In uscita il 31/10/2018 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2018 ( ,99 euro)
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Luca Clemente Cipollone
Il giardino di Chiara
ZeroUnoUndici Edizioni
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IL GIARDINO DI CHIARA
Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-238-6 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Ottobre 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
L’ARTE È LA PORTA CHE CONDUCE ALLA FOLLIA!
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PREFAZIONE DI FILIPPO FABRIZI
Sono grato a Luca Clemente Cipollone per avermi offerto l’occasione di scrivere la prefazione di questo libro. Il Giardino di Chiara è un romanzo che si sviluppa tra fantasia e realtà e attrae il lettore per la sua genuinità, il suo modo semplice e fresco di affrontare le vicende dei protagonisti. La vita di Chiara, colpita e scolpita sin dall’infanzia da un tragico evento che sconvolge la sua esistenza; la figura dello zio Bartolomeo, personaggio sempre discreto e rassicurante; il conforto di amiche come Margaret: tutto contribuisce a presentarci un mondo fatto di sentimenti e di sensazioni che vanno al di là del racconto. Un racconto che si snoda attraverso luoghi, città, villaggi e montagne, con personaggi che ognuno potrà conoscere o riconoscere, nati e rivissuti nella mente e nei ricordi dell’autore o creati e inventati dalla sua fantasia. Il libro riesce a coniugare le esigenze di un quasi romanzo con quelle di un diario della memoria, in cui affiorano evidenti gli avvenimenti e la nostalgia di un’infanzia già lontana e l’amore per un mondo mai dimenticato e ancora sognato. Il Giardino di Chiara è il luogo non solo ideale in cui la protagonista vive il suo dramma di bambina, le sofferenze e le gioie dell’adolescenza, la rivincita sulla vita. Privata traumaticamente della presenza dei genitori Chiara riesce, grazie a uno zio, protagonista suo malgrado, a raggiungere traguardi insperati. Seguendo le vicende di Chiara e ascoltando i racconti dello zio, Luca Clemente Cipollone porta il lettore in ambienti e in momenti che sembrano far parte della storia di tanti di noi e, per questo, siamo certi che molti lettori sospetteranno una certa familiarità con persone e personaggi che animano il libro. Va poi dato merito all’autore di aver compiuto uno sforzo accurato e intenso, sia nella ricerca di riferimenti storici che nell’approfondimento degli eventi piccoli e grandi che hanno visto coinvolti i numerosi protagonisti del libro.
6 Ne risulta un quadro delicato e completo che tiene avvinto il lettore e lo fa sentire esso stesso protagonista.
Nota biografica: Filippo Fabrizi (L’Aquila 1937) oltre a una lunghissima e fortunata carriera nel mondo bancario, ha dedicato molta parte dei suoi interessi intellettuali al giornalismo. Redattore e conduttore televisivo, ha creato rubriche di largo successo, intervistando, tra l’altro, oltre duecento personaggi della politica, della cultura e della società. È autore di libri e varie pubblicazioni. Direttore responsabile di periodici, suoi articoli sono apparsi su numerosi quotidiani.
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INTRODUZIONE
Nell’introdurre il romanzo userò le celebri parole del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer: “Talvolta crediamo di aver nostalgia di un luogo lontano, mentre a rigore abbiamo soltanto nostalgia del tempo vissuto in quel luogo quando eravamo più giovani e freschi. Così il tempo ci inganna sotto la maschera dello spazio. Se facciamo il viaggio e andiamo là, ci accorgiamo dell'inganno.” Accorgersi dell’inganno recandosi nei luoghi amati in gioventù, riportare in vita i personaggi narrati dalle fantastiche storie raccontate dagli anziani, percorrere strade e rivedere torri e castelli, vecchie panchine dove si è dato il primo bacio, la nostalgia del tempo vissuto nei luoghi che hanno caratterizzato la mia vita e forse anche la vita di qualcuno di voi. Questo è stato il mio scopo nello scrivere il Giardino di Chiara, romanzo caratterizzato da sentimenti e passioni, voglia di giocare con il tempo mischiando le carte della storia. Il mio amore per l’arte ha fatto sì che maestri del calibro di Klimt, Modigliani, Jan Vermeer e Kokoschka si ricavassero un piccolo ma importante spazio nel racconto. Nota più allegra e curiosa è quella trattata nel VII capitolo: la storia di Cagli e della gara del lento fumo. Quest’avvenimento era a me sconosciuto fino a quando ho iniziato ad appassionarmi per la pipa e per il mondo che circonda questo piacevole strumento. Ho voluto così descrivere e condividere questa mia passione con chi avrà l’occasione di leggere queste pagine. In Il Giardino di Chiara, quindi, il lettore troverà intrecci con il passato e con il presente, riferimenti a materie come la psicologia e l’arte e a fatti storici realmente accaduti, tutto raccontato con un velo d’ironia e a volte condito con un pizzico di tristezza. I nomi dei personaggi sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è assolutamente casuale. Così com’è casuale ogni riferimento e citazione ad attività commerciali e partiti politici.
8 Infine vorrei soffermarmi su alcuni dovuti ringraziamenti. In primis, voglio ringraziare il sig. Fabrizi, per avermi concesso parte del suo prezioso tempo, dimostrandosi un vero Gentiluomo. Un pensiero di affetto va anche alla persona che ha coniato questa meravigliosa frase rivolgendola alla mia città, Avezzano, devastata il 13 gennaio 1915 da un violento terremoto. A mio fratello, che soffrì perendo nella città che non conobbi ed amo. Luca Clemente CIPOLLONE
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PROLOGO
Lo stretto corridoio era illuminato dal leggero chiarore della luna, proveniente dalla finestra della cucina, in una fredda notte di ottobre. Il silenzio nella stanza fu interrotto dalla voce bassa dell’uomo seduto a terra, con le spalle poggiate al muro. In una mano stringeva la cornetta del telefono, con l’altra si copriva il viso, facendo pressione sulle tempie. «Dottore, non ce la faccio, le condizioni di Chiara peggiorano. Passa sempre più tempo chiusa nella sua stanza, convinta di parlare con i suoi genitori e si lamenta, ha sempre lo stesso incubo: la notte dell’incidente, quei maledetti fari che la accecano, crede di vedere un drago…». Fu interrotto dal bisbiglio di una voce, dall’altra parte del telefono, per poi continuare con il suo racconto: «Lo so, dottore, ma non è facile. Io sono un uomo solo, e ho paura di non reggere la pressione di questa situazione...». La voce nel telefono lo interruppe ancora, l’uomo continuava a stringersi le tempie con le grosse mani, per poi proseguire: «Sì, nel disegno la piccola migliora giorno dopo giorno, ma è in quella maledetta stanza che si perde, adesso non mi fa neanche più entrare, dice che devo aspettare il suono del campanile ai dodici rintocchi. È convinta di farsi trasportare da un calesse e la sento parlare e urlare da sola, a volte vorrei entrare e gridarle in faccia di finirla, di svegliarsi! Avrei voglia di gettarle tele e colori e di scuoterla, ma poi sto lì, seduto a terra con le spalle poggiate alla porta, aspettando i rintocchi della campana e la dolce voce di Chiara che mi chiama…». Il suo discorso fu interrotto dal suo interlocutore. L’uomo stringeva la cornetta del telefono con una presa forte e decisa, la barba incolta fu bagnata da una lacrima che solitaria scese dai suoi occhi. «Va bene dottore, continuerò con i suoi farmaci e con le strane terapie della dottoressa. Cercherò di non farmi vedere triste e asseconderò le sue richieste. Buonanotte, e scusi ancora per l’orario». Seguì un momento di pausa, poi l’uomo si alzò dal freddo pavimento e andò in cucina, prese in braccio un gatto, lo accarezzò sulla schiena e si diresse in camera, attraversando lo stretto corridoio della casa.
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CAPITOLO 1
L’autunno arrivava sempre portando aria gelida e odore di castagne nella piccola cittadina del Centro Italia. Avigiano sorgeva in una pianura contornata da montagne, dove una volta riposava un grande lago. La mattina presto, quando si formava la nebbia, se si osservava Avigiano dalle alture di Fontamara, l’illusione ottica faceva rivivere come per magia le acque dell’antico lago ormai scomparso. Le stufe e i camini si preparavano ad affrontare un lungo lavoro perché, in quel luogo, la stagione fredda durava molto. Le foglie variopinte cadevano dagli alberi e ogni tanto qualcuna di esse faceva il percorso inverso. Gli scoiattoli del parco della villa comunale, infatti, si apprestavano frettolosamente ad accogliere l’inverno e ogni tanto, guardinghi, scendevano dagli alberi che maestosi si slanciavano verso l’alto, per raccogliere pigne, castagne e qualche bella foglia da riporre nelle loro tane. Dall’alto guardavano la piccola e fredda città del Centro Italia, con la gente che l’abitava e le loro storie. Accanto alla villa comunale, proprio davanti al nobile castello, sorgeva la casa del vecchio Bartolomeo e di sua nipote Chiara. Una foglia arancione, spinta dal vento, si andò a poggiare sul tetto di quell’abitazione. Era passata da poco l’alba, le notti si muovevano lente, e le strade gelate brillavano alle prime luci del mattino, quando d’un tratto uno spiraglio di luce bianca entrò negli occhi socchiusi della piccola Chiara. Il lontano rumore della vita intorno a lei si fece sempre più forte e ingombrante, la sua testa iniziò a riempirsi pian piano di ricordi che la notte bugiarda le aveva rubato. L’accenno di un sorriso incondizionato al sapore del primo ossigeno entrato nei suoi polmoni fu rotto improvvisamente dal brusco rumore della tosse dello zio Bartolomeo, che esclamò sussurrando: «Forza piccola donna, è ora di fare!». Le accarezzò dolcemente i capelli e la fronte, pallida e sudata. «Vorrai dire di andare, zio…» rispose Chiara con un ghigno un po’ beffardo. «Eh be’» borbottò l’omone, « di andare, di fare… è la stessa cosa per me».
12 «Zio, ho fatto ancora quel brutto sogno». «Non ci pensare, piccola donna, i sogni sono fatti di vapore, e quindi svaniscono presto senza far male» rispose lo zio con aria malinconica. Chiara aveva circa quindici anni, e ne erano passati ormai nove da quando il vecchio Bartolomeo aveva iniziato a prendersi cura di lei, sua unica nipote. Ogni mattina era costretto a rincuorarla perché tutte le notti la piccola era disturbata da brutti e ricorrenti incubi. Le immagini brusche e violente dei suoi sogni lasciavano solo un vago ricordo al suo risveglio: tutto svaniva tranne il pensiero degli occhi pieni di luce che la accecavano, come lo sguardo di un drago, una bestia che quando la scrutava riusciva a scuoterle l’anima e la coscienza. Il sole splendeva ormai alto quella mattina, la finestra della camera di Chiara si affacciava su un vecchio castello del secolo passato, fatto di pietre ricoperte di muschio verde e profumato. Le forti e possenti colonne erano state danneggiate da un violento terremoto che qualche anno prima lo aveva sfigurato dimezzandolo, così come aveva fatto con il resto della città. Bartolomeo ricordava ancora il tuono che precedette il forte terremoto, l’ululato del lupo, così lo chiamava, quando ogni tanto, davanti al camino, raccontava a Chiara quei terribili momenti vissuti da bambino. Alle sette e quarantotto del mattino di quel maledetto 13 gennaio, un forte boato anticipò la catastrofe. La terra si squarciò, si contorse, iniziò a oscillare così forte che riuscì a scrollarsi di dosso tutto quello che aveva. Le case, gli alberi, le chiese, tutto si accartocciò sulla gelida terra che aveva tremato così a lungo. Della città che fino a qualche attimo prima era piena di vita non rimase che il silenzio incombente della morte. Poche case rimasero in piedi e pochi furono i fortunati abitanti a rimanere in vita. Si riunirono tutti attorno al castello ferito, simbolo della città, sotto una gelida coltre di neve. Quella di Bartolomeo fu una delle poche case rimaste in piedi. La vista del castello riempiva sempre di buon umore lo zio di Chiara che ogni giorno, aprendo le finestre, esclamava: «Buongiorno Maschio!». Spesso per far passare le fredde e monotone giornate Bartolomeo amava raccontare alla nipote delle storie, Chiara lo ascoltava sempre con interesse, soprattutto quando lo zio le narrava le gesta e le bravate dei suoi vecchi amici e dei personaggi del luogo, appellandoli con nomignoli e soprannomi strani, a volte incomprensibili, come: Tizzone, Mazzabbottata, Mazzocca e Centolippe.
13 Le storie dello zio, tra mito e leggenda, erano entrate a far parte della sua vita. Il racconto del forte e valoroso Fra Diavolo, come pure le gesta del famoso cacciatore di volpi Coppola d’oro, avevano accompagnato Chiara durante i pomeriggi e le fredde serate d’inverno. «Zio!» esclamò la ragazza. «È pronto il calesse?». «Certo, Chiara, è lì che ti aspetta». Il forte zio abbracciò la nipotina e la mise sul suo calesse, pronta per essere condotta, come ogni giorno, nel suo meraviglioso giardino. Ogni volta che il calesse attraversava il giardino, Chiara era colpita dall’odore dei fiori colorati che lo adornavano e rimaneva accecata dalla luce che proveniva da est, dal Paese del sol levante. Bartolomeo amava sempre ricordarle questo particolare, perché uno dei pochi desideri che gli erano rimasti era quello di vedere per primo il sorgere del sole, in quella magnifica terra, a est. «Ciao piccola donna, ci vediamo dopo». Così lo zio salutava ogni volta la nipote lasciandola delusa dal suo abbandono, ma lui le spiegava che non aveva abbastanza coraggio per entrare nel “meraviglioso mondo di Chiara”. Lei in cuor suo non aveva mai insistito, perché sapeva che il vecchio zio non voleva incontrare sua sorella, la mamma di Chiara, e suo marito. Subito dopo il giardino, esisteva un piccolo borgo abitato da persone strane ma simpatiche. C’era per esempio il vecchio becchino Mario, seduto su una panchina di ferro, che non le rivolgeva mai lo sguardo, perché ogni volta che Chiara entrava nel viale principale del paese, lo trovava sempre lì, nello stesso posto, seduto con lo sguardo rivolto verso il muro a leggere i manifesti mortuari. Ogni volta che la giovane passava lo salutava, ma lui le rispondeva sempre con la solita frase: «Buongiorno cara, controllo se ci sono anch’io nella lista» provocando un’allegra reazione da parte di Chiara. Accanto alla postazione di Mario c’era l’osteria del paese. Un vecchio cartello di legno appeso a un palo, sorretto da due robuste catene arrugginite, recava la scritta: “LA LOCANDA DEGLI EVENTI”. Vicino al portone c’era un gatto, Chiara giurava di averlo visto per un bel periodo senza coda e senza zampe ma oggi stranamente aveva sia la coda sia le zampe. Lui le rivolgeva sempre uno sguardo beffardo, come faceva Sfinge, il dispettoso micio dello zio Bartolomeo. Il verde delle foglie degli alberi diventava sempre più brillante, così come la luce del pallido sole che faceva capolino dalla torre della chiesa. “Fenomeno strano per essere inverno” pensava Chiara, mentre il profumo dei fiori del giardino si faceva sempre più forte e insistente.
14 «Signorina… signorina» si sentì chiamare. «Le sembra questa l’ora di arrivare?» chiese l’uomo con lo strano cappello alla fine della strada. «I suoi genitori la stanno aspettando, suvvia, non li faccia attendere ancora». «Mi scusi, signore, ma ieri sera ho fatto tardi e stamane mi sono trattenuta un po’ più del solito a letto» rispose gentilmente Chiara. «Non sono scuse che deve rivolgere a me, signorina, mi basta l’orribile colore del mio cappello, vede? È marrone, e il marrone non si abbina per niente con il blu della mia giacca» rispose stizzito l’elegante signore alla fine della strada. Chiara lo guardò stupita, come se la colpa delle sue lamentele fosse la sua, ma lasciò stare e si diresse in fretta nella casa dei suoi genitori. Si trovava verso la fine della stradina che dal giardino dell’ingresso per il paese andava a morire in una curva a gomito, dove c’era il maestoso campanile della chiesa. Era una casetta di mattoncini rossi molto graziosa, con il camino sempre acceso e il fumo bianco che si alzava dal comignolo fino a toccare le candide nuvole che coprivano, come un soffice lenzuolo, il cielo del paese. Le tegole erano rosso fuoco e la tettoia di legno che copriva il vecchio portone era di un marrone chiaro, come il colore del miele appena raccolto. «Quando mi vedranno, impazziranno di gioia» sussurrò la piccola Chiara. Picchiettò la porta sette volte, con cadenza ritmata, il suo modo per farsi riconoscere, e subito dopo entrò in casa. Vide la madre come la ricordava da sempre, con i capelli raccolti e tenuti insieme da una spilla d’argento, dei fiori colorati le arricchivano un’acconciatura degna delle migliori dive del tempo. Lo sguardo penetrante degli occhi blu cobalto la scrutava con dolcezza, mentre il vestito le superava di poco il ginocchio e sventolava con il soffio del vento che, furtivo, entrava dal portone che Chiara distrattamente aveva lasciato aperto. La madre non disse nulla alla vista della giovane figlia, ma le accarezzò subito il viso, con le mani curate ma logorate dal pesante lavoro nella fabbrica di scarpe che aveva svolto per molti anni prima della chiusura dell’impianto a causa della guerra. Alla carezza lei rispose con un cenno della testa e con un sospiro caldo e malinconico. Chiara si accomodò in salotto, sulla sedia a dondolo della mamma, e lì iniziò a parlare ininterrottamente: «Ieri lo zio mi ha raccontato un’altra delle sue storie, a volte impreca e si dimena, altre si rattrista. Io dico sempre che doveva fare l’attore di teatro, sarebbe un ruolo perfetto per lui. Poi
15 Sfinge è salito sul mobile della cucina e ha rotto un vaso, uno dei miei preferiti, zio lo ha lasciato senza cena, ma poi la notte si è alzato di nascosto, gli ha versato una scodella di latte, io l’ho sentito. È un gatto buono ma molto dispettoso». Chiara parlava e si dondolava, ogni tanto si rosicchiava le unghie nervosamente continuando nei suoi monologhi, era come un fiume in piena, come se avesse paura di lasciar spazio al suo interlocutore, fino a quando il suono delle campane non richiamò la sua attenzione: era l’ora, doveva tornare dallo zio. Salutò con un bacio la madre e, come avvolta da un vortice, si ritrovò seduta nel suo calesse tra i profumi del giardino. Lo zio era lì che la fissava con ammirazione, come in estasi. «Zio, ho fame, mi accompagni dentro?». L’uomo si ricompose e insieme lasciarono il giardino per dirigersi a casa, dove li aspettava una gustosa cenetta. Mentre i due si apprestavano a consumare il pasto, fuori dalla finestra si udivano schiamazzi e grida di giubilo. Bartolomeo si alzò borbottando e si affacciò. «Che cosa succede lì fuori?» domandò Chiara. «Cose dell’altro mondo. Ecco cosa succede. Ci sarebbe da vergognarsi! Stanno festeggiando la nascita del nuovo club di football, o come si chiama. È uno sport, o almeno così dicono, dove ventidue baldi giovanotti si sfidano giocando in mutande. Il loro scopo è infilare una palla di cuoio in una rete come quella dei pescatori, sorretta da tre pali di legno, usando soltanto i piedi… mah! E pensare che ai miei tempi a malapena riuscivo a vedere le caviglie delle ragazze, oggi invece i giovani vanno in giro in mutande a tirar calci a un pallone. E vuoi saperne di più? Hanno scelto un lupo come simbolo della squadra, non un bue o un animale nobile come il cavallo, ma un lupo feroce, che assurdità! La colpa so io di chi è, del sindaco!». Bartolomeo chiuse le persiane e continuò a borbottare. «Pensa che una volta, il sindaco fece scendere dalla collina, trainato da una pariglia di buoi, il tronco di un grande albero bruciato. Lo fece deporre al centro della piazza per ricordare a tutti i cittadini la loro negligenza durante il famoso incendio che pochi anni prima aveva distrutto il bosco del santuario della Madonna del Convento, nella collina che sovrasta la città. Per quanto mi riguarda, io tiferò sempre l’unico sport da me riconosciuto, la corsa delle biciclette, con il grande e valoroso Vito Tallone. Lui sì che era un atleta. Pensa che una volta è stato anche ricevuto e premiato dal re in persona».
16 In realtà, il sindaco di quella cittadina era un tipo un po’ bizzarro. Eletto con il Nuovo Partito dei Lavoratori, si lasciava spesso andare in azioni e manifestazioni che facevano discutere i cittadini e che riempivano le pagine del giornale locale. Le donne e gli uomini più anziani, quando passava lui, si facevano il segno della croce perché i preti dicevano che “quelli come lui… di quel partito là, mangiavano i bambini!” Erano tutte chiacchiere, la verità era che il Nuovo Partito dei Lavoratori era molto in voga in quel periodo e portava via tanti voti al Vecchio Partito Clericale manovrato, in un certo senso, dalla Chiesa. Il sindaco inoltre era bravo a svolgere il suo incarico, amava la sua città e i cittadini che l’abitavano come se fossero i suoi figli. Essendo lui nato nel quartiere più povero di Avigiano, faceva spesso, in silenzio, opere di bene e manteneva sempre in ordine le strade della sua cittadina. Si diceva che andava sempre in giro con una lampadina in tasca e se vedeva qualche lampione fulminato provvedeva lui stesso a sostituirla. Mentre lo zio si scaldava nel raccontare le gesta ciclistiche compiute dal suo mito, Chiara pensava a come sarebbe stato bello rivedere il giorno seguente il villaggio accanto al giardino e a quante cose nuove avrebbe potuto raccontare alla madre e al padre, ieri assente. Si fece di nuovo giorno, lo zio aprì le finestre e con il suo solito saluto rivolto al vecchio e possente castello, il Maschio, esortò Chiara ad alzarsi, a fare colazione e a salire sul calesse. «Forza, piccola donna, oggi per te è un grande giorno per fare!». La piccola non si curò più delle parole dello zio, si affrettò subito a salire sul calesse e si fece accompagnare nel luogo che amava di più, il suo giardino. Il forte profumo dei fiori la avvolse subito, chiuse gli occhi e, come per magia, in un attimo si ritrovò dinanzi alla casa a mattoncini rossi. Il signore con il grande cappello la salutò, stranamente, con un abbondante sorriso e un cenno del capo, come a volerle mostrare che il colore del suo cappello era blu, abbinato finalmente al suo vestito. Chiara gli rispose con un frettoloso «Ciao!» e si catapultò all’interno della sua abitazione, dove vi rimase sino al suono della campana. Quel giorno assieme alla madre c’era anche il padre, con un elegante vestito nero, capelli ben curati e le scarpe tirate al lucido, come al suo solito. Lui diceva sempre che le scarpe erano il biglietto da visita di un uomo. «Dalle scarpe si possono capire tante cose della persona che hai davanti».
17 Il padre di Chiara si chiamava Adriano, era un uomo timido, ben curato e sempre profumato. Sin da bambino aveva lavorato come garzone nel negozio di barberia del signor Clemente, esercizio che un giorno sarebbe divenuto il suo. Infatti, il signor Clemente, non avendo né moglie né figli, alla sua morte decise di lasciare al padre di Chiara tutti i suoi averi, tra cui la sua attività. Il negozio era vicino la stazione: una piccola bottega con una porta affacciata sulla strada centrale e una finestrella dalla quale entrava un gradevole fascio di luce che andava a illuminare la vecchia poltrona di cuoio e ferro battuto dove si accomodavano i clienti. Il padre lavorava sempre con passione, partiva la mattina di buon’ora in bicicletta e, all’arrivo del signor Clemente, faceva trovare il negozio già aperto e pulito, cosa che “il padrone” (così si chiamavano i datori di lavoro del tempo) apprezzava molto. Egli apprezzava a tal punto che ogni giorno regalava al padre di Chiara un pacchetto di carta marrone che nascondeva un bel pezzo di pizza appena sfornato dal profumo allettante, la cosa che il giovane garzone amava di più. Chiara ricordava che in passato il padre per scommessa ne riuscì a mangiare addirittura un metro. Era molto bravo nel suo lavoro, conosceva tutti i gusti e le abitudini dei clienti, e quando si accomodavano sulla poltrona di cuoio non dovevano nemmeno aprire bocca, lui sapeva bene cosa fare e come servirli a dovere. Il sabato il negozio si riempiva più del normale e Chiara, che in quel giorno non andava a scuola, passava la sua giornata ad aiutare il padre che, come tradizione, le faceva trovare il pacchetto profumato sul tavolino, accanto alle riviste. Le piaceva molto guardarlo lavorare: la sua faccia si riempiva di rughe e di strane smorfie quando faceva la barba ai signori e lui, che era molto furbo, si accorgeva del suo scrutare e a volte, quando i clienti chiudevano gli occhi, restituiva allo sguardo incuriosito di Chiara smorfie e faccette ancora più buffe delle sue, cosa che la faceva impazzire di gioia. Il padre di Chiara era figlio unico, era nato qualche anno prima del violento terremoto che colpì e distrusse gran parte della città. Quell’evento sismico fu talmente forte che, oltre a distruggere case e edifici, riuscì a mietere migliaia di morti, tra i quali i suoi genitori, che lasciarono il piccolo Adriano solo in quella terra martoriata. Passò la sua infanzia dai frati, nel convento dedicato alla Madonna di Pietraquaria, sulla collina che sovrasta la città, miracolosamente rimasto indenne dal forte sisma. I frati lo accolsero assieme a tanti altri bambini della zona rimasti troppo presto orfani.
18 Ogni frate aveva il suo ruolo: cuoco, insegnante, falegname, e ogni ragazzo imparò il mestiere da loro. Ci fu chi diventò cuoco, chi insegnante e chi frate. Molti di loro furono adottati da ricchi signori che, mossi a compassione, vennero dai paesi e dalle città limitrofe per far visita ai poveri orfanelli accolti nel convento della carità. Furono adottati quasi tutti, e tutti lasciarono la città; l’unico a non essere adottato fu proprio il padre di Chiara; era già grandicello e amava a tal punto la sua cittadina che ogni qual volta si presentava una giovane coppia, lui si dava malato o si andava a nascondere. I frati, che avevano capito il comportamento del giovane, lo tennero con loro, trattarono quella povera creatura come un figlio e lui li ricambiava aiutandoli nei lavori domestici; finché un giorno, scendendo in città con il frate di turno per raccogliere le donazioni dei concittadini, rimase folgorato dallo sguardo di una giovane donna che si trovava alla fontana vicino la cattedrale per riempire una conca di acqua. Quella giovane donna era la futura madre di Chiara. Adriano era rimasto talmente colpito da quella ragazza che ogni giorno si faceva trovare a quell’ora a bere presso quella fontana. La ragazza quotidianamente riempiva la conca per portarla a casa dal fratello Bartolomeo e dal padre Ornelio, rimasto anche lui vedovo a causa del terremoto. Così le soste alla fontana della giovane divennero sempre più lunghe e frequenti, i due si conobbero, s’innamorarono e presto convolarono a nozze. I primi tempi andarono ad abitare nella grande casa di Ornelio, ma in seguito alla nascita di Chiara, si trasferirono in una casa tutta loro. Spesso il papà le raccontava la storia del loro primo incontro, del matrimonio e del giorno della sua nascita e ogni volta gli s’illuminavano gli occhi. Adriano era contento di vivere con la sua famiglia e di farlo nella sua amata ma sfortunata città. Una volta i genitori di Chiara le raccontarono che appena sposati ci fu una grande nevicata. Scese talmente tanta neve nella notte che il mattino seguente non si riusciva neanche ad aprire la porta di casa. Alla gioia dei bambini che si riversavano nelle strade per giocare con la neve e con gli slittini, ben presto si aggiunse la paura e l’angoscia dei più grandi che capirono subito il disagio che avrebbe causato. Il forte maltempo durò per diversi giorni e le nevicate continuarono a ripetersi sempre più copiose. I rifornimenti scarseggiavano e molte famiglie rimasero in difficoltà a tal punto che qualcuno iniziò anche a bruciare i mobili di casa nel camino, per scaldarsi.
19 Il padre di Chiara si trovava bloccato in casa, ma una mattina, di buon’ora, si alzò senza dire nulla, si mise la giacca pesante, riempì uno zaino con tutto ciò che poté, salutò la moglie e si incamminò verso la collina. Ritornò tre giorni dopo. Era stato nel convento dei frati che lo avevano accolto da bambino a portare aiuti e a spalare la neve, perché lui non dimenticava mai chi nella vita lo aveva aiutato. Questo era suo padre! Chiara quel giorno rimase assorta nei pensieri e persa nel ricordo del padre. All’uscita della casa i colori che la circondavano erano grigi, il sole era fioco e velato e il cielo, che prima di entrare era di un blu ceruleo, si trasformava magicamente, incupendosi, con una scala di grigi. La campana quel giorno non la sorprese e lei, mestamente, tornò dallo zio che la aspettava.
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CAPITOLO 2
L’orologio del vecchio campanile della chiesa vicino al castello segnava le dodici. I rintocchi delle campane avvisavano i più distratti che si avvicinava l’ora del pranzo. Bartolomeo aveva preparato per la nipote una bella lepre allo spiedo. L’aveva cacciata Lidio, un suo amico, e gliela aveva portata già pulita quella mattina. Chiara, dopo essere andata in bagno a lavarsi le mani, si presentò in cucina. Lo zio, che la vide un po’ giù di corda, mentre apparecchiava la tavola disse: «Chiara, stamattina è venuto Lidio, ti ricordi di lui?». La giovane aggrottò la fronte, si ricordava bene del cacciatore amico dello zio. Quando era bambina, possedeva due agnellini nella stalla del padre. Fiocco e Neve, così li aveva chiamati, per via del loro mantello bianco candido, come la neve appunto. Lei li accudiva sapientemente. Li allattava con il biberon quando erano molto piccoli e dava loro il fieno una volta che le bestioline erano un po’ più grandicelle. I giorni passavano e i teneri agnellini si stavano trasformando in grandi e robuste pecore. Si avvicinava la Pasqua e una mattina Chiara, prima di andare a scuola, uscendo da casa, si trovò dinanzi Lidio il cacciatore. Lo salutò con sospetto, ma non diede peso a quell’incontro così mattutino. “Vorrà vendere un po’ di cacciagione a papà per la Pasqua” pensò la piccola ingenuamente. Lidio però era lì per un altro motivo, ben più spietato. Il cacciatore doveva accoppare le giovani pecorelle. Al suo rientro dalla scuola, Chiara si diresse come al solito nel recinto dei due animaletti. Con grande stupore lo trovò vuoto. Corse subito dal padre che nel frattempo stava salutando Lidio. L’uomo strinse la mano al papà, i due si augurarono di passare delle buone festività in famiglia, poi Lidio, che nei modi non era proprio delicato, guardando la piccola Chiara disse: «Buona Pasqua anche a te piccola, e buon appetito!». Poi si lasciò andare a una lunga e rumorosa risata. In quel momento Chiara capì tutto. Scoppiò a piangere e andò a rifugiarsi in camera sua. Non mangiò carne per un bel po’ di tempo e passò quella Pasqua a digiuno e con il broncio.
21 Bartolomeo, che non ricordava quell’episodio, mostrò soddisfatto a Chiara la sua lepre cucinata, a suo dire, alla perfezione. La ragazza si lasciò scappare delle affermazioni un po’ dure, tra la meraviglia dello zio: «Stupido cacciatore! Assassino!». Ma consumò lo stesso il suo pasto. Bartolomeo, che ricordò tardivamente il triste episodio, fece finta di nulla e dopo aver cenato le disse: «A proposito di cacciatori, ti ricordi della storia di Coppola d’oro?». Chiara spalancò gli occhi. Guardò minacciosamente lo zio ma, dopo qualche secondo, accennò un sorriso. Scosse la testa in segno di negazione e fece raccontare allo zio, per l’ennesima volta, la storia dello strano personaggio. Prima di dormire, lo zio Bartolomeo raccontava spesso a Chiara la storia di quel giovane bandito, e lo faceva così bene che la ragazza ormai aveva bene impressa la faccia di quell’uomo, anche se non lo aveva mai visto. Coppola d’Oro era l’ultimo figlio di una numerosa famiglia, la madre lo diede alla luce prima di morire e lo chiamò Mosè, ma a lui quel nome non era mai piaciuto e così si faceva chiamare da tutti Isidoro, come il Santo a cui era dedicata la chiesa che sorgeva al centro della borgata subito dopo la ferrovia. Il suo nomignolo era dovuto ai suoi ricci biondi e luminosi che, visti da lontano, sembravano formare una coppola d’oro sulla sua grossa testa. Fin da giovane aveva dimostrato di essere un’anima ribelle, alternando alle sue numerose scorribande lunghi periodi di riformatorio. Con il passare del tempo era diventato ben noto a tutti, però la sua specialità era la caccia alle volpi. Il posto dove abitava, infatti, trovandosi in estrema periferia e contornato da una folta e rigogliosa campagna, era pieno di contadini e pastori, e ognuno di loro aveva nel villaggio una piccola stalla, dove custodiva animali di ogni genere. Le volpi, sempre più numerose, facevano spesso razzia di bestiame, per andare poi a consumare il loro pasto in strette e buie caverne, da dove si narra che le acque del vecchio lago fossero state un tempo risucchiate. L’unico capace di stanarle era il giovane Mosè, che con le ricompense degli abitanti del villaggio riusciva a campare degnamente. Con il passare degli anni il giovane cresceva e con lui le sue gesta di cacciatore di volpi. Il suo mito era alimentato anche dal suo particolare modo di gironzolare per le strade della città. Si aggirava sempre trainando un carretto pieno di pelli e code di volpi, dalle quali aveva ricavato un particolare copricapo usando la pelle del famoso e terribile Archippe, capo storico delle volpi, ucciso da lui in
22 persona la notte di Natale di alcuni anni prima, o così gli piaceva raccontare ai bambini che glielo chiedevano, tra i quali c’era il giovane Bartolomeo. Ogni volta che arrivava nella piazza centrale, Coppola d’oro fermava il suo carretto, accendeva il mezzo sigaro Toscano che sfilava dalla tasca bucherellata della sua giacca malconcia, e aspettava che il gruppetto di bambini, che pian piano lo accerchiava, diventasse abbastanza folto da meritarsi il racconto della caccia e dell’uccisione del suo degno e storico rivale Archippe. «Era una notte buia e tempestosa» così gli piaceva iniziare il suo racconto, «non riuscirò mai a dimenticarla, era la vigilia di Natale e io mi trovavo nella mia baracca solo soletto, non riuscivo a prendere sonno per la fame. Non ero capace di rubare niente, perché quel giorno tutte le persone si trovavano in casa, intente a festeggiare la notte di Natale. I pollai erano vuoti e il poco bestiame presente nelle stalle del piccolo borgo era stato sacrificato per il banchetto natalizio. Proprio nel momento in cui Morfeo si stava impadronendo della mia anima, un forte rumore si abbatté sulla lamiera della mia baracca, sobbalzai dal mio giaciglio, impugnai il mio coltello e mi diressi svelto verso l’uscio. Appena aperta la porta, con mia sorpresa, mi ritrovai davanti un cane ferito e sanguinante che cercava in tutti i modi di attirare la mia attenzione, azzannandomi la giacca e facendo di tutto per farsi seguire. Dopo un attimo di esitazione lo seguii curioso di scoprire il misterioso arcano. Il cane che avevo dinanzi, in realtà, era una cagna. Il suo pelo sporco e sanguinante era nero come la pece, le orecchie a punta e la grossa mole incutevano un po’ di timore, ma alla fine penso che avesse più paura lei di me. La pioggia forte e incessante diventava sempre più mite e dopo circa dieci minuti di cammino si era trasformata in neve bianca e fredda. La cagna ogni tanto si girava verso di me per assicurarsi che la seguissi, aveva uno sguardo sofferente ma fiero. Era fredda quella notte e dalle gole che risucchiarono il grande lago si sentivano delle grida forti e disperate. Il cane che mi precedeva aumentò il passo, a me invece aumentarono i battiti del cuore a ogni metro in più che facevamo verso la montagna che ospitava le grandi gole. A poche decine di passi dall’entrata della prima gola, quella più grande, ci fermammo di botto e con noi si arrestarono le forti grida. Con la
23 mano tremante riuscii ad accendere la fiaccola che mi ero portato appresso, mentre con l’altra reggevo il mio piccolo e affilato coltello. Il cane smise per un attimo di respirare e tese bene le orecchie a punta in direzione del rumore che fino a qualche attimo prima avevamo sentito. D’un tratto balzò dal buio una grande belva che riuscì a far cadere dalle mie mani il coltello e successivamente, con uno scatto improvviso, ad azzannare al collo il cane che, sorpreso, lanciò un ultimo grido, forte e straziante». Mosè le storie le sapeva raccontare così bene da lasciare la sua platea letteralmente imbambolata, senza fiato. Le sue lunghe pause, arricchite dalle grandi boccate di fumo del sigaro, rendevano l’atmosfera ancora più magica. Nell’aspirare, infatti, la punta del Toscano si attizzava di un rosso ardente, che gli andava a colorare il viso rugoso, i capelli biondi s’illuminavano come una lampadina al passaggio dell’elettricità. Alternava le lunghe pause a grida di stupore che facevano chiudere all’unisono le bocche dei giovani spettatori. «La belva era gigante!» esclamò Mosè spalancando le braccia al cielo. «Aveva il pelo arancione, con qualche striscia nera e una macchia bianca sulla fronte e sull’estremità della coda. Il muso era lungo e la bocca piena di denti lunghi e affilati. I suoi canini aguzzi brillavano illuminati dalla fioca luce della mia fiaccola. La cosa che mi colpì di più era il suo occhio sinistro: bianco e senza pupilla, con uno sfregio che lo attraversava da parte a parte, in quel momento capii che mi trovavo davanti al famoso Archippe, capo delle volpi. L’odore di sangue e di morte che avvolgeva la sua tana mi faceva ancor più paura delle numerose volpi che uscirono poco dopo dalle altre due gole, che composte e ferme aspettavano il momento dell’attacco di Archippe contro di me, e il successivo banchetto. La belva mi fissava immobile e mi studiava incuriosita: nessun essere umano era mai stato tanto incosciente da avvicinarsi così alla sua tana e, in cuor suo, io meritavo un po’ di rispetto prima di essere divorato. Nonostante il freddo di quella notte, la mia fronte iniziava a liberare qualche goccia di sudore. In un attimo di lucidità riuscii a notare che il coltello che mi era caduto qualche istante prima si era infilato nel buco della mia vecchia scarpa rotta, con la lama rivolta all’insù. Ebbi solo quell’attimo per pensare alla mia prossima mossa perché la volpe, che si era accorta della mia distrazione, con un balzo si catapultò verso di me, spalancando la grande bocca. Io ebbi solo il tempo di chiudere gli occhi e di sferrare con tutta la mia forza un calcio verso la belva.
24 Mi ritrovai a terra, sovrastato dalla grande volpe. Il sangue rosso carminio colorava la neve che si era posata sul gelido terreno quella strana notte di Natale ma, fortunatamente, non era il mio: era di Archippe! Ero stato fortunato perché avevo tirato un calcio così forte con il piede dove si era incastrato il mio coltello, che sentii la lama conficcarsi nella gola della bestia. Il fendente che le avevo inflitto era riuscito a reciderle la giugulare e, in meno di un attimo, riuscii a toglierle la vita e il mito che l’accompagnava». A quel punto i bambini, colti da stupore, esclamavano ogni volta un «oooh» di ammirazione, qualcuno ogni tanto batteva anche le mani, esclamando: «Sei forte, Coppola!». Questi momenti ridavano forza e vigore al vecchio Mosè, al quale la vita aveva inflitto abbastanza bastonate, e che, pian piano, come il suo sigaro, stava volgendo alla fine. «Le volpi che avevano assistito incredule alla lotta» continuò Mosè con voce altisonante, «rientrarono nelle tane, in segno di rispetto, e mi lasciarono solo insieme al mio nemico ormai sconfitto e alla mia gloria. Dopo essermi tolto di dosso il pesante animale, mi diressi all’interno della tana di Archippe dove, con immenso stupore e ribrezzo, vidi una scena apocalittica. C’era sangue dappertutto e piccoli resti di ossa e pelle sparsi nella buia e fredda caverna: era la cucciolata della povera cagna che aveva chiesto il mio aiuto. Scappai inorridito da quel tugurio per prendere una boccata d’aria fresca, quando d’un tratto sentii tirarmi l’orlo dei pantaloni. Dal buio uscì una pallina di pelo nero: era una cagnolina piccola e infreddolita che era riuscita a salvarsi dalle fauci di Archippe. Era il mio regalo di Natale e da quel giorno non ci separammo più, la chiamai Lilletta, come il marchio inciso nella lama del mio fortunato coltello Lillet». Così finiva il suo racconto il vecchio Mosè, tra lo stupore dei bambini che lo seguivano, e il fumo del suo sigaro che lentamente, salendo in cielo, si univa alle nubi della notte che sorniona lo ascoltava. Chiara non sapeva se la storia di Coppola d'Oro fosse vera o solamente un'invenzione dello zio. Però le piaceva ascoltare i racconti di Bartolomeo, e il modo in cui lo faceva.
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CAPITOLO 3
Quel giorno raccontavo a mamma e papà della squadra di football e del curioso simbolo, dello zio e di Sfinge che aveva mangiato tutto il pesce del vicino, mentre mi perdevo negli occhi di mia madre. La bella atmosfera fu rovinata dal solito rumore della campana che mi avvertiva della fine del tempo a disposizione: dovevo tornare a casa. Mentre dal giardino lo zio mi accompagnava in cucina, bussarono energicamente alla porta per tre volte. Era il modo tipico della signorina Margaret, la ragazza che ogni venerdì veniva a farmi visita. Mi piaceva, era giovane e portava sempre con sé una borsetta e uno strano cappellino attaccato al mento con un nastrino di raso viola, viola come tutto quello che indossava. Era una specie di mania, lei diceva che era contro il malocchio e io l’assecondavo ogni volta, riempiendola di complimenti. Aveva uno strano accento e a volte quando parlava si fermava per scrivere su di un taccuino foderato in pelle nera lucida. Margaret si giustificava dicendomi che si segnava le parole a lei sconosciute, visto che il suo vocabolario di italiano era ancora incompleto, poiché proveniva da un paese d’oltremare. Parlava poco la signorina Margaret, ma in compenso amava ascoltare, e questa cosa mi piaceva. L’unico momento della giornata in cui parlava, e molto, era quando lo zio ci portava il tè, rigorosamente alle cinque del pomeriggio. La signorina aveva strane abitudini, una di queste era il modo in cui prendeva il suo tè. Lei, infatti, amava berlo con il latte e questa “particolarità”, così la definiva lo zio, era una delle tante piccole stranezze che faceva Margaret, una delle pochissime persone “straniere”, se non l’unica, ad abitare nella piccola e ridente cittadina del Centro Italia. Quando finiva l’ora del tè, Margaret si faceva improvvisamente seria, mi chiedeva spesso di parlare di me e del mio giardino, del rapporto che avevo con lo zio e dei miei genitori; quel giorno, però, mi chiese gentilmente se poteva visitare il mio giardino. Dopo un attimo di esitazione, annuii, dando il mio consenso.
26 Lo zio ci accompagnò e al corteo si aggiunse Sfinge. Alla vista del giardino Margaret spalancò letteralmente i suoi piccoli occhi blu, lasciando cadere il suo taccuino ed esclamando parole a me sconosciute. «Oh, my gosh. That's wonderful!». Cercò di mantenere il suo solito comportamento da signorina d’oltremare, ma questa volta le pareva impossibile contenersi. Girava in tondo come in un valzer, allargando le braccia e lasciandosi sfuggire dalla bocca parole di apprezzamento, a volte comprensibili «bellissimi!», a volte no, «Great!». Lo zio si alzò sulle punte e mi guardò con ammirazione come se il merito di tutto ciò fosse il mio; Sfinge, invece, si limitò a guardare la signorina, leccandosi distrattamente una zampetta. Margaret si ricompose, fissò lo zio e gli chiese cortesemente di lasciarci sole. Bartolomeo fece un cenno d’assenso con il capo e assieme al gatto lasciò il giardino per dirigersi nuovamente in cucina, dove lo aspettava la comoda poltrona e la sua pipa di radica. «Allora, Chiara» disse Margaret sorridendo dolcemente, «parlami del tuo giardino. Ho visto cose sorprendenti, bellissime, ma la cosa che mi ha incuriosito di più è stato quello che tu dici essere un piccolo laghetto. Vuoi dirmi qualcosa a riguardo, please?». «Mi stupisco anch’io, ogni volta che mi specchio, come per magia nel laghetto appare un pezzetto di me. Forse è dovuto alla poca pulizia dell’acqua, il lago non è tanto grande, sembra per di più uno stagno, ma quella piccola parte di me che fuoriesce dall’acqua ogni volta non mi piace, è come se il lago capisse il mio disagio nel vedermi riflessa e ogni volta, come per incanto, mi fa sparire per poi, la volta successiva, farmi riapparire in modo diverso». Margaret la interruppe: «Ecco, piccola, è proprio questo che vorrei chiederti: perché non ti piace la Chiara riflessa nello stagno?». La risposta fu disarmante. «Perché riesco a vedere la parte oscura nascosta dentro di me, riesco a vedere le cose che voglio dimenticare e poi come ogni notte, nei miei brutti sogni, osservo gli occhi brillanti e accecanti del drago, che mi fissano e che mi portano via i miei affetti più grandi. È come se strappasse ogni volta un pezzetto del mio cuore, mi fa male, mi fa soffrire». Chiara interruppe il suo racconto, le lacrime e i singhiozzi le impedivano di parlare. Margaret cercava di farla calmare stringendola e accarezzandole la testa. «Stai calma, piccolina, non è successo niente, sono qui con te, tutto passerà!». Ai singhiozzi si aggiunse un tremolio
27 isterico e Margaret fu costretta a chiedere aiuto a Bartolomeo. Con un forte abbraccio e qualche parolina dolce e rassicurante sussurrata nell’orecchio di Chiara riuscì a farla calmare con lo stupore e l’imbarazzo di Margaret che mestamente riprese le sue cose e se ne andò. Salutò i presenti con un arrivederci sussurrato sull’uscio della porta, al quale non trovò risposta se non da uno stridulo miagolio di Sfinge che si trovava in quel momento vicino l’uscio. «Forza, piccola donna, andiamo in cucina, ho una storia da raccontarti» così Bartolomeo interruppe il pianto e lo stato di angoscia che in quel momento attraversava Chiara. I due si diressero mestamente in cucina. Mentre Bartolomeo era intento a riattizzare il fuoco Chiara gli fece una domanda che l’uomo si aspettava da tempo: «Zio, perché non parli mai dei miei genitori, perché hai litigato con loro, mi accompagni sino all'entrata del giardino e mi obblighi a rientrare al maledetto suono della campana, perché?». Bartolomeo rimase a fissare il fuoco che pian piano riprendeva ad alimentarsi e, senza voltarsi, rispose alla nipote con un filo di voce: «Vedi, Chiara, a volte la vita non va proprio nel verso giusto, prende strade strane, complicate, tua madre era la mia unica sorella e tuo padre…». Interruppe per un attimo il dialogo per riprenderlo subito dopo con voce più sostenuta. «E tuo padre era un brav’uomo. Una volta andavamo d’amore e d’accordo, fino a quando sei nata tu». Chiara rimase impietrita, spalancò gli occhi e rispose con un filo di voce: «La colpa è mia?». «Non proprio, piccola mia» disse Bartolomeo, che proseguì con il suo racconto scaldandosi le mani al fuoco. «Devi sapere che il giorno della tua nascita coincise con una data molto triste per la storia dell’umanità: fu annunciata, infatti, l’entrata in guerra del nostro Paese e tuo padre e io fummo chiamati alle armi. Non scorderò mai quel giorno, mentre io mi trovavo nella piazza del Comune, assieme a migliaia di persone, ad ascoltare il Gran Ambasciatore del Re che comunicava l’inizio della guerra, tuo padre era in ospedale, ad accudire tua madre il giorno del lieto evento. Subito dopo il discorso dell’ambasciatore, si fece un censimento per vedere quanti maschi di buona salute erano presenti in città per servire la Patria al fronte. Ogni capofamiglia doveva recarsi al Comune per fornire i dati richiesti. Io andai e sul foglio scrissi solo il mio nome, dissi che tuo padre era fuggito in Argentina anni prima, per non farlo partire».
28 Bartolomeo venne interrotto bruscamente dalla nipote: «Potevate fuggire veramente! Ho saputo che molti in quel periodo l’hanno fatto. Tu, la mamma e il papà dovevate prendere la nave e fuggire nelle Americhe! Perché ti sei comportato così?». «Volevo che rimanesse a casa con tua madre, per accudirti e farti crescere in una famiglia sana, nel nostro bel paese». «Ma papà lo sapeva? Ne avevi parlato con lui prima…prima di agire?». Bartolomeo rimase in silenzio per qualche attimo, aggrinzando la fronte. Le rughe che si formavano mostravano l’avanzare degli anni: come l’aratro spacca la terra, così la vita aveva segnato il buon Bartolomeo, lasciando segni indelebili al suo passaggio. «Naturalmente tuo padre era all’oscuro di tutto, e rimase colpito quando la settimana successiva partimmo tutti per il fronte tranne lui; io gli dissi che al palazzo comunale avevano richiesto solo una persona per famiglia, la più anziana di età, lui a stento riuscì a credermi. La Grande Guerra fortunatamente durò poco, finì nell’arco di un anno, io fui mandato in Russia, mentre tuo padre rimase a casa. Dopo qualche settimana dalla mia partenza, lui scoprì che lo avevo ingannato, come pure venne a scoprirlo la milizia del Comune che lo arrestò per diserzione. Si fece soltanto un giorno di carcere, perché fu graziato dall’indulto della morte del Papa, che proprio il giorno dopo l’arresto di tuo padre morì d’infarto. Al mio rientro non mi volle più vedere e tua madre seguì a malincuore la sua decisione». Quando Bartolomeo finì il suo racconto, Chiara era letteralmente sconvolta, e riuscì a malapena a pronunciare: «Perché?». Lo zio colpì forte il marmo del camino e urlando disse: «Perché?! Perché lo volevo proteggere! Ecco perché! Volevo proteggere lui, tua madre e te!». «Ma non avevi pensato alle conseguenze? Non avevi pensato che papà poteva avere dei problemi per questo?». «Certo» rispose Bartolomeo. «Ma era meglio la galera di un viaggio senza ritorno!». Nella stanza seguirono istanti interminabili di silenzio, il giorno aveva fatto spazio alla notte e Bartolomeo si apprestava a preparare la cena quando, all’improvviso, Chiara interruppe il silenzio: «Io ti capisco, e sono sicura che ti capirà anche lui, se solo…». «Se solo niente, Chiara, ormai è troppo tardi!». «Ma… zio, se solo venissi con me domani, papà ti capirebbe, ne sono sicura». «Basta, Chiara, volevi una risposta e te l’ho data, non chiedermi di più!».
29 «Ma… zio…». «L’argomento è chiuso!» esclamò irritato Bartolomeo che durante il resto della cena non disse una parola. Poi, una volta accesa la sua vecchia pipa, si rivolse a Chiara dicendo: «Ti ho mai raccontato della Russia? Di quando conobbi Fra Diavolo?». Chiara accennò un timido sorriso e compiacente rispose: «Sì, zio, una volta, quando ero molto piccola, ma non ricordo molto bene, mi piacerebbe ascoltarti di nuovo». Bartolomeo sorseggiò l’ultimo goccio di vino rosso rimasto nel bicchiere, fece due boccate di tabacco dalla sua amata pipa di radica e, poggiata la schiena sulla sedia, rilassato iniziò il suo racconto. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
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