Il Lupo e il Drago

Page 1


In uscita il 31/3/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine mrzo e inizio aprile 2017 ( ,99 euro)

AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.


MARTINA MESAROLI

IL LUPO E IL DRAGO

www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com

www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/

IL LUPO E IL DRAGO Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-082-1 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Marzo 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A Davide, Sara e Nadia, che amo con tutto il mio cuore.



5

CAPITOLO 1

Tutto ebbe inizio con la consapevolezza. La consapevolezza che il mio primo, vero amore non avrebbe mai ricambiato i miei sentimenti, o almeno era quello che pensavo allora. Facevamo parte dello stesso gruppo e lui, ai miei occhi di innamorata, appariva come un cavaliere senza macchia e senza paura, l’atleta sul gradino più alto del podio. Bello come nessun altro ragazzo, perfetto come il sole che sorge dopo una lunga notte senza luna. Fu Amore, il primo e indelebile, quello che non si scorda mai. Era più grande di me di cinque anni e, a quei tempi, la nostra differenza d’età era una distanza incolmabile, abissale. Ve lo immaginate un ventenne che si fa vedere in giro, magari mano nella mano, con una quindicenne? Io sì, lo immaginavo benissimo, mentre lui e il resto della compagnia assolutamente no. Nonostante questo, non persi le speranze e cercai in tutti i modi di farmi amare da lui, talvolta anche annullando me stessa. Volevo solo stargli accanto ed essere accettata, ma tutto quello che facevo aveva solo l’effetto di allontanarlo sempre di più. Naturalmente, come sempre accade in queste circostanze, arrivò il giorno in cui tutti i miei sogni e le speranze andarono in frantumi. Lo vidi arrivare, sorridente, mano nella mano con un’altra e fu in quel preciso istante che sentii il mio cuore andare in mille pezzi, come se fatto di porcellana. Capii subito, lo capii dal modo in cui si guardavano, che stavano insieme e che per me non c’era e non ci sarebbe mai stata nessuna possibilità. Come credo sia comprensibile, soffrii molto, come si può soffrire solo dopo il primo amore e la fine della sua dolce e dorata illusione. Continuavo a chiedermi: «Perché ha scelto lei e non me?», «Cosa c’è di così sbagliato in me?».


6 Quello che però non riuscivo proprio ad accettare era il fatto che la ragazza in questione, sì, proprio così, la ragazza in questione, perché mi rifiutavo perfino di pensare a lei con l’appellativo di “fidanzata”, non era né bella né intelligente. Era in verità soltanto una stronzetta ipocrita che ronzava intorno a tutti con quell’odiosa aria da smorfiosa tanto odiata dal gentil sesso, ma che allo stesso tempo faceva impazzire tutti gli uomini del mondo. Piansi tanto e troppo a lungo, era come se una parte di me si fosse spezzata e avesse trovato rifugio in un angolo buio e remoto, giù in fondo all’anima, magari in attesa del giorno in cui avrei permesso a qualcuno di vederla, di capirla, di amarla; anche se sarebbero dovuti passare anni prima che questo succedesse. In quel momento ero consapevole solo del dolore che provavo e del mio cuore spezzato. E del rancore che ovviamente bruciava nei confronti della mia nemica. Tutto il resto, be’, aveva perso importanza. Pensandoci a posteriori, forse fu proprio quella sofferenza che fece scattare qualcosa dentro di me, come la serratura di un meccanismo di difesa. Dico questo perché non passò molto tempo da quando li vidi insieme che iniziai a fare un sogno ricorrente. Vi è mai capitato di dover andare da qualche parte e non riuscire ad arrivare? Ecco, io dovevo raggiungere Lui, dovevo incontrarlo a ogni costo, forse per dirgli addio, forse per dirgli che lo amavo ancora, non saprei. Sta di fatto che non riuscivo mai a raggiungerlo. Entravo in un buio e lungo tunnel del quale non si scorgeva la fine, poi mi svegliavo, con il cuore che batteva all’impazzata, la fronte madida di sudore. Era così tutte le notti e presto, quando mi resi conto che ormai quel sogno faceva in un certo senso parte della mia vita, cominciai a chiedermi cosa mi impedisse di raggiungerlo. Forse era solo il mio inconscio che cercava di farmi capire che la realtà era in contrasto con quello che desideravo, tuttavia non sono mai riuscita a saperlo con certezza. Poi, all’improvviso, una notte successe l’inaspettato e la mia volontà ebbe il sopravvento sugli eventi del sogno. Anche se tutto mi remava contro, io continuavo ad andare avanti, con una caparbietà che non sapevo di avere. Entrai nel tunnel e più l’oscurità mi avvolgeva, più mi scoprivo decisa a trovare la luce, a superare quel cunicolo di tenebra che per me era stato sempre un limite invalicabile.


7 E la luce arrivò improvvisa, inaspettata. Meravigliosa. Mi ritrovai a sorvolare una valle bellissima e surreale. Planai dolcemente sull’erba ovattata, sospinta da un vento leggero, e cominciai a camminare verso un gruppo di case isolate che s’intravedeva sul fondo della valle perché, nonostante non vi fossi mai stata, conoscevo quel posto alla perfezione. Sulla strada che stavo percorrendo, incontrai un ragazzo seduto su un tronco. Aveva qualcosa di familiare, c’era qualcosa nell’espressione dolce e serena del suo viso che mi fece sentire al sicuro. I nostri occhi s’incrociarono. Il suo sorriso si spense. «Chi cerchi» disse, «ti sta aspettando!» Ci fissammo per qualche secondo, poi, dopo aver strappato un filo dell’erba che cresceva lungo il ciglio della strada, scomparve. Guardai lo spazio vuoto davanti a me e senza perdere altro tempo, con un senso d’angoscia che all’improvviso aveva cominciato a farsi largo nel mio cuore, cominciai a correre. Solo che più correvo, più il paesaggio intorno a me iniziava a mutare: dove prima c’era una discesa, ecco che compariva una salita, dove c’era una distesa d’erba soffice, ora c’erano alcune colline di cubi colorati che si alzavano e si abbassavano come i pistoni di un motore. Quello che però mi lasciò maggiormente perplessa furono gli ostacoli che apparvero all’improvviso lungo la strada. Grossi massi, alberi abbattuti, addirittura un fossato pieno d’acqua che però, nell’impeto della corsa, riuscii a oltrepassare con un solo, lunghissimo salto. Più ostacoli incontravo sul mio cammino più la mia determinazione si faceva forte e alla fine lo vidi. Se ne stava in piedi, con il viso rivolto a quella che a me sembrava una rimessa per gli attrezzi. Gridai il suo nome con tutto il fiato che mi era rimasto in gola, iniziai addirittura a muovere le braccia per farlo voltare nella mia direzione. Lui mosse la testa, mi guardò e sorrise e mi si sciolse il cuore. Gli corsi incontro, gettandomi tra le sue braccia per poi baciarlo, così come avevo sempre sognato fare. Lui barcollò un istante, poi ricambiò l’abbraccio baciandomi. «Ti amo, ti amo tanto! Ti amo ancora, sempre!» continuavo a ripetere commossa fino alle lacrime per quell’incontro che avevo atteso e desiderato così tanto. Mi guardò dolcemente mentre il paesaggio cominciava lentamente a sbiadire.


8 «Lo so, l’ho sempre saputo» confessò per poi baciarmi di nuovo. Queste furono le sue ultime, e uniche, parole perché dalla notte successiva non lo sognai più. Finalmente avevo trovato il mio equilibrio, ero riuscita ad accettare il fatto che lui avesse scelto un’altra e non me. Solo in quel momento mi resi conto di essere veramente libera, libera dai fantasmi del passato. Libera di andare avanti per la mia strada, anche se Lui non era più al mio fianco, anche se, in verità, non lo era mai stato. Era una consapevolezza amara, difficile da digerire, ma mi era stata tuttavia utile per crescere e correggere certi atteggiamenti dettati da un cuore adolescente. A volte, quando mi capita di ripensare a quel periodo, sorrido nel ricordare com’ero, così diversa dalla donna che sono diventata. Ero incosciente, soprattutto nel modo di confrontarmi con quel primo, intenso amore. Ingenua perché mi ero illusa che quella fosse la fine, quando in realtà altro non era che l’inizio di tutto. Era una notte surreale quella del primo incontro con Lupo. L’aria era calda, ricca di tutti quei profumi che segnano la fine di una stagione e l’inizio della successiva. Ero andata a dormire più o meno all’ora di sempre, tuttavia mi sentivo stanca e non appena appoggiai la testa sul cuscino, crollai in un sonno profondo. Sognai la casa dei miei genitori e doveva essere una serata di primavera perché le piante del giardino erano in fiore. Lupo se ne stava seduto sotto un ciliegio, in paziente attesa. Mi osservò un istante con i suoi occhi color del cielo per poi alzarsi. Si avvicinò a me con passo deciso. Io lo fissai, per nulla intimorita dalla sua presenza. Gli sorrisi e lui parve fare altrettanto. «Ti ho aspettata a lungo» disse, «temevo avessi perso la strada!». «Io sono nata qui» risposi nell’irrealtà onirica del sogno, «troverò sempre la strada per tornare». Non appena lo ebbi detto, mi resi conto che non avevo la ben che minima idea chi dei due comprendesse la lingua dell’altro. Ero io a parlare nel linguaggio di Lupo, oppure era lui che parlava la mia


9 lingua? Era un dubbio inquietante perché mi ero resa conto che entrambi avevamo parlato senza aprire la bocca. «Ti va di farmi compagnia lungo il viaggio?». «Dove sei diretto?». Mi lanciò uno sguardo fugace per poi incamminarsi davanti a me. «Solo il tuo cuore conosce la risposta» rispose senza voltarsi e io lo seguii senza esitare. Conoscevo quelle strade come le mie tasche e non mi fu difficile capire dove eravamo diretti. La chiesa del paese era esattamente come la ricordavo: una struttura slanciata e spigolosa che si ergeva verso l’alto. Un luogo ricco di tanti ricordi di quando ero bambina. Lupo si fermò per annusare l’aria. «Non è solo» disse quasi a se stesso. Poi, rivolgendosi a me, aggiunse: «la consapevolezza dell’essere verrà con il tempo se riuscirai a tornare in questo luogo ma, almeno all’inizio, non sarà facile distinguere il reale nell’illusione. Non guardare mai solo con gli occhi, troppo spesso sono vittime dell’inganno, ma segui la voce del tuo cuore anche quando tutto sembra assurdo e impossibile, solo così potrai vedere!». Lo guardai perplessa: pur intuendone il senso, quello che Lupo aveva detto era oscuro, ermetico. Non riuscivo a cogliere dei possibili legami con la mia vita. Quando avrei dovuto guardare non solo con gli occhi, ma anche con il cuore? Lo fissai negli occhi, sperando che dicesse dell’altro, ma rimase in silenzio a fissarmi per qualche istante ancora, poi com’era successo poco prima, si voltò e senza dire altro s’incamminò di nuovo, dirigendosi verso l’ampia piazza che si apriva davanti all’ingresso della chiesa. Notai che il sole splendeva alto nel cielo, l’aria era fresca e piacevole, c’era qualcosa di frizzante, di magico, quell’atmosfera che si respira solo nei giorni di festa. Mi guardai intorno, curiosa di capire cose stesse accadendo. Alla fermata dell’autobus vidi alcuni ragazzi che stavano parlando. Guardando con più attenzione, mi accorsi che non solo li conoscevo, ma che tra di loro c’era anche Lui. Si voltò a guardarmi e mi sorrise. Alzai la mano in segno di saluto e lo raggiunsi, dimenticandomi di Lupo che, in verità, sembrava svanito nel nulla.


10 Lui mi cinse le spalle e mi baciò dolcemente. Mi accoccolai in quell’abbraccio. «Finalmente sei arrivata, ti stavamo aspettando» disse. «Come facevi a sapere che sarei tornata?» chiesi con un filo di voce. «Perché non te ne sei mai veramente andata» rispose, per poi rivolgersi agli amici di sempre: «lei la conoscete già, quello che però non sapete è che stiamo assieme!». Davanti a quell’annuncio tanto inatteso, arrossii tra le sue braccia e fu in quel preciso istante che mi svegliai, con il cuscino stretto tra le braccia e un sorriso felice stampato sulle labbra. Non ricordavo nulla delle parole del lupo dagli occhi cerulei: era diventato una presenza sbiadita che aveva fatto da contorno a un sogno meraviglioso, tuttavia troppo distante dalla mia vita. Dopo alcuni giorni sognai nuovamente la chiesa. Le campane suonavano, ma era un suono stano, ipnotico, che sapeva renderti felice e triste allo stesso tempo. Notai che in cima alla scalinata, impeccabile nel suo abito color avorio, c’era Lui: stava aspettando qualcuno. Socchiusi gli occhi, lo guardai incuriosita e dubbiosa allo stesso tempo: possibile che stesse aspettando proprio me? Lo raggiunsi di corsa, salendo due gradini alla volta e più mi avvicinavo, più sentivo sbocciare dentro di me una strana inquietudine. Finalmente ci trovammo l’uno di fronte all’altra e subito fu chiara la ragione di quella mia sgradevole sensazione. Il suo viso era serio e cupo, mi guardò a malapena. «Oggi mi sposo» disse abbassando lo sguardo «mi dispiace, ma era giusto tu lo sapessi». Quelle parole mi trafissero l’anima, barcollai e per un attimo ebbi l’impressione di cadere. Dai miei occhi scesero lacrime silenziose, incontrollabili. «Non voglio!» urlai. «Questo non è giusto!» fu tutto quello che riuscii a dirgli, poi Lui si voltò per varcare la porta della chiesa. Un attimo dopo si chiuse, sottraendolo alla mia vista. «Non voglio» continuavo a ripetere nel silenzio surreale che era calato all’improvviso dappertutto. Guardai Lupo, comparso al mio fianco. Socchiuse gli occhi, fissandomi intensamente. «Sai quello che va fatto!» disse.


11 E sì, lo sapevo davvero. Come era già successo in passato, la mia caparbietà prese il sopravvento e, senza rendermene conto, spalancai il pesante portone che andò a sbattere contro il muro. Stavo per gridare qualcosa tipo «Io mi oppongo!» ma le parole mi morirono sulle labbra: la chiesa era completamente vuota. Non c’era neppure Lui e questo era impossibile perché lo avevo visto entrare con i miei occhi solo pochi istanti prima. Guardai Lupo che non sembrava per niente sorpreso. «È un inganno» spiegò, «il matrimonio si sta svolgendo da un’altra parte e se vuoi avere qualche possibilità di rivedere quel ragazzo, devi far appello alla tua volontà per trovare la chiesa e impedire che si leghi per sempre a un’altra donna!». Pensa continuavo a ripetermi, deve esserci un nesso, un luogo comune o un posto dove poter tornare. Poi, come il famigerato fulmine a ciel sereno, compresi, sapevo cosa fare e, soprattutto, dove andare. Se quella non era la chiesa giusta, doveva esserlo quella del paese dello sposo. Dovevo tentare, non potevo permettere che si sposasse perché in cuor mio sapevo che quel matrimonio era opera di una subdola creatura che aveva soggiogato la sua volontà. Mi voltai e iniziai a correre seguita da Lupo. «Dobbiamo fare presto, non resta molto tempo!» dissi, incitando me stessa. Poi, rivolta al mio compagno: «dobbiamo trovare una macchina o non arriveremo mai in tempo». Mi frugai nelle tasche e, come poteva succedere solo nei sogni, trovai un mazzo di chiavi. Ce n’erano molte parcheggiate nel piazzale e avrei impiegato un’eternità per trovare quella giusta. Digrignai i denti: un altro enigma da risolvere e il tempo era poco. Feci un profondo respiro e chiusi gli occhi, ricordando le parole di Lupo: … segui la voce del tuo cuore … Aprii gli occhi e, quando posai lo sguardo su una macchina bianca, senza nessun segno particolare che la contraddistinguesse da tutte le altre, capii immediatamente che era quella che stavo cercando. Aprii lo sportello e mi misi al volante. Accesi il motore e, accompagnata da un forte stridere di gomme, iniziai a guidare come una pazza, superando ogni ostacolo che mi si parava davanti.


12 Avevo ormai imparato a sbloccare i meccanismi dei sogni e ancora una volta la mia caparbietà fu premiata e l’auto, seppur arrancando un po’, portò me e Lupo a destinazione. La chiesa era al centro di una piazza lastricata di porfido rosso e bianco ma più che la casa di Dio sembrava un enorme palazzo verde scuro a punta, di quelli che, nei film, guardano sempre su due stretti vicoli laterali. Era alta almeno cinque piani, con una scalinata di marmo davanti e un’enorme porta di bronzo a sbarrarne l’ingresso. Una signora piuttosto anziana, con una bancarella di caldarroste, se ne stava seduta ricurva su una sedia su uno dei lati della piazza. Mormorava qualcosa che però non riuscii a capire: parlava un dialetto che non avevo mai sentito. Visto che ero rimasta di nuovo sola, mi avvicinai alla donna con qualche esitazione. «Sa per caso se si sposa qualcuno, oggi?» le domandai indicando la chiesa. La donna smise di parlottare per poi fissarmi negli occhi. I suoi luccicarono di una strana luce abbacinante. «Lo sposo è arrivato qualche minuto fa» rispose fissandomi. «Deve sbrigarsi signorina, altrimenti lo perderà per sempre!» un ghigno che mi mise a disagio: nella bocca di quell’anziana signora non c’era neppure un dente. «Bussa tre volte, aspetta un istante poi bussa altre due volte, solo così ti sarà aperto!». La ringraziai con un rapido cenno del capo e mi lanciai su per la scalinata. Arrivata davanti, presi un profondo respiro e poi bussai tre volte. Aspettai un attimo, poi con le nocche colpii altre due volte il portone. La porta si aprì cigolando e mi ritrovai in un enorme salone illuminato da una luce fioca. Sul fondo c’erano tre porte identiche, miniature di quella che avevo appena varcato: una a destra, una centrale e una a sinistra. Sospirai sconsolata: ecco che avrei dovuto scegliere di nuovo e dovevo fare in fretta, consapevole che, se avessi sbagliato, avrei perso il mio Lui. Mi avviai decisa lungo la sala. I miei passi rimbombavano lugubri nel silenzio pesante di quell’enorme costruzione. Le pareti erano spoglie, di nudi mattoni. Sembrava un luogo abbandonato, come se fossero passati


13 anni dall’ultima volta che qualcuno vi aveva messo piede. Solo le tre porte risplendevano di luce propria, perfette e immacolate. Quale scegliere? Le studiai una a una. Anche in questo caso dovevo scegliere con il cuore perché, ai miei occhi, erano identiche. Superficie liscia, nessun segno o simbolo particolare. Abbassai gli occhi sul mazzo di chiavi che avevo portato con me dopo aver parcheggiato la macchina. Notai una grossa chiave di bronzo. Sorrisi: doveva essere quella di una delle tre porte. Ma quale? L’enigma persisteva. Mi avvicinai di un passo. Allungai la mano che tremolava leggermente: se avessi sbagliato, l’avrei perso per sempre. Infilai la chiave nella toppa. Trattenni il respiro quando la girai verso sinistra. E quasi svenni quando sentì la serratura scattare: la porta al centro si aprì e io, felice per aver ancora una volta fatto la scelta giusta, la spalancai. «Fermatevi!» ordinai. Ci fu un attimo di silenzio e gli invitati si voltarono tutti a guardarmi. Mi diressi verso l’altare dove una sposa bianca come un cencio mi fissava senza muovere un muscolo, ma non era lei che stavo cercando. Ero venuta per Lui e Lui soltanto. Se ne stava a mezza navata come in trance, dandomi le spalle. La cosa mi fece andare su tutte le furie e quando gli fui vicino lo afferrai per le braccia, costringendolo a voltarsi. In quel momento vidi i suoi occhi verdi diventare vitrei, come se fossero vittima di un sortilegio e due lacrime silenziose mi rigarono le guance. Lo chiamai per nome. «Guardami, ti prego, guardami. Sono io, sono qui, sono venuta per te …» gli accarezzai il viso e lo baciai. Lui restò impassibile qualche secondo poi parve destarsi: mi riconobbe e mi strinse a sé. «Grazie per essere venuta» mormorò. «Ero perso senza di te» mi confessò trattenendo a stento le lacrime. La chiesa si riempì di un brusio sempre più insistente, un vociare dapprima sommesso poi sempre più alto e intenso.


14 La sposa tradita e i suoi invitati erano sul piede di guerra, sembravano un esercito spietato che voleva le nostre teste. Lasciarono le panche e con fare minaccioso puntarono verso di noi. Lui mi prese la mano e la strinse. «Corri!» urlò. Ci voltammo nello stesso momento e corremmo a perdifiato attraverso la porta che avevo attraversato solo pochi minuti prima. Questa si richiuse alle nostre spalle appena in tempo per separarci dalla folla inferocita. Avevamo il fiatone, ma eravamo di nuovo insieme. Ci fissammo negli occhi per poi scoppiare a ridere. Ridemmo come bambini che sono riusciti a farla franca dopo un tiro particolarmente crudele. Ridemmo a lungo, fino a quando non cominciò a farci male la pancia e gli occhi divennero lucidi di lacrime di gioia. Lui mi strinse di nuovo a sé, avvertii la dolcezza del suo profumo e pensai che mai prima d’allora ero stata tanto felice. Senza dire niente, aprì la porta di destra e dopo essersi assicurato che al di là non ci fosse nessuno, attraversammo la soglia. Ci ritrovammo in una stanza di una bellezza da restare senza fiato, sembrava la camera di una principessa. Al centro c’era un letto a baldacchino avorio bordato d’oro, con lenzuola e guanciali di seta. C’erano un comò bianco, un’orchidea e una sedia foderata anch’essa di seta. «Ti piace?» chiese togliendosi la giacca e la cravatta. Le gettò distrattamente sulla sedia, in un gesto liberatorio. Si sbottonò poi il colletto della camicia, lasciandosi sfuggire un sospiro di sollievo. Io, dal canto mio, mi ero seduta sul letto, estasiata. «È bellissima, sembra perfetta per la prima notte di nozze». Lui sorrise malizioso. «Lo è, ed è tutta per noi, se tu lo vuoi, ovviamente. Il tuo amore mi ha salvato e anche se apparteniamo a due mondi diversi, è solo con te che voglio stare». Mi baciò appassionatamente e fu proprio con quel bacio che il sogno iniziò a svanire. Le pareti sfumarono, i lineamenti del suo viso divennero sfocati, come il suo corpo.


15 Solo un particolare restò vivido: il pendente a forma di drago che portava al collo. «Adesso devi andare» disse malinconico, «questo tempo è finito, ma tu continua a cercarmi nel tuo mondo. Trovami, così nessuno potrà mai dividerci …». Non saprei dire con certezza quanti anni fossero passati da quell’ultimo sogno, ma di sicuro non ero più la stessa ragazzina timida e insicura che ero da adolescente, anzi, avevo dimostrato in più di un’occasione di sapermela cavare anche da sola. Terminati gli studi avevo iniziato subito a lavorare. All’inizio non era stato facile lasciare il mio paese, la mia famiglia e gli amici, tuttavia si era rivelato necessario per realizzare, almeno in parte, il mio sogno. Era servita una lunga e non sempre facile gavetta per arrivare dove volevo. Avevo iniziato a muovere i primi passi in teatro. Dopo i consueti corsi di dizione e recitazione, che mi ero pagata facendo qualche lavoretto extra, ero entrata a far parte di una compagnia itinerante nella quale mi ero fatta le ossa, per poi finire qualche anno dopo, a sgomitare in quel mondo iridato fatto di luci, ombre e tanta ipocrisia, dove il più delle volte il saper apparire conta più del talento. Eppure il mio lavoro, con i suoi ritmi serrati, mi piaceva. Mi ero impegnata al massimo fin dal primo giorno e i miei sforzi, pian piano, avevano iniziato a dare i frutti tanto sperati. Alla fine avevo capito che era quella la vita che volevo vivere e da semplice comparsa ero diventata attrice protagonista. Le riprese erano iniziate in autunno ed erano terminate all’inizio dell’estate, il periodo più bello, diciamo perfino magico per vivere l’Irlanda, luogo dove era ambientata la storia. In realtà si trattava di una serie destinata a fondersi con un’altra le cui riprese sarebbero cominciate negli Usa dopo la pausa estiva. La storia non era delle più semplici ma seguiva una sua logica lineare con tanto di flash back e colpi di scena. Ann, la protagonista, era figlia di una strega del Kansas, luogo dove era nata, e di un uomo appartenente alla dinastia dei Castelville, una benestante famiglia irlandese maledetta da un demone con cui il capostipite aveva suggellato un’alleanza. Il padre di Ann era morto in un misterioso incidente quando lei aveva solo sei mesi e la madre si era accompagnata a un uomo che aveva perso la moglie allo stesso modo, nella stessa notte. L’uomo aveva due figli: il maggiore, Chris, era il classico bello senz’anima, ironico,


16 pungente e piuttosto superficiale nei rapporti con le donne. Insomma era un duro, anche se solo all’apparenza e questo Ann lo sapeva fin troppo bene. Il secondogenito era Tom, quattro anni più giovane: un bravo ragazzo, con la testa sulle spalle, fedele, affidabile e sensibile. Un ragazzo che voleva solo una vita ordinaria, vista la famiglia tutt’altro che “normale” di cui faceva parte. I cinque non si fermavano mai troppo a lungo nello stesso posto e questo impediva ad Ann e Tom di legarsi ad altre persone, ma non d’innamorarsi segretamente l’uno dell’altra. La serie iniziava proprio con l’arrivo di Ann in Irlanda dopo la promessa sussurrata a Chris il giorno della sua partenza. L’aveva stretta un attimo tra le braccia, come solo un fratello maggiore sapeva fare, poi l’aveva lasciata andare, sussurrandole queste parole: «Promettimi di diventare ciò che sei destinata a essere … una grande strega, la più potente di tutte e quando lo sarai ritorna da noi». Com’era immaginabile, finii per affezionarmi ad Ann. Mi piaceva quel suo atteggiamento ribelle e di sfida, talvolta irriverente, che la rendeva provocante e tagliente. Non era stato facile per lei accettare di essere una strega, poi, quando era riuscita a convivere con la sua natura, aveva deciso di diventare la migliore per tornare a testa alta dalle persone che amava. Era questo a spingerla ogni giorno a combattere contro ogni creatura malvagia che le si parava davanti. Combattere: lei per tornare, io per scappare dai sentimenti che provavo per qualcuno che non avrei mai avuto. Dopo la fine delle riprese restai in Irlanda ancora un paio di settimane. Mi attraevano quei luoghi carichi di mistero e magia, impregnati di profumi unici e intensi. Quella terra era ricca di un fascino ancestrale e a me piaceva approfondire la conoscenza delle sue leggende, delle credenze e dei suoi segreti. Sarei dovuta tornare a casa dopo un breve viaggio oltreoceano, e per me “tornare” significava passare l’estate a dover dare spiegazioni e a giustificare le mie scelte, lavorative e non. Non che ce ne fosse alcun bisogno per la verità, ero indipendente e non dovevo certo rendere conto a nessuno, ma avevo comunque una famiglia meravigliosa che amavo e che si preoccupava per me. Sicuramente sia i miei genitori sia gli amici di sempre mi avrebbero sommerso di lecite domande, incuriositi da quella mia vita che mi aveva portato all’estero.


17 Poi c’era Lui, sempre e solo Lui. Era inutile negare l’evidenza: nonostante mi avesse spezzato il cuore, ne ero ancora purtroppo innamorata. Nel corso degli anni avevo imparato a fare buon viso a cattivo gioco, specialmente con la stronza che aveva per ragazza, ma dopo il sogno di quell’ultima notte, non ero più riuscita a sopportarne la presenza e il solo pensiero di poterli vedere insieme al mio ritorno, mi faceva venir voglia di fuggire in America a nuoto. Quella sera, mi gettai sul letto a peso morto. Il mio volo era previsto per la mattina seguente e, nonostante la stanchezza, non riuscivo a prendere sonno. Continuavo a pensare alla situazione in cui mi ero cacciata e alle conseguenze del mio seppur temporaneo ritorno. Mi ero buttata a capofitto nel lavoro proprio per non pensare a quell’eventualità e adesso venivo assalita da tutti i dubbi che ero riuscita ad allontanare durante la mia trasferta irlandese. Per fortuna il mio aereo era diretto negli Stati Uniti e ancora una volta, almeno per un po’, il lavoro mi avrebbe permesso di non pensare a Lui. Visto che il sonno non arrivava, mi concentrai sul copione e sulla scena che avrei dovuto girare: Ann e Tom qualche anno dopo la fine della loro storia. Si era accennato alla loro love story nella prima puntata, così come si era parlato sporadicamente dei due fratelli, ma era la prima volta che veniva dato loro un volto. A conti fatti però non c’era niente di strano: se Ann doveva riunirsi alla sua famiglia per creare una nuova serie, il cast doveva essere finalmente al completo. In tutta onestà, speravo di non dover lavorare con delle “teste vuote”, come definivo gli attori aitanti e fisicati, così consapevoli della loro bellezza che per loro il cervello era un surplus. Lessi più volte il copione, e più mi concentravo, più avevo la netta impressione che mi sfuggisse qualcosa di importante, anche se, alla fine, mi dissi che forse ero solo stanca. Provai a chiudere gli occhi e poco dopo mi addormentai. Sognai la casa sul lago tra le montagne in una bella giornata estiva. L’aria era calda, il cielo terso. Ero sulla riva, scalza tra i ciottoli bianchi e guardavo i pesciolini che nuotavano senza timore dove l’acqua era più bassa. Li fissavo con aria rapita, come spesso mi succedeva da bambina. Non ero sola, Lupo era al mio fianco, come sempre lo era stato da quel nostro primo incontro. «Non verrà, vero?» chiesi senza distogliere lo sguardo dal lago. «Lo sto aspettando da così tanto tempo…».


18 Quelle ultime parole mi morirono in gola, ma Lupo sapeva leggere nel mio cuore e le parole servivano ben a poco. Mi sfiorò la mano con il muso. «No, non in questo mondo almeno, ma sei stata condotta qui per un motivo, mia giovane amica». Gli accarezzai la testa affettuosamente. «Stai per andartene anche tu, vero?» domandai. «Sarò sempre al tuo fianco, anche quando non mi vedrai e ti guiderò come ho sempre fatto. Trova il Drago e lì ci sarò anch’io!». Una grande ombra scura si proiettò su di noi, seguita da un rumore sibilante e familiare. Alzai gli occhi al cielo e vidi la sagoma di un aereo passarci sopra. Lo fissai finché non divenne solo una scia sbiadita e mentre il sogno iniziava a sbiadire, pensai che forse su quell’aereo dovevo esserci anch’io. Il viaggio era stato davvero lungo e il cambio di fuso non mi aveva di certo aiutata: era strano essere partita la mattina poco prima delle dieci ed essere arrivata a San Francisco alle ventidue, ma del giorno prima. Mi sentivo frastornata, come se avessi la testa piena di ovatta dovuta alla stanchezza che mi aveva avvolto, tuttavia felice di non essere a casa mia. Dopo aver sistemato il mio bagaglio, decisi di coccolarmi con un bel bagno caldo e una vasca piena di soffice schiuma profumata. Restai immersa in quel morbido abbraccio per non so quanto tempo, assaporando il dolce rumore del silenzio, liberando la mente. Visto però che la persona che doveva accompagnarmi sul set sarebbe venuta a prendermi il giorno dopo di buon’ora, decisi alla fine di gettarmi tra le braccia di Morfeo prima del previsto. Uscita dalla vasca dopo aver fatto defluire tutta l’acqua, mi asciugai rapidamente. Indossai la lingerie pulita e, solo dopo essermi lavata i denti, uscii dal bagno. Senza perdere altro tempo mi infilai sotto le coperte e mi addormentai abbracciata al cuscino. Dovevo essere caduta in un sonno profondo perché, la mattina dopo, non sentii suonare la sveglia e fui svegliata un’ora più tardi da un insistente battito di nocche sulla porta. Dopo aver chiesto chi fosse, andai ad aprire di corsa e fu solo allora che mi resi conto di che ore fossero. Aprii la porta ancora assonnata e a piedi nudi, con addosso la


19 sola sottoveste in pizzo che mi avevano regalato le mie pazze amiche il giorno della partenza per l’Irlanda. «Con questa addosso gli uomini impazziranno a letto!» avevano detto ridendo. Già, forse era vero, peccato che andavo a letto da sola e, per non offenderle, la usavo come camicia da notte. La persona che era venuta a prendermi mi guardò dall’alto in basso, lo stesso feci io: ero incredula perché mi aspettavo un’assistente isterica e zelante, così come lui non doveva essersi immaginato di trovarsi davanti a una ragazza alta poco più del metro e sessanta, mezza nuda e con un seno decisamente formoso, messo ancor più in evidenza da quella stupida sottoveste lilla. Mi nascosi subito dietro la porta che gli avevo sbattuto in faccia, andando poi a vestirmi in fretta e furia. «Scusa per il ritardo, non ho sentito la sveglia!» dissi una decina di minuti dopo uscendo dalla stanza, con un tono il meno imbarazzato possibile. «Nessun problema, abbiamo ancora un po’ di tempo prima delle riprese» rispose lui. Quel ragazzo mi metteva a disagio, non tanto perché non si era ancora presentato, piuttosto perché, come un perfetto cafone, non faceva che fissarmi il decolté. Ann Castelville, con il caratterino che si ritrovava, se ne sarebbe uscita quasi sicuramente con una frase del tipo: «Ehi, bell’imbusto! Hai finito di fissarmi le gemelle?». Per fortuna però non ero Ann, così mi limitai a incrociare le braccia al petto, nascondendo lo spettacolo. Il mio stomaco brontolò. «Accidenti, sto morendo di fame!» dissi e lui scoppiò a ridere, mentre io sarei voluta sprofondare dall’imbarazzo. Fu in quel momento che mi accorsi di quanto fosse stata generosa con lui madre natura. Aveva un fisico da modello, sul metro e ottantacinque, corti capelli biondo scuro, occhi verde oliva, labbra carnose da baciare e lineamenti perfetti. Insomma, era il classico tipo che non passa mai inosservato. Inarcai il sopracciglio con aria dubbiosa: per esperienza sapevo che i tipi come lui erano solo dei vanitosi arroganti privi di cervello. Quello che non sapevo era che non sarebbe passato molto tempo prima che cambiassi parere nei suoi confronti. «Lo sai? Stavo per dire la stessa cosa! Conosco un locale dove servono le migliori colazioni di tutta la zona, il bello è che non è lontano dal set… se vuoi, ti ci porto».


20 Nel giro di qualche minuto ci ritrovammo a passeggiare sulla pavimentazione in mattoni rossi della Russian Hill, il tratto più famoso e affascinante di Lombard Street, con i suoi tornanti che serpeggiavano in salita e in discesa. Destinazione Ghirardelli Square. Ero estasiata, mi sentivo un po’ come Dorothy quando si ritrova a percorrere il sentiero lastricato di mattoni gialli nel regno di Oz. Sentivo di essere arrivata in un mondo che aveva qualcosa di magico e che avevo sempre desiderato poter visitare. I palazzi in stile vittoriano dai colori vivaci si susseguivano accanto a edifici spigolosi dalle tinte più sobrie, accompagnandoci come presenze discrete, fino alla nostra meta. Mi fermai a fissare l’insegna ad arco con su scritto Ghirardelli Square, mentre un inconfondibile, piacevole profumo di cioccolato mi deliziò le narici. La colazione fu ottima e abbondante e io mi sentivo come una bambina al Luna Park. Non facevo che guardarmi attorno, incuriosita e affascinata da quel mondo che avevo visto un milione di volte in televisione, ma mai dal vero. Se mi fossi portata dietro la macchina fotografica, avrei immortalato tutto quello che i miei occhi avevano visto finora: il saliscendi dei tornanti, lo stile dei palazzi, l’insegna, l’edificio con i mattoni a vista della fiera e l’imponente torre dell’orologio. L’incantevole fontana della sirena proprio nel bel mezzo della piazza, le persone e … i turisti. Sì, i turisti, che immancabilmente si mettevano in posa per una foto. Sorrisi tra me e me, ripensando a quanti ne avevo visti andare e venire dalla mia bella e adorata Riva. In fondo, però, ci sarebbe stato il tempo anche per me di scattare qualche bella foto. Il mio accompagnatore fu molto gentile e mi chiese di raccontargli com’era la vita in Europa, così iniziai a parlare della mia terra, delle sue tradizioni, dei suoi profumi e dei luoghi poco distanti da dove abitavo e che meritavano di essere visitati. Mi ascoltò con attenzione, con crescente curiosità fino al nostro arrivo sul set, dove ci salutammo. «Io sono Dean» disse poco prima di lasciarmi nelle mani esperte dell’addetta al make up e di una costumista alquanto autoritaria che mi ricordò tremendamente il sergente di Full Metal Jacket. «Ci si vede Lady Castelville…» aggiunse con un sorrisetto. Sorrisi a mia volta.


21

CAPITOLO 2

Ann arrivò al suo appuntamento bagnata fradicia e piuttosto nervosa. Odiava gli imprevisti del mestiere, soprattutto quando si trattava di rischiare la pelle per tirare fuori dai guai il suo protetto. «Stupido incosciente, presuntuoso, sfacciato, donnaiolo senza ritegno…» continuava a ripetere mentre si sedeva al tavolo del Joy&Jack Café, un locale frequentato dagli studenti universitari, alcuni dei quali vi lavoravano come camerieri per pagarsi gli studi. Era un locale unico, rivestito interamente di legno, con tavoli e panche anch’essi in legno. Ricordava volutamente la stiva di un vecchio veliero, tanto che alle pareti erano stati appesi alcuni quadri su cornici rotonde che racchiudevano immagini del mare visto a pelo d’acqua. Chiunque, entrando, avrebbe avuto davvero l’impressione di fare un salto indietro nel tempo, idea avvalorata dalle divise di cameriere e camerieri che, nel fine settimana, ricordavano gli abiti dei vecchi marinai. Era un locale che ad Ann piacque subito. Accanto a lei c’era il fantasma di Sir Arthur Castelville, il suo “maledetto” avo. Diceva la leggenda che il suo spirito sarebbe stato costretto a vagare sulla terra fino a quando un suo discendente non fosse riuscito a sciogliere il patto che aveva stipulato con il demone. In realtà, Sir Arthur era uno spirito guardiano, un eccentrico e annoiato aristocratico che adorava infestare Castelville House solo per il piacere di sentire le grida terrorizzate delle cameriere che vi prestavano servizio. Mai si sarebbe aspettato che l’atteso liberatore fosse in realtà una strega. Aveva provato a intimorire perfino lei, ma Ann lo aveva minacciato, dicendogli che, se avesse ancora spaventato i vivi, avrebbe fatto un falò con quello che restava dei suoi resti mortali. Da quel giorno il malcapitato era diventato il suo tutore e le aveva insegnato tutto quello che aveva imparato nel corso dei secoli sugli


22 spiriti guardiani, istruendola sulle arti magiche e guardandole le spalle quando andava a caccia. «Siamo nervosette stamattina» constatò lui, «cos’è, hai beccato il tuo ragazzo a letto con un’altra, stanotte?». Ann gli lanciò un’occhiataccia che lo fece subito zittire, poi si passò una mano tra i capelli bagnati e si sistemò l’auricolare, riportando subito l’attenzione sul fantasma. «Punto primo, non è il mio ragazzo e non me ne frega niente di chi si porta a letto! Punto secondo, usa ancora Devin come tramite per seguirmi e ti seppellisco sotto un cumulo di sale, sono stata abbastanza chiara?». Anche se non l’avrebbe mai ammesso, Ann teneva molto a Devin. Era il suo tuttofare e l’unico vero amico da quando si era trasferita in Irlanda, nonostante non gli avesse mai rivelato di essere una strega. La sua famiglia era sempre stata a servizio dei Castelville e da quando si erano incontrati, Devin aveva sempre vegliato su di lei, ammettiamolo, il più delle volte controvoglia, specialmente all’inizio, poi aveva finito per affezionarsi a quella ragazza ribelle dallo sguardo fiero e combattivo. Sir Arthur annuì. «Come vuoi, ragazza, ma senza un tramite compatibile, sai che sono confinato nel luogo dove sono morto. Non posso esserti di alcun aiuto se resto in Irlanda e poi Devin ha deciso di sua spontanea volontà di seguirti, visto che te ne sei andata senza dargli uno straccio di spiegazione!». «Non gliene devo, ma questo non cambia le cose. Hai una vaga idea di quanto sia pericoloso quello che faccio? Sai bene che non posso concedermi distrazioni di alcun genere, quindi fammi un favore, mettilo sul primo aereo e rispediscilo a casa immediatamente!». Il fantasma svanì senza dire una parola. Ann sapeva tuttavia che avrebbe obbedito: in fondo aveva il cuore tenero e non avrebbe messo a repentaglio l’incolumità del giovane. Devin era un bravo ragazzo ed era evidente che le voleva bene, ma avere a che fare con una strega significava entrare in contatto quasi quotidianamente con pericolose entità soprannaturali, passando il resto della propria vita a guardarsi le spalle per non finire vittime di morti orribili, costretti a cacciare per non essere cacciati. Ann non aveva avuto scelta, Devin sì.


23 Se ne restò a lungo seduta a quel tavolo ad aspettare e ogni volta che qualche cameriere le si avvicinava, lei ordinava sempre la stessa cosa: un Red CAT. I malcapitati restavano sbigottiti davanti alla sua richiesta perché nessuno di loro aveva mai sentito nominare un drink con quel nome, ripresentandosi al suo tavolo a mani vuote. Alla fine Ann si alzò, andò al bancone e chiese al barista quello che voleva sapere fin dall’inizio. L’uomo parve pensarci un po’ su, poi rispose: «Oggi gli tocca il turno di chiusura, quello che va dalle due alle dieci». Lei sfoderò uno dei suoi stupendi sorrisi e se ne andò. Tom arrivò al lavoro circa un quarto d’ora prima dell’inizio del turno. Salutò Becky con un bacio che lei contraccambiò velocemente. «Ci vediamo stasera a casa, buon lavoro tesoro» disse la ragazza. La guardò lasciare il locale, poi iniziò a lavorare senza sosta. Alle sei e mezza circa il Joy&Jack Café era semivuoto e lui ne approfittò per dare una pulita ai tavoli e rifornire il bancone. Jack Thompson, il proprietario, era pensieroso e, appena vide che aveva terminato i suoi incarichi, gli fece segno di avvicinarsi. «Qualcosa non va, signor Thompson?» chiese il ragazzo preoccupato. «Niente affatto figliolo» si affrettò a rassicurarlo, «è venuta una bella ragazza stamattina e ha chiesto di te». Tom lo guardò sorpreso: nessuno aveva mai chiesto di lui da quando aveva iniziato a lavorare lì, tanto meno una bella ragazza. «Davvero? Le ha per caso detto come si chiama?». Jack Thompson scoppiò in una sonora risata. «Sei davvero un bravo ragazzo, spilungone! Chiunque altro mi avrebbe chiesto di descriverla, ma non tu. Becky è davvero fortunata. Vai nel retro e fatti dire i particolari da Eddy e Fred prima che se ne vadano! Quella ragazza gli ha fatto fare la figura degli idioti». Tom non fece altre domande e andò nel retro del locale. Eddy e Fred stavano sghignazzando per chissà cosa mentre fumavano l’ultima cicca prima di andare a casa. Appena lo videro, lo invitarono a unirsi a loro, ma lui rifiutò. Aveva una bizzarra ed eccessiva curiosità nei confronti di quella ragazza che era venuta a cercarlo al locale e così chiese di lei. «Non l’avevo mai vista prima da queste parti, e ti assicuro che una del genere non passa di certo inosservata» Fred fece una pausa. «Era


24 bagnata dalla testa ai piedi e quella camicetta appiccicata al seno…» sospirò compiaciuto, «Cristo santo, da perderci la vista!». Eddy sogghignò e diede una gomitata d’intesa all’amico che si stava crogiolando in quel delizioso ricordo. «Ha fatto una telefonata usando gli auricolari e sembrava parecchio incavolata con il suo interlocutore. Poi, quando ha riagganciato, si è messa a scrivere qualcosa su un taccuino che ha fatto scivolare in borsa quando sono andato a prendere l’ordinazione». Tom aggrottò la fronte e una strana sensazione gli serrò lo stomaco. «Cosa ha ordinato?». Entrambi alzarono le spalle. «Un drink, credo» rispose Eddy, «anche se non ne sono sicuro… nessuno l’aveva mai sentito nominare prima. Le abbiamo chiesto più di una volta se voleva qualcos’altro, ma ha sempre rifiutato. Alla fine se n’è andata dopo aver lasciato la mancia al bancone. Bizzarro non trovi? Lasciare la mancia senza aver consumato niente…». In quel momento si udì il proprietario del locale chiamare Tom. Il ragazzo dimenticò i suoi pensieri e tornò a lavorare. Il locale si era riempito in fretta e non ci fu un attimo di tregua fino alle nove. Tom aveva appena sostituito il signor Thompson quando Ginger, una delle cameriere, arrivò con un vassoio vuoto che lasciò quasi cadere sul bancone con un gesto stizzito. «Pazzesco! Quella ci gode a fare impazzire tutti!» sbottò «Cliente esigente?» le chiese senza smettere di fare quello che stava facendo. Ginger strabuzzò gli occhi. «Esigente? Impossibile, vorrai dire! Mi ha chiesto un… aspetta me lo sono scritto». Estrasse dalla tasca il blocnotes delle ordinazioni e lesse: «Red CAT doppio in calice con ghiaccio al trifoglio finemente tritato e bordato di sale! Ma che roba è?». Sul viso di Tom si dipinse un sorrisetto compiaciuto. «Sostituiscimi qui se non ti dispiace, a lei ci penso io». Ginger sollevò le sopracciglia, poi annuì. «A che tavolo va l’ordinazione?». Rispose che era al 22. Mancavano circa quindici minuti alla chiusura del locale quando al tavolo di Ann arrivò quello che aveva ordinato. «Un Reed C.A.T. per la signorina Castelville» annunciò soddisfatto Tom alle spalle della ragazza.


25 A sentir quelle parole, Ann drizzò la schiena e si voltò a guardare il suo bel cameriere con un sorriso che le illuminò il viso. Avrebbe voluto alzarsi e gettargli le braccia al collo, ma fu Tom a chinarsi su di lei e abbracciarla, dimenticandosi che stava ancora lavorando. Erano passati cinque anni dall’ultima volta che si erano visti, ma il trasporto di quell’abbraccio faceva capire quanto fosse ancora forte il legame che li univa. Il ragazzo si ricompose in fretta, arrossendo sotto gli sguardi interessati dei pochi clienti e colleghi che avevano assistito alla scena. «Tom, che bello rivederti! Sei sempre stato bravo a decifrare i miei messaggi in codice!». Lui fece spallucce. «Un drink con le iniziali dei nostri nomi lo potevi inventare solo tu…». Per un attimo ripensò al passato, a quando erano ancora una famiglia vera e propria, ma le loro strade si erano divise e Ann era stata costretta ad andarsene. «Ti va di fare quattro chiacchiere dopo la chiusura? Mi farebbe piacere passare un po’ di tempo con te… ». La risposta della ragazza non si fece attendere: la trovava un’ottima idea. Ann si tolse le scarpe e affondò i piedi della sabbia fresca della spiaggia. Adorava quella sensazione ed era quello che ci voleva per finire in bellezza quella lunga giornata. «Perché hai aspettato così tanto a tornare?» chiese Tom all’improvviso. «Cominciavo a temere che non ti avrei mai più rivista». D’istinto la ragazza lo prese dolcemente per mano e rispose sorridendo: «Avevo fatto una promessa, ora rivoglio solo la mia famiglia: tu, Chris, vostro padre e persino mia madre, anche se ancora non le ho perdonato di avermi spedita in Irlanda dai nonni e per aver cercato di pianificare tutta la mia vita». Quelle ultime parole le uscirono di bocca astiose. «Sei troppo dura con lei, voleva solo darti una vita migliore della sua e renderti felice». Si alzò una brezza leggera e i lunghi capelli mogano della ragazza iniziarono a danzare. «Felice lo ero già e la mia vita mi piaceva così com’era» replicò lei, «quando i miei poteri hanno iniziato a manifestarsi, doveva insegnarmi


26 solo a tenerli sotto controllo, niente più. Dannazione, ero pur sempre sua figlia!». A quelle parole Tom ritrasse la mano e distolse lo sguardo. Si sedettero in silenzio sulla spiaggia a guardare l’oceano. «Scusami, l’argomento ti mette ancora a disagio vero? Perché non mi racconti qualcosa di te? Vedo che hai fatto crescere i capelli… ti stanno molto bene, sai?». «Sì, be’ grazie!» disse timidamente lui passandosi una mano tra la folta chioma castana. «L’attività di famiglia non faceva proprio al caso mio, così due anni fa ho mollato tutto e me ne sono andato per la mia strada. Mi sono trasferito qui e ho trovato un lavoro normale con il quale posso pagarmi l’università e l’affitto dell’appartamento che divido con Becky, la mia ragazza». All’improvviso si sentì un completo idiota: Ann era stata tutto per lui, il suo primo amore, la sua prima volta. Come gli era venuto in mente di parlarle di Becky? La ragazza comunque non sembrava averci fatto troppo caso, almeno in apparenza. «Sono felice che almeno tu abbia potuto scegliere di vivere la tua vita» disse lei, «per tuo padre e per Chris non deve essere stato facile lasciarti andare, sbaglio?». «No, infatti abbiamo litigato più di una volta, ma mi vogliono bene e alla fine hanno capito. Ci siamo persi di vista ma entrambi sanno dove possono trovarmi». Ann fissò il cielo stellato immersa nei suoi pensieri. Ci fu qualche secondo di silenzio poi la ragazza incrociò lo sguardo di Tom e sospirò debolmente. «Ascolta Tom, io sono solo di passaggio e non mi tratterrò a lungo. C’è un motivo per cui sono venuta a cercarti, oltre al fatto che morivo dalla voglia di rivederti» fece una pausa. «Ho bisogno di chiederti un favore davvero importante». Il ragazzo le prestò la massima attenzione. Il tono della voce di Ann si fece grave: «Sono diventata una strega molto potente, forse anche più di mia madre. I miei poteri si evolvono in fretta e non è sempre facile riuscire a controllarli. Se dovessi perdere il controllo, se non fossi più padrona dei miei poteri e questi diventassero una minaccia per la gente, dovrai andare da Chris e


27 convincerlo a uccidermi, perché solo lui è in grado di farlo. Ti prego Tom, promettimi che lo farai». Un brivido gli corse lungo la schiena. Sapeva perfettamente quali erano i poteri di Ann, ne aveva avuto dimostrazione in più di un’occasione quando ancora erano solo agli albori. Non aveva certo dimenticato quanto successo la notte in cui lui e suo fratello si erano imbattuti nel Diavolo del Jersey. Era iniziata come una battuta di caccia come tante altre. Nelle foreste acquitrinose a sud-est del New Jersey c’erano stati diversi avvistamenti di una creatura semi-umana dai penetranti occhi rossi, enormi ali di pipistrello e coda di diavolo. I due si erano separati dai loro genitori, così da coprire un’area più estesa. Ad Ann non era permesso andare a caccia, eppure se non fosse stato per lei, quella volta probabilmente non ne sarebbero usciti vivi. Quel mostro era dannatamente veloce. Aveva emesso un sibilo stridulo prima di scaraventarsi su di loro in picchiata. Schivando di un soffio l’attacco, i due si erano trovati davanti Ann. Era comparsa all’improvviso, provata e spaventata, come se non sapesse né dove si trovasse né come ci fosse arrivata. Quando il Diavolo aveva cercato di attaccarli nuovamente, era andato a sbattere violentemente contro qualcosa di invisibile e invalicabile che li proteggeva. Stordito, irritato e sempre più affamato, aveva cercato invano di oltrepassare quel confine, stridendo e sputando fuoco dalla bocca. Quello che era successo dopo avrebbe tanto voluto dimenticarlo. Facendo tremare la terra sotto i loro piedi, i poteri di Ann erano scaturiti dal suo corpo, distruttivi e irruenti per poi saettare rapidi contro il mostro che impotente non aveva avuto tempo e modo di scappare. In quello stato, Ann faceva davvero paura. Tom annuì in silenzio.


28

CAPITOLO 3

Quando il regista mise fine alla scena, mi sentii subito sollevata. La giornata era stata intensa e la stanchezza iniziava a farsi sentire. L’attore che interpretava Tom mi aiutò ad alzarmi. «Mi chiamo Lucas» disse porgendomi la mano, «piacere di conoscerti». Avevamo recitato insieme per tutto il giorno, ma tra una scena tagliata e qualcuna ripetuta fino allo sfinimento, nessuno ci aveva presentati. «Angelica», risposi per poi stringerli la mano, «ma tutti mi chiamano Angie». Mi sorrise dall’alto del suo metro e novantatré e, per la prima volta da quando avevo iniziato a lavorare, non pensai un solo istante a Lui. C’era qualcosa di stranamente familiare in quel ragazzo, sentivo di potermi fidare ed era una sensazione piuttosto strana per una come me, piuttosto diffidente nei confronti degli uomini. Mi piacevano i suoi modi di fare da bravo ragazzo, era riuscito a mettermi a mio agio. Lucas fu un vero e proprio fulmine a ciel sereno. Non era solo un bel ragazzo, forse solo un po’ troppo alto per i miei gusti, ma aveva la straordinaria capacità di entrare in sintonia con tutti con una semplicità e dolcezza disarmanti. Mi piacevano quei suoi capelli ribelli mossi dal vento, quelle fossette perfette che gli si formavano agli angoli della bocca ogni volta che mi sorrideva, quei suoi occhi tra il grigio e il verde che sembrava sapessero leggerti nell’anima. Nei giorni successivi diventammo inseparabili fuori e dentro il set. Mi piaceva stare con lui e a lui non dispiaceva la mia compagnia. Passavamo il tempo libero insieme, il più delle volte a scherzare sulla spiaggia o a visitare qualche luogo caratteristico, scattando un’infinità di foto. Successe che, per chissà quale ragione, alcuni giorni prima del mio ritorno a casa, il regista mi chiese di girare una puntata precedente all’arrivo di Ann al Joy&Jack Café.


29 Mi spiegò che l’idea era quella di dare una visione d’insieme e più completa del mio personaggio, introducendo, seppur in maniera marginale, il personaggio di Chris Reed. Studiai la sceneggiatura con sempre maggiore interesse: volevo capire in che rapporti erano i due personaggi. Leggendo, infatti, avevo la netta impressione che ci fosse più carne al fuoco di quanta se ne volesse dare da intendere. Il cacciatore sarcastico e la strega irriverente, per certi versi troppo simili per andare d’accordo, possibile che fossero uniti da qualcosa di più, diciamo profondo? Lucas mi diede una mano con il copione e il giorno precedente al ciak ci scambiammo diverse opinioni. Era convinto che Chris, sotto quella scorza da bello e dannato, avesse un debole per Ann e che presto o tardi si sarebbero messi insieme. «Ma figurati» avevo replicato io, «se una tipa come Ann si fa abbindolare da un playboy scavezzacollo come lui!». )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.