MAURO SOLDANO
IL GIORNO PRIMA
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Serie BIG‐C Grandi Caratteri, lettura facilitata IL GIORNO PRIMA Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-555-7 Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Giugno 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
Le situazioni e i personaggi qui descritti sono di fantasia, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale
a Katia, Simone e Andrea
La speranza è un essere piumato che si posa sull'anima, canta melodie senza parole e non finisce mai. La brezza ne diffonde l'armonia, e solo una tempesta violentissima potrebbe sconcertare l'uccellino che ha consolato tanti. L'ho ascoltato nella terra più fredda e sui più strani mari. Eppure neanche nella necessità ha chiesto mai una briciola – a me. * (Emily Dickinson)
IL GIORNO PRIMA
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L’allontanamento La porta che si chiude alle mie spalle, il rumore sordo della blindata che s’infrange sullo stipite; un rito di tutti giorni che, però, questa volta mi lascia alquanto stranito, per‐ plesso. Fino all’ultimo ho cercato di far cambiare idea a Kristelle, ma lei è rimasta irremovibile, rigida sulle sue po‐ sizioni, certa che sia la cosa migliore per entrambi, e io, come un bambino in cerca di risposte, mi sono adeguato all’unica spiegazione fornita, senza poter obiettare nien‐ te, senza motivazioni valide da apportare alla mia tesi e senza trovare efficaci soluzioni alternative. Ho trovato as‐ surda ogni cosa, persino il dover preparare la valigia in tutta fretta, buttandovi dentro quattro cose, nel disordi‐ ne più totale, giusto per passare la notte; mi è sembrata la cosa più innaturale al mondo. Uno sguardo forse impauri‐ to, intimorito, atterrito, a fronte del suo, assolutamente gelido, in qualche modo rassicurante, ma assolutamente impenetrabile e deciso. Comunque l’amore è anche questo, il rispetto della volon‐ tà altrui al di là delle proprie convinzioni. Sta di fatto che,
10 prese le cose essenziali, abbandono quella casa forse per l’ultima volta. È una giornata di agosto, il caldo insoppor‐ tabile rende la mia dipartita ancora più sofferente. Giunto alla macchina, butto la sacca sui sedili posteriori, metto in moto e mestamente mi allontano dal parcheggio. Un ul‐ timo sguardo al balcone di casa, giusto in tempo per scorgere lei, dietro la tenda della porta finestra del salot‐ to, intenta a osservare i miei movimenti, quasi ad accer‐ tarsi della veridicità delle mie parole e della promessa di andarmene. Comincio così l’ennesimo viaggio verso casa dei miei geni‐ tori, un tragitto tutto sommato breve, una decina di mi‐ nuti al massimo, che in questa circostanza sembrano du‐ rare un’eternità. Ripenso alle sue parole, dure come la roccia: «Vattene dai tuoi!». Un imperativo che non accettava repliche. Era risoluta, come poche altre volte l’avevo vista. Separarci dopo tan‐ to tempo era davvero terribile. Dopo tanti anni, dormire divisi era illogico e insolito. La decisione era stata presa la sera prima e a me comunicata la mattina seguente. Ecco, forse una decisione presa troppo in fretta, senza neanche discuterne. Oramai poco importava, io me ne ero andato. Domani sarebbe stato tutto diverso. Il nostro rapporto, così come lo avevamo conosciuto fino a stamattina, era
11 finito per sempre. Chiesi consiglio a mia madre, le do‐ mandai se era giusto rispettare la sua scelta, il senso di tutto questo, e lei mi rispose che davanti a certe argo‐ mentazioni è inutile insistere. Se la amavo, dovevo rispet‐ tare il suo volere. Comunque sia, guidando alla velocità di crociera di una barca a vela in assenza di vento, accompa‐ gnato lungo il percorso da una sinfonia di clacson che gli automobilisti elegantemente usano per indicarmi il cam‐ mino che porta “A QUEL PAESE”, giungo infine presso l’abitazione dei miei cari genitori.
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Casa dei miei Parcheggiata la vettura, sulla soglia del portone che dà sul cortile condominiale, ad attendermi trovo mia madre, ar‐ mata di un sorriso che per qualche istante cancella ogni mio dilemma. Il sorriso di mia madre è sempre stato ma‐ gico, una forza della natura, così carico di amore da scal‐ darmi anche nei momenti più bui della mia vita. Una don‐ na nata per essere mamma. Sicuramente troppo appren‐ siva, ansiosa, ma così piena di amore da non farti mai sen‐ tire solo; un amore senza luogo e senza tempo, senza ma e senza perché. Sentimento nutrito in egual misura anche nei confronti di mio padre, suo unico e grande amore; un sentimento assoluto questo, a tratti devastante, che per molti anni, inevitabilmente, influenzò il mio modo di ap‐ procciarmi all’altro sesso. Contrariamente alle valutazioni adolescenziali dove un amore del genere era l’esempio principe da seguire, con il tempo avevo imparato a farne una disamina critica, comprendendo i limiti del rendere qualcuno il tuo tutto, dimenticando la propria persona, le proprie esigenze, il proprio volere, afferrando l’enorme
13 insicurezza che si celava dietro quest’atteggiamento; ma era la sua vita e, se possibile, evitavo con forza di espri‐ mere giudizi, di commentare: quello che è giusto per me, non necessariamente doveva esserlo per lei. Rimaneva la donna più importante della mia vita e vederla era sempre una gioia immensa. Le vado incontro e lei si offre di aiutarmi prendendo la va‐ ligia; in altre circostanze non avrei mai acconsentito, ma vista la dimensione e il peso, e la mia poca voglia di porta‐ re altri carichi, accetto. Il condominio dei miei è stato co‐ struito negli anni ‘70, struttura vecchia ma non vecchissi‐ ma, posto in pieno centro. L’appartamento è situato al pian terreno, piccolo, circa settanta metri quadri, ma in cui avevamo comunque vissuto comodamente in quattro. Un lungo e largo corridoio inutile, viste le dimensioni dell’abitazione, che attraversa le camere fino al bagno si‐ tuato in fondo e, sulla destra, con una disposizione quasi da caserma, s’incontra nell’ordine: la cucina, la sala, la camera di mamma e papà, appunto il bagno e, sulla sini‐ stra, un piccolo ripostiglio. In adolescenza, in effetti, mi era un po’ mancata una camera tutta mia, da condividere al massimo con mio fratello Giancarlo, ma con il tempo avevo smesso di dargli importanza. E’ pomeriggio inoltra‐ to quando finalmente riesco a sedermi sul divano letto
14 della sala che, visto l’esiguo spazio a disposizione, aveva sempre fatto da camera per me e Giancarlo. Mia madre mi domanda se ho qualche preferenza per la cena, ma io, non avendo una gran voglia di mangiare, le rispondo che eventualmente, sul tardi, mi sarei preparato qualcosa da solo. Chiedo di non essere disturbato e chiu‐ do la porta della stanza per rimanere solo con me stesso a riflettere; la mia mamma comprende il momento e con il suo solito sorriso mi ricorda che, nel caso, per qualunque necessità, sarebbe bastato chiamarla. Ed eccomi qui, dunque! È passato quasi un lustro, eppure sembra ieri. Tornare a casa dopo tanto tempo mi inonda di ricordi. Quando decisi per la convivenza con Kristelle, mai mi sarei immaginato di dover tornare un giorno in questi luoghi, tanto meno in una circostanza simile. Prima di lei, in nessuna occasione avevo sentito l’esigenza di la‐ sciare casa dei miei per dividere il quotidiano insieme con un'altra persona, eppure quando la incontrai, dopo un breve periodo di fidanzamento, rendere concreta quest’opportunità mi era sembrata la cosa più ovvia e na‐ turale da fare. Non c’è mai stato un solo giorno in cui io mi sia pentito di questo, mai! A ogni modo, adesso sono qui, intento a osservare la mia stanza come se fossero passati secoli, e con lo spirito di Indiana Jones mi guardo intorno, quasi fossi circondato da reliquie d’inestimabile valore,
15 oggetti che ai miei occhi rappresentano la storia dell’uomo, anzi, di un uomo, la mia. Ogni oggetto è legato a un periodo particolare o a una persona speciale. Il mio armadio è rimasto semivuoto, la libreria contiene ancora qualche libro, ma la maggior par‐ te delle mie cose è rimasta a casa con Kristelle. Il senti‐ mento che prevale è certamente la malinconia. Il mio pas‐ sato si confronta con il futuro, prendendo il sopravvento. Tutte le mie speranze, le mie delusioni, i momenti gioiosi e quelli più cupi, mi assalgono d’improvviso, lasciandomi in preda a mille pensieri, ognuno a suo modo importante. Alla malinconia, ogni tanto, subentra la paura, quella det‐ tata dal timore di cosa mi riserverà l’avvenire, ma l’incertezza dura un attimo. Il problema è che in amore non c’è mai sicurezza: è sempre tutto un rischio, che il tempo, volenti o nolenti, chiarirà. Certo, Kristelle mi man‐ ca moltissimo, ma domani sarà un altro giorno, una nuova alba e un nuovo tramonto, e forse i miei dubbi saranno sostituiti da nuove convinzioni, o viceversa. E così, osser‐ vando quella che fino a qualche anno fa era casa mia, con l’attenzione di un operatore della polizia scientifica che si accinge a ispezionare la scena di un crimine, passando dal generale al dettaglio, riscopro a mano a mano quanto del mio passato sia ancora lì presente.
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La valigetta da DJ In fondo alla stanza, sotto il mobile su cui è appoggiato il televisore, un vecchio trentadue pollici a tubo catodico marcato Saba, esemplare da museo che davvero rappre‐ senta oramai un cimelio dei tempi che furono, c’è ancora la mia valigetta da dj. Ho sempre avuto la passione per la musica e diventare disc‐jockey, all’epoca, fu la realizzazio‐ ne di un sogno, sebbene solo per un breve periodo; l’andamento scolastico aveva costretto i miei a sospende‐ re questo mio svago in attesa di risultati migliori. Amavo la musica, amavo mixarla, sovrapporre un disco a un altro facendo coincidere il battere e levare della batteria di en‐ trambi i pezzi, riuscendo così a cambiare brano nella più esatta e perfetta continuità. Passavo le serate vicino alla cabina del dj, osservando il mio guru compiere il mix co‐ me un adepto osserva il suo gran maestro eseguire un ri‐ tuale sacro. Invidiavo il protagonista di turno, padrone della console, seppur nell’assoluta consapevolezza che un giorno, presto o tardi, sarei stato al suo posto. Chieste due dritte al mio amico Stefano, dj di lunga esperienza, sul come riconoscere i quattro quarti di un pezzo, dove e
17 come conteggiare le battute, in che modo usare il poten‐ ziometro per adeguare l’andamento dei due brani, in‐ somma, le basi per cominciare, domandai ai miei genitori di acquistarmi due piatti e un mixer per fare pratica in ca‐ sa. Dopo innumerevoli pianti e promesse, comunque mai mantenute, si convinsero e per i miei sedici anni mi rega‐ larono il tutto. Investito un cospicuo gruzzolo presso il negozio di musica di fiducia per avere i quarantacinque mix più in voga al momento, passai interi pomeriggi a di‐ lettarmi nella ricerca del mix perfetto, allietando l’apparato acustico dei miei vicini, che non persero occa‐ sione per esprimere il loro apprezzamento di cotanto vo‐ lume nelle riunioni condominiali: poveri genitori! La primavera seguente trovai lavoro in un locale di mon‐ tagna in qualità di assistente al dj. In parole povere, mi avevano dato la possibilità di fare quello che facevo pri‐ ma, ovvero guardare, ma da una diversa prospettiva, dall’interno cabina anziché dall’esterno. Questo era un grande salto per me; sì, di circa un metro di altezza, quello della porticina tipo saloon di accesso alla console! Scherzi a parte, ciò rappresentava una grande opportunità, che sfruttai al massimo per carpire tecnica e segreti dal dj più anziano; aggiungiamo che, anche come secondo, il solo fatto di stare in cabina ti dava quella popolarità che a quell’età aveva comunque la sua importanza. Durante
18 una serata, credo fosse un venerdì, forse anche grazie all’alcool tracannato dal dj, mi fu offerta la possibilità di mettere un paio di dischi. L’emozione era enorme, il cuore mi batteva all’impazzata, quasi volesse uscire fuori e dir‐ mi: “Aho’, se non ti senti, lascia stare, altrimenti qui salta tutto!” I dischi erano già pronti, dovevo solo mixarli. Ecco che in cuffia ho il brano da passare al termine di quello in ascolto nella sala, scelgo l’inizio della battuta, lo faccio partire, il disco è troppo veloce, con maestria lo rallento utilizzando il potenziometro, le battute dei due dischi sono quasi u‐ guali, rallento ancora un po’ esercitando una leggera pressione con il dito sull’esterno del piatto, aumento leg‐ germente quello trasmesso in pista e… voilà, ci siamo: i due dischi stanno andando all’unisono. E’ il momento: al‐ zo il cursore del disco che sto lanciando, le battute sono regolari, il cambio sembra perfetto, i due pezzi sono so‐ vrapposti ma nessuno si accorge di nulla. Finalmente pos‐ so escludere il quarantacinque mix oramai alla conclusio‐ ne per lasciare spazio interamente a quello nuovo, abbas‐ so il cursore del disco in uscita ed ecco: il mix è riuscito a meraviglia. Dentro di me immagino un’ovazione, una standing ovation degli astanti, sto toccando il cielo con un dito. Bene, è ora di passare al prossimo brano. Adesso bi‐ sogna togliere il disco finito per porre il secondo scelto
19 per me dal dj. Eccomi dunque, con estrema naturalezza, come se avessi fatto solo quello tutta la vita, sollevare la puntina del disco oramai finito e… un brivido mi gela dalla testa ai piedi. Lo sguardo feroce e lo sbigottimento della clientela mi fanno subito pensare al peggio. Perché quello sguardo truce dopo il bellissimo cambio appena fatto? Un silenzio spettrale riempie il locale… Un silenzio assordan‐ te, ben più rumoroso del peggior pezzo di techno in voga al momento. Ma perché tutto questo silenzio? In preda al panico comincio a comprendere l’arcano mistero. Il silen‐ zio ha riempito anche la cabina, il dj al mio fianco mi os‐ serva come farebbe un maestro con l’alunno peggiore che gli sia mai capitato; avesse avuto un’alabarda a porta‐ ta di mano, sono certo che avrebbe saputo farne buon uso. Io guardo il disco, la puntina e realizzo: avevo appena alzato la puntina dal brano che stavo trasmettendo in pi‐ sta, non c’era più musica! In preda al panico lancio il brac‐ cio del giradischi nuovamente sul disco e, dopo un sinistro rumore, quello trasmesso al trasduttore dalla puntina in diamante che si scaglia brutalmente sul vinile, la musica riprende normalmente. Non vi era profondità adeguata per potermi nascondere agli occhi di tutti, mi arrangiai con un sorriso di circostanza verso i clienti e poi, guar‐ dando con aria smarrita il mio tutor, lo pregai di riprende‐ re subito i comandi; il copilota aveva estremo bisogno di
20 uscire dalla cabina, cambiando magari residenza, nome e cognome, e quanto necessario per non farsi riconoscere. Riparlammo spesso dell’accaduto, ridendoci sopra: era stato il mio battesimo del fuoco e peggio di questo diffi‐ cilmente mi sarebbe ricapitato. Rimasi lì per un mese inte‐ ro, dopodiché si materializzò davvero l’occasione della vi‐ ta. In concomitanza con l’apertura di una nuova discote‐ ca, i gestori stavano cercando un dj, senza però voler spendere grosse cifre, evitando quindi il cachet tipico di un esperto. Al proprietario fu suggerito il mio nome dal dj stesso che stavo accompagnando nelle serate, immagino per la bravura e il basso costo, e non solo per togliermi di mezzo. Ebbi così la possibilità di dilettarmi ai piatti per quasi due mesi. Il periodo trascorse serenamente, feci e‐ sperienza, nessun errore clamoroso ma, come detto, i ri‐ sultati a scuola non furono soddisfacenti e i miei mi inti‐ marono di smettere. Non avendo scelte, obbedii e accan‐ tonai i miei sogni di gloria. Ripresi con le discoteche e la movida notturna qualche anno dopo, ma con altri incari‐ chi. Verso i ventiquattro anni mi si ripresentò l’occasione di trovarmi davanti a una console: alcuni amici mi chiesero di mettere musica nel privé di una nuova discoteca, misce‐ lando un altro genere, anni ’80, e non più la commerciale del momento. Tutto bene, la gioia era sempre molta, ma dopo alcune settimane il locale prese fuoco; non scherzo,
21 prese fuoco! La ciliegina sulla torta, nella circostanza, de‐ rivava dal fatto che i piatti in cabina erano i miei, quelli ac‐ quistati a suo tempo da mio padre. Visti gli sviluppi, decisi che quella era l’ultima volta in cui mi sarei avvicinato a un mixer. Ecco dunque, dopo molti anni, ripresentarsi a me la vali‐ getta da dj, nel suo splendido color argento. Mi avvicino, la apro e vedo all’interno tutti i miei dischi, ancora siste‐ mati in ordine crescente, quello dettato, ai tempi, dalla scaletta di una mia serata tipo. Si partiva dai brani com‐ merciali, i più ballati, passando poi a una serie di lenti (in‐ credibile come passa il tempo: parlarne adesso a un ado‐ lescente significa rievocare un antico rituale di qualche ci‐ viltà oramai persa nella notte dei tempi), e terminando con una serie di pezzi appartenenti ai cult della musica (penso agli U2, i Dire Straits, i Pink Floyd, Aretha Franklyn e via dicendo). Passo in rassegna questi quarantacinque giri mix e penso con allegria alle serate in discoteca, sele‐ zionando musica, con la speranza che le mie scelte rispec‐ chiassero quelle degli avventori, così da riempire “the dancefloor”. Sembra passata un’eternità, eppure sono appena dieci anni. Questa bellissima esperienza mi è rima‐ sta dentro e, quando posso, la esibisco tuttora come un fiore all’occhiello. Mi metto allora a sfogliare le copertine, ascoltare qualche pezzo di moda ai tempi, e ricordare.
22 Nella mia opera di rispolvero, frugando nell’armadio, tro‐ vo una maglietta acquistata durante la settimana passata ad Amsterdam in quinta superiore.
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Il viaggio ad Amsterdam Un viaggio bellissimo, sudato, giacché ai tempi quella era una meta temuta, tanto dal corpo docenti quanto dalle famiglie, e mai sperimentata; si pensava subito alle dro‐ ghe legalizzate, e perciò ci vedevano già tutti quanti sbal‐ lati, in preda a strane allucinazioni, magari intenti a fare un giro per il quartiere a luci rosse; insomma, il non plus ultra per tranquillizzare i genitori! Invece la gita fu straor‐ dinariamente divertente senza mai eccedere in strane tentazioni. Una sera, comunque, il tour per vedere le ra‐ gazze in vetrina lo facemmo e, malauguratamente, fu an‐ che il luogo dell’unico episodio negativo che avvenne. Piccola premessa: eravamo stati già edotti dalla guida sul fatto che nel quartiere a luci rosse, in mezzo a tanti sballa‐ ti, capitava spesso di incontrare anche alcuni italiani, per cui, se possibile, ci era stato raccomandato di non farci ri‐ conoscere in quanto loro connazionali, onde evitare spia‐ cevoli situazioni. Quella sera uscimmo in cinque o sei e, prima di addentrarci in questa famigerata zona del sesso libero, decidemmo di parlare a bassa voce e di cambiare
24 lingua e parlare in francese o al massimo in inglese se fos‐ simo stati fermati da qualcuno. Presi dalla curiosità, impa‐ vidi di fronte a ogni eventualità nefasta che si sarebbe presentata, cominciammo ad addentrarci in questi luoghi. Lungo il tragitto, a metà di una strada secondaria, fummo fermati da un soggetto che… già solo il suo aspetto era tutto un programma: pupille dilatate, equilibrio precario, frasi disconnesse, abiti dismessi, ecc... Dopo un minimo di convenevoli, l’uomo mi chiese da accendere. Memore di quanto ci eravamo appena detti, tenuto conto che oltre alla sigaretta il simpatico personaggio, tra le dita, teneva un accendino, in un inglese maccheronico risposi: «Sorry, I don’t understand». Insistette per qualche istante ma, ca‐ pito che con me non attaccava, cambiò soggetto e si di‐ resse dal mitico Roberto. Costui era un gran bravo ragaz‐ zo, il classico pezzo di pane, molto religioso, che di fronte a una pecorella smarrita non seppe resistere. Non solo gli diede da accendere, ma gli raccontò la nostra vita, dove alloggiavamo, da dove venivamo… venne fermato in tempo prima che gli desse anche i nostri codici fiscali. Ac‐ cesa la sigaretta, il losco figuro si allontanò repentina‐ mente. Ci sembrò di averla scampata e, schernito per qualche istante il nostro compagno di classe, continuam‐ mo il cammino. Arrivammo in fondo alla strada, svoltam‐ mo a destra, e ci ritrovammo finalmente nel tanto ago‐
25 gnato Quartiere. Sulla nostra destra si trovava il fiume Amstel, che attraversa tutta Amsterdam. Sulla sinistra, una serie di appartamenti che in verità sembravano nego‐ zi: una bella vetrina illuminata e all’interno delle simpati‐ cissime signorine parecchio svestite che ammiccavano al tuo indirizzo continuamente. Dato per certo che nessuno di noi fosse Brad Pitt, questo stava a indicare il raggiun‐ gimento del nostro obiettivo. Il nostro sguardo, una volta a destra e un’altra a sinistra, era continuamente attirato da dolcissime fanciulle che in abiti succinti facevano leva sul nostro testosterone, nella maggior parte dei casi rag‐ giungendo lo scopo. Bellissime donne, davvero, tanto che spesso veniva spontaneo chiedersi cosa potesse mai aver‐ le portate a intraprendere il mestiere più antico del mon‐ do. Comunque sia, in preda agli ormoni, durante una di‐ squisizione assai seria sulla mancanza di un luogo simile nei nostri confini, focalizzammo immediatamente la no‐ stra attenzione su un gruppetto che con fare alquanto so‐ spetto ci stava venendo incontro lungo la via. Qualche i‐ stante di titubanza dopodiché, riconosciuto uno di loro, capii subito quanto stava per accadere. Sì, era lo stesso personaggio appena lasciato alle nostre spalle, l’italiano in cerca di contatto umano con cui Roberto aveva amabil‐ mente conversato. Il nostro gruppo era leggermente di‐ sunito, così questa giovane e simpatica combriccola con‐
26 centrò le sue attenzioni solo su uno di noi, in sostanza cir‐ condandolo: il sottoscritto. Realizzai subito il possibile evolversi della situazione, ma purtroppo non avevo via di uscita. Non mi feci intimidire, li affrontai a viso aperto, a‐ spettando la loro mossa, che non tardò ad arrivare: «Dacci tutti i soldi che hai!». Li guardai con aria di sfida, quasi a voler far capire che non avevano di fronte uno sprovve‐ duto, uno che da sempre fronteggia situazioni del genere; se non altro speravo ci credessero almeno loro! Ahimè, i miei sogni di gloria si infransero contro la determinazione di uno di loro, sì, sempre lui, che con fare alquanto autori‐ tario puntò una siringa al mio indirizzo, ribadendo il con‐ cetto appena espresso, dietro la minaccia di una quanto mai odiosa puntura di quell’appariscente ago, terminale di uno strumento decisamente terrificante se vista al di fuori di un ospedale. A quel punto, mi guardai intorno, speran‐ do di trovare aiuto nei miei compagni, ma faticai a distin‐ guere le loro figure vista l’enorme distanza che ci separa‐ va: in pochi istanti avevano già percorso alcune centinaia di metri, roba che neanche un centometrista professioni‐ sta sarebbe riuscito a stargli dietro. L’unico profilo che ri‐ conobbi e che si fermò a prestarmi soccorso fu quello di Roberto, che sciaguratamente attirò su di sé la metà dei miei interlocutori, rimanendo anch’egli vittima delle circo‐ stanze. Svuotai il portafoglio, dando loro circa settanta
27 fiorini ma, non contenti, mi chiesero, giustamente, anche gli spiccioli: mai lasciare le cose a metà, come dar loro tor‐ to. Vittima della stessa situazione, Roberto diede loro quanto aveva con sé, e alla fine i nostri cari compatrioti si dileguarono. Immediatamente dopo, non sapendo se es‐ sere furioso con i compagni di classe o con gli artefici di questa rapina, in preda a una crisi nervosa, decisi di torna‐ re in albergo. L’accaduto non tolse splendore alla settimana trascorsa in quella meravigliosa città. Ebbi modo di conoscere l’Olanda con i suoi incredibili paesaggi, i paesini con le abi‐ tazioni di legno, i fiori e i mulini, emblema di questi posti. Sì, è stato un viaggio bellissimo, assolutamente da ripete‐ re. Un appunto: Roberto diventò il mio migliore amico e lo è tuttora. Comunque sia, Amsterdam rappresenta uno dei mille ri‐ cordi legati alle scuole superiori. Furono tutti anni pregni di emozioni e ilarità. Di vicende da narrare ce ne sarebbe‐ ro un’infinità, ma fu tutto quel ciclo scolastico a essere speciale, tra cui anche l’incredibile intesa con i professori, perfino con quelli più temuti. Si era instaurato un rappor‐ to quasi familiare. A partire dal primo anno e a salire fino al quinto, quegli anni videro anche la mia crescita come persona. Cominciai in sordina, timoroso di tutto, e finii per essere il rappresentante di istituto per gli ultimi tre anni, il
28 crocevia di ogni avvenimento scolastico organizzato dagli studenti, scioperi compresi. Il dover ripetere i primi due anni, a conti fatti, mi aveva dato la possibilità di crescere, di diventare più sicuro. Ero una barca sempre con il vento in poppa ma senza timone, mi facevo trasportare dagli eventi, dagli istinti, senza pormi troppe domande; ai tem‐ pi mi era ancora permesso. Faccio tuttora fatica a capire l’acrimonia con cui alcuni miei compagni ricordano lo stesso periodo. A ogni modo, riprendo il mio viaggio a ri‐ troso nel tempo, ed è così che, proseguendo il mio tour nella camera, rovistando nella libreria, mi imbatto in un al‐ tro ricordo eccezionalmente fresco nella mia mente: una pila di libri usati risalenti al periodo universitario.
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L’università Frequentai i primi due anni della facoltà di economia e commercio, ma senza grandi risultati. Ottenuto il diploma di ragioniere, credo più per anzianità che per merito, vista l’età di alcuni professori quasi coetanei, insistetti fino alla morte con i miei per darmi la possibilità di provare con l’università. Gli scarsi risultati delle superiori suggerivano tutt’altro, ma l’idea di non poterci provare mi sembrava un’ingiustizia; in verità, anche la poca voglia di fare il ser‐ vizio di leva, all’epoca ancora obbligatorio, e la altrettanto poca voglia di lavorare avevano avuto il loro bel peso. Nonostante i grossi sacrifici ai quali dovettero sottostare per il mio mantenimento, mamma e papà, anche questa volta, non mi negarono la chance. Trovai un appartamen‐ to vicino alla stazione e tre coinquilini (Piero, Danilo e Claudio) con cui dividere le spese. Due di loro, Danilo e Piero, erano amici di lunga data, il secondo in particolare che si era diplomato insieme a me, stessa classe; il terzo, Claudio, lo conobbi per l’occasione e fortunatamente an‐ dammo subito d’accordo. L’unico che frequentava lo
30 stesso mio ateneo era Danilo, gli altri due ragazzi avevano scelto facoltà umanistiche. Era la prima volta che andavo a vivere da solo e la curiosità era incredibile. Fare la spesa, le bollette, preparare da mangiare, tutte novità che mi af‐ fascinavano. I primi mesi cercai di fare l’allievo “quasi” modello, frequentando le lezioni il più possibile, prenden‐ do appunti, comprando libri e, saltuariamente, studiando. La facoltà per il primo anno prevedeva una serie di corsi che si tenevano presso una struttura a circa quarantacin‐ que minuti di tram da casa mia; bisognava attraversare quasi interamente la città. Siccome la lezione cominciava alle 08.00, vista la distanza, tenuto conto che i più anda‐ vano a occupare i posti già dalle 07.00, la mia sveglia era costantemente puntata alle ore 06.00. Impensabile per uno come me che ha sempre odiato alzarsi presto la mat‐ tina e che comincia a prendere coscienza e a connettersi con il mondo esterno non prima delle 11.00! Ciononostante, i buoni propositi ebbero il sopravvento, almeno inizialmente. Le prime settimane tutto si svolgeva in una perfetta sincronia. Sveglia presto, colazione, doc‐ cia, vestiti, sacca, e via alla fermata ad aspettare il mezzo pubblico. L’attesa variava di volta in volta, ma bastava perdere per qualche istante quello appena passato che ti toccava rimanere lì per altri venti minuti, magari d’inverno, al freddo. Questa grande aspirazione da stu‐
31 dente esemplare andò, però, scemando con il tempo. Complice forse un’evidente difficoltà nell’affrontare le le‐ zioni di certe materie, in alcuni casi mi chiesi se si stesse parlando la stessa lingua, o forse la mia pigrizia mattutina che si stava acuendo, la regolarità della mia routine andò via via modificandosi. Inizialmente la sveglia rimase tale, come tutto il resto, ma alla fermata, se saltavo il tram ap‐ pena passato, la mia soglia di attesa si abbassava dai due agli zero minuti. In breve, mi giravo e tornavo di corsa nel lettone ancora caldo. Il susseguirsi delle giornate non fa‐ ceva altro che aumentare questa mia scarsa predisposi‐ zione alla frequenza in aula. Le serate a casa nostra, spes‐ so teatro di grandi partite a poker, di cene alle quali se‐ guivano spettacolari prosiegui in discoteca, aggravarono la situazione e fu così che la sveglia alle 06.00 dopo qual‐ che mese diventò un lontano ricordo, almeno per me. I miei coinquilini, da ragazzi seri e coscienziosi, diedero sempre e comunque la priorità agli studi, e così la mattina mi capitava spessissimo di ritrovarmi da solo in casa. Stu‐ diavo poco o niente, ma in compenso avevo imparato a preparare da mangiare in maniera strabiliante; in conclu‐ sione, ero diventato più uno pseudo casalingo che un possibile laureando. Qualche esame, comunque, lo dovetti dare, ma la mia ta‐ bella di marcia non dipendeva dal piano di studi quanto
32 dal minimo necessario per poter poi chiedere il rinvio mili‐ tare causa università. Il gioco durò solo un paio di anni, poi papà mi obbligò a cercarmi immediatamente un lavo‐ ro. Un biennio mirabolante, avvincente, interessante, così come tutte le persone che ebbi l’occasione di conoscere, alcune delle quali sento ancora oggi e con cui, nel tempo, ho stabilito un bellissimo rapporto. Erano gli ultimi istanti della mia lunga e beata adolescenza, di lì a poco sarebbe cominciata la vita da adulti, il militare, il lavoro e le tanto temute, e rinviate, responsabilità. L’unico rimpianto rima‐ ne di aver inciso pesantemente sul bilancio familiare, sen‐ za dare grossi risultati: l’immaturità, ai tempi, regnava so‐ vrana. Abitualmente non mi pento mai di nulla, episodi positivi e negativi mi hanno portato a essere quello che sono oggi, e ne vado orgoglioso. Però gli studi, a poste‐ riori, li avrei terminati.