorava nemmeno donna Carla, in quel periodo in soggiorno a Milano per stare accanto al marito, così spesso lontano da casa. La presenza della moglie impediva al maestro, tanto donnaiolo quanto
18
perbenista, di proseguire la relazione con la bella Angiolina, che si vociferava fosse molto passionale. Tra l’affascinante De Pretis e la procace soprano, cui nel cast dello spettacolo era affidato il ruolo della zingara Mercédès, doveva esser nata da tempo una simpatia. Nessuna sorpresa; il direttore di scena era un uomo molto spigliato con le donne. Conoscendo Toscanini si poteva escludere che questi temesse una concorrenza in amore da parte di De Pretis, che pure aveva tutte le caratteristiche di un rivale pericoloso. Il maestro era troppo sicuro dell’ascendente che esercitava sulla Palmento, infatuatissima di lui come uomo ma anche, e soprattutto, come personalità trainante nel mondo del melodramma. Piuttosto lo infastidiva che proprio lei non condividesse l’avversione che lui nutriva verso il direttore di scena, riflesso, in ultima analisi, del suo atteggiamento critico nei riguardi della direzione di scena in sé, che taluni, con suo sommo disappunto, avevano la pretesa di chiamare “regia”. Il finto De Pretis andò a prendere posto tra Sergio Nennini e Adelmo Fratta, le ultime ruote del carro nella compagnia per la particina, per di più solo parlata, che interpretavano. Il sostituto occulto del direttore di scena, come suo costume, si era approfonditamente informato sia sulla vita privata che sul mestiere della vittima, e sapeva bene che quei due omoni di estrazione popolaresca erano i preferiti di Depretis. Ricoprendo un ruolo mimico e recitativo aveva ottenuto da Gatti Casazza carta bianca nella loro scelta. Loro lo ricambiavano calorosamente.
(N.7 - Duetto duello) «Visto che ci siamo tutti» esordì Toscanini «volevo manifestarvi, anche a nome del qui presente dottor Gatti Casazza…» cercò con lo sguardo il
19
sostegno del direttore, in realtà dandolo per certo, e si poteva scommettere che non lo aveva minimamente informato sulle sue intenzioni «…il disappunto del teatro perché, ad appena sei giorni dalla prima, il livello di preparazione artistica della scena dell’habanera, che questa mattina dobbiamo provare, è pessimo. La posizione della signora Calvé è troppo lontana dal proscenio, e la sua voce non riesce ad amalgamarsi con l’impasto sonoro dell’orchestra. Bizet si starà rivoltando nella tomba per lo scempio che stiamo combinando alla sua melodia. È assolutamente necessario, e sottolineo assolutamente, che la danza della signora Calvé si svolga dieci metri almeno più vicino alla pedana dell’orchestra. E limiti di molto i movimenti laterali.» «Ottimo» intervenne il Depretis fasullo, ma fedele alle idee della sua vittima «così tutti si accorgeranno che Carmen sta fingendo di danzare, e chissà come sarà entusiasta Bizet laggiù sotto terra! Il passo dell’habanera vuole spazio! È il volteggio libero, il ritmo sciolto della seduzione! L’unico beneficio sarà che il pubblico potrà ammirare più da vicino il ventaglio di Floridablanca… ma non doveva farlo nell’intervallo?»
20
Scena terza
(N.8 - Cavatina d’arrivo) Il vice ispettore Juve trascorse con la testa fuori dal finestrino, incurante del gelo intenso, tutto il tempo di avvicinamento del treno alla grande tettoia della Stazione Centrale. Il viaggio era stato interminabile, e non vedeva l’ora di arrivare. Particolarmente pesante era stata l’attesa della coincidenza alla stazione di Modane, prima di attraversare il lungo tunnel del Frejus fino a Bardonecchia. Si diceva che il traforo del Sempione fosse prossimo a essere ultimato, e davvero si sentiva il bisogno di una linea ferroviaria più diretta tra Parigi e Milano. Non aveva avuto difficoltà a ottenere un permesso natalizio dall’ispettore Leputois. Il suo capo lo mal sopportava, e l’idea di liberarsi di lui per un po’ l’aveva subito allettato. Certo l’ispettore sperava che durante la sua assenza capitasse qualche caso importante in cui mettersi in mostra, ribadendo di fronte a tutti che l’investigatore di punta dell’ufficio, checché ne pensasse il cavalier Dupin, era lui. Juve non era sicuro di aver fatto la scelta giusta. Certo, l’insistenza di Dupin per averlo al suo fianco nella città lombarda indicava che lì lo attendeva un’occasione unica, ma l’idea di trovarsi di nuovo di fronte al Fantasma lo inquietava non poco. Prudenza avrebbe suggerito di evitare una simile impresa, dopo aver sperimentato per due volte la diabolica abilità del criminale. Forse il Fantasma era davvero invincibile, e illusoria la convinzione di Dupin di aver perlomeno pareggiato il confronto nello scorso aprile. L’unico risultato utile, nella lotta al Fantasma, era catturarlo. Non esserci riusciti equivaleva a una sconfitta, per la costante minaccia che un
21
simile genio del male rappresentava quand’era libero di colpire. A renderlo dubbioso, c’era anche la reticenza di Dupin, fermo nel rimandare al loro incontro di persona ogni spiegazione. L’inclinazione del cavaliere a non giocare mai a carte scoperte era fastidiosissima. Il treno arrivò sul quinto binario, contemporaneamente ad altri tre convogli. Sui residui due binari erano arrivati da poco altrettanti treni. Gli sbuffi di tutte quelle locomotive diffondevano intorno una fastidiosa foschia, ma anche un piacevole tepore. Poiché non solo il treno che aveva trasportato Juve era pieno di passeggeri, ma anche tutti gli altri, le banchine in breve furono invase da un brulicare di gente e di bagagli. Juve rimase colpito dai numerosi ugelli per fiamme di gas appesi alla volta della tettoia, che quando si accendevano dopo il tramonto dovevano illuminare l’ambiente quasi a giorno. Era notevole anche il grande tabellone degli avvisi, il cui orologio con datario, ben visibile da lontano, indicava le 12.15 del 21 dicembre. Nella loro ultima telefonata Dupin gli aveva spiegato che alla Stazione di Milano non era consentito ai parenti l’accesso alle banchine. Pertanto lui lo avrebbe aspettato sul piazzale, con una carrozza già pronta per condurlo al Duca D’Aosta. Nell’avviarsi verso l’uscita con la sua sobria valigia, Juve pensò che il cavaliere doveva essersi annoiato nell’attesa; il suo convoglio aveva tardato più di mezz’ora. Sul piazzale il movimento di persone e carrozze non era meno caotico che all’interno della stazione. Non più coperti dall’imponente fabbricato, si veniva investiti di colpo dal rigore dicembrino. Si vedevano consistenti tracce della nevicata di qualche giorno prima, ma il cielo era di un nitido colore azzurro. Dupin, che conosceva bene la cultura italiana e parlava anche discretamente la lingua di quel paese, al contrario di Juve, gli aveva preannunciato che se il tempo teneva avrebbe avuto “la fortuna di ammirare il cielo di Alessandro Manzoni”. Qualunque cosa significasse quella citazione, adesso che il vice ispettore aveva messo piede nella città lombarda doveva riconoscere che il cielo aveva una limpidezza speciale.
22
(N.9 - Duetto d’assaggio) Gli arrivò un richiamo ad alta voce: «Ispettore Juve! Per di qua!» L’aveva pronunciato, in italiano, il cocchiere di una carrozza poco distante. Attraverso la portiera semiaperta l’abitacolo lasciava intravedere una figura intabarrata che teneva in mezzo alle gambe, tra i lembi del mantello, l’inconfondibile bastone col manico a testa d’aquila. Salito, dovette constatare che il ritardo del treno non aveva per nulla innervosito Dupin. Il cavaliere teneva in mano un foglio sul quale doveva essersi concentrata fino ad allora la sua attenzione, visto che dopo un rapido saluto al suo ospite vi aveva di nuovo posato lo sguardo. «Credevo fosse un po’ più contento di rivedermi, cavaliere» lo punzecchiò Juve. «Ah! Ha ragione, mi scusi…» fece Dupin imbarazzato, dedicando finalmente la dovuta considerazione al vice ispettore. Tuttavia continuò a tenere sulle ginocchia quel documento così appassionante. Juve si soffermò a valutare l’aspetto del suo “maestro”. Portava ben calcata sulla fronte una bombetta un po’ demodé. Una spessa sciarpa, stretta intorno collo, arrivava a coprirgli il mento fino al labbro inferiore. Il viso non sembrava invecchiato rispetto all’ultima volta che s’erano visti, non solo perché erano passati appena otto mesi, ma soprattutto per la vivacità pungente degli occhi azzurri. C’era da giurare che questi non sarebbero stati mai, fino all’ultimo respiro della sua lunga vita, quelli di una persona anziana. «Viaggio stressante, eh? Ci sono passato anch’io. Ma vedrà che la città le piacerà. È bella non solo nelle giornate serene ma anche quando c’è la nebbia, fenomeno atmosferico di casa da queste parti. Piazza della Repubblica è subito qui dietro, ma propongo di allungare un po’ il tragitto, attraversando i giardini e prendendo poi per via Principe Umberto, sopra il bastione, per arrivare in piazza Principessa Clotilde; vorrei che ammirasse l’arco neoclassico di Porta Nuova…»
23
«Ha trovato lavoro come guida turistica, cavaliere?» scherzò Juve che oramai, a dire il vero, ne aveva abbastanza del tergiversare di Dupin «non sono certo qui in villeggiatura, e nemmeno lei. Mi dica piuttosto: che cosa sta leggendo con tanto interesse?» Senza scomporsi il cavaliere ordinò al cocchiere di tornare al Duca D’Aosta per la via più breve; poi ammise: «Comprendo la sua impazienza, Juve. Volevo solo che si immergesse un po’ nel clima della città, cosa sempre utilissima dal punto di vista investigativo. Questo foglio dice, eh?» Indicò il documento. «Gli dia un’occhiata» disse porgendolo a Juve «me l’ha gentilmente spedito per lettera a Saint Germain en Laye, cinque giorni fa, mister Edgar Allan Prosperous White. Residente in Fans Street 1 a Boston, com’è ovvio.» Juve rimase per un attimo agganciato, con espressione sorpresa, allo sguardo di Dupin; poi, prima di chiedere qualsiasi spiegazione, esaminò il foglio. Sam Loyd, 1861
24 Il Bianco muove e matta in cinque mosse 1 «Sa che capisco poco di scacchi, cavaliere» si affrettò a commentare, restituendo il foglio a Dupin «perché questo tizio americano glielo avrebbe inviato?» Dupin sorrise di gusto. «Americano? Suvvia, Juve, non faccia il finto tonto. D’accordo che non conosce l’inglese, ma dovrebbe aver capito che si tratta di un messaggio in codice. Le faccio una piccola traduzione: “prosperous” significa florido, “white” bianco, e “fans street” via del ventaglio.» «Uhm…» Juve rimase pensoso per qualche istante «il suo biografo statunitense, mister Poe, ha qualcosa a che fare con Boston?» «Finalmente la riconosco, ispettore! È nato proprio in quella città!» «Uno sfacciato guanto di sfida. Che roba è il diagramma?» «Ah, qui viene il bello!» esclamò Dupin con l’entusiasmo contagioso che sapeva esprimere quando si occupava di enigmi stimolanti «ma oramai siamo arrivati; quella bellissima facciata barocca è del Duca d’Aosta. Venga, scendiamo. Proseguiremo il discorso con più calma nella mia stanza, dopo che si sarà sistemato.»
1 Soluzione: 1. b4! minaccia 2. Tf5 seguita da 3. Tf1#, oppure 2. Td5 e 3. Td1# 1…Tc5+ se 1…Txc2 2. Cxc2 a2 3. Td5 a1=D 4. Cxa1 qualunque 5. Td1#. 2. bxc5 a2 3. c6! Ac7 le mosse alternative 3…Af6 e 3…Ag5 non sono migliori; 4. cxb7 e a qualsiasi mossa segue 5. bxa8=D matto oppure 5. bxa8=A matto.
25
(N.10 - Aria di bravura) La camera di Juve era ampia e signorile. Il vice ispettore si stupì della munificenza del direttore del Teatro alla Scala. Ma d’altronde se era amico di Dupin, e anche suo ammiratore come gli pareva di intuire, era normale che riservasse ai suoi amici un’accoglienza splendida. Così rimase alquanto stupito che la camera del cavaliere fosse molto frugale. Evidentemente alloggiare in ambienti spartani era una specie di vezzo, per il suo eccentrico maestro. Lo trovò seduto all’unico tavolino della stanza, davanti a una scacchiera sulla quale era ricostruita, gli bastò un’occhiata per accorgersene, la posizione del diagramma di mister Edgar Allan Prosperous White, alias il Fantasma. «Sieda» lo invitò il cavaliere «per incominciare le racconterò un aneddoto. L’autore del problema, il newyorkese Samuel Loyd, l’ha composto ad appena sedici anni. Ancora oggi è considerato un esempio di come dovrebbe essere ogni problema scacchistico: esteticamente suggestivo e allo stesso tempo sorprendente, senza essere astruso. Loyd lo ha ideato per dare una lezione a un amico che si vantava di saper individuare a colpo d’occhio, in qualsiasi problema, il pezzo che dava scacco matto. Loyd ribaltò la domanda, sfidandolo a indicare un pezzo che sicuramente non avrebbe dato matto. L’amico presuntuoso scelse questo.» Dupin indicò il pedone che occupava la casella b2. «In effetti, tra tutti i pezzi della posizione, è senza dubbio il più “disgraziato”. Oltre a essere un misero pedone, é sotto minaccia di cattura da parte di un pedone avversario, e ha la colonna lungo cui deve muoversi ostruita da ben tre pezzi. E il re è dall’altra parte.» «Ma…» intervenne Juve. «Già! Ma nonostante questo è proprio l’insospettabile pedone in b2 che dà matto. E non solo…» Juve doveva ammettere che il cavaliere lo aveva incuriosito. «Il pedone in b2 è anche l’unico pezzo che il bianco muove. Sale sempre più in alto di mossa in mossa, dalla casella b2 sino alla casella a8,
26
dove arriva a promozione, si trasforma in regina e dà matto. Per questa caratteristica il problema è chiamato “Excelsior”, che in latino significa, appunto, “sempre più in alto”. È un capolavoro della storia scacchistica, nonché, mi sia consentito dirlo, dell’ingegno umano. E pensare che secondo i puristi sarebbe difettoso perché per mattare, all’ultima mossa, non è necessaria la regina, basta la promozione ad alfiere. Così si potrebbe dire che la soluzione non è unica…»
(N.11 - Duetto a sorpresa) «Va bene, va bene» lo interruppe Juve, temendo che si inoltrasse in considerazioni troppo da esperto «ha scoperto cosa può aver a che fare col colpo del Fantasma alla prima di Carmen?» «Ah, qui vengono le dolenti note! Non sono riuscito a trovare una risposta.» «Sì? Eppure sembra semplice…»
27
Scena quarta
(N.12 - Cavatina leggiadra) «Se mi vedesse Arturo!» esclamò con gioiosa impudenza Angiolina Palmento, prima di avvicinare alle labbra la tazza di cioccolata calda. Il finto Corrado De Pretis trovò che era deliziosamente sexy. Il modo di fare pieno di aggraziata malizia contribuiva al suo fascino tanto quanto, forse persino di più, l’abitudine a valorizzare il bel corpo indossando abiti attillati con generose scollature. E non bisognava lasciarsi trarre in inganno dall’aspetto esteriore; era una donna intelligente e di personalità. Oltre che una soprano talentuosa.
(N.13 - Terzetto con brio) «Ma dai, Angioletta! Siamo nel locale più frequentato di Milano!» rispose il direttore di scena, indicando con un cenno del capo la sala del Bar Campari, affollata di bella gente «anche il maestro viene spesso qui, no? Se non avesse la moglie alle calcagna, potrebbe tranquillamente esserci anche oggi… e poi non sei mica sola con un pericoloso rivoluzionario della regia come me! Non è vero, dottor Casazza?» concluse ammiccando al direttore del teatro, seduto al tavolino assieme a loro. Il massiccio impresario non era per nulla di buon umore. Era venuto al Campari - il bar più centrale della città, a contatto di gomito col Duomo - non per bisogno di un po’ di relax, ma perché gli premeva fare il punto della situazione con De Pretis. La presenza della Palmento veniva a proposito per la sua conoscenza personale di Toscanini.
28
«Beato lei che ha voglia di scherzare, De Pretis!» «Io penso che nulla meriti d’esser preso del tutto sul serio, direttore» ribatté il falso De Pretis, imitando alla perfezione la sagace ironia di quello vero. Angiolina Palmento lo contemplò ammirata. «Comunque mi pare che quanto è accaduto oggi, alla riunione notturna» ammiccò con un sorriso alla soprano «e poi alla prova, dovrebbe averla rassicurata.» “Eh già, parli bene tu!” pensava Gatti Casazza “ma la responsabilità di questa prima ricade su di me, porco Diavolo!” «Proprio per niente, caro De Pretis, e lo sa benissimo.» «Ma come?» esclamò il fittizio direttore di scena, con una faccia meravigliata così finta che suscitò il sorriso della Palmento «se l’ho data completamente vinta al grande oracolo dell’opera!» Gatti Casazza fece una smorfia di disappunto. Per come la vedeva lui, e aveva troppa esperienza per sbagliarsi, l’arrendevolezza di De Pretis era una iattura peggiore di una burrascosa resa dei conti tra lui e Toscanini di fronte all’intera compagnia, il che era tutto dire. Meglio sarebbe stato che se ne fosse rimasto buono buono, adeguandosi fin dall’inizio, senza commenti, alla richiesta del maestro. Anche lui era convinto che fosse discutibile, se non addirittura pretestuosa, dettata cioè dal desiderio di vendicarsi per aver dovuto cedere sul ventaglio di Floridablanca. Proprio per questo De Pretis avrebbe dovuto accontentarsi, senza tirare la corda. Invece, dopo avergli fatto venire i sudori freddi contraddicendo il maestro sulla miglior resa scenica della danza dell’habanera, se n’era uscito con quella battuta che chiudeva sì a favore di Toscanini la polemica ma, per il suo evidente sottofondo sarcastico, era uno schiaffo in faccia al maestro: “M’inchino all’autorità indiscutibile di un sommo artista come il nostro direttore.” Per di più quel grandissimo filibustiere di De Pretis aveva iniziato a battere le mani, coinvolgendo la compagnia in un applauso generale. Così facendo, aveva bagnato le polveri all’irascibile maestro; poteva
29
Toscanini attaccare chi gli faceva un così esplicito atto di sottomissione, per di più entusiasticamente condiviso da tutti i componenti del cast? Lo stesso Gatti Casazza si era ritrovato ad applaudire. Toscanini, De Pretis aveva dimostrato di saperlo fin troppo bene, era sensibilissimo alle ovazioni. Quelle rivolte a lui, naturalmente, ché quelle rivolte ai cantanti, specie se interrompevano l’esecuzione, mal le sopportava. Però Gatti Casazza non si faceva illusioni. Il conflitto tra Toscanini e De Pretis era tutt’altro che sopito. Non lo rassicurava nemmeno lo svolgimento senza particolari intoppi della prova di scena, in cui il direttore di scena si era adeguato ai desideri di Toscanini con uno zelo così puntiglioso da apparire, ancora una volta, palesemente canzonatorio. Toscanini aveva assistito in silenzio, con espressione scura, senza poter eccepire nulla; sotto i suoi occhi De Pretis aveva ridisegnato le posizioni e i movimenti dei numerosi interpreti di quella scena di massa in modo da consentire alla danza di Emma Calvé di svolgersi vicino alla pedana d’orchestra. Toscanini non avrebbe potuto chiedere di più. Ma era evidente che quella soluzione toglieva respiro a tutta la scena. Ne erano come svilite anche le bellissime scenografie dipinte di Chini che rappresentavano, con effetto “tromp d’oeil”, la piazza di Siviglia con la gendarmeria, la fabbrica di tabacchi e in mezzo il ponte sul Guadalquivir. La cosa migliore sarebbe stato un compromesso tra direzione di scena e direzione d’orchestra. Ma era utopia il solo pensarci. Gatti Casazza sperava di convincere De Pretis ad abbandonare le sue subdole provocazioni. Sapeva, ahimè, che non sarebbe mai riuscito ad ammansire Toscanini. «Fino a quando deve durare questa guerra?» disse il direttore del teatro «lei conosce meglio di me la suscettibilità di Toscanini. Quello è capace di piantare baracca e burattini da un momento all’altro, e senza di lui lo spettacolo andrebbe a scatafascio. Posso anche riconoscere che la
30
scena dell’habanera come l’aveva montata lei era deliziosa, ma deve smetterla di provocarlo. La trovata di assecondarlo con ossequiosità sperticata è spiritosa, ma un bel gioco dura poco. Se tiene alla riuscita di questa Carmen, che é anche la sua Carmen, deponga le armi.» «Corrado caro» intervenne amabilmente la Palmento «non avertene a male, ma il direttore ha ragione. Arturo è già nervoso per la stretta vicinanza della moglie, che è stato costretto a subire a causa di voci malevole giunte all’orecchio della donna, su sue presunte…» sorrise maliziosa «…relazioni extraconiugali nell’ambiente della lirica. Nervoso è persino un eufemismo; diciamo che è proprio esasperato. A ciò si aggiunge che non ha ancora digerito la faccenda del ventaglio… questo grazie anche all’appoggio della divina Calvé, ancora insofferente per doversi esibire a scopo di “reclame”, come dice lei.» “Buona quella!” pensò Gatti Casazza “come se non si fosse prontamente fatta alzare il cachet!” «E poi c’è il suo perfezionismo, ne sanno qualcosa gli orchestrali, che lo rende perennemente insoddisfatto quando deve preparare un’esecuzione importante…» «Io credo che siate fuori strada» ribatté con arguzia il De Pretis fasullo «questa Carmen non rischia di rimanere orfana del nostro esimio maestro. Lo scongiurano le larghe sovvenzioni da parte de “El antiguo arte del ventilador” e della “Premiata Ditta Bottero”, nonostante l’onta di veder comparire sulle locandine, accanto al proprio, questi volgari nomi. Se proprio lo vuol sapere, caro Gatti Casazza, io temo più lei di Toscanini.» «Come?» Il direttore era rimasto spiazzato. La Palmento, incuriosita, guardava il De Pretis fasullo con la solita ammirazione. «Eh sì! Se Toscanini, ci metto la mano sul fuoco, sarebbe disponibile a ingoiare qualsiasi rospo pur di intascare la sua cospicua chiamiamola “percentuale” sull’operazione ventaglio di Floridablanca, lei invece sarebbe capace - lo dico senza alcun astio, perché al posto suo farei lo
31
stesso - di estromettermi qualora l’attrito con il maestro potesse nuocere all’andata in scena.» Gatti Casazza rise di gusto. De Pretis gli piaceva sempre di più. «Devo prenderlo come un impegno a non mettere più mine sulla strada della prima?» Il fittizio direttore di scena sorvolò con un sorrisetto, porgendo galantemente la mano ad Angiolina Palmento. «Mia cara, ti va una passeggiata con me per il centro?» «Ottima idea!» approvò Gatti Casazza per nulla offeso, e anzi divertito che De Pretis non avesse invitato anche lui «quest’anno le luminarie di Natale sono bellissime. Dopo l’imbrunire è uno spettacolo. Io torno in ufficio, ho un appuntamento. Buona sera!» concluse alzandosi e avviandosi verso l’appendiabiti per recuperare il paltò che, quando lo indossava, accentuava la sua massiccia stazza. Uscì dalla porta che dava su Galleria Vittorio Emanuele II, sotto la quale le ombre del crepuscolo erano già contrastate dai grandi lampadari elettrici appesi alla cupola. Aveva lasciato il conto da pagare a De Pretis, ma era il minimo che quella simpatica canaglia meritasse.
ATTO SECONDO Copiare il vero può essere una buona cosa, ma inventare il vero è meglio, molto meglio. Giuseppe Verdi
35
Scena prima
(N.1 - Duetto dissonante) Il vice ispettore Juve era irritato come pochissime volte in vita sua. Così se ne stava seduto con aria cupa dentro all’abitacolo, senza degnare d’uno sguardo la parata di sfarzosi decori natalizi e vetrine sfavillanti che sfilavano ai lati della carrozza mentre percorreva via Manzoni. Seduto di fronte a lui Auguste Dupin, di umore completamente opposto, si godeva lo spettacolo con aria ammirata. Poco prima si era entusiasmato per la linea semplice ed elegante di un tram elettrico affiancatosi alla carrozza. «Sa che le dico, Juve? A Parigi non ne abbiamo di così belli.» La frase era caduta nel silenzio. C’era da dubitare addirittura che Juve, rinchiuso nel suo malumore, l’avesse udita. Il cavaliere non aveva avuto vita facile nel convincerlo a incontrare Gatti Casazza. L’impulso del vice ispettore sarebbe stato quello di tornare in Stazione e salire sul primo treno per Parigi. Era proprio vero che, a volte, le situazioni cambiano imprevedibilmente.
(N.2 - Aria con spalla) Nel primo pomeriggio, il colloquio nella stanza di Dupin al Duca d’Aosta era stato per lui prodigo di soddisfazioni. Intanto, sostenendo che il messaggio contenuto nel problema di Sam Loyd non era poi così misterioso, aveva fatto perdere al cavaliere l’abituale prosopopea.
36
«Semplice? Non mi pare. Comunque dica; l’ascolto.» Non c’era sfida nella sua voce, solo rammarico per non esser riuscito a trovare il bandolo della matassa con la facilità del suo allievo. «Be’, credo che la complessità degli scacchi, e dei problemi di scacchi in particolare, stia inducendola, erroneamente, a ricercare una soluzione esaustiva. Ma non è logico che il Fantasma voglia svelarle “tutto” il suo piano; sarebbe troppo rischioso avendo a che fare con un antagonista del suo livello. Ecco allora che, più semplicemente, si deve ricercare nel problema un’indicazione, seppur importante. Tutto il resto è da guadagnare.» «Uhm… e quindi?» «Quindi il Fantasma ha preso il posto di qualcuno, ma per realizzare il colpo dovrà sostituirsi a qualcuno “più in alto”.» Dupin non aveva fatto commenti, rimanendo a rimuginare tra sé. Quindi si era alzato di scatto per abbracciare calorosamente il suo allievo. «Juve, come farei senza di lei!» Era andato a prendere un giornale, Il Corriere della sera, e l’aveva aperto alla pagina degli spettacoli. Conteneva un lungo articolo sull’inaugurazione della stagione di Carnevale alla Scala, a firma Giuseppe Giacosa. «Guardi!»
(N.3 - Coro muto) Juve si risentì un po’, perché il cavaliere sapeva che lui non conosceva l’italiano. Ma poi si accorse che Dupin indicava una serie di foto con didascalia in fondo all’articolo. Come d’uso, il giornalista aveva riportato le immagini dei protagonisti dello spettacolo. Juve si chinò per passarle in rassegna. Un uomo col viso serio, ombreggiato dalle falde del cappello, su cui spiccavano i baffi con le punte arrotolate all’insù: Arturo Toscanini,
37
maestro concertatore e direttore d’orchestra. Una florida signora sorridente, con un cappello d’eleganza un po’ severa: Emma Calvé, mezzosoprano, la bella sigaraia Carmen. Un giovane stempiato, con guance piene e occhi chiarissimi: Giovanni Zenatello, tenore, don José, sergente. Un giovane dall’aria maliarda, che portava un raffinato cappello con ampie tese: Giuseppe De Luca, baritono, il torero Escamillo. Una donna di carnagione chiara, con splendide chiome corvine: Hariclea Darclée, soprano, la contadina Micaëla. Un uomo dal viso magro, con una estesa calvizie e lo sguardo timido: Francesco Fabbri Boesmi, basso, il tenente Zuniga. Un baffone tutto impettito, con cravatta regimental su inappuntabile camicia immacolata: Antonio Scotti, baritono, il sergente Moralès. Una donna paffuta d’aspetto dimesso, con l’espressione imbarazzata: Amelia Pinto, soprano, la zingara Frasquita. Una bella sventolona con un sorriso accattivante: Angiolina Palmento, soprano, la zingara Mercédès. Un omone dal viso cordiale, con un vistoso ciuffo a banana: Giuseppe Pacini, baritono, il contrabbandiere Dancairo. Un uomo maturo, con notevoli baffi alla D’Artagnan: Giovanni Battista De Negri, tenore, il contrabbandiere Remendado. Un giovane barbuto col ciuffo ribelle e l’espressione ispirata: Galileo Chini, scenografo. Un uomo col volto scavato e sembianze vagamente effeminate: Raimundo Navarro, costumista. Un elegantissimo dandy con un affascinante sorriso ironico: Corrado De Pretis, direttore di scena. Fine anteprima. Continua... Disponibile anche in ebook a 4,99 euro da marzo-aprile 2014