In uscita il 22/12/2017 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre e inizio gennaio 2018 ( ,99 euro)
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ROBERTO OLIVA
IL MOMENTO GIUSTO
ZeroUnoUndici Edizioni
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IL MOMENTO GIUSTO
Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-158-7 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Dicembre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
A chi scrive, e a chi legge
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PRIMA PARTE
VLADIMIR: Allora? Andiamo? ESTRAGON: Sì, andiamo. (Non si muovono.) Samuel Beckett, Aspettando Godot, 1953
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1. GROUND CONTROL TO MAJOR TOM
«Ah, senti che bello. La senti, no? La tipica essenza delle case degli studenti…» «Sudore, impegno e sete di conoscenza?» «No: muffa, marijuana e puzza di umidità.» Walter rise e scosse la testa, poi si chiuse la porta alle spalle: quella mattina gli avevo strappato la promessa di aiutarmi a portare via gli ultimi scatoloni del trasloco. Entrammo nella mia camera, mi feci largo tra le ultime cianfrusaglie accumulate qua e là e spalancai la finestra; Walter guardò gli scatoloni che giacevano al centro della stanza e lanciò un gemito, nello sguardo la stessa tesa sofferenza dei soldati americani che approdavano a Saigon. Nessuno, tra i miei amici, è particolarmente portato per i lavori manuali: di solito preferiamo sedere intorno a un tavolo e imbarcarci in lunghe conversazioni che, il più delle volte, conducono a un inevitabile nulla di fatto. «Allora Tic, che pensi di fare adesso?» mi chiese dopo un po’. Ah, tanto per farvelo sapere: il mio soprannome è Tic. Tutto è iniziato qualche anno fa, quando ho sviluppato questa simpatica contrazione nervosa che ogni tanto mi fa strizzare violentemente e ripetutamente gli occhi senza alcun motivo apparente. Sia chiaro, non è niente di grave, è solo che esprimo la mia ansia in questo modo: c’è chi si mangia le unghie, chi si schiarisce la voce continuamente, chi prega, chi sta attento a non calpestare gli interstizi tra le mattonelle del pavimento. Io strizzo gli occhi. «Per adesso mi appoggio da te per un po’. Te l’avevo già detto, no?» risposi. Walter sbuffò: «Sì che me l’hai detto, intendo dire dopo. Che cavolo hai intenzione di fare, dopo che ti avrò sbattuto fuori?» «È commovente vedere come dopo tutti questi anni tu gradisca ancora la mia compagnia.» Ancora col fiatone, il mio amico si lasciò cadere sul letto ormai spoglio, poi fece vagare lo sguardo intorno a sé: il poster del Napoli 2015-2016
8 appeso alla parete di fronte, la minuscola scrivania bianca, l’intonaco cadente alle pareti, il magnifico panorama visibile dalla piccola finestra al di sopra della scrivania, costituito dal muro del palazzo di fronte, un balconcino e la signora che ci viveva (nel senso che a quanto ne sapevo la signora viveva proprio sul balconcino: negli ultimi cinque anni aveva osservato tutti, ma proprio tutti i miei movimenti, e ormai conosceva nel dettaglio ogni centimetro del mio corpo). «Ma non ti sei scocciato di fare questa vita? C’hai trent’anni, c’hai…» concluse mestamente. «Ma guarda, mi piacerebbe pure dare una svolta, fare qualcosa di diverso, ma non so da dove iniziare. Credimi, a volte mi viene voglia di partire, di viaggiare senza meta per un po’. Sarebbe bello vivere on the road, alla giornata, come i personaggi di Kerouac…» Walter rise di gusto. «Questa è bella. Sei un tipo da vita comoda, dopo un paio di giorni avresti una crisi isterica e ti metteresti alla ricerca di un hotel a tre stelle con colazione inclusa.» Stavolta fui io ad alzare gli occhi al cielo: «Ma che credi, che sono contento, a questo punto della mia vita, di non avere niente per le mani? Di mendicare un posto sul tuo lercio divano?». «Non è lercio. Questa casa è lercia, l’ultima volta che è stata pulita al governo c’era Bettino Craxi. E allora? Non hai risposto alla mia domanda.» «E allora niente. Aspetto. Valuto.» «Sì, buonanotte. È una vita che aspetti e valuti e non fai mai niente.» «Senti chi parla.» «Io mi sto guardando intorno, sto cercando un lavoretto. E poi sì, sarò un po’ sconclusionato anch’io, ma almeno non mi lamento sempre, evito di dare la colpa al periodo storico, al fato avverso, al clima, a Dio o a chissà che altro come fai tu.» Sbuffai senza rispondere, e presi a fissare la crepa sul muro dietro alle sue spalle. «Scommetti che indovino come andranno le cose per te prossimamente?» riprese Walter imperterrito. «Bene, vediamo: dopo anni i tuoi si sono decisi a dirti che non sono più intenzionati a mantenerti qui senza fare niente, perciò ora verrai a stare da me, farai finta di cercarti un lavoro o qualcosa del genere e te ne starai tutto il giorno buttato lì a leggere o ad ascoltare vecchie canzoni mentre ti crogioli nel tuo mix letale di disperazione ed egocentrismo. E poi, vediamo… ah, sì, ti metterai a scrivere un nuovo romanzo, che però
9 dopo qualche mese non ti convincerà più e allora lo cestinerai e ne inizierai un altro, senza preoccuparti di finire quello che tieni in sospeso da più o meno sei anni. O sono sette? E ti lamenterai, ti lamenterai un sacco, mentre io e quell’altro povero cristo di Giorgio saremo costretti ad ascoltarti. Sul serio, lo sai che facendo così non concluderai mai niente?» «Signore e signori, siete collegati in diretta con il convegno nazionale degli stracciamaroni…» «Stai zitto e aiutami con questo cazzo di scatolone.» Chiudemmo gli scatoloni e a fatica li portammo giù lungo le sei rampe di scale del palazzo; salii di nuovo e diedi un’ultima occhiata a quella che era stata la mia stanza per gli ultimi cinque anni, poi attraversai il corridoio e mi chiusi la porta alle spalle. Perfino nella mia data di nascita c’è un non so che di tragicomico: sono nato in un anno bisestile, il 29 febbraio. Una data che ricorre ogni quattro anni, pensate un po’. Da bambino, a scuola, mi hanno anche preso in giro per questo: tutti i miei compagni erano nati in giorni rassicuranti e banali come il 6 marzo o il 21 ottobre o il 16 giugno, e la mia data di nascita li divertiva da morire, per il semplice motivo che non arrivava mai. Iniziò perfino a girare voce che fossi un ufo, anche se non ho mai capito bene cosa c’entrassero gli extraterrestri con gli anni bisestili (c’è da dire che i miei compagni delle elementari, come dire, non brillavano per doti intellettive, ecco). Col tempo però iniziai a rifletterci anch’io: essere nato il 29 febbraio voleva forse dire che avrei compiuto un anno ogni quattro, cioè che un mio anno di vita equivalesse a quattro delle persone normali? Questo mi avrebbe reso giovane per sempre? Già mi immaginavo, ancora in perfetta forma di lì a cinquant’anni, mentre guardavo tronfio e sprezzante i miei ex compagni di classe che andavano in giro gobbi e rugosi con addosso gli evidenti segni di un’imbarazzante vecchiaia. Nemmeno io ero una cima, in effetti. Crescendo ho scoperto che niente di tutto ciò era vero: non ero un ufo e non sarei rimasto giovane per sempre, perché non c’è proprio niente di speciale nell’essere nati il 29 febbraio, tranne che nessuno sa mai quando farti gli auguri. Tuttavia, specialmente nel periodo in cui mi trasferii temporaneamente da Walter, non potevo fare a meno di pensarci: forse era un avvertimento, come se Dio avesse voluto dirmi qualcosa, come se non avere una data di nascita normale fosse un po’ il simbolo dello
10 strano ammasso informe di tempo che da un po’ era diventata la mia vita. La vacuità, l’inconsistenza, la stramberia, la fuffa, erano per caso scritte nel mio destino, parte di un disegno più grande? Ma io non ci credo al destino, e nemmeno ai disegni più grandi. Io credo solo al cieco caos. Come avrete intuito, in quel periodo non ero esattamente di buon umore. Non lo ero da un bel po’. Avevo compiuto trent’anni da qualche mese, ma me ne sentivo addosso il doppio. E pensare che fino a poco tempo prima la mia vita era stata anche abbastanza felice, il problema vero è che non me ne ero reso conto: avevo sprecato ogni singola possibilità di costruire qualcosa di concreto, e ora non mi restava granché. Solo angoscia, pigrizia, apatia. Depressione a fuoco lento. Inadeguatezza allo stare al mondo. E pessimi programmi in tv, anche. Avete presente il Major Tom di David Bowie? Ecco, mi sentivo esattamente come lui in Ashes to Ashes: lontano da tutto e da tutti, disperso in una zona indefinita e inospitale, “intontito nell’alto dei cieli, che tocca il fondo”. Ma perché deve essere sempre tutto così complicato? Cioè, io lo so che la vita è un dono di Dio, ci mancherebbe, ma la prossima volta va bene anche la busta con i soldi, ecco. Un martedì mattina me ne stavo seduto al bar sotto casa di Walter, da solo, a pensare a tutte queste cose: vedevo la gente passare, correre qua e là per andare chissà dove, e un po’ li invidiavo un po’ li compativo. A un tratto un inaspettato raggio di sole illuminò un angolo del mio tavolino. La cosa mi irritò: volevo solo starmene in pace per un po’ a guardare le nuvole in modo truce mentre mi godevo una triste e uggiosa giornata dell’autunno appena iniziato, e ora ci si metteva quel sole cretino a rovinare tutto. Don’t waste the sun on a rainy day. In camera sua, appena sopra il comodino, Eleonora teneva un post-it con su scritta questa frase, tratta da una canzone dei Jet che le piaceva tanto e che si chiama Shine on. “Non sprecare il sole in un giorno di pioggia”. Quando ci pensai sentii un’altra fitta di sconforto. Quel giorno io lo avrei sprecato, il sole, lo avrei sprecato eccome, fosse solo per fare un dispetto a lei. Chiamai il cameriere e ordinai un altro aperitivo analcolico, chiedendo espressamente di portare delle patatine che fossero state aperte dopo la
11 Guerra Fredda. Afferrai il giornale dal tavolino accanto e iniziai a sfogliarlo distrattamente. Le stragi jihadiste. L’Isis. Le bombe. I bambini di Aleppo. Gli scafisti. I migranti annegati nel Mediterraneo. I roghi tossici. I preti pedofili trasferiti in nuove parrocchie. La disoccupazione giovanile al 40%. Continuai verso la cronaca. Bullismo e cyber bullismo. Risse. Stupri. Omicidi. Andai avanti. Un tizio aveva dato sette coltellate al petto di un povero cristo dopo una lite per un parcheggio. Ci credereste? Doveva essere un posto davvero ottimo per parcheggiare. Una leggera nausea mi prese lo stomaco, e mi passò la voglia di far tutto. Mi alzai e me ne andai senza nemmeno aspettare il mio aperitivo. È semplice: non sapevo dove andare. Credo che il termine appropriato sia impasse. Ecco, ero in una maledetta impasse. E prima che mi giudichiate palloso e vittimista, un essere inutile che vuole solo lamentarsi e farsi compatire, voglio dirvi che non sono stato sempre così: c’è stato un tempo in cui ero attivo, positivo, laborioso, un periodo in cui mi davo da fare e intrattenevo soddisfacenti rapporti con altri esseri umani e così via. Ma, sfortunatamente per voi, non è in quel periodo che mi avete beccato, ecco tutto.
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2. LE ESTREME CONSEGUENZE DEGLI INTRECCI TRA FINANZA E PRODUZIONE, E QUELLE DEL PROSECCO
Ho già visto tutto: una serata di alcol e baldoria per festeggiare la fine di un percorso, nuove speranze messe in piazza di fronte agli amici brilli, auguri reciproci di successo e prosperità, grandi abbracci e pacche sulle spalle, e poi il giorno dopo è tutto identico. Ah, no, hai un gran mal di testa. È già successo alla fine del liceo, e addirittura mi ricordo che ci fosse un’atmosfera simile anche alla fine delle medie. Ma pazienza, l’uomo ama sperare, no? È fatto per sperare, senza non sa vivere. Ecco, la festicciola che avevamo organizzato per la fine dell’università era esattamente di quel genere. O meglio, la festicciola che Giorgio aveva organizzato per la fine della sua università: si era laureato in Giurisprudenza quella mattina, il bastardo. Con 110 e lode, figuriamoci. Negli ultimi anni io, lui e altri due ragazzi avevamo condiviso l’appartamento di Via Tribunali che mi apprestavo a lasciare. Anche gli altri coinquilini erano “studenti”: Dario, un ventottenne molisano iscritto a Scienze Politiche, e Angelo, un ragazzo del mio paese di qualche anno più giovane ma già fuoricorso in Lingue. Quella sera c’erano anche loro: al momento li avevo persi di vista, ma probabilmente stavano ammorbando qualche poveretto con tutte le statistiche dei cinque campionati che gli erano serviti, alla play-station, per portare il Portogruaro dalla C alla Champions. La parte iniziale della serata si svolgeva a Piazza San Domenico Maggiore: una quindicina di persone che Giorgio aveva conosciuto nel corso degli anni universitari radunate intorno alle varie bottiglie di vino e prosecco comprate dal festeggiato durante la spesa del fine settimana; poi, secondo il programma, ci saremmo spostati in un locale del centro per dare il via alla festa vera e propria, ma con ogni probabilità a quel punto della serata gran parte della comitiva sarebbe già stata inutilizzabile.
13 Mi guardai intorno e notai Walter alle prese con Fabiana, una fuorisede tracagnotta, logorroica e con la faccia coperta di piercing. «Il punto non è dove arrivi, frate’, il punto è come ci arrivi. Cioè, capiscimi, in effetti il capitalismo, la globbalizzazzzione, la repressione, le banche di ‘stocazzo, o no, bro’?, e pure gli intrecci della finanza con la produzione, sì, tutta questa merda sta portando il mondo capitalista alle sue estreme conseguenze, non credi?» diceva Fabiana con tono monocorde, scrutando scazzata un punto indefinito davanti a sé. Dopo un po’ alla conversazione si unì Sarah, altra fuorisede ugualmente logorroica e piena di piercing, ma secca come un chiodo: «Cioè, frate’, qua dobbiamo iniziare a prendere coscienza che tutto quello che facciamo, tocchiamo e mangiamo è controllato dall’America». Sarah pronunciò la parola “America” con la “e” talmente aperta che per un soffio la mascella non le cadde a terra, e non era tanto quello che stava dicendo, ma come lo stava dicendo, che la faceva assomigliare in modo così smaccato a Otto Disc, l’autista dello scuolabus dei Simpson. Walter si sforzava di annuire e ogni tanto lanciava fugaci occhiate intorno a sé nella vana speranza che qualcuno lo liberasse dalla conversazione. Decisi di accorrere in suo aiuto: «Allora ragazze, che si dice? Vi state divertendo?». «Sì, ma mentre noi ci divertiamo le persone nel mondo muoiono» rispose Sarah con fermezza, poi afferrò un’enorme Peroni dal muretto su cui era seduta e fece una sorsata di circa due minuti, quindi soffocò in modo maldestro un poderoso rutto. Giorgio arrivò alle mie spalle con un sorriso a trentadue denti, un misto di gioia accademica e gioia alcolica, e mi propose un altro brindisi. «Al dottore, al dottore!» urlai prima di mandare giù il prosecco. «Non è un dottore, è un avvocato!» urlò di rimando il mio ex coinquilino Angelo, dopo essersi precipitato a brindare con noi. «Cazzo dici? Si è laureato, sempre dottore è!» Stava per nascerne una rissa, ma Giorgio mise le cose a posto: «Non vi preoccupate, potete chiamarmi sia dottore che avvocato. Anzi, se volete divento pure professore.» «Ragazzi, io credo di andarmene. Ho un esame domani» esclamò una ragazza molto carina, mora, anche lei sulla trentina, che non conoscevo ma in verità avevo notato da un po’. Decisi che tanto valeva provare ad attaccare bottone prima che abbandonasse la nostra sventurata compagnia. «Un esame?», le chiesi. Walter scoppiò a ridere: «Sai
14 quando ti siedi davanti a un professore e inizi a parlare e alla fine lui ti dà un voto? Ecco, quello lì è un esame. So che è un po’ che non ne senti parlare, ma sono cose che chi è iscritto all’università ogni tanto dovrebbe fare.» «Non è detto» rispose la ragazza ridacchiando. «Eh, infatti ho usato il condizionale.» Venne fuori che la ragazza si chiamava Patrizia ed era un’amica di Marianna, la fidanzata di Walter. Quando se ne andò mi ripromisi di chiedere il suo numero a Walter, ma poco dopo mi prese una gran malinconia e me ne dimenticai. Ricominciai a pensare a Eleonora. «Mi manca Eleonora» buttai lì bruscamente, mentre tornavamo a casa dopo la festa. Ero così triste che non ero nemmeno riuscito a ubriacarmi. Anzi, mi era presa una moderata sbornia triste, una delle peggiori. C’era solo la luce dei lampioni a illuminarci, e la città sembrava avvolta da quella potente atmosfera di doposbronza generale che settembre porta sempre con sé. Gettai uno sguardo a Giorgio e Walter che camminavano al mio fianco, ma nessuno sembrò prestare attenzione alla mia affermazione. «Ho detto che mi manca Eleonora.» «E allora chiamala» disse Giorgio. «Nah, non mi sembra il caso.» Walter sbuffò: «E allora smettila di fracassarci le palle con questa storia che ti manca. Sono settimane che dici che ti manca e poi non vuoi nemmeno chiamarla». Era vero, purtroppo: era un bel po’ che tormentavo i miei amici con i dettagli sulla fine della mia relazione con Eleonora, cercando di capire perché quattro mesi prima aveva deciso di troncare così, senza alcun preavviso, senza motivo apparente. «Ma che le dovrei dire, scusa? Mi ha lasciato, è stata abbastanza chiara nel dirmi quello che pensa di me e che non vuole più vedermi. Certo che di donne non ne capite proprio niente, eh…» Walter si lasciò scappare un risolino: «Ah, sì, ha parlato il grande esperto dei rapporti di coppia, quello che non può passare il compleanno della sua ragazza con lei perché ha già preso i biglietti per Napoli-Sassuolo…» «La stessa persona che risponde “Ah, bene, sono contento” quando la ragazza in questione gli dice “Ti amo” per la prima volta. E poi ti chiedi anche perché ti ha lasciato…» rincarò la dose Giorgio.
15 «Wow, Tic, secondo me nemmeno Hitler faceva di queste cose a Eva Braun. Il più grande mostro della storia gestiva i rapporti sentimentali meglio di te, e ti ho detto tutto.» Per qualche minuto rimanemmo tutti e tre in silenzio, un po’ contriti, a riflettere sul rapporto tra Hitler ed Eva Braun. Guardai Walter che avanzava baldanzoso nella notte. «Mica possiamo sposarci tutti a trent’anni come hai fatto tu.» «E infatti io mica sono sposato?» precisò lui con una smorfia di disappunto. Aveva ragione: Walter non era sposato, conviveva con la sua ragazza, ma mi divertiva parlare come se lo fosse, soprattutto per rimarcare la mia sorpresa verso quella situazione. Avete presente il classico tipo “senza impegno”, l’eterno amante che le ragazze cercano quando si stancano delle relazioni stabili e vogliono solo divertirsi un po’? Ecco, Walter è sempre stato così, fieramente sprezzante verso qualunque tipo di legame e responsabilità, ma da quasi un anno aveva improvvisamente messo la testa a posto ed era andato a vivere con Marianna. Avevano preso in affitto un piccolo appartamento appena fuori dalla zona universitaria: lei si era abilitata come insegnante e aveva trovato lavoro in una scuola privata in città, mentre lui, dopo aver abbandonato l’università, viveva di rendita grazie al lauto mensile che gli passavano i suoi (la famiglia di Walter appartiene a ciò che rimane della cosiddetta “alta borghesia” del paesello in cui siamo nati entrambi). «Dài, convivere è più o meno la stessa cosa» dissi alla fine. «L’unica differenza è che, quando uno dei due deciderà di fuggire, l’altro potrà tranquillamente tirargli dietro tutti i piatti della casa senza che nessun avvocato si metta in mezzo.» «Non mi pare una differenza da poco» ridacchiò Walter. «Comunque è semplice, con Eleonora non ha funzionato perché non la ami» disse Giorgio. «Ma io la amo, ne sono sicuro. Perché ora mi mancherebbe tanto se non fosse così?» «Nah, secondo me è solo una fissazione.» «Sì, ma qual è la differenza?» «Tra amore e fissazione? Non lo so, ma una differenza ci dovrà essere, no?» «No, fidati» continuò Giorgio. «Ora credi di amarla perché sei un cretino e appena hai la certezza di aver perso qualcosa finisci per desiderarla con
16 tutte le tue forze, ma in realtà non l’hai mai amata, altrimenti non ti saresti comportato in quel modo quando stavate insieme.» «Non lo so, non ne verrò mai a capo! A questo cacchio di amore, intendo…» Walter mi guardò con disgusto. «Cristo, Tic, stai iniziando a esprimerti come uno scrittore di quei romanzi rosa campioni d’incasso. È più semplice di quello che pensi: in amore non bisogna fare tanti calcoli, come in tutte le altre cose.» «Secondo me sei troppo preso dal passato. Devi concentrarti sul presente» disse Giorgio. Sbuffai. «Prima che me ne accorga il presente è già diventato qualcosa che avrei fatto diversamente.» «Questa la scriverò sulla mia Smemoranda» bofonchiò Walter. «Il fatto è che è così maledettamente complicato capire cosa si prova…» Giorgio sgranò gli occhi con aria sognante e iniziò il suo monologo: «Invece non è affatto complicato, Tic. Se ti innamori lo capisci subito. Io sono stato sicuro di amare Rita fin dall’inizio… Ah, a proposito, vi ho mai raccontato di come ci siamo conosciuti? Dunque: era l’estate di tre anni fa, io ero a Positano, sulla spiaggia, prendevo il sole, e mai mi sarei immaginato cosa stava per succedere, e poi all’improvviso…» «Non racconterai di nuovo la storia del cocco, vero?» lo implorai con il panico negli occhi e la voce tremolante, ma non servì a niente. Come ormai faceva almeno una volta ogni due settimane, Giorgio iniziò a raccontarci di come aveva conosciuto la sua fidanzata Rita grazie a una fetta di cocco, l’ultima rimasta a un venditore ambulante dopo una lunga mattinata di affari: Giorgio era davvero affamato, aveva già tirato fuori il portafoglio e da bravo tirchio qual è stava cercando di negoziare sul prezzo, ma Rita era arrivata di corsa e aveva detto di non poter assolutamente rinunciare alla sua fetta di cocco quotidiana. «… ed era così bella che io gliela lasciai, anche se ero veramente, veramente affamato. Sapete, quel giorno non avevo pranzato, perché…» «Giorgio, potresti arrivare al dunque, per piacere? Avremmo le nostre vite da portare avanti, sai com’è…» sibilò Walter, carico di puro odio. «Ok, non vi interessa sapere perché quel giorno non avevo pranzato, ho capito. Comunque lei mi disse che potevamo fare a metà, io accettai e poi le chiesi di uscire.»
17 «Fammi indovinare: lei prima rifiutò, poi accettò, poi disse di essere indecisa, poi disse di avere un fidanzato per vedere come reagivi e alla fine accettò di nuovo, giusto?» dissi io. «Esatto. Come fai a saperlo?» «Sono anni che ci trituri le palle con questa storia, ormai la sappiamo a memoria» proruppe Walter con la consueta delicatezza. «E vi ho raccontato anche del secondo appuntamento, quando le ho cantato Lovely Rita dei Beatles al karaoke?» «Cazzo, ci mancava solo il karaoke…» «E non ti ha mollato un pugno sul naso? Gesù, sei stonato come una campana, io sarei scappato.» «Comunque non ti preoccupare, Tic, te la trovo io una ragazza, così finalmente la smetti di pensare a Eleonora» disse Walter cambiando argomento bruscamente, senza alcun rispetto per i ricordi romantici di Giorgio. Essere amico di uno come Walter a volte ha i suoi vantaggi, devo riconoscerlo. «No, non ci pensare nemmeno, non mi piacciono gli appuntamenti al buio. Ho già abbastanza difficoltà con gli appuntamenti alla luce del sole, grazie.» «Ma è perché lì le ragazze ti vedono in faccia, ti converrebbe puntare sul favore delle tenebre. E comunque ne ho già parlato con Marianna, vorremmo presentarti qualche sua amica. Anche quella Patrizia con cui ci stavi provando prima, per esempio.» «Non ci stavo affatto provando.» «Certo che ci stavi provando. Hai fatto quella faccia buffa che fai quando una ragazza ti interessa» disse Giorgio. «Cioè?» «Assottigli gli occhi e fai un sorriso ebete. A proposito, complimenti, è un’ottima tattica.» Walter si accese una sigaretta e soffiò con forza il fumo il più lontano possibile. «Comunque dài, vediamo di organizzare qualcosa, eh?» «Che cosa?» «Una cena, o qualcosa del genere. Non ti formalizzare, non è importante che cosa organizziamo, l’importante è organizzare.» «Ma non è il momento di conoscere persone nuove, non mi sembra il caso…»
18 «Come vuoi.» Walter sbuffò e per il momento lasciò cadere l’idea, e a dire la verità la cosa mi infastidì non poco: adesso ero di nuovo eccitato dalla prospettiva di conoscere questa Patrizia. Alla fine della strada Giorgio ci salutò e si avviò lentamente verso il portone di casa. «E allora, non la organizziamo più la cena?» chiesi a Walter una volta restati da soli. Lui sorrise, stanco: «Certo che la organizziamo. Ho smesso di darti retta tanto tempo fa.» Iniziò a piovere, una pioggia leggera, improvvisa e fastidiosa. Le goccioline solcavano lente e impietose il vetro dei miei occhiali, una tortura che trovo seconda solo al veglione di capodanno in qualche ristorante con il menu fisso e una band che suona i vecchi successi dei Pooh. Affrettai il passo, e Walter si adeguò. «Comunque fai piano mo’ che entriamo. Marianna mi ha detto che ieri sera l’hai svegliata quando sei tornato.» «Mortificato di aver disturbato la signora» bisbigliai, salendo le due rampe di scale quanto più silenziosamente mi fu possibile. Quando entrammo in casa inciampai sul contenitore degli ombrelli facendo un enorme casino. Walter mi guardò con occhi truci, Marianna si svegliò. Andai a letto, o meglio mi buttai a peso morto sul divano che adesso era a tutti gli effetti il mio nuovo letto; ero stanco e intontito, disgustato, e bramavo come acqua nel deserto la perdita di sensi che speravo sarebbe arrivata di lì a poco. Affondai la faccia nel cuscino, e pensai che raramente la mia vita mi era apparsa così sgradevole come in quel momento.
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3. L’APPARIZIONE IN BLU
Avevo il sospetto che Marianna non avesse preso molto bene il mio arrivo in casa. Certo, con me era carina e tutto il resto, ci mancherebbe: mi aveva fatto trovare asciugamani puliti e il divano letto aperto, mi aveva detto dov’era il caffè e dov’era lo zucchero e come funzionava la lavatrice, ma credo proprio che non le facesse granché piacere avere in giro per casa questo strano tizio che non faceva un tubo tutto il giorno a parte ciondolare per casa con sguardo vacuo e annoiato. Mi ero trasferito a casa di Walter e Marianna da cinque giorni, e nel frattempo ci avevo anche provato a dare una mano, ero andato a fare la spesa e via dicendo, ma il secondo giorno avevo impallato la lavatrice, mentre il terzo avevo fatto saltare il contatore; arrivati a quel punto il mio obiettivo consisteva nell’evitare di fare danni per almeno una settimana, perché non potevo assolutamente rischiare di perdere quella sistemazione. Come vi ho già detto, sfortunatamente i miei non erano più disposti a mantenere in città il loro unico figlio, uno studente che non studiava, uno scrittore che non scriveva, un vagabondo che non andava mai da nessuna parte: ero iscritto alla magistrale di Lettere da cinque anni, e da circa quattro mi era completamente passata la voglia di fare qualunque cosa, così mi ritrovavo a trent’anni con nove esami ancora da dare e nessuna intenzione di darli. Quanto a trovarmi un lavoretto, beh, mi risultava alquanto complicato. Sapete, una delle mie caratteristiche più interessanti è che, dal punto di vista pratico, non so fare assolutamente niente: non so cambiare una lampadina, non so guidare, non so come funziona una lavatrice, non so cucinare né servire ai tavoli, non ho particolari abilità informatiche né tecniche e non so aggiustare le cose che rompo perché non so come si usano giraviti o martelli; le cose che mi piacciono (ascoltare dischi, guardare film, leggere libri) sono quanto di più lontano dalla vita reale possiate immaginare. Detto questo, e non tralasciando la mia indisposizione per la fatica in generale, non è che ci fosse proprio la fila per assumermi, ecco. Ma quello che mi rode è che in altre epoche sarei
20 anche potuto passare per un esistenzialista, magari un poeta decadente in preda allo Spleen e alla Ennui esistenziale, mentre di questi tempi sono solo un mantenuto, un fallimento, uno che non ha voglia di fare granché. Certo, non sono il solo, ma questo non mi è di grande consolazione. Al paese dov’ero nato non volevo tornarci. Mio padre mi offriva un posto alla cassa del bar nel piccolo cinema che aveva da poco preso in gestione, ma l’idea di passare serate intere a vendere patatine e popcorn ai ragazzini brufolosi nell’intervallo di Spiderman Vs Superman non mi esaltava, e non mi esalta tuttora. E poi lì non c’è nessuno. Sulla carta il paese conta diecimila abitanti, ma almeno duemila non si vedono mai (credo siano stati murati vivi in casa o qualcosa del genere); altri tremila sono fuori, partiti per studiare o lavorare e mai più tornati; infine, gran parte dei restanti cinquemila comprende gli anziani che sputacchiano e imprecano seduti sulle panchine della piazza. E poi fa freddo, fa sempre freddo, un freddo cane, del colore dell’angoscia e del rancore: credo che quel posto fosse l’ideale per mandarci i dissidenti politici, e sicuramente fu preso in considerazione come meta-vacanza per Trotskij, prima che Stalin avesse un moto di compassione e decidesse per la Siberia. La mattina di un giorno imprecisato di metà settimana, uno di quei mercoledì o giovedì che come arrivano così se ne vanno, mi svegliai molto presto e con un tremendo mal di testa. La notte precedente mi ero addormentato verso le quattro. “A lungo mi sono coricato di buon’ora”, come Proust; poi, da un certo punto in poi, la sera non sono più riuscito ad addormentarmi. Appena mi mettevo a letto la mia mente iniziava a vorticare a velocità insostenibili, un frullatore di ricordi e progetti e idee brillanti che la mattina seguente si rivelavano non così brillanti, e schegge di pensieri e incandescenti correnti ansiogene che partivano dalle gambe e risalivano prepotenti fino al cervello. Ero solo in casa, così mi misi a riflettere su di me e sulla mia vita, sul mio passato e sul mio futuro, e decisi di dare una svolta netta. Così non potevo andare avanti: basta rimpianti, basta scemenze, basta crogiolarmi nei ricordi e nell’ozio e nel vago progetto di finire il mio romanzo. Avrei trovato un lavoro, niente di che, ma qualcosa che mi permettesse di mantenermi in modo dignitoso; avrei condotto una vita più seria e più sana, iniziando, per esempio, a fare sport; prima o poi avrei anche incontrato una ragazza senza particolari turbe emotive e avrei mostrato equilibrio e buona volontà, evitando di darmela a gambe alle prime
21 avvisaglie di problemi o responsabilità, e riuscendo perfino ad avere una vita relazionale adulta, sana e soddisfacente. Pensai che era proprio questo che mi ci voleva: una relazione. Ne avevo abbastanza di stare da solo, dovevo trovarmi una donna, una con cui dare vita a un legame forte, condividere gioie e dolori, costruire qualcosa. Una con cui vivere. Questo mi avrebbe rimesso in sesto, finalmente. Sì. Ne ero convinto. Ciondolai fino alla cucina e aprii la dispensa, ma non c’era niente, solo un pacco di biscotti al cioccolato che a un attento esame risultò contenere un unico, triste biscotto. La cosa mi turbò, e i miei propositi iniziarono a vacillare. Mi andava veramente di dare una svolta alla mia vita? Non lo sapevo. Ne dubitavo. Le svolte richiedono tanta fatica, e io quella mattina mi sentivo particolarmente stanco. Poi pensai che dissipare il proprio tempo non è che una forma sofisticata del tenersi occupati. La frase mi divertì, e mi rassicurò, regalandomi perfino una specie di strana allegria. Il pensiero di trovare qualcuno con cui instaurare un legame forte, che tanto mi aveva tirato su pochi attimi prima, mi provocò una grande angoscia, e mi sorpresi a ringraziare il cielo di essere single. E poi, che cazzo di lavoro vuoi trovare con una laurea triennale in Lettere? Decisi di rimandare la svolta a un’altra mattina. Certo che se i tuoi buoni propositi crollano perché c’è un solo biscotto nella dispensa, beh, qualche problemino ce l’hai. Chissà, forse Marianna era decisa a non fare la spesa finché fossi rimasto lì, o forse nascondeva le provviste in un posto che conoscevano solo lei e Walter, così da scoraggiare la mia permanenza in casa sua. Beh, ci voleva ben altro per scoraggiarmi. Afferrai con gusto sadico l’ultimo biscotto della scatola e lo mangiai avidamente, poi andai al computer, aprii il file del romanzo e fissai lo schermo per circa un quarto d’ora; ascoltai un paio di canzoni e cercai notizie sul prossimo tour italiano di Noel Gallagher, dopodiché la navigazione si protrasse per un’altra mezz’ora durante la quale mi abbandonai all’insensato vortice del web (non ricordo di preciso cosa cercai, ma probabilmente mi limitai a scorrere la home di Facebook e a notare che faccia stupida e allegra avessero tutti quelli che vi comparivano). Quando tornai al file del romanzo mi assalirono fastidiosi getti di frustrazione, di noia, di inadeguatezza e ansia esistenziale.
22 Pensai che forse una passeggiata mi avrebbe fatto bene. Gironzolai in città per un po’, ma tutti quelli che incontravo mi stavano indicibilmente sulle palle. Ripiegai su una libreria del centro, una di quelle belle e spaziose con l’aria condizionata e diversi piani. Piccola divagazione sulle librerie: le ho sempre viste come il luogo perfetto per innamorarsi. Non lo so, forse dipende dal fatto che ho conosciuto la mia prima ragazza proprio in libreria, ormai più di dieci anni fa (ero al primo anno di università, e per fare colpo finsi di aver letto tutto L’amore ai tempi del colera, omettendo di essermi fermato a pagina 44 in preda a una gran noia), fatto sta che guardare una ragazza che sfoglia un libro ha sempre esercitato su di me un fascino che va oltre il mio controllo. Beh, ero lì in libreria che pensavo ai fatti miei ed ecco, ecco che successe di nuovo: una ragazza bellissima, un incredibile incrocio tra Katie Holmes e Keira Knightley, infilata in un vestitino blu con le spalline, fece il suo ingresso in libreria. L’apparizione in blu rivolse un sorriso discreto alle due commesse vestite di rosso, si guardò intorno confusa per un breve istante e fece una piccola smorfia di ironica indecisione (forse si era accorta che la stavo guardando); poi, riacquistando determinazione, si diresse con passo sicuro verso lo scaffale della narrativa. Ovviamente, prima che potesse anche solo arrivare allo scaffale, io mi ero già perdutamente innamorato, senza rimedio: nella mente iniziarono a corrermi veloci, come tante istantanee, immagini del nostro primo appuntamento, del primo bacio, della prima volta che mi avrebbe dato la mano, distogliendo leggermente lo sguardo per l’imbarazzo provocato dall’inedito e così intimo contatto fisico; e poi il primo litigio, e subito dopo la prima volta che avremmo fatto la pace, ridendo del motivo che ci aveva spinto a essere tanto sciocchi e irragionevoli da dirci l’un l’altra cose tanto spiacevoli; e poi la prima cena a casa dei suoi, la prima a casa dei miei, e alla fine il nostro matrimonio. Non mi spinsi fino alla nascita di nostro figlio perché, sapete, a questo non riesco ad arrivare nemmeno nelle mie fantasie più sfrenate. Intanto la ragazza, l’oggetto di tutto questo amore strambo e mal organizzato, era arrivata allo scaffale dei narratori francesi, aveva fatto un’attenta panoramica dei titoli a disposizione e da un po’ aveva iniziato a sfogliare un romanzo dall’aria grave e seria. Era abbastanza grosso,
23 aveva tutta l’aria di essere un classico, qualcosa tipo Proust o Flaubert o Zola, ma sfortunatamente non riuscivo a leggere il titolo. Mi avvicinai e finsi di dare anch’io un’occhiata a quella sezione; nel frattempo gettavo rapide occhiate con la coda dell’occhio verso la mia amata e quello che, ormai ne ero sicuro, era Du côté de chez Swann, il primo volume della Recherche proustiana. Cercai prontamente di assumere un’aria meditabonda e appena angosciata, qualcosa che facesse un po’ “genio francese tormentato e malaticcio” alla Proust. C’è da dire che per quanto riguarda il malaticcio non avevo alcun problema, e in quel periodo anche il tormentato mi riusciva piuttosto bene, ma erano l’aria francese e soprattutto l’aria geniale quelle su cui dovevo ancora lavorare. E infatti il tentativo passò del tutto inosservato. L’aria assorta della ragazza la rendeva assolutamente perfetta, dolorosamente irresistibile ai miei occhi: leggeva con le spalle appena appoggiate allo scaffale, la borsetta marrone adagiata sui piedi, le sopracciglia lievemente corrugate a formare un’espressione di concentrazione quasi solenne, come se il mondo intorno non esistesse, e soprattutto come se io non esistessi. Come se esistesse solo il libro. Iniziai a essere geloso di Proust, uno che di gelosia certamente se ne intendeva. Soltanto in un’occasione, quando urtai lo scaffale dietro di me e rischiai di far cadere a terra un Philip Roth, la ragazza alzò lo sguardo dal libro gettandomi un’occhiata indifferente, per poi immergersi di nuovo nei tormenti di Marcel e ignorare del tutto i miei. Quel contatto visivo, tuttavia, fu inaspettatamente devastante, sufficiente a far sbriciolare la terra sotto ai miei piedi, a immergermi in una sensazione di completo squilibrio, accompagnata dalla netta percezione di trovarmi di fronte a qualcosa che fosse decisamente al di là della mia portata. Il contrasto tra il rosso delle labbra e il chiarore della pelle, il marrone scuro degli occhi solo leggermente velati di ombretto e scetticismo verso il sottoscritto, le gote ancora un po’ arrossate per il caldo di fuori, e già mi sentivo come se stessi cercando di aggrappami a uno scoglio durante una tempesta e le mie dita piano piano stessero mollando la presa, sopraffatte dalla forza delle onde. Poi, in un istante, tutto finì, e il suo sguardo tornò al libro. Mi spinsi perfino a fare qualche colpo di tosse per attirare di nuovo la sua attenzione, ma i suoi occhi non si levarono più dalle pagine. Atterrito,
24 decisi di rinunciare: sì, la tizia era fuori dalla mia portata. Scesi al piano inferiore e mi lasciai sprofondare nella poltrona nera vicino alle scale in preda a una gran depressione; afferrai il primo libro che mi capitò a tiro e iniziai a sfogliarlo distrattamente. Di solito, sempre nelle mie fantasie, la ragazza che ho notato si avvicina dolcemente e mi chiede un parere su un autore che conosco benissimo e sulla cui opera ho un’opinione pungente e arguta, che esprimo in un modo che la lascia di stucco per il genio che si trova davanti; a questo punto lei non può fare a meno di iniziare con me una discussione eccezionalmente stimolante dal punto di vista intellettuale che a poco a poco fa luce sull’attrazione reciproca che cova sotto la cenere e aspetta solo l’occasione giusta per mostrarsi ed esplodere. E, incredibile ma vero, quella mattina questa fantasia si realizzò. «Scusa, ho notato che stai leggendo l’ultimo libro di Jonatahan Coe. Come ti sembra?» mi chiese l’apparizione in blu arrivando alle mie spalle; poi si chinò leggermente per sbirciare la copertina, tenendosi intanto i capelli con la mano sinistra per evitare che cadessero sul libro. La guardai attonito, registrando l’inedita vicinanza dei nostri volti, respirando il suo profumo, cercando di afferrare quel preciso istante in cui la fantasia stava diventando realtà, e soprattutto pensando tra me e me che non ero affatto preparato alla discussione stimolante che mi ero immaginato. «Urf» dichiarai, restando con la vaga sensazione che avrei potuto fare di meglio. «Ah, ecco» rispose lei annuendo sarcastica, e stava quasi per andarsene quando recuperai il controllo e aggiunsi: «In realtà l’ho appena iniziato, ecco, ma credo che si tratti di un grande libro, anche se a parer mio non raggiunge le vette di La famiglia Winshaw, La Banda dei brocchi o La pioggia prima che cada. Ma Coe è una certezza, no? Uno dei pochi che ancora fa questo mestiere come si deve… Io lo considero un narratore straordinario, uno dei migliori in circolazione. E soprattutto fa quello che dovrebbe fare uno scrittore: ti spinge a guardare la realtà da un’altra prospettiva, una prospettiva che magari avevi sempre avuto sotto agli occhi ma a cui non avevi mai pensato.» La ragazza fece una smorfia sorpresa e si grattò leggermente il mento. «Ah, wow. Grazie mille, credo proprio che lo comprerò!» esclamò, mi sorrise e fece per andarsene.
25 Non sapevo cosa dire, così non dissi niente; ma avevo fatto colpo, lo sapevo, e con un po’ di fortuna sarei riuscito a incontrarla di nuovo alla cassa prima di uscire. La ragazza però gettò un’occhiata allo scaffale delle novità lì vicino, notò un libro in esposizione e si fermò. Lo prese, lesse la quarta di copertina e tornò a rivolgersi a me: «Ehi, scusa se ti disturbo ancora. Questo l’hai letto? Tranquillo, non ti ho scambiato per la rubrica letteraria di Repubblica, ma ti ho visto abbastanza ferrato, sai com’è…» Quante volte può andarci bene? Quante volte nella vita si può avere una fortuna così sfacciata? Naturalmente, per la legge dei grandi numeri, il libro di cui mi stava chiedendo informazioni non l’avevo mai sentito nominare, proprio come il suo autore. Provai a farmene un’idea generale dalla copertina, ma c’era solo un cielo cupo che gettava pioggia su un mucchio di case abbandonate. Mi lanciai lo stesso in una recensione, deciso a non lasciar cadere di nuovo la conversazione: «Ehm, sì, certo che l’ho letto! Non male, guarda, devo dirti la verità, ma lui ha fatto di meglio. Fa’ vedere…» La ragazza mi porse il libro. Lessi la parola “racconti” sotto il titolo e mi buttai: «Io credo che, nel caso di questo scrittore, rispetto ai racconti giovanili si sia persa un po’ di autenticità, ecco.» «Ah. Quindi secondo te, rispetto alle opere giovanili, questo scrittore ha un po’ perso la bussola, dico bene?» «Sì, io dico proprio di sì. Anche se il suo stile, riconoscibilissimo, non mi sembra sia cambiato poi di tanto, sia chiaro. Però, se lo chiedi a me, lui è sempre stato decisamente sopravvalutato. Pretenzioso e un po’ compiaciuto, per usare le parole giuste.» «Tu dici? Strano.» «Tu non la pensi così?» le chiesi, con aria un po’ scettica e saccente, lo ammetto. Ma, mi dissi, la ragazza deve capire chi è che comanda. «No, sai, è che anch’io ho sentito parlare di questo libro, il fatto è che si tratta di uno scrittore al suo esordio letterario», disse lei, e dopo diverse ere geologiche mi resi conto che mi stava solo prendendo in giro. “Deve capire chi è che comanda”… coglione. Ero totalmente nel pallone. Mi schiarii la gola, strizzai violentemente gli occhi e desiderai di non essere mai uscito di casa quella mattina. «Ah, sì, beh. Uhm. Comunque io leggo perlopiù romanzi, qui si tratta di… insomma, sì, s-sai, una raccolta di raccolte… Ehm, cioè, una racconti di racc… ehm… raccolti di racconte.» Ecco, quando sono nervoso anche
26 dire correttamente “raccolta di racconti” può trasformarsi in un’impresa titanica. «Raccolta di racconti, forse?», mi aiutò lei, generosa. «Sì, esatto.» La ragazza annuì di nuovo sarcastica: «Eri partito bene, ma questo si è trasformato di gran lunga nel peggior approccio letterario a cui abbia mai assistito. Ma apprezzo il tentativo. “Pretenzioso e un po’ compiaciuto”, certo, ma nessuno è perfetto», disse, prima di rivolgermi un freddo sorriso di congedo e allontanarsi scuotendo leggermente la testa. L’umiliazione su tutti i fronti che avevo appena subito non mi fece perdere d’animo, anche se mi fece perdere completamente il ritegno: aspettai che la ragazza si fosse allontanata, strizzai gli occhi e tornai alla carica seguendola al piano superiore, verso l’uscita, assicurandomi però di mantenere una distanza di sicurezza che escludesse l’ipotesi di una denuncia per molestie. Ed eccola lì, diretta alla cassa centrale, pronta a pagare l’ultimo romanzo di Jonathan Coe. Mi precipitai nella sua direzione, ma all’ultimo momento la sua attenzione fu catturata dal cellulare, così fui costretto a sorpassarla con nonchalance e a dirigermi verso la cassa senza niente da pagare. «Desidera?» chiese la commessa. «Ah. No, niente, la ringrazio.» Lei mi guardò perplessa. «Bene. E allora cosa ci fa qui?» Risi, deciso a non sfigurare. «Ah, ora capisco che intende. Prendo… Aspetti un attimo…» e mi fiondai verso lo scaffale accanto alla cassa, quello dei manuali di auto aiuto. Ne scostai un paio e senza guardare pescai a caso un minuscolo libricino che aveva l’aria di essere poco costoso (quella mattina avevo dei problemini di liquidità, tanto per cambiare). «Prendo questo!» urlai, tornando alla cassa e sventolando l’ultima copia di 5 mosse per vincere la dipendenza dalla pornografia e tornare a vivere. In quel momento la ragazza con il vestito blu mise via il cellulare e si avvicinò alla cassa, giusto in tempo per godersi la scena. La commessa si mostrò professionale, prese il libro e lo passò al controllo elettronico. «Ha per caso la scheda per lo sconto?» Feci mente locale e risposi che no, non ce l’avevo. Poi mi venne un colpo di genio, mi voltai e mi rivolsi alla ragazza, ora in fila dietro di me.
27 «Ciao, posso mettere i miei punti sulla tua scheda?» le chiesi ammiccando, e non so perché ma la frase venne fuori come la più sconcia e perversa mai pronunciata nella storia (probabilmente contribuirono la mia faccia di cazzo e il mio acquisto più recente, 5 mosse per vincere la dipendenza dalla pornografia e tornare a vivere). «Uhm, no, temo di dover declinare l’offerta.» A quel punto sia lei che la commessa presero a guardarmi in modo strano, e ci mancò poco che la commessa chiamasse la sicurezza, perciò mi limitai a pagare il libro, abbassare la testa e schizzare fuori dalla libreria. Come ho già detto, quella mattina una delle mie fantasie si realizzò, trovandomi però del tutto impreparato. Che è più o meno quello che succede ogni volta che una fantasia si realizza, temo.
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4. PROGETTI PER IL PASSATO
Non mi andava più di camminare, così presi un pullman per tornare a casa di Walter. La prima faccia che vidi appena salito fu, manco a farlo apposta, quella di Eleonora, la mia ex. E fu piuttosto strano rendermi conto che dietro tutti quei rimorsi e quelle sofferenze e quel disgusto per me stesso c’era una persona, un volto reale, degli atteggiamenti e dei gesti un tempo così familiari. Ci salutammo con un cenno della testa quasi impercettibile, poi Eleonora tornò a parlare con la sua amica. Si vedeva lontano un miglio che voleva sbattermi in faccia tutta la sua freddezza e noncuranza, perché mise su quell’espressione risolutamente indifferente che le ragazze fanno quando vogliono sottolineare il fatto che non ti stanno calcolando (senza però accorgersi che facendo così è sottinteso che ti stanno calcolando). Andai a sedermi in fondo. Avevo saputo da “amici” comuni (cioè quel gruppo di deficienti che, quando stavamo insieme, ero costretto a frequentare anch’io) che al momento Eleonora parlava di me in termini non esattamente lusinghieri: secondo lei io ero “uno che non ha obiettivi nella vita, che ha scritto un paio di romanzi, in verità anche abbastanza brutti e che nessuno si è degnato di pubblicare, e che solo per questo si ritiene autorizzato a comportarsi da artista, a non dare esami, a farsi mantenere tranquillamente da mamma e papà e a passare intere giornate senza fare niente; un egocentrico da quattro soldi, arido, narcisista e compiaciuto; uno che è rimasto fermo ai quattordici anni, la cui unica preoccupazione è quella di procurarsi i biglietti per le partite del Napoli e per i concerti; una persona anaffettiva, incoerente, incostante, instabile e vanesia, che non sa amare nessun altro oltre se stesso: in parole povere, uno stronzo”. La minuziosità della lista mi fece sorridere: mi chiesi quanto ci avesse impiegato Eleonora a prepararla, e se l’avesse prima buttata giù su carta. Ci rimasi piuttosto male: voglio dire, trovarsi in balia del rancore e del
29 risentimento quando una relazione finisce ci può stare, ma questo andava ben oltre. Lei mi disprezzava. Sì, avevo scritto due romanzi, ma questo non significa che mi piacesse comportarmi da “artista” e non fare niente tutto il giorno, è solo che mi trovavo in un periodo privo di stimoli, ecco tutto. Capita. John Lennon si è chiuso in casa e non ha pubblicato album per cinque anni senza che Yoko Ono muovesse un dito, e io avrei dovuto sentirmi in colpa per non aver dato qualche pidocchioso esame all’università? Su una cosa però aveva ragione: nell’ultimo periodo l’avevo trascurata un po’ troppo. Perché dimenticarsi degli anniversari, non chiamare la propria ragazza per giorni, prestare più attenzione al calcio che a lei – insomma, questo può essere tranquillamente definito “trascurare”, no? È che non mi sembrava il momento di impegnarmi, non ancora, e probabilmente ho avuto paura, chi lo sa. So solo che appena Eleonora mi ha lasciato sono stato colto da una piacevole sensazione di libertà e sollievo, che purtroppo però non è durata molto: dopo circa tre giorni mi è crollato il mondo addosso e mi ha assalito la smania di riconquistarla, ma ormai era troppo tardi. Eppure vedo persone della mia età che stanno insieme da anni, che hanno dei progetti in comune o hanno perfino messo su famiglia, mentre io ho i sudorini freddi solo al sentire le parole “anni” e “progetti”. A suo tempo, una ragazza che frequentavo coniò la definizione di “affettivamente stitico”, prima di lasciarmi per un quarantenne grande e grosso che non faceva che andare in palestra e mangiare tuorli d’uovo. Forse aveva ragione lei. Magari il tizio le trasmetteva più sicurezza, le dava le attenzioni che io non le avevo mai dato, non lo so. Quello che so è che io farei una gran fatica a fidarmi di uno che mangia tuorli d’uovo dalla mattina alla sera. Il pomeriggio stesso, tanto per cambiare, ne stavo discutendo con Giorgio e Walter, mentre ce ne stavamo seduti al tavolino di un caffè di Piazza del Gesù. «E allora? Secondo voi che devo fare?» «Guarda, Tic, secondo me quando una cosa finisce, quando muore, non ha senso stare lì con un bastone a pungolare il cadavere, non so se mi spiego» disse Walter. «Ma la mia storia con Eleonora non è un cadavere, non ancora. Almeno credo. Semmai è più simile a un uomo molto, molto malato.»
30 «Il discorso vale anche per l’agonia.» «Basta, devi andare avanti» intervenne Giorgio. «E poi sono convinto che, anche se doveste tornare insieme, sarebbe esattamente la stessa cosa, andrebbe nello stesso modo.» Walter mandò giù l’ultimo sorso del suo aperitivo alcolico – Walter adora gli aperitivi, li considera una delle più importanti conquiste della civiltà occidentale – e scosse la testa: «Certo che sei incredibile! Ora sei lì che ti contorci dal dolore perché ti manca Eleonora, ma solo cinque minuti fa eri in preda alle tue fantasie romantiche sulla ragazza che stamattina leggeva Proust in libreria.» Oddio, forse aveva ragione anche lui. Mi chiesi da dove derivasse tutta quella voglia di rimettermi con Eleonora, e la risposta fu semplice: avrei voluto riconquistarla per attenuare il dolore sordo che provavo quando ripensavo a qualcosa che avevamo fatto insieme, per sfuggire al vuoto e al rimpianto che si materializzava ogni volta che prendevo coscienza di aver rovinato tutto. Subito dopo che era finita avevo anche provato a chiamarla, e molte volte, ma lei non ne voleva sapere di parlarmi, e dopo un po’ avevo smesso di provarci. In realtà non sapevo neanche cosa le avrei detto: mi aveva già abbondantemente spiegato che era inutile provare a ricominciare se non fossi cambiato, e a onor del vero non mi sentivo affatto cambiato. Era un vicolo cieco, e mi ci lambiccavo il cervello con dedizione e forza di volontà, come solo noi provetti masochisti sappiamo fare; allo stesso tempo, però, cercavo di attaccare bottone con le sconosciute in libreria non appena ne avevo l’occasione, fingendo di aver letto libri che non avevo mai sentito nominare e tentando goffi approcci letterari destinati a finire in tragedia. Forse sono semplicemente fatto male, ecco tutto. Ma non potevo certo comunicare tutto questo a Walter, anche perché aveva già perso l’attenzione per l’argomento (Walter soffre di gravi cali di concentrazione, risultato forse di tutti quei neuroni persi fumando erba in gioventù): dopo l’improvviso lampo di saggezza, infatti, era tornato nel suo mondo e in quel momento stava scrutando con occhi assorti la ciotola delle noccioline. «Ehi, non diventare troppo sincero, va bene? Lo sai che non devi essere sincero con me, lo odio», dissi. «È vero, Walter, come puoi essere così insensibile da dire che il nostro Tic è un “tantino” incoerente nei suoi discorsi?» disse Giorgio.
31 «Non siamo mai più fedeli a noi stessi di quando siamo incoerenti» dichiarai scrollando le spalle. «È stato Oscar Wilde a dirlo, giusto?» «No, è stato Carletto ‘o salumiere, quello che ha il negozio sotto casa.» «Grand’uomo.» «Forse il problema sei tu. Tu non sei capace di innamorarti» riprese Giorgio. Scossi la testa con veemenza: «Certo che ne sono capace. Sono capace eccome di innamorarmi, solo non di qualcuno che in quel momento si trovi nella mia stessa stanza.» «Ah, a proposito, prima che mi dimentichi, domani sera io e Marianna abbiamo organizzato una cena» disse Walter, ridestandosi all’improvviso dalla sua “pausa”. Scrollai le spalle. «Va bene, vuol dire che mi chiuderò nello sgabuzzino finché non se ne saranno andati tutti.» «Innanzitutto non abbiamo uno sgabuzzino, e poi è una cena a quattro, e tu sei compreso nei quattro.» Strizzai gli occhi. «E gli altri tre?» «Io, Marianna e Patrizia.» «Patrizia? Patrizia la ragazza carina che ho conosciuto alla festa per la laurea di Giorgio?» «Sei molto intuitivo, bravo. Tanto non penso che con la ragazza di Proust avrai molte chance, sempre se la incontrerai mai di nuovo.» «Gesù, Walter, lo sai che odio queste cose…» «Ma se sei tu ad avermi chiesto di organizzare una cena! Me lo ricordo, me lo hai chiesto la sera della laurea di Giorgio.» «Ma era giusto così, per dire…» «Che c’è, Oscar Wilde non ha mai detto qualcosa a proposito delle cene a quattro?» chiese Giorgio sghignazzando. Lui e Walter amano prendermi in giro quando faccio una bella citazione. Perle ai porci, direi. «No, Tic, la cena si farà» concluse Walter. «Perciò smettila di pensare a Eleonora, alla ragazza della libreria, a Oscar Wilde e a Carletto ‘o salumiere e renditi presentabile per domani sera.» «Sì, è ora di andare avanti, di iniziare a fare qualche progetto per il futuro…» Mi scappò da ridere. «Per adesso mi viene molto più facile fare progetti per il passato, se volete la verità…»
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5. SCALOPPINE AL VINO BIANCO
Non c’è niente, niente, che mi innervosisca più di un primo appuntamento. Se dovessi cantare un pezzo hip-hop stretto in un tutu rosa alla Royal Albert Hall davanti alla famiglia reale inglese credo che sarei meno nervoso. Passai l’intera mattinata seduto sul divano a bere un bicchiere d’acqua dopo l’altro (non so da dove avessi pescato l’idea che bere molta acqua porti serenità, perché in effetti mi portò solo una discreta incontinenza); verso le cinque poi decisi di andare dal barbiere, così, per fare qualcosa. Avevo voglia di un cambiamento, di un nuovo look, di non vedere più nello specchio quell’inconcludente ammasso informe di capelli rossicci. Una volta lì però, con la testa già bagnata e il discreto jazz della radio nelle orecchie, l’asciugamano bianco intorno al collo e il piacevole odore di lacca per capelli tutt’intorno, mi resi conto che Fernando, il mio barbiere, deve avere un concetto del tutto personale di “spuntatina”, molto simile a quello di “tosatura”. Ero quasi calvo. Il fatto è che mentre mi taglia i capelli Fernando non presta affatto attenzione ai miei capelli, ma parla di tutt’altro, e anche con una certa foga, così tra la fedele ricostruzione dei cross di Ghoulam, dei dribbling di Insigne e dei gol di Mertens, ecco che montagne di capelli rossicci volano al vento, a volte insieme a consistenti pezzi di orecchio. No, scherzo, le orecchie non me la ha mai tagliate, ma ho un brutto presentimento. E poi non posso nemmeno dirgli di smettere di tagliare quando esagera, perché ormai Fernando è quasi completamente sordo, non sente più un tubo. Ma di cambiare barbiere non se ne parla, sia chiaro: sono un romantico, e oltretutto odierei perdere l’unico riferimento saldo della mia vita. Tornai a casa, cercai di sistemare i capelli alla meglio, ripresi a bere acqua. Un’oretta prima della cena mi offrii di andare a comprare il vino, giusto per sgranchirmi un po’ le gambe.
33 «Non scappare, mi raccomando…» mi disse Marianna mentre uscivo. Quella mattina avevamo parlato un po’: le avevo detto che mi dispiaceva di aver creato tanto fastidio e che me ne sarei andato il prima possibile; lei, inaspettatamente, si era mostrata molto gentile e comprensiva, e mi aveva invitato a restare per tutto il tempo che volevo. Grave errore da parte sua, perché era esattamente quello che avevo in mente di fare. Entrai in cucina e appoggiai la bottiglia di vino sul tavolo: Marianna stava preparando le scaloppine al vino bianco, e io presi posto sulla sedia a capotavola. «Dov’è Walter?» le chiesi, incoraggiato dalla nuova confidenza che si era creata tra noi. «È in soggiorno che si sistema il ciuffo, credo» disse lei, scrollando le spalle senza voltarsi. «È un po’ vanitoso, eh?» Le scappò un risolino. «Non ne hai idea. Quando usciamo in macchina sta tutto il tempo a guardarsi negli specchietti. È odioso! Lo sai che la settimana scorsa per un pelo non siamo finiti fuori strada?» «Già immagino i titoli dei giornali: Ennesimo morto in nome della bellezza.» «Hai mai pensato di creare un personaggio basandoti su Walter? Sarebbe un ottimo spunto.» «Su Walter? Oh, ho un intero romanzo su Walter. Si chiama Mal di Dandy.» Marianna scoppiò in una fragorosa risata, mentre Walter fece capolino dalla porta, il ciuffo biondo che svolazzava a destra e sinistra. «La smettete di sfottermi? Tic, tu pensa al tuo appuntamento galante, piuttosto. Sei teso?» «Per niente» dissi, e strizzai gli occhi. «Ma… che tipo è?» «Ah, vedrai, Patrizia è molto simpatica, solo un po’… incasinata, diciamo così. Ma ti piacerà, puoi starne sicuro» disse Marianna. «In c-che senso “incasinata”?» «Nel senso che…» «Mi state facendo preoccupare. Ma che ne pensi dei miei capelli, eh, Walter, t-tu che ne pensi?» Ah, dimenticavo: a volte, al culmine del nervosismo, divento leggermente balbuziente. «W-Walter, dimmi, tu che ne pensi?» Risolta finalmente la questione-ciuffo, Walter entrò in cucina, mi squadrò per un attimo e disse: «Sì, può andare, non preoccuparti.» Poi,
34 rivolto a Marianna: «E non esagerare col vino, sennò ti verrà fuori il vino bianco alle scaloppine, come al solito…» «Che cazzo vuol dire “può andare”? Faccio schifo, eh, Marianna, fafaccio schifo?» Walter si spazientì: «Cristiddio, la smetti? Sembri una tredicenne che deve andare al fottuto ballo della scuola!» Marianna fu più comprensiva: «Mattia, ascolta, a me piace il tuo nuovo taglio. Ti fa sembrare più… grande! Sì, sembri più grande!» «Che vuoi dire? Che sembro un vecchio? Gesù, lo sapevo, sembro un canuto cinquantenne!» Marianna aggirò il tavolo, mi guardò negli occhi e sussurrò: «Ascolta, lo so che sei nervoso e che sei stato mollato da poco eccetera eccetera… ma andrà tutto bene, ok? E, nel peggiore dei casi – se Patrizia non dovesse piacerti – non è un dramma, non fa niente, ognuno a casa sua e chi s’è visto s’è visto. Ma almeno proviamo, così, per passare il tempo.» Annuii riluttante, mentre Walter ridacchiava e Marianna tornava ai fornelli. Patrizia arrivò alle dieci meno un quarto, con circa quarantacinque minuti di ritardo. Era un po’ diversa dall’ultima volta che l’avevo vista. Molto meno calma. «Scusate, scusate tanto, si è messo a piovere, e poi a Piazza Dante c’era un traffico tremendo…» disse entrando in casa, il tono di voce più alto del normale di circa due ottave. «Figurati. Dài qua» le disse Marianna, prendendole di mano il cappotto e la borsa inzuppati d’acqua. Patrizia scattò. «No, lascia! Ho le sigarette qui dentro.» «Ah, va bene. Io vado in cucina a finire di preparare la cena» continuò Marianna. «Walter è in camera, e questo è Mattia. Mattia, le ho parlato talmente bene di te che ora puoi solo deluderla.» «Oh, non c’è problema. Cioè, io deludo benissimo le persone, sai, ho un vero talento… Molto piacere, ci siamo già visti alla festa di Giorgio, non so se ti ricordi» dissi avvicinandomi a Patrizia. Cercai di assumere un atteggiamento che denotasse una certa sicurezza ma che non fosse arrogante, che mettesse in evidenza la mia cortesia senza farmi apparire docile, che mi facesse sembrare al tempo stesso interessante e interessato, senza rinunciare a una certa dose di distacco che non guasta mai. Purtroppo, però, dopo i primi passi mi feci prendere dal panico e la
35 mia camminata iniziò a ricordare quella di un levriero sopravissuto per miracolo a un investimento. «No» disse Patrizia. «Ah, ecco. Bene. Piove molto?» Patrizia non sembrò fare molto caso al mio atteggiamento, né a nient’altro della mia persona, perché, lasciatemelo dire, era più schizzata di me. «Sì, piove. Piove sempre», sibilò a denti stretti, poi tirò fuori il pacchetto di sigarette dalla borsa. «Hai da accendere?» Le passai l’accendino che trovai sul tavolo. Patrizia aspirò una lunga boccata con la mano che le tremava leggermente, poi finalmente mi guardò in faccia per la prima volta, ma evidentemente non si trovò di fronte ciò che si aspettava di trovare e tornò a frugare nella borsetta. Dire che mi intimidiva è riduttivo, non mi sentivo così dall’esame di Latino del secondo anno. «E tu cosa fai?» chiesi alla fine, cercando di rompere l’assordante silenzio che si era creato appena Marianna aveva lasciato la stanza. «Fumo, non vedi?» «No, intendo, n-nella vita. Cosa fai, insomma, nella vita?» ripetei strizzando violentemente gli occhi. «Ah, nella vita…» ripeté lei guardando nel vuoto, come a voler inquadrare più chiaramente la sua vita, evidentemente simile al divano verdastro di Walter. «Nella vita… niente… Cioè, voglio dire, al momento niente, però mi sono laureata in Storia un paio di anni fa. È all’università che ho conosciuto Marianna.» «Ah, bene. E dove abiti?» «Corso Umberto.» «Ah, anch’io faccio l’Università. Seguo molti corsi, specialmente il Corso Umberto.» Silenzio glaciale. Il nervosismo gioca brutti scherzi all’umorismo, si sa. «Scusami un attimo. Marianna, posso parlarti?» disse Patrizia avviandosi verso la cucina con la fretta di chi è appena stato avvicinato da un venditore di accendini a Piazza Garibaldi. Rimasi in soggiorno da solo, a chiedermi cosa diavolo ci facevo lì, a cena con una pazza, a fare battute terribili e a pensare a Eleonora. «Ehi, Tic, ho sentito che stavi parlando con Patrizia. Come vanno le cose, eh?» esclamò Walter entrando festoso nella stanza. «A parte il fatto che è chiaramente fuori di testa e che pensa a tutt’altro mentre parliamo, abbiamo già compilato la lista di nozze.»
36 «Ascolta, Marianna mi ha detto che Patrizia sta passando un periodo difficile, proprio come te. Si è lasciata da un paio di mesi con un tizio, uno sui cinquant’anni mi pare. Uno sposato. E ora soffre.» «E tu hai pensato di affibbiarla a me, che in questo periodo sono proprio il tipo adatto a consolare una che soffre, giusto? Se parla cinque minuti con me rischia di buttarsi dal balcone prima che sia servito il dolce.» «Almeno prova a conoscerla, no? E se stasera non concludiamo niente, che vuoi farci, c’est la vie! Ehi, ma lo sai che mi è venuta una graaan voglia di andare a Parigi? E lo sai perché, mio caro Tic?» Aveva chiaramente fumato, e non sigarette, perché mi guardò per qualche secondo con gli occhi annebbiati e poi biascicò: «Ma perché Parigi è la città più bella del mondo, cazzo! Dico bene, Tic? Sì, Tic, andiamo tutti a Parigi, ma tu devi trovarti una ragazza, perché Parigi è una città fottutamente romantica, amico mio.» Quando fuma, Walter progetta spesso viaggi a Parigi. Deve essere un desiderio inconscio che si manifesta solo quando è sotto l’effetto di stupefacenti. «Hai fumato?» La sua faccia si aprì in un ghigno diabolico. «Un pochino», e giù una fragorosa risata. «Secondo te che ho fatto tutto questo tempo di là? La vuoi un po’ d’erba, eh? È roba di prima qualità. Però non dirlo a Marianna: non vuole che fumi, specialmente in casa. Allora Tic, che ne dici? Parigi ci aspetta, uh uh uh!» «Senti, sei sicuro di non avere uno sgabuzzino? Mi metto lì tranquillo e voi andate avanti con la cena…» «Devi sbrigarti, Tic, devi trovare una ragazza, una nuova ragazza. Smettila con questa maledetta Eleonora. Il tempo passa, il tuo orologio biologico va avanti inesorabile.» «La smetti di fare il coglione?» «Parigi ci aspettaaa, Tic. Il tempo passaaa, Tic. Tic-Tac, Tic-Tac, TicTac» prese a cantare con sguardo languido mentre si faceva sempre più vicino, e poi mi saltò addosso, attività che dopo tutti questi anni reputa ancora una delle cose più divertenti del mondo. I misteri della vita. «È un figlio di puttana! Un farabutto! Ma che, si tratta così una donna?» La voce di Patrizia, stridula e rotta dal pianto, arrivò dalla cucina e interruppe di colpo il nostro idillio. «Wow, che le hai detto per farla incazzare tanto?» mi chiese Walter, e lì per lì pensai anch’io che Patrizia ce l’avesse con me. Ma che le avevo detto di tanto grave? D’accordo, forse la battuta su Corso Umberto non
37 era stata delle migliori, ma mi sembra eccessivo essere chiamato “figlio di puttana” per questo. Qualche minuto dopo uscì di corsa dalla cucina, in lacrime, e afferrò il cappotto dal divano. «Scusate, non sto molto bene, non me la sento di cenare fuori. Mattia, scusami, è stato un piacere, sul serio… Ci vediamo, eh? Ciao, Walter.» Walter si gettò sul divano sghignazzando in preda agli effetti della cannabis; nel frattempo Marianna rincorreva Patrizia per le scale gridandole di aspettarla, e Patrizia urlava di lasciarla perdere, perché prima o poi tutti la lasciavano perdere. La serata aveva decisamente preso la piega sbagliata. Le due ragazze iniziarono a parlottare nel pianerottolo del piano inferiore, mentre io continuavo a guardare Walter con aria confusa e lui continuava a contorcersi in preda alla ridarella. Dopo un po’ Marianna rientrò in casa e mi spiegò che il tizio che l’aveva appena lasciata, il cinquantenne sposato, era miracolosamente riuscito a farsi perdonare dalla moglie ed era tornato con lei, e Patrizia l’aveva scoperto proprio quella sera: li aveva visti per strada prima di arrivare e non aveva retto. «Di solito non è così. Voglio dire, è un po’ pazza, questo sì, e nevrotica, ma io e Walter pensavamo che vi sareste trovati bene insieme» aggiunse Marianna mesta, salvo poi rendersi conto che poteva suonare come un’offesa, seppur involontaria. «Cioè, non che tu sia pazzo, eh, però sei un po’ nevrotico, ecco. Senza offesa.» «Figurati. La facoltà di Psicologia mi ha offerto un posto come cavia per i laureandi.» Afferrai la mia giacca dal divano. «Beh, allora io andrei a farmi un giro, se non vi dispiace.» «E perché? Dài, ormai ho preparato, ceniamo qui.» «Esatto, fuori piove, prendi freddo. Potresti anche morire, sai, hai una salute cagionevole» puntualizzò Walter. Aveva gli occhi lucidi, tanto aveva riso nell’ultima mezz’ora. «Sul serio, aiutami ad apparecchiare. Sai com’è, il mio ragazzo è troppo fatto per aiutarmi» disse Marianna, acida. Walter tornò serio per un attimo, ma riuscì a trattenersi solo per qualche secondo prima di riprendere a sghignazzare senza motivo; io seguii la sua ragazza in cucina, rassegnandomi a un’altra serata passata a fare il terzo incomodo. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD