In uscita il 28/4/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine aprile e inizio maggio 2017 ( ,99 euro)
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STEFANO MILIGHETTI
IL NULLA UMANO
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IL NULLA UMANO Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-091-7 Copertina: immagine proposta dall’Autore
Prima edizione Aprile 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
A Te, lo so io, lo sai tu!
“Specchio fatato, in questo castello, hai forse visto aspetto più bello?” Jacob e Wilhelm Grimm - Biancaneve
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PROLOGO
Si guardarono. Disperazione e odio si incontrarono e si scontrarono negli occhi l’uno dell’altra. Lui la fissò, piagnucolosa, debole, sconfitta dalla vita. Ne sbirciò, con riluttanza, l’estrema magrezza. Era quel tipo di donna che suo nonno avrebbe chiamato Chiappe Gonfie e a suo nonno non erano mai piaciute le Chiappe Gonfie. Donne tutte pelle e ossa, fatta eccezione per il culo, grande e gonfio come un ammasso di pasta lievitata. E per quanto potessero dimagrire, nonostante tutti gli sforzi che potessero fare, il culo delle Chiappe Gonfie non si sarebbe mai sgonfiato, anzi, lì si sarebbe depositato ogni boccone di troppo, ogni grammo di zucchero in eccesso consumato durante il giorno. Era una legge universale e lei ne era la prova vivente: pelle e ossa, tette piatte, culo gigante. Se nel dizionario fosse esistita la definizione di “Chiappe Gonfie”, avrebbero potuto mettere la sua foto per rendere al massimo l’idea di quella peculiare tipologia di donna. La guardò: non la tollerava più. Sua era stata la scelta, lui aveva agito di conseguenza, aveva fatto solo quello che gli era stato chiesto, niente di più. Adesso però il seme del dubbio aveva germogliato dentro di lei e, come l’ultima delle imbecilli, si era pentita, lasciando che i suoi sentimenti sconnessi, ricchi di alti e bassi, come se fossero un trenino delle montagne russe, prendessero il sopravvento sull’estrema lucidità che invece esigeva il compito che si erano prefissati. La guardò ancora: il suo disprezzo crebbe a dismisura. Perdente nella vita, incapace di accettare le conseguenze delle sue scelte. Davanti al fatto compiuto aveva rinnegato il suo proposito segreto, quello che aveva covato nel profondo del suo cuore durante gli anni più bui e terribili della sua vita. Quando non era altro che una lurida palla di merda che avrebbe fatto vomitare perfino un maiale.
8 Essere debole e frignante, privo di spina dorsale, si era pentita, macchiandosi così della peggior colpa di cui potesse imbrattarsi lo spirito di un essere umano senza palle. Un sorriso gli scosse le labbra: be’, a conti fatti, di palle non poteva averne poiché, nonostante fosse un cesso in tutto e per tutto, restava pur sempre una donna. «Cos’hai da ridere?» domando lei con la sua voce che ricordava lo squittio inacidito di un topo ritardato. Se fosse stata davvero un topo, magari uno di quelli da laboratorio, non sarebbe mai riuscita a trovare l’uscita in un ipotetico labirinto. Sarebbe morta di fame e di stenti, sbattendo la testa sempre contro lo stesso punto, mostrando a tutti quanto profonda fosse la sua stupidità. Gli idioti che vivevano di sole parole, quelli che si limitavano a guardare il mondo dalla finestra senza però vivere o sperimentare in prima persona le stronzate di cui parlavano, avevano coniato un termine nuovo, molto in voga in televisione e nei giornali, dando origine a una macabra moda linguistica: femminicidio. La trovava una parola orribile, che aggiungeva discriminazione alla discriminazione tra uomo e donna. Una parola inutile che serviva solo a ribadire una volta in più che tra uomini e donne c’erano differenze insormontabili, perfino davanti alla morte. Sorrise: chissà se anche quello poteva rientrare nella cerchia del femminicidio? «Perché ridi?» chiese di nuovo lei con la voce grassa di terrore. Forse no, non avrebbero parlato di femminicidio per qualcosa come lei, tuttavia era una riflessione marginale, perché quello che contava davvero era liberare il mondo dalla sua presenza grottesca e imbarazzante. Farla sparire ed essere finalmente libero. «Perché?» e anche per lei, com’era stato per un pescatore di uomini in un tempo lontano, anche per lei cantò il gallo. «Perché non ti sopporto più!» sbraitò lui. «Perché mi fai schifo, perché sei un essere inutile, perché puzzi e non meriti di vivere! Perché ti odio e non ne posso più delle tue continue, stupidissime lagne da ragazzina idiota!» gridò come una furia, tanto che alcuni schizzi di saliva sporcarono lo specchio accanto a lui.
9 Lei scoppiò a piangere. Lui sorrise ancora una volta: in tutta la sua vita non aveva fatto altro che affrontare i problemi piangendo. Non si era mai data da fare, non si era mai rimboccata le maniche tirando fuori quella grinta necessaria per non vivere un’esistenza altrimenti simile a quella di un animale. No, sempre e solo lacrime. Un tumulto di lacrime… almeno fino a che non era arrivato lui, ma ormai il tempo era giunto. L’ora fatidica era scoccata e sapeva fin troppo bene come chiudere quella storia. Non poteva essere altrimenti: così come l’aveva salvata, adesso l’avrebbe reclusa nella dannazione eterna. «Non voglio morire!» singhiozzò lei. «Sai, non è detto che si ottenga sempre quello che si vuole!» replicò asettico come un sadico filosofo dell’inferno. «Credevo che ormai lo avessi capito, che lo avessi imparato, anche se non me ne stupisco… sei sempre stata una mezza ritardata!» e lo disse con la stessa soddisfatta cattiveria di un bambino che insulta un amico debole e indifeso. Sollevò il martello che aveva in mano. Lei non provò neppure a fuggire, limitandosi a urlare: era sempre stata una debole, e debole e vigliacca lo sarebbe stata anche nella fine. Per lei la parola “dignità” era vuota, non aveva alcun significato, priva di quel sangue freddo che alcuni riescono a mantenere perfino davanti alla Nera Mietitrice. No, solo urla, solo istinto animale a una sopravvivenza che non meritava. Spazzarla via non era solo un dovere che aveva nei confronti dell’umanità, ma era qualcosa di necessario e che andava fatto, e per di più senza pietà. Il martello partì, pesante e assassino, verso la donna che stava gridando tutto il suo impotente terrore.
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CAPITOLO UNO
Se qualcuno si fosse mai preso il disturbo di chiederlo, Serena avrebbe risposto che la mattina era il momento della sua giornata che più la metteva in difficoltà. E la ragione era semplice: quando si sedeva a tavola per la prima colazione, era costretta a passare del tempo a tu per tu con Monica, sua madre. Uscivano di casa praticamente alla stessa ora ed era inevitabile che consumassero quell’unico pasto insieme. Anche se Serena ne avrebbe fatto volentieri a meno, Monica era stata irremovibile: la colazione andava fatta insieme, sempre e comunque, a eccezione della domenica, quando si alzavano a orari differenti. Monica intorno alle 8.30, Serena alla 9, e quella mezz’ora era una scusante accettabile per evitare quel primo appuntamento che dava inizio al giorno di entrambe. Serena si era chiesta più volte come mai sua madre ci tenesse così tanto a fare colazione con lei. In una famiglia normale poteva essere perfino comprensibile, tuttavia, visto che la loro era una famiglia tutt’altro che normale, il dubbio la angosciava costantemente. Un dubbio che si concretizzava nella sua mente sempre sotto forma di un’unica domanda: perché, visto che mi odia? Naturalmente l’odio che Monica provava per la figlia era autentico, non era cioè una di quelle tipiche convinzioni adolescenziali, quel senso di repulsione per il rapporto genitori figli che prova ogni ragazzo che si incammina verso l’età adulta. L’odio di Monica era vero, tangibile e la donna non aveva mai fatto niente per nasconderlo. Al contrario, ne aveva dato prova più e più volte, senza mostrare la ben che minima pietà per la figlia, arrivando addirittura a dargliene così tante da farla quasi svenire. Però, nonostante questo, il quarto d’ora della colazione doveva essere passato insieme.
12 Così, anche quella mattina, mentre Monica si versava il caffè nella sua tazzina di bianchissima porcellana che aveva comprato chissà dove, Serena la studiò di sottecchi, nella speranza di dipanare quell'incomprensibile enigma. Dopo aver appoggiato la moka sul ripiano del lavello, Monica si mise a sedere. Indossava una delle sue tante tute, quelle che usava per andare a scuola dove insegnava educazione fisica ai ragazzini delle medie. Era la tuta blu con le strisce gialle su maniche e pantaloni. Un indumento così aderente che metteva fin troppo in mostra il suo fisico perfetto. Un fisico che Serena le aveva sempre invidiato, un fisico che però lei non sarebbe mai riuscita ad avere. Versò un po’ di zucchero, poi, senza alzare lo sguardo, chiese alla figlia le fette biscottate. Monica mangiava sempre tre fette biscottate con la marmellata, che poteva variare dalle more alle arance. La ragazza le allungò la confezione senza dire niente e l’altra, con fare meccanico, cominciò a spalmare confettura su uno dei dischi croccanti e dorati. Serena fissò quella semplice operazione con la bocca piena di saliva: non ricordava quando era stata l'ultima volta che aveva mangiato della marmellata. La sua colazione si riduceva ogni volta a uno yogurt magro con una punta di miele e una tazzina di caffè rigorosamente amaro. Sospirò, passandosi una mano sui capelli rossi che si era tinta da poco: uno schifo di colazione che si adattava perfettamente al resto della sua vita. Stava per mettere in bocca un po’ di yogurt quando Monica, alzando gli occhi dal libro che stava leggendo, un malloppo da pseudointellettuali di chissà quale scrittore cecoslovacco, la guardò e, con voce priva di qualsiasi intonazione, le disse che sarebbe rientrata tardi quella sera. Serena bloccò la mano a mezz’aria, il cucchiaio a dieci centimetri dalle sue labbra: dovevano essere passati sei mesi dall'ultima volta che sua madre le aveva detto qualcosa mentre erano sedute alla stessa tavola.
13 «Ok» rispose lei incespicando su quelle due semplici lettere: lo shock era stato davvero profondo e inaspettato che le aveva mandato in tilt perfino la capacità di esprimersi correttamente. «Dopo la scuola mi vedo con Susanna e andiamo a cena fuori» aggiunse. Serena inarcò le sopracciglia: da che ricordava, sua madre non le aveva mai dato spiegazioni su ciò che faceva o su dove andava. Si limitava a uscire e tornare quando più le faceva comodo. Che stesse impazzendo? «Va bene mamma» disse cercando di non farle capire quanto il suo comportamento l’avesse mandata in confusione. Insomma, quello che era appena successo, era un’autentica rarità e non sapeva se esserne felice o se preoccuparsene, generando in questo modo un nuovo dubbio che, da quel giorno, avrebbe fatto coppia fissa con l’altro. Monica guardò per qualche attimo ancora la figlia, dando addirittura l'impressione di volerle di dire dell'altro, poi scosse la testa e tornò alla sua fetta biscottata e al suo libro ceco. Incuriosita, un paio di giorni prima, Serena ne aveva cercata la trama in rete, trovandola assurda e da malato di mente. Forse era quel libro che stava contagiando sua madre di una forma subdola e segreta di follia. Se avesse avuto un altro tipo di carattere, se non fosse stata così timida, magari correndo tutti i rischi del caso, Serena avrebbe potuto provare a incalzarla, a chiederle se voleva aggiungere qualcosa, ma il suo carattere era quello che era, così mise fine a quella potenziale chiacchierata tra madre e figlia, lasciando che lo yogurt arrivasse a destinazione. Dopo averlo ingoiato, socchiuse gli occhi, strizzandoli in un modo che, almeno nelle sue intenzioni, doveva sottintendere una profonda riflessione, ma che in realtà le davano solo un’aria da imbecille: cosa voleva dirle Monica? Perché si era trattenuta? Sapeva che non era un insulto: quando doveva dirle qualcosa di cattivo, non aveva mai esitato, sputandole addosso tanto di quel veleno che il più delle volte pensava che ne sarebbe morta, corrosa nell’anima dal disprezzo di sua madre. Quindi, cosa poteva essere? Sospirò: era un’occasione che non poteva sprecare così tanto alla leggera.
14 «Mamma...» cominciò lei con un atto di coraggio al limite dell'indicibile, «cosa...?». «Sbrigati o farai tardi» tagliò corto l’altra senza guardarla. Serena si zittì immediatamente: tra di loro le cose non sarebbero mai cambiate, non ci sarebbe mai stata nessuna comprensione, nessuna complicità. Erano solo due donne che vivevano sotto lo stesso tetto e che non avevano niente in comune, con una che detestava la figlia, e la figlia che temeva la madre. Insomma, un rapporto di merda che non avrebbe augurato neppure al suo peggior nemico. Un rapporto che aveva segnato tutta la sua vita, fin da quando ricordava, con Monica che non perdeva occasione per trattarla come il maiale schifo che le diceva di essere. Scosse impercettibilmente la testa: nella sua vita non sarebbe cambiato mai niente, sarebbe stata sempre sola e senza nessuno su cui poter contare. Finì il suo yogurt poi, senza salutare la madre, prese lo zaino e uscì di casa. Per Serena era cominciata una delle tante giornate identiche le une alle altre, giornate che non meritavano neppure di essere ricordate. Una volta fuori, si avviò attraverso l’intrico di vicolo che, in appena dieci minuti, l'avrebbero portata a scuola, in quella seconda prigione dov’era costretta a passare del tempo orribile e del quale avrebbe fatto fin troppo volentieri a meno. Digrignò i denti: vivere era sempre più difficile e lei, nel profondo del suo cuore, temeva che alla fine avrebbe gettato la spugna. Allontanò subito quel pensiero pericoloso, affrettò il passo cercando di svuotare la mente da quello che di oscuro infestava i suoi sentimenti.
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CAPITOLO DUE
La fame era terribile. Per la prima volta da quando ricordava, Serena riuscì ad avvertire la presenza di qualcosa che si trovava dentro di lei. Una parola affiorò nella sua mente, anche se non sapeva se era quella giusta: stomaco. Lo sentiva borbottare, stringersi per poi allargarsi all’improvviso. All’inizio era stata colta da un leggero senso di panico, pensando in modo sconclusionato che fosse giunta la sua ora e stesse per morire, com’era successo alla vecchia mamma della nonna, morta nel suo letto dopo una brutta malattia. Era stato tuttavia un terrore passeggero perché, alla fine, quella bambina di quasi sei anni aveva capito cosa stesse succedendo: aveva fame. Tantissima fame. A colazione aveva bevuto una tazza di latte con tre biscotti, quelli che nonna Irene chiamava “biscotti di riso”, anche se di riso, in quei particolari biscotti, non c’era la ben che minima traccia. Solo il buffo spennacchio di un cereale che ricordava vagamente una piantina di riso, che però non lo era. Serena li aveva spazzolati via in un attimo e, quando ne aveva chiesti ancora, Irene, scocciata, le aveva risposto che non era ancora andata a fare la spesa. Di conseguenza non ce ne erano più. La bambina aveva bevuto l’ultimo sorso di latte poi, senza pensare a niente in particolare, era andata fuori a giocare. L’attacco di fame era arrivato più o meno un’ora dopo, mentre stava riempiendo una brocca d’acqua da usare per il bagnetto della sua bambola, uno sgorbio di pezza senza una gamba e con un ciuffo spelacchiato di capelli dello stesso colore di una carota prossima a marcire. Gli occhi erano due quadratini di vetro azzurro, la bocca un filo di lana rossa. Aveva un vestitino rosa con un grosso fiore giallo sul davanti e sebbene sua madre l’avesse pagata una sciocchezza, Sere-
16 na se ne era innamorata fin da quando l’aveva ricevuta come regalo per aver fatto la brava il giorno del vaccino. Da allora non se ne separava mai, tanto che senza la bambola, che aveva chiamato Monica, proprio come la sua mamma, non riusciva neppure a prender sonno. E mentre fissava a bocca spalancata Monica, nella speranza che le potesse dare una mano, dopo quei pochi attimi di panico, aveva capito tutta da sola cosa servisse per mettere a tacere quel brutto gorgoglio che proveniva dalla sua pancia: cibo. Lasciando perdere la bambola e il suo bagnetto, era corsa dalla nonna, chiedendole se poteva darle qualcosa da mangiare. Una merendina, una mela, le sarebbe andata bene anche una fetta di pane senza niente, giusto un boccone per smorzare la fame che le stava torcendo le budella. Quando la bambina era arrivata in casa, Irene stava rammendando delle tende che voleva usare per il finestrone della sala da pranzo. Le tende ovviamente erano l’ultima delle sue preoccupazioni, soprattutto perché, dopo la morte di sua madre, l’idea della vecchiaia aveva cominciato a terrorizzarla, certa che sarebbe andata in contro allo stesso destino toccato alla donna che l’aveva messa al mondo. Era partito tutto con un innocuo, almeno all’apparenza, mal di testa che si era poi rivelato un tumore al cervello e che l’aveva mangiata viva una cellula alla volta. Irene viveva in un costante stato di sommessa agitazione, temendo che qualunque accenno di dolore fosse in realtà un allarme lanciato dal suo corpo per dirle che era nella merda alta. Da quando era morta sua madre, aveva cominciato a frequentare con assidua frequenza l’ambulatorio di Ugo, il suo medico curante, andando da lui per ogni sciocchezza. Il medico, un uomo alto e paziente, aveva cercato in tutti i modi di farle capire che non c’era niente in lei che non andasse, ma Irene aveva sempre fatto orecchio da mercante, certa di essere sempre sull’orlo di una malattia rara e incurabile. Ovviamente la tensione giocava brutti scherzi e il suo carattere, già difficile di natura, aveva subito un’ulteriore spinta verso il basso, facendola diventare, per quanto possibile, ancor più acida di quanto già non fosse. E mentre usava con la massima attenzione ago e filo
17 sulle tende che contava di mettere in bella mostra per il compleanno di Diego, suo marito, la sua mente non faceva altro che dirle che probabilmente il dolorino che avvertiva al coccige quando stava seduta poteva essere l’avvisaglia di un tumore alle ossa, o che le fitte alle spalle che di tanto in tanto le davano il tormento quando era a letto fossero il principio di una polmonite che l’avrebbe di sicuro portata al camposanto. Delle tende non le importava un bel niente, anche se una parte di lei, quella che ancora riusciva a vivere una vita senza troppe paranoie e che per sua fortuna riusciva ancora ad avere il sopravvento sull’altra, non faceva che ripeterle di fare quel lavoro con la massima cura possibile perché Fulvia, la moglie di Francesco, gemello di Monica, non avrebbe di certo mancato di notare ogni minima imperfezione. Era una cara ragazza, ma per certi aspetti era una petulante rompicoglioni che ancora non aveva del tutto accettato come nuora: per la milionesima volta da quando si erano sposati, Irene si chiese cosa avesse visto Francesco di così speciale in quella donna. Era attraente, alta e con un bel paio di gambe e quando si tirava a lucido non passava di certo inosservata, tuttavia aveva un carattere orribile che la faceva assomigliare fin troppo da vicino a una di quelle arpie venute al mondo solo per rovinare la vita dei bravi ragazzi come lo era Francesco. Scosse la testa, indispettita: anche se Francesco ne avrebbe sofferto, Irene augurò a quella stronza una morte orribile e dolorosa. In quel modo, se non altro, non avrebbe più dovuto preoccuparsi dello stato delle sue tende, o dei copri-sedie, o dei peli di gatto che potevano essere sul divano, proprio come era successo il giorno di Natale quando Fulvia si era lamentata della palla di pelo bianco che Salvatore, il gatto di Diego, aveva lasciato sul bracciolo dove si era seduta. E così, di pessimo umore, pronta a esplodere, quando Serena le chiese da mangiare, senza degnare la nipote di un solo sguardo, le ringhiò contro, intimando di smetterla di darle il tormento per ogni minima sciocchezza e che avrebbero pranzato come tutti i giorni alle 12.30 in punto.
18 «Nonna, per favore! Ho tanta fame!» piagnucolò Serena con gli occhi lucidi. «Dovevi mangiare a colazione invece di correre a giocare con quella stupida bambola!» sbottò Irene. Serena era una bambina buona e per niente fastidiosa, eppure aveva la capacità innata di farle saltare i nervi. A volte bastava soltanto la sua presenza per mandarla in bestia e in quel momento, consapevole che la sua vista cominciava ad avere seri problemi, quasi certamente dovuti allo stesso male che aveva assassinato sua madre, pensò che se Serena non se ne fosse andata al più presto, l’avrebbe riempita di così tanti ceffoni da farle perdere l’appetito per il resto dei suoi giorni. In passato c’erano state molte occasioni in cui Irene si era fermata solo all’ultimo momento, con un pizzicorino alle mani che non chiedeva altro che essere alleviato sulla faccia di Serena. Questa volta c’era il rischio che Irene non riuscisse a controllarsi e, conscia dei problemi che ci sarebbero stati con suo figlio se l’avesse picchiata, ordinò: «Levati di torno e vai a giocare! Non voglio rivederti fino a pranzo! Fila!». Avvertendo la rabbia nascosta nella voce della nonna, Serena corse fuori cominciando a piangere. Aveva fame. Aveva tantissima fame e sapeva fin troppo bene che se non avesse mangiato, non sarebbe riuscita a sopravvivere fino all’ora di pranzo. Strillando, era andata dietro al pollaio, aveva tagliato per un campo incolto ed era saltata in un fosso. Aveva corso fino a un grande fico che, con i rami che pendevano pesanti verso il basso, creava un piccolo riparo naturale. Era il posto segreto di Serena, quello che nella sua mente di bambina aveva ribattezzato la Grotta delle Fate, un luogo magico dove aveva addirittura nascosto il suo tesoro: una scatola piena di cianfrusaglie per chiunque tranne che per una bambina sola e dall’immaginazione fin troppo guizzante. In quella scatola c’erano la minuscola corona di una bambola ormai perduta e una bacchetta magica argentata. La punta era una stella di un inguardabile rosso acceso. C’erano la carta viola di un cioccolatino e una fotografia della sua mamma quando era bambina. C’erano
19 un pettine giallo limone e un fermaglio a forma di bruco. E quello più prezioso di tutti, un segnalibro che raffigurava un quadro. Nel quadro c’erano due uomini: uno giovane, l’altro molto vecchio con una folta barba bianca. Avevano le braccia protese l’uno verso l’altro e sembrava che le dita stessero per toccarsi. Sei anni dopo, durante una gita scolastica a Città del Vaticano, pur non capendone il motivo, avrebbe avuto la pelle d’oca vedendo gli affreschi della Cappella Sistina. E soffermandosi su una riproduzione della Creazione di Adamo, la sua mente le avrebbe fatto rivedere per qualche attimo quella vecchia scatola da scarpe, facendola ridiventare, giusto il tempo di un battito del cuore, la bambina che era stata. Quel giorno, però, umiliata dalla nonna, si rannicchiò contro l’albero e pianse per un tempo indefinibile, con lo stomaco che sbraitava a più non posso. Alla fine, com’era prevedibile, riuscì a calmarsi, anche se continuò a singhiozzare e a tenere il broncio per un bel pezzo, borbottando le “parolacce” contro la nonna, colpevole di non volerle bene e di pensare solo a quelle stupide tende. «Io sono più importante di quelle tende! Io posso morire di fame, le tende certo che no! Sono solo degli stupidissimi pezzi di stoffa!» e giù, altre parolacce contro la nonna. E perfino contro il nonno che non l’aveva accompagnata a fare la spesa. «Sono proprio… sono proprio…» si guardò intorno per essere certa che nessuno fosse nelle vicinanze e potesse sentirla mentre lo diceva. «Sono proprio due stronzi!» e dopo averlo detto si coprì il viso con le mani, rossa di vergogna per aver detto quella bruttissima parola. Una di quelle che, come diceva sempre nonna, facevano piangere Gesù. Pensò un attimo a Gesù, ai nonni e alla sua fame, poi scoppiò a ridere: quella parola brutta, chissà per quale motivo, l’aveva fatta stare meglio, scacciando la rabbia che provava e che l’aveva fatta stare male. Sempre ridendo, cominciò a scrutare la sua Grotta delle Fate. Aveva sempre sperato di vederne una, un minuscolo puntino di luce che lasciava dietro di sé una scia di polvere brillante e piena di magia. Ogni giorno andava lì, sperando di cogliere i piccoli esseri che
20 vivevano in quello che lei chiamava Mondo Segreto, una realtà popolata da tutti quegli esseri magici e meravigliosi che si trovano nelle fiabe. Elfi, folletti, fate, unicorni e perfino streghe, anche se quelle, era certa, non le avrebbero mai fatto del male: se ci avessero provato, se anche si fossero avvicinate a lei, sapeva che la Grotta delle Fate l’avrebbe protetta, perché lì mai nessuna… il pensiero le morì nella mente dopo aver notato, con una certa curiosità, che i rami dell’albero erano pieni di strani tuberi verdastri. Li studiò con molta attenzione e non impiegò molto per capire cosa fossero: fichi. Li aveva già mangiati e, da quello che ricordava, le erano piaciuti. Si sforzò un attimo e le venne in mente che la mamma li aveva serviti insieme al prosciutto. Al pensiero di una lunga e sottile fetta di prosciutto, lo stomaco riprese a brontolare tutto il suo disappunto per non essere stato ancora riempito. Piangendo questa volta di gioia, felice che la Grotta avesse pensato non solo a proteggerla dalle streghe, ma a donarle del cibo, strappò uno dei frutti. Dal picciolo iniziò a colare un denso latte bianchissimo. Serena lo toccò: era appiccicoso come uno sciroppo. Seguendo quell’associazione di pensieri, vi appoggiò la lingua per poi sputare immediatamente: il sapore era orribile e per un attimo fu tentata di buttare anche il fico, di lasciar perdere quella faccenda della fame, tornare a casa e aspettare tranquillamente l’ora di pranzo. Le sembrò la soluzione perfetta, quella giusta e che non avrebbe avuto nessuna conseguenza, poi però lo stomaco si fece sentire di nuovo, cavernoso, tirannico e Serena, dopo averlo sbucciato, si ficcò in bocca il frutto. Mezzo acerbo, insipido: le sembrò di non aver mai assaggiato niente di tanto buono. Nella mezz’ora che seguì, ne fece fuori quasi venti, con il risultato immediato di saziarsi, ma condannandosi per il resto della giornata a una diarrea terrificante che l’avrebbe costretta a passare fin troppo tempo sulla tazza del cesso, scossa da crampi dolorosi e con il culo in fiamme.
21 Tutto questo però non aveva alcuna importanza rispetto al fatto che quella mangiata di fichi fuori pasto fu il punto zero di Serena: da quel momento e per un bel mucchio d’anni, non avrebbe più smesso d’ingozzarsi come un maiale all’ingrasso, divorando senza ritegno tutto quello che le capitava a tiro. Toccando il punto più basso cinque anni dopo quando, rimasta sola a casa perché sua madre era fuori per lavoro, avrebbe perfino mangiato uno dei barattoli di Natalina, la loro gatta dal pelo lungo. Superato il ribrezzo iniziale con una certa classe, il paradosso sarebbe stato che, senza troppa ipocrisia, avrebbe trovato quella carne macinata a paté ottima e, segreto inconfessabile, avrebbe sempre tenuto un barattolo nascosto nel fondo del suo cassettone, come misura d’emergenza estrema se, nel cuore della notte, le fosse venuto un attacco di fame e non ci fosse stato niente di commestibile a portata di bocca.
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CAPITOLO TRE
Guardala attentamente: è una di quelle che lasciano gli uomini a bocca aperta, una di quelle donne che non passano mai, hai capito, mai inosservate. E oggi meno che mai, con il suo bel vestito nero che mette in risalto il seno, con le calze nere che lasciano intravedere quelle gambe lunghe un chilometro, che fanno presagire fuoco e passione. Gambe che chiunque vorrebbe accarezzare, sfiorare un centimetro alla volta per perdersi così nella sua femminilità assoluta. Chiunque si taglierebbe una mano pur di sfilarle le mutande e metterle dentro l’uccello. Hai visto? Si sono voltati tutti quando è entrata: uno ha smesso di bere, l’altro, quello con il capello da mafioso calato sulla faccia, ha smesso di parlare con il suo amico. Hai fatto caso al ragazzino foruncoloso che stava bevendo la lattina di coca? Quello che è uscito e ha imboccato il corridoio per andare in bagno? Sono sicuro che non appena ha visto il modo sensuale e per niente discreto con cui la gonna le fasciava le natiche, ha provato il bisogno irrefrenabile di spararsi una sega. Vuoi sapere secondo me cosa ha pensato quando l’ha vista entrare? Quando è apparsa come una Venere che emerge dai flutti di un mare di passione e calore sessuale? Si sarà detto che lui, patetico e insignificante, non riuscirà mai ad avere una donna come lei, che dovrà accontentarsi di un’anonima e insignificante racchia che però lo renderà prigioniero grazie al potere della sua figa. Non lo hai visto, vero? Be’, non avevo dubbi! Tu non ti accorgi mai di un cazzo. Comunque, credimi, la parte migliore è stata l’espressione contrariata della compagna del coglione col cappello che ha passato gli ultimi dieci minuti a scegliere le patatine da com-
23 prare. Le classiche? Oppure quelle ondulate? O meglio ancora quelle a forma di fiammifero aromatizzate alla paprika? Quelle che sono buonissime ma che attaccano una sete indecente? E mentre era intento a fissare quegli stupidi pacchetti di veleno, si è perso il miglior culo dell’universo. La sua ragazza invece, scialba, quasi sciatta, ha intuito che quella è una femme fatale, una di quelle che possono avere qualunque uomo schioccando semplicemente le dita. Per lei è una nemica, una minaccia per la sua stabilità di coppia: buon per lei che il suo uomo è un coglione, altrimenti, stasera avrebbero litigato di brutto. Ti confesso un segreto: i timori della ragazza scialba sono infondati perché quella donna, con il suo corpo perfetto, non si abbasserebbe mai a uno come il capellone roso da dubbi amletici sulle patatine. Una come lei mortifica tutti quelli che non sono alla sua altezza. Probabilmente per uno come lui non ci sarebbe spazio neppure per lo snobismo: lo disprezzerebbe e basta, perché lei è irraggiungibile, lei è eccelsa. Lei è unica. È un esemplare di femmina umana tecnicamente perfetto e ne è fin troppo consapevole. È una donna che ha fatto dell’esteriorità la sua bandiera. Per lei “bello” è sinonimo di “buono”, proprio come raccontavano tutti quei filosofi dell’antica Grecia, culattoni dalla parlantina sciolta e le chiappe allegre. E non c’è nessuna alternativa a questa regola che nella sua mente è diventata una verità inconfutabile. Per lei esiste una sola strada: quella della bellezza. Facciamo un esempio pratico. Prendi il capellone: è un uomo qualunque, un’ombra fastidiosa che non merita neppure il suo sguardo, figurati il suo corpo, o più semplicemente la sua amicizia, la sua fiducia. Lei vuole l’uomo bellissimo. Cerca quel principe azzurro che ha sempre sognato fin da bambina, quel cavaliere senza macchia e magari con il borsello gonfio e che sia degno di ricevere in dono ciò che ha tra le gambe. Che, per inciso, crede sia un pezzo unico e ineguagliabile.
24 È convinta che come lei non ci sia nessun’altra donna al mondo. Unica, bellissima e irripetibile, con la figa placcata d’oro. Se solo lo volessi, potrei andare da lei, avvicinarla, far breccia nelle sue difese e farle capire che anch’io sono come lei, che siamo due spiriti affini, due eletti. Che siamo due gemme in un mondo di pietre grezze e grossolane. Potrei proporle di cenare insieme e poi lei cosa credi si aspetterebbe da me? Sesso: appagante, lussurioso, corroborante. Ma a me, di una come lei, non importa niente. Vedo solo un ammasso di carne ben vestito e pieno di gioielli. È una delle donne più belle che ci siano in circolazione, che potrebbe rubare la scena a una diva di Hollywood, però, dai, avvicinati che ti svelo un altro segreto! Lei è una delle tante, come lei ce ne sono milioni in vita e sono una la fotocopia dell’altra. Intercambiabili nell’aspetto, nei pensieri. Cazzo, perfino nell’odore. Sono tutte uguali, un esercito di schiave dell’esteriorità che dentro hanno soltanto un’immensità di vuoto. Grande e infinito, un vuoto abissale. Andare da lei e prendere quello che ha da offrire sarebbe come afferrare una manciata di nebbia: un’infruttuosa perdita di tempo e, credimi, una come lei non si merita il tempo di nessuno. Non si merita l’amore di nessun uomo perché quando il tempo comincerà ad avere effetto, a giocare le sue carte, allora l’inganno verrà alla luce e il vuoto la avvolgerà completamente, lasciando solo il simulacro di una femminilità che in lei non c’è mai stata. Può piacere, piace di sicuro, qualsiasi uomo sarebbe pronto ad abbassare i pantaloni se solo lei lo chiedesse, ma, a parte uno spasmo di piacere, una del genere non potrebbe dare a un uomo niente di più. Solo una scopata, solo una spruzzatina bianca e sfortunato colui che si innamora di una come lei, permettendo al cuore di soppiantare la razionalità. Allora, per questo sfortunato da compatire, non ci sarebbe più scampo: sarebbe un morto accanto a una donna morta dentro. E ti assicuro che dalla morte non può venir fuori altro che morte. Guardala, guardala attentamente, e se ti impegni, sono certo che capirai quello che voglio dire, che vedrai quello che vedo io.
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CAPITOLO QUATTRO
Monica rientrò che erano le 19 passate. La babysitter, Ilaria, era già pronta per andarsene e, quando la vide, un’espressione di disappunto le scompose il viso, altrimenti solare e pieno di gioia. Come ogni volta, quando era arrivata, Monica l’aveva rassicurata, promettendole che sarebbe tornata per le 18.30. Una promessa cantata troppe volte e che, almeno fino a quel momento, non era mai stata mantenuta. Monica, osservando il mezzo broncio di Ilaria, si disse che il suo ritardo di quaranta minuti abbondanti doveva averle mandato all’aria i programmi per la serata, ovvero un incontro prima di cena con il suo ragazzo, un caccoloso rincoglionito che guidava uno scooter scassato e fumava erba a tutto spiano. Monica non riusciva a capire come potesse quella ragazza, piuttosto carina e con un seno sodo e abbondante, buttarsi via con uno del genere. Se solo avesse voluto, avrebbe trovato molto di meglio. Ovviamente, come lei sapeva bene, era difficile tenere sotto controllo gli scossoni adolescenziali del cuore e se le piaceva farsi scopare da quel deficiente, buon per lei. Monica non si sarebbe lasciata offrire neppure un caffè da uno scoppiato del genere, uno di quei finti poveri che si potevano permettere di fare i sognatori perditempo, con una punta di comunismo per darsi un certo tono, perché il papino era pieno di soldi. A quel pensiero non riuscì a trattenere un mezzo sorriso: possibile che Ilaria si fosse lasciata abbagliare dall’immensa ricchezza che pendeva sulle spalle di quel ragazzo? Forse no, anche se non era da escludere: un borsello carico di denaro, anche se era quello del padre del proprio amato, aveva un fascino al quale poche donne sapevano resistere. «Ci vediamo giovedì?» le domandò Monica, mentre Ilaria si infilava il cappotto per poi prendere lo zaino appoggiato a terra. Ilaria, per
26 ammazzare il tempo, oltre che badare a Serena, portava sempre con sé i libri per studiare. Era una studentessa modello e il suo sogno era quello di iscriversi all’università per diventare medico. Un sogno che non avrebbe mai realizzato a causa della morte che di lì a poche ore l’avrebbe portata via dal mondo, anche se questa è un’altra storia che, in quel momento, nessuna delle due poteva ancora immaginare. Il broncio della ragazza scomparve per essere sostituito dal sorriso più falso del mondo. Le rispose con un cenno della testa. «Se fosse possibile» azzardò Ilaria prima di uscire, «vorrei sapere in anticipo a che ora…». «Oh non ti preoccupare!» tagliò corto Monica, «giovedì sarò puntualissima! Alle 18.30 spaccate sarò a casa!». Lo disse, certo, ma entrambe sapevano che era la menzogna sfacciata di sempre, una di quelle bugie che avrebbero fatto allungare di qualche chilometro il naso del burattino più famigerato e bugiardo del mondo. Peccato che ormai Ilaria non credesse più a una sola parola di quello che le diceva Monica, donna spocchiosa e piena di boria che, nonostante l’età, si atteggiava e si comportava come una super figa di vent’anni. Erano tante le voci che circolavano su di lei, sul suo amante fisso e sui tanti ragazzini che si portava a letto, cambiandone anche un paio a settimana. Si diceva che avesse “svezzato” la maggior parte dei suoi alunni, comportandosi come una subdola pedofila a cui della vita interessava una cosa soltanto: il sesso. Nel profondo dei suoi pensieri, era convinta che quello che stava facendo Monica era squallido e schifoso e che se lei, da adulta, avesse cominciato a comportarsi come la mamma di Serena, in un gesto di lucidità estrema, si sarebbe tolta la vita. Per Ilaria la dignità doveva essere il pilastro su cui fondare la propria esistenza, e aprire le gambe ogni volta che se ne presentava l’occasione le sembrava solo un atteggiamento da gran troia. «Perfetto» si limitò a dirle fissandola negli occhi, sperando che l’altra riuscisse a cogliere quello che pensava di lei. «A giovedì», e se ne andò, valutando con molta attenzione la possibilità di darle buca all’ultimo momento. Un colpo di telefono intorno alle 18.15 e informarla di un impegno inderogabile. Sarebbe stata una vendetta dolce e sottile, anche se, in tutta onestà, sapeva che non lo avrebbe
27 mai fatto: aveva bisogno dei soldi di Monica ed era solo per puro opportunismo che tollerava i suoi continui ritardi. In fin dei conti, al momento di pagare, aveva sempre tenuto conto di quelle ore in più accumulate, pagandole molto bene. Monica la salutò con un mezzo sorriso, chiuse la porta, aspettò qualche istante poi fece scivolare a terra la borsa della ginnastica e andò in bagno. Si spogliò per poi entrare nella doccia. Il getto d’acqua bollente la abbracciò, strappandole un gemito di puro piacere. Rimase immobile per qualche minuto, lasciando che l’acqua portasse via l’odore e il piacere del tradimento. Si lavò in maniera meticolosa, dedicando particolare attenzione a quei punti del suo corpo che avevano ricevuto le focose attenzioni di Bruno, l’uomo che aveva riportato colore e calore nella sua vita altrimenti piatta e insignificante. Bruno Giovanardi era stato un giocatore piuttosto conosciuto di pallamano e per quattro gloriose stagioni aveva fatto parte della squadra di Trieste, vincendo tre campionati consecutivi, uno dei quali conquistato proprio grazie al suo fiuto da squalo per la rete. A causa di un infortunio, la sua carriera tra i professionisti si era interrotta ed era tornato nella sua città, dove aveva continuato a giocare nella categoria più bassa. Da solo era riuscito a far vincere alla squadra locale il campionato per sei anni di seguito, poi, com’era logico aspettarsi, si era ritirato per diventare allenatore. Una buona carriera anche quella, che però non aveva mai brillato di vero e proprio talento. Qualcuno, dalle colonne del più noto quotidiano rosa d’Italia, aveva fatto capire che Bruno Giovanardi avrebbe fatto molto meglio a dire addio alla pallamano al momento dell’infortunio, così da essere ricordato come uno dei più forti giocatori di tutti i tempi, e non come un allenatore che non aveva vinto un bel niente. Quando aveva letto l’articolo, il primo impulso era stato quello di andare a casa del giornalista e spaccargli la faccia, soprattutto perché era uno che conosceva molto bene e che credeva suo amico. Poi però aveva prevalso il buon senso, lasciando perdere quel mucchio di balle, sputate da uno che, in vita sua, non aveva mai giocato. C’era però anche un’altra ragione che lo aveva spinto a non fare niente di
28 stupido contro il giornalista, qualcosa di così intimo che non avrebbe mai confessato ad anima viva: quello che era stato scritto ne La gazzetta dello sport era esattamente ciò che pensava di se stesso e della sua carriera. Aveva lasciato perdere la sua idea di rappresaglia, incorniciando invece la pagina del giornale: bene o male, l’importante era parlarne, e di lui si era comunque parlato, al diavolo tutto il resto. Bruno aveva condotto una vita piuttosto anonima, fatta di sport, famiglia e poco più fino all’anno prima, quando, per puro caso, aveva incontrato Monica in palestra, dove lei andava regolarmente tre volte a settimana per mantenere una forma fisica perfetta. Solo alcuni mesi dopo, quando ormai la loro relazione extraconiugale era diventata stabile, la donna gli aveva confessato che aveva deciso d’iscriversi in palestra perché aveva cominciato ad aumentare di peso con una certa facilità rispetto al passato e questo era intollerabile: chi mai avrebbe preso sul serio un’insegnate di educazione fisica sovrappeso? Bruno, che la trovava perfetta sotto tutti i punti di vista, si era detto d’accordo. Tra i due la scintilla era scoccata quasi subito e la passione era divampata come un fuoco vorace e dirompente che non si era mai dissipato, anzi, con il passare dei mesi era avvenuto l’esatto contrario. Quella che era cominciata come una storia di sesso, si era trasformata in un’esplosione di sentimenti profondi e intensi, rossi come può esserlo solo l’amore autentico. Monica si era addirittura resa conto di non aver mai provato niente di simile per Filippo, suo marito, neppure quando avevano cominciato a uscire insieme, o nei primissimi giorni di matrimonio. All’inizio, da copione, i sensi di colpa l’avevano quasi distrutta, portandola più e più volte a un solo passo da confessare tutto al marito. Poi però, dopo una profonda presa di coscienza, che l’aveva spinta a chiedersi cosa volesse davvero, era arrivata a patti con se stessa, accettando con serenità quella nuova e del tutto inaspettata fase della sua vita: perché mettere al corrente Filippo di qualcosa che la rendeva felice e che la faceva stare bene come lui non era mai riuscito a fare?
29 Spesso con Bruno fantasticavano di abbandonare tutto e fuggire via, scappare in un posto lontano, con tanto sole e spiagge bianchissime. Passare il resto della loro vita liberi, insieme e felici. «Andiamo a Cuba» scherzava Bruno, «ci godiamo un po’ di comunismo e i sigari di Fidel!». Ogni volta Monica gli regalava una risata divertita, con un retrogusto amaro: quello non era altro che un sogno ed entrambi lo sapevano fin troppo bene. Matilde, la figlia di Bruno, aveva una seria paralisi alle gambe e lui, che la amava più della sua stessa vita, non l’avrebbe mai abbandonata. Nessuna donna avrebbe mai potuto mettersi tra lui e la figlia e di questo, se non altro, era stato chiaro fin da subito, quando aveva detto a Monica che, tra lei e la bambina, avrebbe sempre e comunque vinto Matilde. Di conseguenza, non poteva lasciare la moglie: andando via, avrebbe perso Matilde e perdere la figlia sarebbe stato come perdere la propria anima. E solo i mostri erano disposti a mettere a rischio la propria anima. Così, mettendo da parte possibili ma improbabili colpi di testa, avevano portato avanti la loro storia in modo discreto e lontano dagli occhi del mondo, regalandosi un continuo uragano di piacere e schegge peccaminose di vita extraconiugale, vivendo giorno per giorno e senza preoccuparsi di quello che per loro aveva in serbo il domani. Dopo la doccia, Monica si mise una comoda tutta, rosa con una mucca col sombrero sulla schiena, indossò le pantofole e andò in salotto. Passando davanti a un quadro a specchio dov’erano graffiate rose e pistole dei Guns N’ Roses, sbirciò il suo viso e la curva dolce del seno: aveva quasi quarant’anni eppure non si era sentita così in forma e in perfetto equilibrio, fisico e mentale, neppure quando ne aveva la metà. L’amore e il sesso sono meravigliosi, si disse Monica, e potevano fare degli autentici miracoli. Non era orgogliosa di aver tradito Filippo, tuttavia non poteva mentire a se stessa: il suo matrimonio non aveva più alcun valore. E se aveva una relazione con Bruno, sapeva che suo marito non era uno stinco di santo: era certa che avesse sempre approfittato delle varie segretarie che si erano alternate nel
30 suo ufficio, delle stagiste, delle collaboratrici e di tutte le donne che gli erano capitate a tiro. Era un bell’uomo, piacente, colto e raffinato e le donne ne restavano affascinate, pronte a lasciarsi sfilare le mutande alla prima occasione. Quello di “occhio per occhio” era un concetto estraneo alla sua filosofia di vita, tuttavia alla lunga si era stufata di passare da stupida, facendo finta di non vedere i mille segni dell’infedeltà di Filippo, come la volta che aveva trovato nella sua ventiquattrore un biglietto scritto da una certa Priscilla dove lei lo ringraziava per averla “sfondata come mai nessun uomo” prima di lui. Ricordava fin troppo bene la fitta acida che le aveva pugnalato lo stomaco e di come avesse cercato di avvelenarsi prendendo venti pillole per dormire. E se era riuscita a non far sapere niente al marito della corsa al pronto soccorso e della lavanda gastrica che le aveva salvato la vita, il rovescio della medaglia era stato l’improvviso sgretolarsi dei sentimenti che provava per lui, scomparsi come sabbia nel vento. Poi era arrivato Bruno e tutto era cambiato, la felicità era tornata nella sua vita, il piacere si era impossessato di lei. Sapeva delle brutte voci che circolavano sul suo conto, ma non le importava niente. Erano un piccolo prezzo da pagare se paragonato alla ritrovata gioia di vivere. Sorridendo felice, si affacciò nel salotto dove c’era Serena e il sorriso le morì sulle labbra. Se Bruno non avrebbe mai sfasciato la sua famiglia per il bene della figlia, lei avrebbe distrutto la sua senza pensarci due volte. Filippo, da uomo dei sogni, si era trasformato in un ghiacciolo menefreghista che si ricordava di avere una moglie solo nelle occasioni prestabilite: Natale, Pasqua e compleanno. Per il resto, non era altro che un viso che condivideva la stessa casa e le rompeva costantemente le palle perché, stando alla sua augusta opinione, come cuoca non era buona a niente. Serena era invece una presenza angosciante della quale avrebbe fatto volentieri a meno. Vergognandosi un po’ dei suoi pensieri, rimase in silenzio a fissarla, mentre guardava la televisione, rapita dalle immagini che scorrevano davanti ai suoi occhi. Era un cartone animato insulso e percepiva le
31 risate porcine di Serena come il peggior insulto che potesse arrivare all’orecchio di una persona. La cosa peggiore era che quelle risate rispecchiavano perfettamente l’essenza di sua figlia. Era sgraziata, sguaiata, insopportabile. Vedeva in quel frutto malsano che aveva partorito l’antitesi di tutto quello che doveva essere una donna. Priva di femminilità, a undici anni non aveva alcuna cura del suo corpo, nonostante Monica le ripetesse di continuo che per una donna era fondamentale prendersi cura di sé. Puzzava di sudore, aveva i capelli unti e sul viso una miriade di punti neri apparivano come una brutale esposizione degli orrori preadolescenziali. Indossava sempre i soliti vestiti, nonostante ogni sera, prima di andare a dormire, Monica le preparasse il cambio pulito per il giorno dopo, sistemandolo sulla sedia a dondolo e dicendole che avrebbe fatto un piacere all’umanità se si fosse degnata di cambiarsi almeno le mutande. Amava la solitudine e non aveva amici, fatta eccezione per una cugina che ogni tanto passava a trovarla, giusto per accertarsi che fosse ancora viva. A scuola non aveva legato con nessuno, se ne stava sempre in disparte e in silenzio. Monica sapeva cha la infastidivano per via della sua mole abnorme, ma lei, oltre ad aver parlato con il preside perché fossero presi provvedimenti contro chi molestava sua figlia, non si era sentita in dovere di smuovere un dito. Il mal voluto non è mai troppo, si era detta pensando a Serena mentre i suoi compagni di classe si prendevano gioco di lei. Guardandola meglio, Monica notò per la milionesima volta quanto fosse brutta e fu certa che se non avesse cambiato atteggiamento, non avrebbe mai trovato un uomo disposto a stare con lei. Pensieri orribili ma che riflettevano la realtà per quella che era, senza mezze eccezioni. «Ciao Serena» disse Monica. La ragazzina sobbalzò. Si voltò verso la madre e, con il viso rosso, rispose uno sfiatato: «Ciao mamma».
32 Si guardarono alcuni secondi, poi Serena tornò al suo cartone animato: un gatto stava inseguendo un topo che, in definitiva, non riusciva mai a prendere. Monica lasciò perdere sua figlia e lo stupido cartone che stava guardando e andò in cucina. «Cosa mangiamo stasera?» chiese Serena quasi urlando. Monica sospirò: il cibo era il solo interesse di sua figlia. Rimpinzarsi fino a scoppiare la sua unica ambizione. Come sempre, il ricordo del rutto durante il pranzo della sua comunione le fece accapponare la pelle. Scosse la testa: Serena era maleducata. Serena era brutta. Serena era sgraziata. Serena era irritante. Serena era anonima e puzzava sempre come una fogna a cielo aperto, tuttavia niente di tutto questo era paragonabile alla sua colpa più grave, quella che le sbatteva in faccia ogni santo giorno di aver fallito sia come madre sia come insegnante di educazione fisica: Serena era così grassa che faceva letteralmente schifo. «Pollo» rispose aprendo il frigorifero. In salotto la ragazzina cacciò uno strillo di felicità e cominciò a battere le mani: il pollo era il suo piatto preferito, specialmente se accompagnato da una teglia di patate calde e croccanti. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD