LUCA NOVELLO
IL MERCANTE DI PERLE
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IL MERCANTE DI PERLE Copyright Š 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-572-4 Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Luglio 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
La felicità è una direzione, non un luogo (J. Harris) Dedicato al mio amico Andrea.
INTRODUZIONE
E’ dalle ceneri della prima versione de Il mercante di perle - che rimarrà per sempre inedita - che nasce questa storia, in una domenica malinconica di settembre, ricordando un tempo non troppo lontano e che non mi appartiene più. Un tempo in cui mi bastavano una birra e una donna nel letto per sentirmi vivo, forte e padrone della mia vita. Un tempo che mi ha costruito nel carattere e nell’animo. E’ in una città che ho odiato, ho amato e ancora odiato, e probabilmente amerò di nuovo, che tanto mi ha dato e altrettanto mi ha tolto, che ripercorro i giorni della mia redenzione, se così si può chiamare. Giorni in cui avevo il cuore arido e, consapevole di questa mia “malattia”, mi aggiravo di notte credendo di fare del bene per riparare al male che avevo fatto a me stesso. Recuperando soltanto un corpo buono per un amore a ore, devastandone l’anima con la pietà che si leggeva nei miei occhi. E’ in una camera d’albergo, al trentacinquesimo piano di una stanza con le pareti di vetro, che guardo fuori e mi vedo riflesso sulla finestra, scoprendo di essere diventato un uomo che senza questa città non sarebbe stato nulla. Una stanza testimone di quattro anni di una vita vissuta a metà, come un ignavo incapace di effettuare una scelta, nascosto dietro al muro di argilla che mi ero costruito. Inevitabilmente destinato a crollare nei giorni di pioggia, e di quei giorni Hong Kong ne ha conosciuti fin troppi. E’ in una maledetta domenica lontano da mia moglie, con un velo di tristezza nel cuore, che inizio a premere i tasti di un portatile e scrivo le prime righe di questo racconto. Non so ancora dove mi porterà, ma so dove vorrei essere: in un qualunque posto ma non in questo, con la persona che amo, guardando un film, mangiando una pizza fredda con una birra calda consegnata dal servizio a domicilio in una casa di un paese di periferia.
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PROLOGO
L’origine di tutto. Cina, XVI secolo. Era ormai giunto alla fine del suo viaggio. Non si era illuso di vedere un’altra alba e aveva deciso di convocare i Ministri al suo cospetto. Prima di affrontarli aveva chiesto alle sue concubine di essere lasciato solo per pensare. Le otto giovani avevano chinato il capo e se ne erano andate nei loro appartamenti, consapevoli che non lo avrebbero più rivisto. Hongzhi spense le luci e accese un paio di candele. Si sedette sull’alcova e chiuse gli occhi, cercando, con le ultime forze che gli restavano, di riflettere. E ci riuscì. Ricordò le origini della sua famiglia, il lustro del suo Impero e la devozione con cui si era dedicato ai lavori dell’arte, affinché il Palazzo della Gloria letteraria fosse restaurato in tempo, con le piastrelle nere, come aveva voluto il Feng Shui. Poi recitò a memoria le regole della tradizione dei Ming, cercando conforto negli Spiriti del Bene. Era pronto, ormai arrivato vicino ad intendere l’insegnamento di LaoTzu, per quanto fosse possibile per un pesce comprendere l’oceano. Si rivolse a Ouiang, il Cielo, pregando che vegliasse su di lui nell’aldilà. Poi, dopo un lungo sospiro, aprì le porte della sua camera e fece entrare i Ministri. I cinque servitori erano preparati da tempo a quell’avvenimento, ma quando Hongzhi pronunciò quel nome, furono colti dallo sgomento. «Jiajing prenderà il mio posto. Così vuole il Destino» sentenziò il vecchio con un filo di voce. Zhoi e Hui si guardarono e, come se uno fosse lo specchio dell’altro, si accorsero di quanto il loro volto fosse sconvolto. «Come sapete non ho avuto figli maschi e la tradizione vuole che sia io a nominare un successore appartenente alla mia famiglia, in modo da
8 garantire la continuità della Dinastia. Così è scritto e così sarà. Fatelo venire a me.» Due servi andarono a prelevare il giovane che dormiva nella Corte Interna. Da giorni era rinchiuso in quel luogo decorato interamente di verde, a rappresentazione del legno, simbolo di crescita. Perché il futuro erede aveva bisogno di diventare grande in fretta. Non passarono nemmeno dieci minuti e quel ragazzo comparve nella stanza dello zio. Era la prima volta che vi metteva piede, e fu invaso immediatamente dalla bellezza dei mobili e del colore dei muri. Nonostante la camera fosse appena illuminata dalla luce fioca di otto candele, il giallo delle pareti lo avvolse completamente. S’inginocchiò al cospetto dell’Imperatore, suo parente diretto, dando le spalle ai cinque Ministri silenziosi. Hongzhi si schiarì la voce ma non uscirono parole dalla sua bocca. Chinò il capo, assentì e si diresse verso la porta che dava sul cortile. Avrebbe ammirato il cielo stellato per l’ultima volta, in completa solitudine. I fedeli funzionari lo guardarono allontanarsi, e benché sapessero quale sarebbe stato il loro destino, altro non poterono che lasciarlo andare. Era la volontà dell’Imperatore e nessuno avrebbe potuto opporvisi. Il giovane nipote Jiajing sarebbe salito al trono perché così era scritto. Lui era il predestinato. I Ministri uscirono dalla stanza, scuotendo il capo e bisbigliando qualcosa che sarebbe rimasto segreto per sempre. Poco dopo, mentre il vecchio reale spirava avvolto dai suoi dubbi, pregando che gli Spiriti del Bene avessero il sopravvento e rendendo grazie a quel milione di uomini che in quattordici anni avevano costruito la Città Proibita, i cinque uomini pendevano privi di vita con un cappio al collo sotto gli alberi del giardino di Jingshan, appena fuori dalle mura della porta a Nord. Morti suicidi, ciascuno aveva lasciato una perla sul terreno, affinché qualcuno avesse misericordia di loro e potessero così andarsene in pace.
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Le ossa mi fanno male. Le ginocchia scricchiolano da anni sotto l’esile peso che mi porto appresso. Sono sempre stato alto e snello, con le gambe troppo deboli anche per i miei pochi sforzi. Sono vecchio e da parecchio tempo ho smesso di viaggiare. Mi accontento di arrivare alla veranda, senza l’aiuto di nessuno, a contemplare il prato e l’ulivo, inseparabili amici dei miei giorni felici. Non faccio più l’amore da quando lei se ne è andata. Non ho voluto riaccompagnarmi. E non per un discorso morale. Lei è bastata alla mia vita, a rendermi un uomo migliore di quello che ero stato in passato. Vivo con la mia pensione, tanta o poca che sia, perché non so più dare un valore alle cose. Forse non sarei in grado di fare nemmeno la spesa in un supermercato, sempre che ne esistano ancora. C’è chi si occupa di me, accettando le mie lune e il suo salario. Arriva verso l’ora di pranzo, sistema la mia piccola casa, che è la stessa in cui vivo da un secolo. Cucina, lava i miei vestiti, li stira e riordina le poche cose che ho lasciato sparse qua e là, incurante del fatto che per me sono come le briciole lasciate sul sentiero per ritrovare la via. Benedetta, la mia domestica, più o meno al tramonto se ne va. Allora mi verso un bicchiere di rum, unico vizio cui non ho mai rinunciato. Prima di dormire rivolgo uno sguardo alla bellissima donna che giace accanto a me in una foto sul comodino, illuminata da un abat-jour che non spengo mai. E’ la foto di colei che un tempo era stata mia moglie. Questo è quanto mi concede la mia vecchiaia, e non faccio nulla per ricavarne di più. Sono troppi anni che mi sveglio solo e piango silenzioso senza lacrime. Forse, se qualcuno si assopirà al mio fianco, non mi sentirò più triste. E’ per questo che mi sono ripromesso che prima di morire prenderò di nuovo un aereo, per ritornare nell’altra casa, quella che ho lasciato nell’altra vita, e pagherò una meretrice. Non per fare l’amore, di quello non ho più bisogno da tanti anni, ma soltanto perché dorma con me e io non debba svegliarmi in una camera solitaria.
10 Qualche volta fatico a ricordare il nome di mia moglie. Altre volte non ricordo bene come l’ho conosciuta. E’ un chiaro segno che l’età avanza, e che dovrò fare in fretta a mettere nero su bianco la mia storia. Capita di sentirmi triste e allora ho bisogno di ricordare ogni cosa, di ricordare ogni attimo di quei quattro anni trascorsi tra due vite, nell’indecisione e nell’apatia. E’ l’unico modo che ho per farla tornare, nei ricordi, come se potesse invecchiare con me, un uomo che non ha più nulla da offrire se non la testimonianza di un’epoca che non esiste più. Benedetta dice che è una bella storia, e che quando sarà pronta la racconterà ai suoi nipoti, ma non è sicura di riuscire a trattenere le lacrime… Mia moglie mi ha abbandonato da tanti anni. Troppi. Era ancora bella quando se n’è andata. Un tipo di bellezza che si può cogliere soltanto in una donna anziana, con la vita, le delusioni e le gioie incise sulla pelle, stampate in quelle rughe che solcano la fronte. Lei ha lasciato la prova del suo e del nostro passaggio su questo mondo con le fotografie, incorniciate ovunque nella casa. In un cassetto, dentro a una scatola di cartone tappezzata di cuoricini rossi, ne conservo a migliaia. Con esse posso ripercorrere ogni secondo dei nostri giorni: i compleanni, gli anniversari, le vacanze e anche i momenti d’intimità. Ma di quei miei quattro anni non c’è nulla. Non ci sono immagini di noi, perché stavamo camminando su strade diverse, inconsapevoli che saremmo arrivati alla stessa meta. Soltanto nei miei ricordi rimane traccia del sentiero che segretamente mi ha ricondotto a lei. Passi solitari che esisteranno fin tanto che ne avrò memoria... Domani inizierò a scrivere la mia storia, ammesso che Dio mi conceda il lusso di svegliarmi prima di dimenticare ogni cosa. Mi sono svegliato alle sei e venti, e non è stato diverso dal solito. Ho dovuto alzarmi di malavoglia, con la vescica piena e il basso ventre dolorante, trascinandomi verso un bagno ancora immerso nell’oscurità. Lento come una tartaruga, con movimenti arrugginiti che mi fanno rischiare di rompermi il collo ad ogni passo, mi siedo sulla tazza scaricando il dolore di una pipì puzzolente trattenuta per l’intera nottata. “Tanto vale restare svegli”, penso, mentre mi sistemo le braghe del pigiama, aggrappato al calorifero per non cadere.
11 Con addosso il maglione di lana da cui non mi separo mai, estate o inverno che sia, cammino verso il soggiorno. E anche se dal portone filtra un raggio di sole, alle sei e trenta del mattino la casa è ancora buia. Mi siedo in cucina, su una delle quattro sedie sistemate intorno ad un tavolo che il più delle volte rimane vuoto. Penso che potrei spostarmi sotto al portico, ma sono soltanto le sei e trentacinque e fuori fa freddo. Benedetta non è ancora arrivata. Allora prendo un foglio di carta e una penna da un cassetto che mi è giusto a portata di mano, e inizio a scrivere. E’ una piccola parte della mia vita che non ho mai raccontato a nessuno, almeno per come andrò a raccontarla ora. Quella che di notte mi faceva piangere nella solitudine di una stanza d’albergo, che mi faceva sentire invincibile quando salivo su un aereo per volare diecimila chilometri lontano dal mondo che tutti conoscevano. Una vita che mi era appartenuta quando avevo pensato che non fosse la mia, e che mi era sfuggita quando avevo cercato di afferrarla. *** Fin dagli anni dell’università, tutto era stato pianificato nei minimi dettagli, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto. La mattina studiavo e il pomeriggio lavoravo in un’azienda di telecomunicazioni, dove ogni attività era misurata dalle lancette di un orologio digitale che dettava i ritmi, le pause, la media e la produttività del mio lavoro, a una cadenza costante di quattro minuti. Poi, all’età di ventotto anni, avevo capito che non si sarebbe svolta più allo stesso modo. Una vita composta in frammenti di tempo ripetuti e costanti, cronometrati statisticamente da un tabellone appeso alla parete color crema di un open-space al secondo piano di un palazzo di cristallo, non esisteva più. Quell’esistenza, asettica e sempre uguale, era stata cancellata. Ero stato licenziato, per via della crisi che aveva investito il paese. E così la bolla di sapone era scoppiata mettendo a nudo le mie debolezze e la fragilità del mio equilibrio. Dal quel momento avevo iniziato a combattere tra due mondi, diviso tra il bene e il male. Elena mi aveva preso per mano, convincendomi ad accettare un lavoro che non volevo fare. Avrei dovuto viaggiare, dividermi tra l’Italia e la Cina, e imparare un mestiere che ormai non esiste più, scomparso come tante altre cose di quel tempo.
12 Mi ero affacciato a una dimensione per me nuova, incerta e imprevedibile. Un salto a piedi pari nel vuoto, senza sapere cosa avrei trovato al mio atterraggio. Una fitta più forte di una morsa allo stomaco mi impediva di respirare, il petto si gonfiava a ogni boccata d’ossigeno. Una sensazione che non conoscevo, che non avevo ancora affrontato nella vita. E come potevo affrontarla? Io conoscevo due modi soltanto: con la paura o con la determinazione. Ovviamente, avevo scelto la prima. Chiudendo gli occhi avevo cercato di immaginare cosa ne sarebbe stato di me. La mia ragazza, Elena, mi aveva lasciato nello stesso momento in cui avevo iniziato la mia nuova carriera, parcheggiandomi come roba vecchia sulla sponda di un cassonetto dell’immondizia: spazzatura troppo ingombrante per entrarci e scomoda da smaltire. Proprio come aveva fatto Marta. Per qualche settimana ero stato arrabbiato con lei. Non tanto per il fatto che mi avesse lasciato. Ero incazzato per quel lavoro che mi avrebbe portato lontano dalle mie sicurezze e dalle mie origini: Veternigo, la famiglia e il mio migliore amico, cioè i miei appigli. I miei nascondigli. Avrei potuto rifiutare, è vero, consapevole già da allora che il mio destino lo avrei deciso con le mie scelte. Invece, senza aver avuto nemmeno il tempo di farmi delle domande, mi ero ritrovato a vivere in un modo che non avevo scelto, e che non ero sicuro di volere. A quel tempo mi veniva più facile accusare gli altri, indicandoli come responsabili delle circostanze sfavorevoli che la vita mi stava riservando. Come Marta ed Elena, le sole cause delle mie sfortune, come se niente dipendesse da me. Il primo giorno del mio nuovo lavoro avevo ricevuto un segnale e qualcosa aveva iniziato a cambiare dentro di me. Lungo la strada avevo visto un incidente e mi ero chiesto se, partendo cinque minuti prima da casa, avrei potuto essere io quello che si era fracassato contro un camion. Allora mi era venuto in mente che mezz’ora prima, al semaforo ancora arancione, avevo deciso di rallentare e fermarmi anziché accelerare e proseguire. Inconsapevole, avevo scelto di vivere.
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Novembre 2005 Dopo un anno ero molto contento del mio lavoro e un po’ meno della mia vita, divisa tra due città e due mondi completamente diversi e lontanissimi tra loro. Viaggiavo spesso, abbandonando i miei amici, la mia famiglia e le mie origini. Per mesi ero stato impegnato a incolpare qualcuno o qualcosa della mia insoddisfazione personale. Poi, all’improvviso, avevo aperto gli occhi e avevo visto la verità delle cose che mi stavano intorno: quanto mi circondava non contava nulla, erano solo dettagli insignificanti da ignorare, come se io avessi potuto attraversare la strada senza aspettare la luce verde dei pedoni, convinto che le automobili si sarebbero fermate. Era come se fossi esistito solo io, e le mie azioni avessero dovuto rimanere intrappolate nel mio mondo e nella mia seconda vita, senza far del male a nessuno. Sbagliavo. Dal finestrino dell’aereo vidi la coltre di nuvole farsi grigia. Il sole arancione era quasi al tramonto, e oltrepassava appena la macchia scura che lo ricopriva. Una folata bianca come il ghiaccio si dissolveva verso il blu di un cielo ormai notturno. E mentre i colori si spingevano in alto, verso l’oscurità, un tocco di viola, spruzzato sul firmamento come fosse una pennellata su di un quadro, rendeva il tutto incredibilmente meraviglioso. Lo steward stava per servire la cena. Avvicinandosi aveva notato la mia faccia stupita. Incrociò il mio sguardo, mi sorrise e disse: «Stupendo vero?» «Sì, lo è. Incredibile come non fossi mai riuscito a vederlo prima» risposi. «Dura pochi minuti, ed è un vero peccato perderlo.» Contraccambiai il sorriso, compiaciuto che nonostante la frenesia di quel secolo, ci fosse ancora qualcuno capace di fermarsi un secondo per essere in pace con il mondo. Scossi il capo, provando un senso d’invidia.
14 Divorai il riso con le verdure bollite e il pollo in umido, serviti in scatole di plastica con il coperchio di alluminio. Mangiai anche mezzo panino al latte, per togliermi il sapore delle spezie dalla bocca prima di bere dell’acqua. Lasciai invece da parte gli spaghetti, ormai freddi. Il dessert, una panna cotta caramellata dall’aria moscia e sbattuta, mi fece compagnia per qualche minuto. Guardai fuori dal finestrino nuovamente. La linea bianca era scomparsa, lasciando posto al verde, proprio laddove il blu e il giallo si erano incontrati. “Dio doveva essere un pittore”, pensai. Chiusi gli occhi, abbandonandomi a un sonno improbabile finché una mano amica mi sfiorò. «C’é un posto libero, puoi dormire di là.» Trisha, sorridente, mi prese sottobraccio e mi accompagnò verso la mia nuova poltrona. Aveva scostato la prima tenda, ma non la seconda, quella che separava la classe economica dalla business. Due teli, uno prima e uno dopo, intramezzati da un piccolo corridoio che le hostess utilizzavano per preparare i menù. E non solo… Quando l’aereo dormiva, il personale si dava il turno. Se un passeggero avesse avuto la bella idea di attraversarlo, sarebbe stato subito fermato: “Cosa desidera? Mi dica dov’è seduto, glielo porto io tra un minuto.” Così si coprivano le scappatelle notturne negli aerei. Me lo aveva detto Trisha, una sera, dopo che avevamo fatto l’amore in un letto con le lenzuola bianche. Trisha si fermò, fissandomi in modo provocante, e poi mi fece l’occhiolino. «Ti costerà qualcosa questo servizio!» «Cosa?» chiesi divertito. «Questo...» Si piegò leggermente in avanti, fino ad arrivare ad appena cinque centimetri dalla mia faccia. Un leggero soffio accarezzò il mio viso, e mentre s’infilava le mani sotto la gonna ondeggiò lievemente per togliersi le mutandine rosa. Corrugò la fronte soddisfatta, vedendo l’eccitazione sul mio volto. Allungò le braccia afferrandomi per le spalle e mi spinse verso il basso. Alzò la sottana fino a scoprirsi la pancia piatta, e con il capo fece cenno di farmi più vicino. «Dopo ti lascio dormire» disse con un filo di voce tremula.
15 Mi desiderava. La strinsi a me con forza, come piaceva a lei. La baciai, dappertutto. “Ho goduto” pensò, mentre mi aveva baciato con passione, come fanno gli amanti ed i fidanzati, e non come le mogli con i mariti. Poco dopo, appagata, si ricompose. Si rimise le mutandine, si aggiustò la gonna, e si specchiò un secondo sul vetro del finestrino. I suoi occhi avevano una riga impercettibile sotto le palpebre. Le piaceva quel che vedeva. «Grazie.» Mi accarezzò il lobo dell’orecchio, sentendo che la mia eccitazione non era passata. «Non c’è di che» risposi. «25A.» «Ok, dormirò come un angioletto. Grazie, Trisha.» Sospirai sulla esse, allungandomi sulla acca. «A meno che un diavolo non venga a svegliarti» sogghignò. Mi fece nuovamente l’occhiolino, in un modo che sapeva fare soltanto lei, e mi accompagnò al mio nuovo posto in business-class. «Intanto sognami» sussurrò. Mi offrì una coperta blu, sorrise di nuovo e scomparve nel buio del corridoio. Erano passati mesi dal nostro primo incontro. L’avevo conosciuta a Lan Kwai Fong, nel mese di luglio, in un locale dove suonavano musica dal vivo, con le commesse che servivano shooters di gelatina e rum, e con le ragazze ben disposte, pronte a divertirsi e lasciarsi alle spalle una settimana di lavoro. Trisha era semplicemente sexy. I jeans slavati, un po’ rovinati, le stavano d’incanto, mettendole in risalto il fondo schiena dalla forma di un cuore al rovescio. La maglietta bianca e i capelli neri lunghissimi nascondevano un seno che non era mai sbocciato, lasciando ai suoi occhi scuri incastonati in un viso arrossato il compito della seduzione. Il segno del cinturino dell’orologio tradiva l’accenno di un’abbronzatura: aveva trascorso il pomeriggio a Stanley, al mare, stesa sulla scogliera con un cappello in testa a guardare gli yacht. Quando mi aveva detto che faceva parte dell’equipaggio di volo della Cathay Pacific, avevo avuto la certezza che il mondo fosse un posto davvero piccolo. Ordinammo una bottiglia di vino e fu chiaro per entrambi che la serata non si sarebbe fermata intorno a un tavolino con due sgabelli alti, con
16 un cantante dai capelli neri come la pece che stonava un successo degli Evanescence:“And if you have to leave, I wish that you would just leave, ‘Cause your presence still lingers here And it won’t leave me alone.” Se devi andartene, vorrei che te ne andassi e basta, perché la tua presenza esita qui e non mi vuole lasciare solo. Un minuto dopo, schiacciata contro il muro, Trisha mi baciò e sentì le mie mani sul suo corpo. La musica e l’alcol fecero il resto. Dieci minuti più tardi, in una stanza al trentacinquesimo piano, Trisha era nuda e mi stava amando. Una, due e poi tre volte. L’aereo stava per atterrare e presto avrei assaporato l’odore di plastica dell’aeroporto, calandomi tra il gusto acre di migliaia di persone provenienti da ogni parte del mondo. Mi mancavano quegli odori, e mi mancavano i sapori della città: il profumo del the verde, del sushi giapponese, del pollo al curry, e dei dim-sum. Soprattutto mi mancavano le luci e le ombre dei palazzi e quel cielo sempre pallido. E poi da qualche mese sentivo la necessità di tuffarmi tra gente sconosciuta, camminare tra i chioschi con le verdure fritte, i satay, il riso e le “signorine” sedute lungo Lockart Road, fantastica coreografia di un paese che avrebbe potuto trovarsi in qualsiasi parte del mondo, ma non in quella. Avrei camminato lontano dai campi gialli del mio piccolo borgo, così distante dagli immensi centri commerciali di cemento, acciaio e vetro. Era una città che adoravo e disprezzavo allo stesso tempo, come fosse una donna che vorresti amare ma che non può essere tua, che non ti permette di capire se devi andare avanti e conquistarla o se andartene e odiarla. Una donna che di notte si veste con il suo abito elegante, quello lungo della sera. S’infila le scarpe con il tacco sottile, affilato come la lama di un coltello; si aggiusta i capelli, mette un po’ di trucco, sì, quello sempre, e si lascia ammirare e desiderare. E ti conquista. Perché è facile farsi amare da chi conosce il mestiere. Illuso di essere amato e protetto, lei ti accoglie in un caldo abbraccio, e ti stringe fino a soffocarti. Una donna perfetta solo per un amore a ore. Ed è in quel momento che capisci che nonostante i neon che la illuminano, non è tutta luce, perché quando si spengono le insegne dei palazzi, il buio scende e non hai più certezze. Se non quella che il sole sorgerà di nuovo, che il cielo sarà sempre uguale e che la metro correrà veloce.
17 Era questa la mia seconda casa. Nonostante mi stesse strappando alle mie radici, stavo imparando ad amarla, per quanto fosse possibile amare una puttana. Nelle settimane in cui dovevo recarmi a Hong Kong il giardino e il vecchio ulivo sarebbero rimasti senza cure. Si erano abituati alla mia assenza e, come altri, non sentivano più la mia mancanza. Era come se stessi vivendo in due mondi e due modi paralleli: due case, due vite, e un solo uomo che, senza accorgersene, assomigliava sempre più ad un uomo solo. Un giorno avrei dovuto decidere da che parte stare, e scegliere se abbracciare il bene o accettare il male che da qualche tempo sembrava essersi impadronito di me; ma in quegli anni avevo rimandato ogni scelta, indaffarato a incolpare il mio lavoro delle privazioni che mi ero imposto. Non sentivo di appartenere a niente e a nessuno, perché era lei, la vera colpevole di tutti i miei sbagli. Io, ero innocente. Volevo credere solamente a questo. Trisha si avvicinò e con un bisbiglio disse: «Leonardo! Svegliati, dai svegliati.» Sgranai gli occhi. «Quanto ti fermi stavolta? Avrai tempo per un aperitivo?» aggiunse. «Ti chiamo stasera quando finisco con il lavoro, ok?» risposi con la lingua impastata dal sonno. «Tanto non chiamerai come al solito.» Sorrise. Mi piaceva anche in uniforme, un orribile tailleur rosso con i profili gialli e i bottoni dorati. Non usava i tacchi, ma scarpe basse e comode. Non aveva bisogno di centimetri in più: lei era bella così. Ci trovavamo nello stesso aereo, ognuno con tanti rimpianti e pochi sogni. Entrambi avevamo abbandonato troppo presto le nostre speranze, rifugiandoci dietro alle stesse paure. Camminavamo in una strada illuminata, ma che a noi sembrava buia. E, come chi non può vedere sviluppa altri sensi per muoversi tra gli ostacoli, anche noi due, in modo diverso, avevamo affinato il senso dell’equilibrio, proprio come chi avanza su di un filo sospeso, tra cielo e terra. Una casualità ci aveva messo una di fronte all’altro, ma in un posto dentro di me io sapevo che nulla era dovuto al caso.
18 L’atterraggio fu perfetto, disturbato appena dal fruscio degli spoiler e dal fischio impercettibile della frenata. Quattro minuti dopo, in un ronzio elettronico, le porte dell’aereo si aprirono e i passeggeri, con le borse del duty free appese al braccio e la testa piegata sotto le cappelliere, iniziarono a scendere in una lunga processione. Salutai Trisha, con la promessa che l’avrei chiamata quella sera stessa. Quando scesi dall’aereo, la pioggia cadeva incessante e il cielo aveva quel colore grigio che assomigliava all’asfalto. A distanza di quasi un anno dal mio primo viaggio, mi ero abituato a quello scenario e qualche volta, prima di partire, mi sentito perfino eccitato: fare una valigia, prendere un aereo, volare lontano, e passare la notte in una camera d’albergo con una sconosciuta, mi facevano sentire il padrone del mondo. Fino a quando tornavo a casa, al mio piccolo paese e alla semplicità dei miei giorni. E realizzavo che tutto era una giostra, e finita la corsa non restava che un biglietto strappato. Hong Kong era questo, un posto dove niente era mai immobile, tranne il suo cielo, e dove niente era mai quel che appariva, eccetto il denaro. Un mondo coperto da una maschera dai colori accesi. Mentre fuori la città si muoveva lenta, nel sottosuolo correva veloce incrociando il destino di milioni di persone. I sogni degli studenti, le angosce degli adolescenti, le speranze dei giovani e la rassegnazione dei vecchi viaggiavano al ritmo costante di quattro minuti: il tempo tra una fermata della metro e l’altra. La città si era appena svegliata, ma erano già visibili i segni della vita che iniziava alle prime luci del mattino. Lasciati i bagagli in hotel, mi diressi all’ufficio di un venditore di perle che si trovava nel grattacielo sopra la stazione della metropolitana. L’odore di metallo dell’acqua che cadeva sull’asfalto arrivava fino all’ingresso del palazzo, tanto che il tappeto bagnato emanava un odore umido di muffa. Ebbi un conato di vomito. Presi l’ascensore, quello di mezzo, che si fermava ai soli piani pari. Allora non capivo perché quasi tutti gli edifici erano stati costruiti senza il numero quattro. “Sỳ”, appunto quattro, era un numero sfortunato in tutta la Cina. Il suo suono era lo stesso di un’altra parola, più pesante e grave di una cifra, cioè “morte”. Soltanto le costruzioni degli inglesi non avevano rispettato la tradizione, e forse era stata questa la ragione per cui se ne erano
19 andati dalla città anzitempo. Avevano sfidato la morte, costruendo case con il numero quattro, con il quarto piano e tutto il resto. E prima che una vecchia vestita di nero con una falce in mano li potesse raggiungere, i gentlemen avevano lasciato l’isola ed erano tornati casa. Quattro… Al piano quarantasei, assonnato e rincoglionito dal jet-leg, una donna sui cinquanta vestita con un abito nero di Prada mi venne incontro. La scena fu il teatrino di sempre. «Buongiorno Leo. Com’è andato il viaggio?» chiese con la sua voce gracchiante. «Bene, grazie. Ho dormito poco ma sono in forma. Hai preparato la merce?» Avevo la voce rauca, propria di chi aveva dormito ma non aveva riposato. Una teiera e un piattino con del mango essiccato erano stati sistemati sul tavolino vicino alla finestra. «Stavolta il lavoro è facile. I fili sono bellissimi. Teniamo il prezzo dell’ultima selezione, va bene?» disse Cherryl. «Perfetto direi. Mi lasci cinque minuti? Sistemo le mie cose e poi iniziamo» replicai. Seria come una mummia mi lasciò solo nella stanza, rispettando le mie abitudini, come la colazione che aveva preparato sul tavolo. Afferrai la tazza fumante con entrambe le mani, e in piedi di fronte alla vetrata, iniziai a bere quel the profumato. Rimasi ipnotizzato da un puntino rosso che rigava la baia, lasciando una scia spumosa sopra l’azzurro del mare: era il ferry boat che portava a Shenzhen, in Cina. Più in là, sulla terraferma, foderato di teli verdi e di impalcature di bambù, spuntava un grattacielo in costruzione, destinato a diventare l’edificio più alto della città. Mi venne in mente quando ero stato al Rainy Island con quell’odore di zolfo dei carboni che bruciavano nella sauna, e il lungo corridoio nella penombra che portava alle camere private. Era un luogo squallido, ma nel momento in cui ero entrato nella stanza e mi ero steso sul lettino, le mani che si erano posate su di me mi avevano fatto dimenticare ogni cosa. Avevano massaggiato il mio collo dolente, erano scese lungo la schiena fino a che una voce mi aveva ordinato di girarmi e un’ombra si era posata su di me, prendendosi tutto. Forse finito il lavoro, ci sarei andato… Tornai a fissare il puntino che rigava la baia, e la sua linea fece riaffiorare un pensiero abbandonato. Avevo perso il lavoro alla Telecom, un
20 posto sicuro, ed Elena mi aveva convinto ad accettare questo incarico. L’incertezza aveva preso il posto della stabilità, e non lo avevo scelto io. Lo avevo fatto per Elena, benché non la amassi e mi servisse soltanto per demolire il ricordo di Marta. Così volevo credere. Era un modo per incolpare qualcun altro nel caso le cose fossero andate male. Insomma, avevo permesso che lei scegliesse per me, strappandomi completamente dai valori con cui ero cresciuto e avevo avuto la sensazione di essere caduto in un vortice da cui non sarei mai uscito. Quel che mi si prospettava era una vita fatta di spostamenti, di abbandoni, di nuove sfide che mi avrebbero spinto lontano da casa mia, quel luogo sicuro in cui potevo rifugiarmi nel mio non vivere. Ero arrabbiato, ma più che con lei, lo ero con me stesso. Perché una parte di me, una parte crudele che avevo sempre ignorato, era emersa nel momento in cui avevo messo piede a terra, in una città che un tempo era stata la patria di pirati e puttane. E io, che venivo da un paese dove si andava a messa tutte le domeniche e si commetteva peccato soltanto a dirla quella parola (puttana), mi ero sentito all’Inferno. Così cercai di eliminare tutte le tracce che mi riconducevano a Elena, oltre che a Marta, come se le orme lasciate sulla sabbia dei miei sentimenti, di amore o di odio, potessero essere spazzate via dalle onde che bagnavano le spiagge di Hong Kong. Con loro rimossi anche l’amaro che provavo a ogni partenza e, da qualche mese, la mia vita a metà mi forniva un alibi perfetto e un nascondiglio sicuro. Se con Elena la cancellazione dei ricordi era riuscita, con Marta invece non stava funzionando. Relegato nel limbo, la incolpavo della mia incapacità di girare pagina e dimenticare un passato che aveva lasciato una ferita nel mio cuore, profonda e probabilmente indelebile. Sospirai, e guardai il tavolo sotto la finestra. La tazza di the era diventata fredda tra le mie mani. Lo appoggiai sulla mensola e iniziai a lavorare. Decisi di partire dalle cose facili, per abituare l’occhio alla selezione, e passare verso sera al vero obiettivo del mio viaggio nonché parte più delicata del mio lavoro: comprare migliaia di fili da quattro millimetri. Nel mio lavoro dovevo fare attenzione ad alcuni parametri. Stabilito il tipo di qualità che mi veniva commissionato, c’erano da rispettare altri aspetti: la forma, il colore, la pulizia della superficie e la lucentezza.
21 Quest’ultima caratteristica era la più importante. Perché senza luce, qualsiasi cosa non aveva valore. Avevo ricevuto una commessa importante. Prima del mio rientro a casa avrei dovuto recuperare almeno settanta chili di perle della stessa misura e qualità. Ogni filo pesava circa dodici grammi, e quindi, in un calcolo che ormai era diventato più meccanico che matematico, tra le mie mani sarebbero passati circa diecimila fili, con uno scarto del trenta per cento. L’azienda per cui stavo lavorando mi aveva richiesto l’acquisto di perle con tono argentato, ma non erano da scartare le perle con sfumature rosate. Dovevo affrontare anche la questione del prezzo attraverso una trattativa spesso estenuante. Il costo massimo andava fissato all’apertura del lotto, e poi tirato in base alla selezione, alla situazione di mercato e, ovviamente, alla mia bravura. All’inizio avevo commesso piccoli errori e pagato qualche lotto più del necessario. Poi, dopo due viaggi, avevo capito. La merce andava controllata, divisa in parti omogenee, e poi si decideva il prezzo a lavoro quasi ultimato. Era un po’ come andare al mercato rionale verso l’ora di pranzo perché è in quel momento che puoi spuntare la cifra più bassa. Purtroppo anche questo me lo aveva insegnato Marta. E per me era una persecuzione… Qualche volta, mentre lavoravo, pensavo alle parole di mia sorella alla vigilia del primo viaggio. “Non ti preoccupare Leo, tra un anno sarai il numero uno! Ti manca solo un po’ di esperienza. Gli altri ci hanno messo dieci anni ma tu...tu, sono sicura che tra meno di un anno sarai il migliore. Ne sono straconvinta!” mi aveva detto, passandomi una mano sulla testa rasata. L’università non mi aveva preparato a questo lavoro, ma era riuscita ad aprire la mia mente e a renderla elastica. Avevo studiato tanto, imparato a memoria prezzi e formule di conversione in valuta; avevo fatto pratica con gli esperti più accreditati prima di imbarcarmi in quest’avventura. E alla fine se fossi diventato davvero il migliore non lo sapevo, ma ero bravo, questo sì. L’occhio era allenato e riuscivo a riconoscere bene un lotto buono da uno da scartare. Avevo anche imparato che il limite ero spesso variabile, e che bisognava dar fiducia al proprio gusto per scegliere. Cosa quest’ultima, che riuscivo a fare solo con le perle.
22 Dopo otto ore di lavoro, spensi la luce dell’ufficio e mi avviai verso la mia camera. Fuori era già buio. E ancora una volta non avevo chiamato Trisha. Ma questo lo sapevamo tutti e due.
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Ho scritto per ore, alzandomi soltanto un paio di volte per andare in bagno. Ogni volta che mi tiro su vorrei non dovermi risedere, e ogni volta che mi siedo vorrei non dovermi rialzare. E’ la fatica più grande che devo affrontare in vecchiaia. Per il resto tutto funziona bene e se ho riposato durante la notte, al mattino mi sveglio con un amico che mi degna ancora di un saluto. Non m’illudo di certo che sia ancora in grado di possedere una donna, ma ho semplicemente bisogno di scaricare l’acqua che ho bevuto prima di dormire. Rileggo le pagine che ho scritto, senza l’ausilio degli occhiali. Dovrò correggere qualche parola. Non sono sicuro che certi vocaboli si usino ancora in questo tempo, dove tutto è tecnologico e la carta da lettere non esiste più. Magari chiederò alla mia domestica, che ha frequentato l’università degli anziani, se può inserire qua e là uno di quei termini moderni, come “fashion” o “trendy” per esempio. Forse sembrerò meno vecchio. “Dov’è Benedetta?” mi chiedo confuso, mentre l’orologio segna le cinque e venti del pomeriggio. Mi appoggio al tavolo e, come se stessi sollevando trecento chili, mi alzo in piedi. Con la velocità di una tartaruga scivolo verso la cucina. Mi basta muovere pochi passi per vederla indaffarata tra i fornelli con una pentola e un mestolo di legno. Il profumo non mente. Stasera mangerò minestrone. La nostalgia mi assale. Mia moglie adorava prepararlo e, se a volte io avrei preferito mangiare un petto di pollo con i piselli, la lasciavo fare e le dicevo che mi era venuta l’acquolina in bocca. Ci metteva passione in quel che faceva. Nella scatola con tutte le nostre foto, ce n’è una che la ritrae mentre sminuzza le verdure, davanti a un pentolone accesso sul fuoco. In quell’immagine ha l’espressione assorta, ed è bellissima. Era lei ad occuparsi della fotografia. Io le ho fatto solo qualche scatto ma se potessi tornare indietro gliene farei tantissimi. Non perché ho bisogno di vederla ritratta o incorniciata più di quel che
24 già ho, ma semplicemente perché avrei condiviso con lei qualcos’altro dei miei giorni felici. E’ quasi l’ora della cena. Nel lento andare dei miei movimenti, le lancette corrono in fretta in un tempo che a me sembra non passare mai. Anche stasera, altro non desidero che stendermi a letto e non svegliarmi più... Attendo la fine che, anziché avvicinarsi, ogni giorno sembra più lontana. 2005. Ultimi giorni di Novembre Dopo aver attraversato Victoria Park, il polmone verde di Hong Kong, camminai per Wan Chai, lasciandomi alle spalle il distretto di Causeway Bay. Jane e Anamarie prendevano il posto di Gucci e Luis Vuitton, segnando un confine invisibile tra due mondi divisi e allo stesso tempo uniti da Lockart Road, la spina dorsale dell’Isola, da cui partivano tutte le terminazioni nervose della finanza e del commercio. Di qualsiasi tipo, moda o sesso che fosse. Da un pub inglese risuonavano le risate di uomini di mezza età, rallegrati da una pinta di birra e dalle tette di un gruppetto di indonesiane. Nel ristorante messicano una compagnia di ragazze festeggiava l’addio al nubilato di una sposa stanca ancor prima di sposarsi. Di fronte al Bunny tre ballerine in biancheria intima con gli stivali neri alti fino al ginocchio cercavano di catturare due passanti in giacca e cravatta. “Solo una birra” dissero, strattonando i malcapitati che avevano ceduto, oltrepassando la tenda di velluto viola del night club. Riconoscevo Wan Chai dal rumore delle frenate dei taxi, dal campanello del passaggio pedonale, dall’olezzo del cibo dei tuguri, e dall’odore del profumo delle prostitute. Sapevo esattamente dove mi trovavo anche ad occhi chiusi. Usavo tutti i sensi, non solo quello della vista, e potevo vedere la città nella sua parte più intima, quella fatta di carne e sangue che scorreva nelle vene. Cuori pulsanti che trovavano l’amore in una stanza di un hotel, tra i vicoli di una strada, e dietro le tende di un locale a luci rosse. Ero convinto che non mi sarei perso come loro, o che comunque mi sarei sempre ritrovato… Camminavo un passo dietro l’altro, in una sequenza robotica offuscata dalle preoccupazioni del mio lavoro, con la testa pesante e gli occhi arrossati.
25 Mi ritrovai in una strada secondaria, illuminata da una luce intermittente dell’insegna di un motel. Qualche metro più in là vidi un capannello di ragazze davanti a un chiosco, sedute su due panchine di legno intorno ad un tavolo arrugginito, mentre mangiavano un piatto ormai freddo. Sul pavimento, stesa a terra come fosse la bella addormentata, una giovane giaceva priva di sensi. «Serve aiuto? Credo abbia bevuto un po’ troppo» dissi rivolgendomi ad una ragazza dai capelli scuri che mi stava fissando. «Sì, in effetti... Mi aiuti ad alzarla? E’ troppo pesante per me e ho dovuto lasciarla sul marciapiede» rispose la bionda che sedeva vicino a lei. Mi avvicinai a quel corpo inerme. Aveva il viso sfigurato dalla sbronza, bianco come il talco, e i capelli corvini le coprivano gli occhi. Sembrava uno spettro. «Dove abita?» chiesi ancora. «Appena due isolati più indietro» disse una voce che proveniva dal tavolo. «Ok, è qui vicino. Fermo il primo taxi che passa e vi accompagno.» Ci potevamo arrivare a piedi, tuttavia non mi sembrò una buona idea camminare con una donna moribonda in spalla. Al primo angolo avrei incontrato un paio di poliziotti che di sicuro mi avrebbero fatto domande e chiesto i documenti. Non era per niente una buona idea. Osservai le ragazze di fronte a me, protese verso quella donna piegata su sé stessa come fosse un cartone umido di pioggia. Puttane… ma prima di tutto ragazze come altre, con i loro sogni e i loro desideri, con le paure e le incertezze di ognuno, che avevano scelto una via per sopravvivere alla merda in cui erano nate. Il loro trucco assurdo, tanto da sembrare dei clown, era probabilmente l’unico modo che avevano per coprire la vergogna per quel che erano diventate, e guardarsi allo specchio potendo ridere di sé stesse, prendendo per il culo una vita che non era stata affatto generosa. Cinque minuti dopo, sotto a un condominio fatiscente lasciato deperire dagli inglesi, un rumore elettrico fece scattare la serratura e la porta si aprì, stridendo in un suono di lamiera arrugginita. Una ragazza di bell’aspetto ci accolse e quando salimmo in ascensore non ebbi il minimo dubbio a quale piano ci saremmo fermati. Mi ritrovai dentro a un appartamento angusto di venti metri, il cui ingresso a inferriate era chiuso con un catenaccio. Nell’angolo cottura c’era soltanto un fornellino a gas che era stato usato per scaldare una
26 pasta in una pentola bruciata. I sei letti a castello erano disfatti e un mucchio di riviste era ammassato sul pavimento. I vestiti piegati ordinatamente sulla sedia stridevano con il disordine generale della stanza. I muri, ingrigiti dal fumo e dall’assenza del riverbero del sole, erano tappezzati qua e là con foto a colori. Non c’erano finestre, ma soltanto un buco che serviva a malapena ad arieggiare il bagno. “E’ una prigione, questa camera è una prigione”, pensai guardandomi intorno. Stesi la ragazza su uno dei letti. Le tolsi i vestiti e mi accorsi che era stata picchiata. I lividi sui polsi, sulle caviglie e intorno al collo erano un segno evidente della pratica cui era stata sottomessa. Doveva essersi concessa a un gioco erotico estremo, con la speranza di guadagnare di più, pensando che con qualche altra serata come quella, sarebbe potuta tornare a casa, a Manila, con un paio di settimane d’anticipo. Con la donna tra le braccia, entrai nella doccia e involontariamente picchiai la sua testa contro la parete che mi restituì un rimbombo sordo. Uno scarafaggio uscì dallo scarico. Rabbrividii. La sua esistenza mi parve vuota come quel muro dall’intonaco consunto. Sotto l’acqua tiepida accennò un sorriso. Tentò di aprire gli occhi, ma li aveva sentiti troppo pesanti. Provai compassione, per lei e per le altre. E la mia pietà ferì quelle giovani più di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi parola, perché, nonostante tutto, avevano affrontato la loro vita con dignità. La ragazza mora, la più carina delle due amiche, fece una telefonata e di tutto quel discorso compresi soltanto una parola: “hindi”, cioè, “no”. Non ebbi nemmeno il tempo di asciugarla e Hanna, così disse di chiamarsi, arrivò a prendersi cura di lei. Con quegli occhi grandi e il naso piccolo si accomodò ai piedi del letto, tenendole il polso con una mano, e lisciandone i capelli sulla fronte con l’altra. «Resto io a farle compagnia, voi andate adesso» disse risoluta. «Va bene. Se inizia a stare male dalle due aspirine, ok?» disse la donna che ci aveva fatto entrare. «Non so se ne ho in borsa. Fammi guardare...» Rovistò tra le mille cose che teneva nel borsello e tirò fuori una scatola. «Ho solo delle pastiglie per il mal di testa» disse spalancando le braccia.
27 «Vanno bene anche quelle» replicò l’altra. Poi salutò tutti e noi uscimmo dalla stanza. Guardai Hanna per un momento. La vidi mentre baciava in fronte la sua amica. Sentendosi osservata, mi sorrise e mi salutò aprendo e chiudendo la mano, come fanno i bambini. «Ti siamo debitrici. Possiamo offrirti la cena?» disse la ragazza bionda mentre scendevamo le scale. Non risposi, ma le seguii verso il chiosco dove le avevo incontrate. Era passata la mezzanotte da una ventina di minuti ed era tardi per mangiare. Non per loro, che prima di potersi permettere un pasto avrebbero dovuto guadagnarsi i soldi per pagarlo. Chi riusciva a portarsi a letto un cliente, chi solo a farsi offrire da bere e ricevere la commissione, chi chiedeva qualche dollaro in prestito a un’amica. Ma in qualche modo dovevano recuperare il denaro. Così vedevo ragazze cenare, riunite intorno ad un tavolino arrugginito, sedute su due panche di legno, alle nove di sera o alle due del mattino: non era lo stomaco a comandare. Per loro quella sera il portafogli era ancora vuoto. «Grazie ancora. Le hai salvato la vita stanotte» dissero all’unisono. «Dovete stare attente! Non sapete nemmeno chi sono e mi avete portato in casa vostra. E se avessi voluto farvi del male?» feci l’occhiolino, ma non era come sapeva fare Trisha. «Sì, hai ragione, ma un uomo cattivo non si comporta come te! Grazie infinite» disse la ragazza mora. Mi sorrise e fu lei ad ammiccare, sperando accogliessi l’invito. Magari non mi avrebbe nemmeno chiesto un centesimo pur di passare la notte in un letto pulito, con le lenzuola bianche, anziché in un tugurio ingrigito. Invece chiesi il conto e lasciai il resto di cinquanta sul tavolo come mancia. «Che cosa fai? Te ne vai già?» protestarono, soprattutto la più carina delle due, che avrebbe voluto ringraziarmi a modo suo. «Ciao ragazze. Occhi aperti! Ci si vede in giro» girai i tacchi e me ne andai. Non ho mai saputo il nome di quella ragazza stesa sull’asfalto. Non chiesi nemmeno il nome delle sue compagne. Fu la prima e l’ultima volta che le incontrai nelle mie notti insonni. E di tutta quella storia ciò che avrei ricordato per sempre sarebbe stata la dolcezza di Hanna, seduta ai piedi di un letto che si prendeva cura di un’amica.
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«Benedetta, sai cosa dicevano i miei amici?» Conosce la risposta, ma fa finta di niente e mi dà corda. «No, cosa dicevano Leonardo?» «Dicevano che la mia vita era fantastica. Che tutti sognavano di vivere come me, di potersi fare due vite, una all’oscuro dell’altra. Ma non conoscevano la verità. Io mi sentivo sempre solo, esattamente come quelle ragazze che giravano per le strade di notte.» «Non ti seguo...» «Non capisci? Anch’io ero un disperato come loro, e stavo diventando un balordo. Ho fatto ciò che tutti si aspettavano da me. Non volevo essere cattivo, ma lo sono stato. Anche quando trattavo bene quelle donne che avrebbero voluto soltanto del denaro per stare meglio. Non capivo che le stavo ferendo comportandomi da brava persona. Io le illudevo, con la prospettiva di una vita migliore. Le trattavo bene, da essere umano, e davo loro una speranza che non esisteva.» Benedetta mi fissa. Ha già sentito questa storia tutte le volte che ho bisogno di ricongiungermi a mia moglie; ma ogni volta che la racconto aggiungo un particolare, e lei resta a bocca aperta e non sa cosa dire. So che per certe cose si sente ancora a disagio e siccome sono abbastanza anziano da non avere più vergogna di fronte a nulla, faccio una scoreggia rumorosa. Lei ammonisce la mia poca educazione, e smette di provare imbarazzo di fronte a me e alla mia storia. Rido, dico a me stesso che è una fortuna averla in casa; nonostante io non veda l’ora di morire e andarmene, in pace o nell’inquietudine, in un modo qualsiasi purché con dignità, credo che sentirò la sua mancanza. E’ uno degli inconvenienti del vivere. Torno al passato, riprendo la penna e scrivo. Finché la fantasia è fervida e i ricordi non mi abbandonano è meglio continuare. Riposerò nei momenti meno lucidi. ***
29 Se eri nato verso la fine del settanta crescevi per forza con le responsabilità che quegli anni imponevano, con le ultime dittature che crollavano e la guerra del Vietnam che aveva spaccato il mondo intero. Erano gli anni dell’economia che avanzava veloce, con le televisioni a colori in cucina che facevano sentire “un signore” pure il figlio di un operaio mentre Goldrake, con la forza di mille uomini, entrava in casa aprendo le porte agli anni ottanta, in cui un attore di nome Ronald poteva diventare uno dei presidenti più amati degli USA. E se erano quelli i principi che ti avevano fatto crescere, dovevi essere per forza un bravo ragazzo, chiuso nel tuo mondo perfetto di cinquemila abitanti. Educato da genitori cristiani e bravi lavoratori, nella mia seconda vita mi sentivo a disagio, all’inizio. Perché dovevo essere un uomo buono e non avrei dovuto deludere la mia famiglia e il suo insegnamento. Ma quella città mi aveva portato a esplorare una parte di me che non sapevo di avere. Marta aveva innescato il meccanismo, e quindi era sua la colpa. E di Elena, ovviamente. Una per avermi distrutto, l’altra per avermi mandato in una Città “proibita” a diventare un bastardo. I miei amici mi invidiavano, cogliendo solo il lato piacevole delle cose, ignorando che dentro di me c’era un terremoto. Avevo messo in discussione tutti i miei valori, e avevo perfino pagato per avere una donna. Con Hanna ben impressa nella mente, appena arrivai in camera chiamai il mio migliore amico. Come un fiume in piena che aveva rotto gli argini, raccontai a Max cosa mi era appena successo. Quella buona azione era stata un modo per sentirmi migliore. Ero stato un bravo ragazzo da giovane, e quel che stavo diventando non mi rendeva orgoglioso. E non tanto perché avevo usato Elena e andavo a letto con chi mi capitava, ma per un fatto che era ben più grave: non avevo avuto la forza di scegliere e migliorare la mia vita. «Adesso come ti senti?» chiese, dopo avermi ascoltato con attenzione, pesando ogni singola parola. «Bella domanda. E’ tutto a posto, ma c’è qualcosa che non mi torna.» «Sei sicuro di star bene?» Feci un lungo respiro, ma non risposi. «Leo, passerà, vedrai. E’ solo questione di tempo.» Avrei voluto crederci.
30 «Dai, ne riparliamo quando torno a casa. Grazie per la chiacchierata. Ciao fratello.» «Ciao… Chiama quando vuoi. E fa il bravo.» Non gli avevo chiesto di Martina! Così lo richiamai e quando rispose, disse: «Non riesci proprio a dormire tu! Forse devi uscire a farti una scopata.» Rise. «In realtà mi sono dimenticato di chiederti come va con...» «Lascia perdere per carità. E’ sempre più complicata la storia.» Parlammo per un quarto d’ora, e mi spiegò del casino che aveva dentro. Come al solito si buttava in avventure problematiche, rifugiandosi nella sua teoria “l’amore vero non esiste ma voglio vivere le emozioni”. Da quando lo conoscevo non aveva mai avuto una relazione che durasse più di tre mesi. Stava uscendo con la donna di un altro e cominciava a infastidirlo il fatto che lei continuasse a tenere il piede in due scarpe. «Scusa, fammi capire: se ti dà fastidio non le puoi chiedere di stare con te e di lasciarlo? Tanto lo sai che sarà la storia di sempre. Litigano, lei viene da te, fate l’amore, si sente bene e promette di lasciarlo. Poi lui torna in ginocchio e ricominciano, mentre tu continui a roderti. La scelta è solo tua, amico mio. Solo tua. E te l’ho sempre detto!» «Ma dai! Non ha senso. Mi dice che tra noi deve finire. Dopo due giorni che l’ha fatto con lui continua a cercarmi però! Ma vai! Le voglio bene ma non passo dove è passato un altro... non la sento più, non sento più il suo cuore» disse. Aveva lo strano difetto di sentire una sorta di possesso per le persone con cui faceva l’amore, e di sperare che Martina lo amasse, indipendentemente dai suoi sentimenti. Per lui poteva essere anche solo un passatempo, ma lei doveva amarlo. Lui era fatto così… Non potevo vederlo, ma il suo nervosismo oltrepassava il telefono. Non riusciva a calmarsi, camminava impaziente da un angolo all’altro della cucina. Poi si sedeva sullo sgabello. Si rialzava e ricominciava a muoversi ancor più freneticamente. «Il tuo cuore invece, lo senti?» chiesi. Ignorò la domanda e imprecò. «Max, non è che finalmente sia giunto il tempo di impegnarsi? Perché non vai in fino in fondo. Io almeno ci ho provato una volta. Almeno so cosa vuol dire. Ma tu invece stai lì e ti mangi il fegato per lei. Se la lasci andare forse sarai più sereno, meno ansioso. Meno geloso diciamo! E visto che non riesci a impegnarti per più di tre mesi di sicuro incon-
31 trerai nuove persone. Dopo qualche mese sarai felice e non ti mancherà niente. Il tempo andrà avanti allo stesso modo ma ti sveglierai la notte pensando se è davvero ciò che volevi. Dopo un paio d’anni il tuo equilibrio sarà intatto e ti accontenterai di una vita normale. Ti convincerai che è stata la cosa giusta. Vedi tu. Però non arrivare a quarant’anni rimpiangendo di non essere riuscito a inseguire ciò che volevi.» «Non lo so, ci penserò. Strano sentirlo dire da te. Pensi di rivedere Elena quando tornerai?» «Penso di sì. Mi manca, soprattutto a letto. Non lo so se incontrerò un’altra così sotto le lenzuola. Che non la amo è sicuro, però mentre stavo con lei non pensavo troppo a Marta. Boh, magari me ne innamoro prima o poi. Dice in giro che mi ama…» «Ma cosa dici?! Ti ricordo che è stata lei a metterti su un aereo e poi lasciarti. So cosa va dicendo: ti ama ma non può stare con te! E perché poi? Sai come va a finire? Che la cerchi e non ti caga nemmeno!» «Ti ho detto come sono andate le cose. Anch’io la pensavo allo stesso modo, ma sbagliavo. Se non fosse stato per sua madre… E poi lei ha raccolto i cocci, si è dedicata a me per anni, dopo che Marta se ne era andata. Penso di chiederle di tornare insieme e darle una possibilità. Max, un’ultima cosa e poi ti lascio: concentrati su Martina, sulla sua anima e non guardare il suo corpo. Stai facendo l’errore che hanno fatto gli altri. Avvicinati di più e ascoltala. Non potrai capirla, questo no! Ascoltarla però è possibile. Per comprenderla invece non so dirti molto. Io non ci ho ancora capito nulla: le tratti bene e ti lasciano; le tratti male e ti corrono dietro. Fino a quando si stancano, ovvio. Dimmi adesso, lo senti ancora il tuo cuore?» «Sì» rispose deciso. «Buona notte amico mio. Ora dormi sereno, ok?» Prima di chiudere mi disse: «Leo, ti voglio bene.» Lo ringraziai. Mi ero commosso perché pochi hanno il coraggio di dire “ti voglio bene” a un altro uomo. Coraggio... di cosa poi. Di dire ciò che si pensa? Di non aver paura di come siamo, dentro e fuori? Io non avevo avuto paura di dirgli che mi sentivo solo. Però gli avevo nascosto una cosa: la notte piangevo. Non sapevo se era per Marta o per qualcos’altro. Rabbia? Amore? Odio? Non lo so, ma portavo dentro un segno che non riuscivo a cancellare. E piangevo nel silenzio della mia camera d’albergo. In fondo avevo sempre creduto che
32 in lei ci fosse del buono. Ma mi sentivo un’ipocrita, perché avevo usato Elena per dimenticarla. Non andai a dormire, come avevo pensato di fare prima di quella telefonata. Tornai al pub, seduto al bancone davanti a una birra. Osservavo le persone vicino a me: coppie. Alcune vere, con gli occhi innamorati. Alcune finte, con lo sguardo di lei stregato dal portafoglio di lui. Coppie consolidate, che non facevano più l’amore da settimane. Coppie appena nate, e che si sarebbero sciolte dopo aver passato un paio d’ore nello stesso letto. Ubriaconi con donne di mezza età, sfatte da anni di marchette e notti insonni. Erano comunque coppie e si facevano compagnia, mentre io ero solo in quanto incapace di vivere in uno qualsiasi di quei modi. Tornai in camera, accesi il portatile e scrissi una mail a Elena. Mi mancava, la volevo in quel momento, nel mio letto. Quando al mattino mi svegliai la mia posta era vuota e la solitudine si fece più grande. Chiamai Trisha, che corse nella mia camera. Dopo aver fatto l’amore feci una doccia calda e mi recai al lavoro. Tantissimi fili di perle che ogni giorno mettevano a dura prova la mia vista. Era ben diverso quando, seppur raramente, dovevo comprare le perle di Tahiti. Le chiamano perle nere, anche se i colori che assumono variano in un’infinità di sfumature, partendo dal grigio, passando per il viola, arrivando al “peackok”, il colore che ricordava i riflessi meravigliosi della coda di un pavone. Sentivo addirittura il profumo del mare mentre le guardavo. Immaginavo le spiagge e le acque che le avevano accolte, nutrite e cresciute. Erano le mie preferite, eleganti e misteriose. Invece dovevo fare i conti con cinque sacchi di perle cinesi, di qualità mista e di difficile settaccio. I miei occhi erano riposati, ma l’immagine che vedevo riflessa mi confondeva. Vedevo il volto di un uomo che si sentiva solo, assomigliante alla fotocopia sbiadita di un ragazzo un tempo felice. Ero nel caos, in un modo calmo e inspiegabile. Cercai di riordinare i miei pensieri. Guardavo le perle e non riuscivo a coglierne la luce. Ecco cos’era. Era la luce quella che stavo cercando di trovare in quella confusione che mi trascinavo dentro da mesi. Era meglio smettere di lavorare, chiudere gli occhi, riposare qualche minuto. Ma non lo feci. Volevo finire il lavoro
33 entro sera e uscire un po’. Avevo bisogno di una distrazione. Una qualsiasi. Mi dedicai a preparare le pariglie, le coppie che servivano per gli orecchini, un’attività che mi aveva sempre rilassato. Alla fine, non avevo fatto ordine, ma le ore erano passate veloci. Fuori il sole si era spento mentre si erano accese le luci dei neon ad illuminare la città. Non uscii quella sera, e nemmeno in tutte quelle seguenti. Mi lasciai trasportare dalla corrente, desiderando Elena e odiando Marta. Trisha non funzionava in questo. Perché Elena almeno riusciva a vedere le cose dalla mia stessa prospettiva. Era strano. Ci eravamo lasciati da mesi ormai, e non avevo avuto più sue notizie, ma durante quelle notti mi era mancata, fisicamente. Perso a Hong Kong mi chiedevo chi potesse portarmi in salvo sulla riva.
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Mi sono guardato allo specchio. I segni del tempo sono evidenti, e non c’è molto da mascherare alla soglia dei centoquattordici anni. Ho sempre sperato di invecchiare bene, con la testa ancora lucida, che non significa rasata a zero, con i denti sani e le gambe buone per camminare da solo. Sono stato fortunato in questo, ginocchia a parte. La sfortuna mi ha accompagnato in qualcos’altro… Ho scritto molte pagine oggi. Sono stato seduto fuori, davanti all’ulivo, con la coperta in grembo e il maglioncino sulle spalle. I vecchi hanno freddo anche quando fa caldo. Ridevo quando ero solo un ragazzo e vedevo il nonno uscire con i guanti e il cappello di lana a maggio, facendosi accompagnare nella sua passeggiata da un treppiede arrugginito. Da qualche anno lo capisco invece. Ho la bocca impastata e la stomaco in subbuglio. Non so dire se per l’agitazione che mi provoca rivivere quegli anni, o perché sono quasi le cinque e Benedetta è andata a casa prima del solito. Per fortuna mi ha preparato il the. “Lo lascio nel pentolino, così lo puoi riscaldare”, ha detto. Non vado più d’accordo con il microonde. Una volta aveva solo due bottoni, il verde per accenderlo, il rosso per fermarlo. Ma questi elettrodomestici moderni hanno troppi tasti e un milione di funzioni. Tutto “touch-screen”, e per chi ha le mani tremanti come le mie, è una maledizione. Benedetta è in gamba e il the è davvero nel pentolino, con il limone già spremuto. Dopo che ne avrò bevuto una tazza, chiuderò il quaderno e poserò la penna. E magari mi verserò un bicchiere di rum. Sono stanco e credo che andrò a dormire presto stasera. Senza cena. Mia moglie mi avrebbe sgridato, “perché non si va a letto senza mangiare, altrimenti la notte ti svegli con i crampi allo stomaco” diceva. Però lei non c’è, e una piccola bugia posso raccontarla a me stesso.
35 Gennaio 2006 «E smettila di guardarle il fondoschiena!» disse Francesca, riferendosi a Monica, la sua migliore amica. «Francesca, quando ti deciderai a cambiare!» ammonì Monica. «E perché? Sono bellissima così» e di nuovo la sua risata grassa rimbombò in casa. «Siediti qui e non fare la stupida!» mia madre la placò, perentoria e puntuale come il mal di pancia dopo le prugne. «A tavola!» urlò mio padre. Spesso toccava a lui occuparsi della cucina. «Monica, ti siedi qui, va bene?» «Sì va bene, per me fa lo stesso» disse timida nonostante l’aria disinvolta. «E’ il posto migliore! Vicino al mio fratellone. Leo, non toccarla da sotto al tavolo, mi raccomando! Prima mi devi chiedere il permesso! Eh eh.. è fidanzatissima. Per cui, stasera ti è andata maleeee» disse con tutte quelle e in farsetto. «Smettila!» sbuffò Monica innervosita. «Non badarci, è tutta fuori» dissi, cercando di metterla a suo agio. «Infatti, è una pazza.» Sorrise e mi fece l’occhiolino… Mi aveva lanciato un segnale? Sarebbe stato meglio ignorarlo. Durante la cena lasciammo che mia sorella proseguisse con il suo show. Io avevo cercato di essere gentile, con le solite frasi di circostanza e le premure che si riservano agli ospiti e alle persone che non conosci bene. Le avevo versato da bere un paio di bicchieri. Preferiva il vino bianco a quello rosso. Aveva mangiato il risotto, spiluccato un po’ il branzino e lasciato sul piatto le patate al forno. Mi accertai che il cibo fosse di suo gradimento e che fosse sazia. Lo era, soltanto che mangiava poco, per via della linea da modella da preservare. «Volete vedere i miei disegni?» chiesi dopo il caffè. «Ne ha fatti di nuovi… vedessi che roba!» esclamò Francesca, rivolgendosi alla sua amica. «Dipingi? Wow!» disse Monica, sorridendomi ancora. «Non proprio… Mi viene meglio con le matite. Diciamo che è un esperimento. Dai saliamo che vi faccio vedere.» «Aspetta, vi accendo la luce.» Mia madre si alzò e fece strada. Monica ci seguì su per la scala di legno, facendo facce buffe a ogni scricchiolio dei gradini sotto ai suoi piedi.
36 Di fronte ai miei disegni rimase in silenzio. Forse non le erano piaciuti. Marta li adorava… Per il resto della serata non proferì parola. Due ore più tardi ci stavamo amando sul sedile posteriore della mia macchina. Non ci fu niente di romantico, nemmeno un po’. Era stato un rapporto violento, con le unghie conficcate nella schiena, e i morsi sulle spalle. Era stato brutale, ma consapevole e complice. «E adesso?» chiese. «Adesso cosa?» «Finisce così, va bene? Sai che ho un ragazzo.» «Certo, me lo ha detto mia sorella. Per me va bene, ci siamo divertiti un po’, non ti pare?» Si mise a ridere e mi baciò sulla bocca. «Mi è piaciuto un sacco, ma non penso che succederà di nuovo» e poi aggiunse: «Scusa.» «Tranquilla, va bene così.» Non lo avrei mai immaginato. Due giorni dopo venne a trovarmi. Mi disse che aveva litigato con il suo fidanzato e che aveva bisogno di sfogarsi. Cosa intendesse mi fu subito chiaro. Si sfilò la maglietta, si tolse la gonna e si sedette sopra di me. Fu un gennaio caldo, più della primavera che mi avrebbe gelato il sangue nelle vene. Ci si vedeva soltanto per il sesso. La sera prima che partissi, Monica mi fece salire in camera sua. E molte cose cambiarono. La sua piccola stanza per lei rappresentava tutto il suo mondo. C’erano i poster appesi al muro, come in quelle delle ragazzine adolescenti che immortalano i propri cantanti preferiti. Lo stereo aveva un posto di privilegio sul comodino e la lampada era appoggiata a terra. Le pareti rosa contrastavano con le tende bianche a ricami. L’armadio, strapieno di vestiti, dava la sensazione che sarebbe scoppiato da un momento all’altro. «Monica, quanti anni hai?» chiesi Non sapevo nulla di lei. Avevo imparato a memoria ogni centimetro della sua pelle ma non sapevo nemmeno quand’era il suo compleanno, qual era il suo film preferito o la canzone che le faceva battere il cuore. «Trentadue. Ma non urlare! Mia madre sta dormendo nella stanza a fianco.» Sogghignò. Fece cadere a terra la minigonna, si tolse le scarpe e rimase con le autoreggenti e un micro perizoma rosso. Monica sentì la cerniera dei miei
37 pantaloni abbassarsi e sul suo viso apparve un sorriso compiaciuto. Poco dopo l’espressione sul suo volto cambiò e divenne una smorfia di piacere. Nel buio di una piccola stanza, Monica aveva capito che si era spinta oltre il confine che aveva tracciato per la nostra relazione. Felice, sorpresa da sé stessa, iniziò a piangere. Nello stesso istante io, chiuso nel suo mondo di tre metri per tre, segnato dal limite di una porta chiusa a chiave, avevo sentito, dopo tanti anni, che mi poteva bastare. Poteva bastarmi una persona per stare bene ed essere in pace, senza rimpianti. Poteva bastarmi lei, Monica, purché fosse nel suo mondo soltanto. Perché in quel posto, grande tre metri per tre, c’eravamo solo io e lei. E non esisteva nient’altro. Ma fuori, che ne sarebbe stato di noi? Ci addormentammo insieme, scomodi e stremati. E sarebbe stato meglio non aver dormito insieme, perché quando si svegliò, Monica aprì gli occhi, mi guardò e disse: «Mi sa che mi sto innamorando di te.» Richiuse le palpebre e si riaddormentò, lasciandomi andare, senza chiedermi di replicare. Qualsiasi altra parola sarebbe stata di troppo e avrebbe suonato come un disco su di un giradischi rotto. Il giorno dopo ero seduto sulla poltrona di un aeroporto a fare i conti con quel che restava della mia passione. Spento il fuoco, cosa ne avrei fatto delle sue ceneri? Le avrei spazzate via. Lontano dall’Italia avevo sentito la sua mancanza al pari di quella di Elena, che si era di nuovo fatta viva. Riuscii a non pensare a Marta, sprecando il mio tempo tra le gambe di Trisha. Tornato a casa, nel mio piccolo mondo, la mia vita cambiò per sempre. «Non rompere. Smettila» dissi alzando la voce. «Chi è Elena?!» urlò. «Monica, smettila, non è nessuno!» iniziavo ad averne abbastanza di quelle discussioni che non portavano a nulla. «Non è nessuno? Sono giorni che ti chiama nel cuore della notte. Cosa credi, che sia stupida?» «Davvero non è nessuno. E’ la mia ex e basta. Quindi basta paranoie. Ha già avuto la sua occasione. Sei gelosa di una che mi ha lasciato da più di un anno? Ridicolo!» Elena mi aveva cercato. Qualche mese prima aveva ignorato la mia mail ma adesso voleva tornare da me. E io, che iniziavo a trovarmi bene
38 anche tra le lenzuola di Monica, stavo prendendo tempo. Anche perché lei mi permetteva di non sentirmi in colpa. Mi afferrò per un braccio, strattonandomi, e iniziò a urlare. Disperata, mi colpì con ceffone. Dalla parte opposta, di fronte a me, una moto avanzava a forte velocità. Persi il controllo dell’auto, invadendo la corsia di sinistra... Sterzai bruscamente sull’asfalto reso viscido dalla pioggia che aveva iniziato a cadere. La macchina sbandò ma riuscii a tenerla in strada. Evitai la moto che scivolò a terra, ma non potei far nulla contro quel camion… Quando ripresi conoscenza l’unica cosa che ricordavo era il suono della sirena dell’ambulanza e la macchina fracassata in un fossato, incastrata sotto a un ponticello di pietra. Venni trasportato in ospedale e Monica non era al mio fianco. L’infermiera mi disse che si trovava in sala operatoria. «Come sta?» domandai, con il cuore in gola. «Non ti preoccupare. Starà bene. Non è in pericolo ma devono togliere l’emorragia.» «In che senso?» «C’è del sangue da togliere dentro il suo stomaco, nella parte bassa.» Non capivo quello che mi stava dicendo. Avevo la pelle d’oca. «Mettiti a riposo. Vedrai che andrà tutto bene.» «E il motociclista?» «Lui sta bene, non si è fatto nulla. Vedrai anche lei si riprenderà in fretta.» «E l’uomo del camion? Come sta?» «Se l’è cavata con un braccio rotto e dieci punti sulla spalla» rispose, cercando di tranquillizzarmi. Monica morì in sala operatoria. Un altro segno indelebile, che avrei portato dentro. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD