Il pranzo di Pasqua

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In uscita il 30/11/2016 (1 ,70 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre e inizio gennaio 2017 ( ,99 euro)

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ISABELLA ZANGRANDO

IL PRANZO DI PASQUA

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IL PRANZO DI PASQUA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-055-9 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Novembre 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


"... Abbiamo vissuto troppo duramente, e poi siamo arrivati troppo in alto: questo è il punto cruciale. Abbiamo sacrificato tutto e l'abbiamo fatto per voi. Io e tuo padre siamo stati i primi delle nostre famiglie a terminare le superiori e lui alla fine è diventato un poeta, insignito di numerosi premi. [...] GesÚ, se aveste lavorato sodo come noi, sareste tutte presidenti. Non avete mai avuto problemi veri, perciò ve li dovete inventare." Tracy Letts, Agosto, foto di famiglia, 2008



A David e Gregorio, l'uomo del presente e quello del futuro



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Introduzione

Questa non è la storia della mia famiglia. Non è neppure la storia di una famiglia in particolare. È in primo luogo la storia di alcune persone, incontrate, amate, vissute o solo immaginate in tanti anni di umana convivenza. È uno dei tanti modi in cui le cose possono andare: teatralizzato, o per meglio dire brutalizzato da chi ha in mano una penna, virtuale che sia, e può decidere al posto degli altri. Questa storia non vuole insegnare niente a nessuno. Non ha la pretesa di dire a nessuno come si deve vivere e come non si deve. È un racconto di come potrebbero andare le cose o di come, più probabilmente, sono andate per qualcuno. Quel qualcuno sono io e siete voi che immaginate le vostre vite su un proscenio. Buona lettura.



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Antipasti

Dalla terrazza arrivava un rumore di piatti sbattuti e forchette che tintinnavano ritmiche. Poi, qualche imprecazione interrompeva il musicare degli strumenti, mentre il nervosismo generale elettrizzava l’aria. Dal divano sfondato del salotto che negli anni aveva cullato la famiglia in lunghe meditazioni, ci si poteva godere la scena senza essere visti: il via vai di sua madre era solo una piacevole distrazione nella sonnolenza di una Pasqua quasi estiva. Attorno ad Anna, il grande salotto accoglieva un mobilio datato, quadri fumosi che suggerivano un’atmosfera di molti anni prima, come se il tempo si fosse arrestato e appoggiasse le sue flaccide membra sui paraventi, addossato alle muffe degli angoli, adagiandosi lungamente sulle “coltrine” e sui cuscini. Nella penombra delle serrande abbassate per contenere la luce, Anna si beava di quella stanca quiete che anticipa gli eventi prossimi. Faceva caldo, molto caldo per essere solo aprile; l’umidità aderiva alla pelle, lisciava le superfici, generava una sensazione di malessere e disagio che si insinuava nei pensieri, rendendo i


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nervi filamenti pronti a spezzarsi per un nonnulla. Quel caldo feroce aveva snaturato il ricordo di un’intera generazione di persone che aveva dovuto fare i conti con piogge gelide inattese e pranzi masticati in fretta sotto un sole reticente. Le Pasquette che Anna ricordava erano degli accampamenti fugaci nel freddo della bruma che si levava dalle acque del fiume. Lontano, tra i rami stecchiti degli alberi ancora spogli, qualche airone si levava in volo e sotto i loro piedi l’acqua trasparente si insinuava tra i ciottoli, fredda come un blocco di ghiaccio che gelava le mani al solo contatto. A ben pensare, poco importava se il tempo infame rovinava i piani di un’intera settimana: allora era bello bighellonare tra i sassi e i relitti lasciati dalla piena in compagnia di qualche amico, con il Piave che scorreva sotto l’argine, immaginando soltanto come poteva essere il futuro, senza alcuna amarezza, né rimpianto. Anna si era svegliata tardi quella mattina e a fatica aveva messo i piedi sullo scendiletto, uno dopo l’altro. Li sentiva gonfi e inerti, forse proprio per quella cappa di calore che gravava sulla città. Aveva bevuto un caffè a stento, sorseggiandolo lentamente, mentre la madre correva da una parte all’altra, spostando servizi di piatti e mescolando strani intrugli che bollivano sul fuoco. Anna aveva provato un senso di nausea appena accennata, una specie di rifiuto fisico ad affrontare una serie di inevitabili convenienze e malumori infantili.


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Non era affatto una buona giornata per lei, si sentiva già sotto tiro e sapeva che a ogni passaggio sua madre le gettava un’occhiataccia di disapprovazione: in primo luogo per la sigaretta penzolante che diffondeva a terra la cenere e nell’aria un odore greve di bruciato; secondariamente per il modo sfaccendato con cui trascorreva le ore che precedevano il famigerato pranzo della Domenica di Pasqua. Non si sentiva in colpa neppure un po’, non almeno quanto sarebbe bastato per alzarsi e fare presenza scenica tra suo padre e la radio. Sì, perché in tanti anni di assenza da quella casa, non era cambiato neppure quello. Inesorabilmente, Pasqua o meno che fosse, si doveva ascoltare in religioso silenzio il radiogiornale di mezzogiorno, che proiettava una finestra immaginaria sulla desolazione della storia italiana. Ogni tentativo di interloquire era subito vanificato da un cenno della mano o da un improvviso accesso di tosse di suo padre. Riflettendo bene però, quella che non era cambiata, dopo così tanto tempo, era proprio lei. Non poteva che provare un senso di fastidio per non essere riuscita ad adeguarsi, per non aver indagato e scandagliato il senso di quella immobilità che era poi il motivo della sua presenza in quella casa di ricordi. «Anna, butta via la sigaretta, lo sai che ti fa male!» «Ancora, che palle…» Spense la sigaretta sul posacenere e sbuffò annoiata. Il peso del cuscino sullo stomaco cominciava a farsi fastidioso. Si alzò e ciondolò senza troppa convinzione verso la portafinestra, dove stava accoccolata la vecchia gatta nera, la prediletta di suo padre. Questa sollevò la palpebra per


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fissarla con il suo occhio giallo e vitreo e le soffiò, infastidita da quella nuova presenza che invadeva un territorio da tempo consolidato. La testa di suo padre era china sull’apparecchio elettronico, con il dito pronto sulla manovella. «Papà, che dicono? Novità?» L’uomo, che indossava una vestaglia di maglina semi-estiva dello stesso colore dei capelli, la guardò di sottecchi e abbozzò un sorriso: «Anna, le solite cose. Cosa vuoi, siamo in un paese di uomini senza spina dorsale…» Anche quella non era affatto cambiata: l’inossidabile sfiducia nei confronti del genere umano e tutte le sue derivazioni, in primis la politica. Quanti battibecchi, quanti musi lunghi! Quando era un’adolescente, non riusciva ad accettare l’atteggiamento disfattista del padre che demoliva ogni forma di aggregazione sociale: dal catechismo alle riunioni genitoriali, alle manifestazioni per i salari, alle modifiche più o meno significative allo statuto dei lavoratori. Discorsi più grandi di lei, che tuttavia non le impedivano di comprendere l’assurdo immobilismo che quella famiglia respirava. Ora riusciva a riconoscersi parzialmente in certe prese di posizione reazionarie, anche se la vista di quell’uomo accartocciato su se stesso, preda delle sue manie e piccolezze, non mancava di infastidirla. Come era invecchiato negli ultimi anni. La curva della schiena si era inarcata in maniera accentuata, rendendolo piccolo e inerme. I pochi capelli erano passati dal grigio al candore del


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bianco e gli occhi limpidi che Anna ricordava per la fierezza e la severità erano acquosi, null’altro che l’ombra di un tempo. Ogni tanto dimenticava le cose; ogni tanto ripeteva i concetti per paura di scordarli; ogni tanto era Anna che doveva intervenire per strapparlo da meccanismi rituali a loro incomprensibili. «Anna! Vieni a darmi una mano!» La madre reclamava la sua presenza. Suonò un campanello in distanza, la sua testa era immersa in una bolla di sapone. Affacciandosi dalla terrazza scorse in strada suo fratello con relativa consorte e cane pidocchioso al seguito. Alla fine era arrivato. «Anna! Vai ad aprire, sarà Massimo!» E chi altri può essere se non lui, sbuffando socchiuse il portoncino per lasciarli entrare liberamente e si diresse in cucina, rassegnata da quel momento in poi a rivestire il ruolo di paggio. Alla madre non era sfuggito tuttavia l’improvviso disagio per l’arrivo del fratello. «Ma perché devi essere così negativa sempre? Credi che tutti abbiano voglia di vederti con il muso?» «No, ma mamma lo sai che non mi va di festeggiare ultimamente…» Era vero, ma non per il motivo che immaginava sua madre: da quando era tornata a vivere lì si sentiva stretta in gabbia. La vita trascorsa fuori tra l’adolescenza e la maturità le aveva


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regalato il senso pieno dell’indipendenza, delle scelte sofferte e delle possibilità fino a prima negate. Spendere i propri soldi, regalarsi una cena o anche un vestito costoso, un aperitivo o un capriccio qualsiasi: era stata una soddisfazione. Ma le vere gioie erano state altre: ammalarsi senza l’apprensione di un genitore annichilito dalla paura del male; far tardi la sera e poter rientrare senza giustificarsi; vivere anche alla giornata, se possibile. Nessun orario, nessuna abitudine: Anna aveva sognato a lungo, per poi risvegliarsi con la consapevolezza che indietro non si tornava. «Eh, tesoro mio, devi farti forza e guardare avanti. Se ti ha lasciata c’era un motivo. Ormai non serve a nessuno che tu stia qui a contorcerti come una lucertola ferita!» «Bella immagine, complimenti, vedo che ti impegni», la fulminò con uno sguardo. Davide. Sempre Davide, soltanto Davide. Sua madre sbuffò. «Insomma, cerca di non rovinare tutto almeno oggi, per piacere.» Dall’ingresso arrivò un rumore di pacchi e carta regalo stropicciata. «Ehiiii, c’è nessuno? Allora, ci lasciate sulla porta?» Massimo era arrivato con la sua festante carovana di buoni propositi e malignità sottili. Anna si accodò alla madre che garrula si era precipitata al portone per accogliere i nuovi arrivati. Dal basso della sua stazza, arrivavano i latrati e i singulti del cane di Massimo, che stava già prendendo possesso dell’appartamento, sbavando e annusando tracce nascoste. Per


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un attimo Anna ebbe l’impressione che il cane la stesse fissando in modo strano. «E tu sorellona, che ci fai qui? Niente ferie o grandi viaggi?» «Ah ah, spiritoso!» Si scambiarono un abbraccio parecchio freddo e un sorriso di circostanza con la ragazza di Massimo. Come descrivere Vera? Una venticinquenne di bell’aspetto, una di quelle ragazze che non si fanno mancare nulla: il parrucchiere una volta a settimana, l’estetista ogni mese, i massaggi per rilassare l’inevitabile stress del vivere quotidiano e i viaggi, i dannati viaggi annuali. Anna non sopportava quando i due rientravano da qualche paradiso tropicale e cercavano di coinvolgere l’intera famiglia nelle loro prodezze da turisti avventurosi. La foto sott’acqua con le mante – animali maestosi e curiosi, non sono affatto pericolosi! Ohhhhhh – il safari nella Savana, con carrellata di gazzelle, leoni, antilopi e giraffe, le luci della notte su Nairobi e l’escursione nella giungla più oscura, guidati da gente del luogo – non sono affatto dei selvaggi, sono molto più educati di certe persone che conosco. Il tipo aveva pure una laurea in legge! Ohhhhhh – non si facevano mancare nulla, o così pareva. Poi, scrutando certe rughe del fratello, accentuatesi negli ultimi anni, aveva ben compreso il prezzo di quella svagatezza. E Vera? Non occorreva che parlasse o si esprimesse apertamente: Anna l’aveva capito da come osservava quello che la circondava, pareva soppesasse già il valore dell’immobile e degli oggetti che lo abitavano. Avrebbe giurato


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che provasse pena per tutti loro, Massimo compreso, perché erano troppo distanti da quell’ideale di perfezione a cui la giovane aspirava. Una volta era sbottata: “Se non si conta nulla, non si può pretendere di vivere felicemente”. Certo, non si poteva mettere in dubbio che la compagna di suo fratello sapesse esattamente dove arrivare. «Beh, accomodatevi di là intanto!» La madre lanciò uno sguardo preoccupato al marito: «Gianni, è arrivato tuo figlio!» Tornarono nel silenzio della cucina, sua madre si era dimenticata della conversazione appena interrotta. «L’ho visto magro Massimo, non trovi? Chissà che mangi e che non si innervosisca troppo. Adesso con la casa e tutte le responsabilità di una famiglia, chissà che pensieri…» Parlava più a se stessa che ad Anna, tutto il suo io era proteso verso quell’unico figlio che aveva deciso di avventurarsi sulla strada dell’indipendenza. A volte, dalle parole della madre e dai gesti di apprensione che la muovevano verso Massimo, Anna aveva l’impressione che suo fratello fosse figlio unico. «Beh, mi pareva ora e tempo che lasciasse casa, no? Ha trent’anni suonati, o lo volevi qui per sempre?» Sua madre non si voltò neppure, continuando a rimestare il risotto. «Non mi pare che tu viva da sola adesso… dovresti essere un po’ più comprensiva con lui. In fin dei conti è sempre tuo fratello e non ti ha fatto nulla di male, mi sembra…» Mentre stringeva una mollica di pane, Anna si perse nel ricordo della sua infanzia. Era poco più vecchia di Massimo, ma si era sempre sentita molto lontana dal fratello, come se un’intera


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generazione li separasse. I loro modi erano diversi, il loro atteggiamento verso la vita tradiva un’estetica del tutto differente. Più timorosa lei, cresciuta soffocata dalle paure paterne, paventando l’incapacità di esprimere le proprie opinioni, schiacciata dal timore del rifiuto. Al contrario e come nelle migliori famiglie, la saggezza non albergava nel cervello del secondogenito che si era sempre arrogato il diritto di poter liberamente gestire la vita come meglio preferiva. E tutto ciò con l’appoggio dei suoi, ovviamente. Così quando lei aveva scelto gli studi umanistici, le critiche erano piovute come un temporale estivo, scroscianti e terribili. Che futuro, che destino per una qualunque ragazzina che si affacciava al mondo del lavoro, inesperta, senza le armi necessarie per proteggersi? Massimo invece aveva assecondato il padre, studiando economia, e aveva lasciato la casa paterna per dedicarsi a se stesso e a una sconfinata giovinezza. Sconfinata quanto un campo di gramigna in piena estate. Quanto quei piccoli laghi in alta montagna, pozze nere senza fondo in cui perdersi. Quanto quel minuto che precede il buio, a cui ci aggrappiamo per non scomparire nel nulla. «Allora, non dici nulla? Dai, condisci le verdure e porta il pane in tavola! Siamo sempre scoordinati qui dentro, già l’una e il risotto ancora sul fuoco…» Fuori in terrazza la brezza dell’ora si rifrangeva sui rampicanti e muoveva leggermente i pochi capelli del padre che stava provando ad addestrare il nuovo arrivato. Tra un salto e un


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abbaio, l’animale stava addomesticando l’uomo che come un bambino rideva sereno. Aprile, che sospingeva le gemme fuori dai gusci di terra e polvere, accompagnava quel palco di attori inermi eppure già capaci nell’interpretare un ruolo esausto. Le vette dei tigli assomigliavano a nuvole distanti, stracci che cambiavano forma al battere di ciglia, sagome evanescenti che salutavano la brigata, offrendo al loro ludibrio una consueta compiacenza. I due piccioncini si erano appartati in un angolo, Massimo infatti stava spiegando a Vera l’origine dei vecchi palazzi che circondavano il condominio, i loro proprietari, e i fasti tanto agognati che lo tormentavano ancora. Sebbene quelle parole fossero vecchie compagnie già frequentate, Vera si illuminava sempre, forse immaginando che quella famiglia contasse qualcosa, dopotutto. Anna si versò un bicchiere di vino, sotto l’occhio vigile del padre, e si sedette. Se chiudeva gli occhi sentiva il profumo sottile dei germogli verdi e l’odore pungente del soffritto che scivolava dalla cucina fino a lì. Un ticchettio lontano, un fruscio di api appena svegliate e un refolo di vento che di soppiatto cercava di sollevare la tovaglia. In un attimo Anna era distesa sul prato, circondata dalle braccia di Davide, mentre il sole delle quattro cominciava a svanire dietro il promontorio. L’aria si faceva pungente, la bella stagione era solo una promessa, e i loro corpi emanavano un calore dolce e ferino. Con gli occhi chiusi si aggrappò a quella sensazione per trattenerla.


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Una serranda si sollevò repentina di fronte a loro, la vecchia signora Ferrarese controllava i preparativi del pranzo, alzando timidamente la mano per cercare un po’ di compagnia. Anna emerse dolorosamente da quel ricordo. «Mammaaaaa, c’è la Ferrarese!» Sua madre si affacciò all’altro balcone e fece un cenno di saluto all’anziana che subito aprì la finestra. «Buongiorno signora, Buona Pasqua! Come sta oggi?» «Eh insomma, cosa vuole, gli anni sono tanti…» «I parenti? La vengono a trovare?» «Sì sì, dopo pranzo viene mio nipote, la strada è lunga, ma finché ha la patente ne approfittiamo. Vedo che siete quasi pronti, bravi bravi! Buona Pasqua a tutti!» La signora aveva la bellezza di novantatré anni e continuava a vivere la sua vita in maniera del tutto indipendente. Il marito era morto anni prima e le era restata solo la compagnia dei libri e dei ricordi, gli unici che non potevano tradirla. Nessun figlio alleggeriva la vecchiaia e i suoi dolori, tutti mentali, dovuti all’inevitabile solitudine che il giorno portava con sé. Durante le visite domenicali, l’anziana raccontava alla madre dei tentativi di scrittura, dei piccoli successi ottenuti con i giornali. Le avevano pubblicato qualche breve racconto su un trafiletto ricavato nella rubrica culturale del quotidiano di provincia. Aveva continuato a scrivere fino alla grande svolta: la pubblicazione di un romanzo. Con malinconia e una punta di amarezza, rievocava ogni volta come avesse improvvisamente abbandonato il coronamento del sogno di una vita, per


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dedicarsi a una vita semplice, alle piccole gioie da condividere con il suo uomo, al quotidiano soffocare tra quattro mura, pur di non abbandonarlo. Ogni volta che sentiva quel racconto, Anna pensava a una sola cosa: la paura. La paura di allontanarsi e perdersi. La paura di abbandonare un sentiero battuto. La paura che qualcosa di indefinito la portasse distante e la facesse dimenticare. Dimenticare se stessa e gli altri. Non era forse quello il racconto romanzato della sua vita? Anna si chiedeva se quel sacrificio avesse avuto senso e a cosa avrebbe portato essere invece insensati e mettere sempre se stessi prima degli altri. Come la Ferrarese anche lei aveva scelto di non scegliere e quei pensieri di negazione le affollavano la mente, erano una nebbia fitta che le impediva di vedere oltre e la incatenava alle sue responsabilità, per quanto lontane ed evanescenti. Quell’infanzia che la vista del fratello aveva riesumato era invece scevra da queste considerazioni, libera dal peso che i percorsi intrapresi in gioventù avrebbero poi comportato. Ma un’esistenza vissuta senza coscienza delle azioni commesse o mancate, che vita poteva essere? Ecco perché dal profondo della sua infelicità e finitezza umana, Anna sentiva che il suo modo d’essere era infinitamente superiore a quello del fratello. Non migliore, di certo no. Ma più profondo, come se le loro vite si fossero attestate su gradini


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differenti di un’immaginaria scala che conduceva a un traguardo non ben definito. Era la ricompensa degli sforzi fatti, la vita eterna o il pubblico riconoscimento a cui agognava? Non poteva ancora dirlo. «Ehi sorellona, a che stai pensando? Io e Vera dicevamo che domani potresti venire a fare un salto al Piave con noi, che dici?» «Mah, non so. Non è che mi vada tanto. Poi ho da fare qui e perdere una giornata intera non mi va proprio.» Il padre la guardò un attimo, interrogativo. «Che avresti da fare qui?» «Le mie cose papà, non ti ci mettere anche tu!» «Sì, ma cosa? Ti farebbe bene uscire un po’, vedere gente nuova. Poi qui con noi due ti intristisci e basta… Non so, fai tu Anna, ma sai come la pensiamo su questo argomento.» Ecco l’odioso tono da padre padrone, quel giudizio che inevitabilmente affiorava appena la frase superava le quattro parole. Qualsiasi tentativo di apparire come un essere umano dotato di maturità e coscienza di se stesso veniva liquidato come un capriccio da bimba. Anna conosceva bene quell’atteggiamento che il padre le riservava e che aveva a lungo condizionato il suo modo d’essere; tuttavia non poteva accusarlo di alcunché, dato che lo sguardo del genitore racchiudeva una paura atavica e irrazionale che la spaventava a sua volta. La figura paterna che doveva rappresentare il porto sicuro per la figliolanza, ora diventava un luogo inospitale, una


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caverna buia e umida che la induceva a fuggire, proprio come in passato aveva già fatto. Suo fratello la guardava dubbioso, già convinto della risposta negativa. Vera stava già badando ad altro, poco interessata all’argomento. «Vabbè, ci penso su.» Abbassò lo sguardo per dare un taglio alla conversazione. «Ma quando è pronto? Ho fame!» Si stava già innervosendo, ed erano appena all’inizio del pranzo. Tutte quelle false attenzioni da parte di suo fratello non facevano che aumentare la preoccupazione dei suoi e l’attesa spasmodica per una guarigione che tardava a venire. Lo odiava con quei suoi stupidi calcoli per apparire il figlio perfetto. La verità era che un anno di analisi non l’aveva aiutata a sollecitare la pazienza che si ostinava a nascondere come un tesoro perduto da centellinare nel corso dell’intera esistenza. L’analisi poi, a cosa era servita? Un’ora a settimana seduta a fissare uno sconosciuto, serio e compiacente che le poneva domande a cui non sapeva neppure rispondere. “Cosa vedi Anna, se chiudi gli occhi e ti dico relazione?” “Non so, non mi viene in mente nulla…” “E se dico divorzio?” Silenzio. “Se dico divorzio, questa parola cosa evoca nella tua testa? Paura? Fastidio?” “Forse fastidio, non so, mi viene in mente una serie di carte, delle telefonate da fare e…” “E questa cosa come ti fa sentire?”


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“Mmmmh, nervosa, senza riferimenti e boh…”, risatina nervosa, “non so.” “Non so non aiuta affatto il progresso. Devi sforzarti di esprimere quello che senti. Dai, riproviamo: cosa vedi oltre queste carte?” Quell’uomo la fissava spesso, sembrava giudicare tutto di lei, dal taglio di capelli al trucco, alle scarpe che osservava appena entrava nello studio. Aveva una vera mania per le scarpe, o così le pareva. Le guardava di sottecchi, senza essere troppo diretto, ma facendo capire con impercettibili movimenti della bocca il suo disappunto o il raro compiacimento. A volte Anna credeva di sognarsi tutto e si sentiva ancora più afflitta e perseguitata dalle sue fobie sociali: non capiva se agli altri importasse così tanto del suo aspetto, se il colore dello smalto, o i capelli leggermente sporchi o la camicetta mal stirata fossero tutte chiavi di lettura di una sua incapacità a stare assieme agli altri, ad adeguarsi. Lo sguardo dell’estraneo che si spostava dal pavimento al suo viso la sprofondava ancor più in un limbo di inadeguatezza: ecco che girava i piedi al contrario sotto la sedia e cercava di catalizzare l’attenzione su altre cose, giocando con il colletto della camicia o con i bottoni delle maniche. Gesti che non sfuggivano affatto all’uomo che, sempre in silenzio, mutava passivamente espressione. Un anno di analisi, per tornare sconfitta da colui che l’aveva sprofondata ancora di più nelle sue incertezze. Se solo i suoi genitori avessero saputo che lo aveva rivisto alcune settimane prima, l’avrebbero chiusa in casa a vita.


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«Beh, puoi iniziare con il prosciutto, no? Ma non rovinarti l’appetito, c’è molto da mangiare.» «Sì papà, lo so. C’ero anch’io quando mamma preparava il pranzo.» «Ah sì, è vero.» Con la fronte improvvisamente corrucciata, il padre si versò del vino bianco e iniziò a pasteggiare con del grana tagliato a cubetti. Piombò il silenzio tra loro quattro, un silenzio greve di aspettative per quello che sarebbe venuto, per le parole non ancora pronunciate, per quella stessa giornata che tutti in cuor loro speravano terminasse velocemente. Fu il padre a toglierli dall’imbarazzo. «Massimo, come va con la società? Ci sono buone notizie?» «Mah, papà speriamo di chiudere entro questo mese. Il locale è già a posto, abbiamo firmato il contratto di affitto e possiamo entrare già la prossima settimana.» «Ma non era meglio aspettare di partire con l’attività? Adesso vi siete impegnati e se qualcosa va storto?» «Ma cosa vuoi che vada storto, io e Gianni siamo amici d’infanzia, di lui mi fido ciecamente.» «Eh appunto, questo non va negli affari. Devi stare all’occhio!» «E fare come te? Che sei qui in pensione con la minima sindacale? Se fossi stato più spavaldo potevamo essere tutti sistemati a quest’ora…» Pausa di riflessione del genitore, che all’ineccepibile obiezione non trovò altra scusa se non il silenzio.


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«Ma che dici Massimo, papà ha lavorato per tutti noi e se adesso siamo qui lo dobbiamo solo ringraziare. Magari non avresti studiato e non avresti potuto aprirti la tua bella società, mi sbaglio?» Anna non era riuscita a trattenersi, le mani le vibravano appena, ma quel tanto da rivelare un’animosità seppellita malamente. Il tono era volutamente risentito, dal suo viso e dalla sua bocca trasparivano pensieri aspri che condannavano l’inesauribile sete di denaro e prestigio che Massimo non riusciva a placare. Il fratello le fece un mezzo sorriso, nascondendole la ferocia con cui l’avrebbe volentieri derisa. Il padre tacque di nuovo. Non era offeso, aveva sentito quella storia rivangata in moltissime occasioni. Solo che sperava sempre di ricevere un minimo di considerazione da quel figlio già così grande e più furbo di lui. «Insomma, dicevo che dopo la sigla possiamo stare tranquilli e che le cose andranno meglio per tutti!» «Eh sì, puoi dirlo!» La voce fastidiosa della giovane Vera si fece sentire. «Così dopo non dovrò accontentarmi dei saldi per potermi comprare i vestiti!» «Beh, puoi sempre iniziare a lavorare seriamente e mantenerti, così ti compri tutti i vestiti che vuoi.» Anna si sentì fiera della stoccata. «Parla lei», Vera voltò la testa per ravviare i capelli e darsi un contegno, «che sta ancora a casa con mamma e papà!» Anna divenne tutta rossa. «Lo sai perché…»


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«Dai ragazzi, dobbiamo rovinare tutto? Lasciate che almeno vostra madre porti il risotto. Poi potrete anche discutere civilmente. Il segreto è andare d’accordo, siete l’uno la colonna portante per l’altra, ricordatevelo.» Il padre cercò di sorridere, ma qualcosa di antico e inestinguibile lo frenò. «È buono il risotto, è quello con il pomodoro, il sedano e le carote, il risotto delle feste…» Non aveva voglia di lottare ancora contro quel demone interiore che lo fronteggiava ogni volta che si presentava la necessità di prendere posizione, esprimere il proprio credo in maniera inequivocabile. Era troppo stanco e vecchio per cambiare se stesso. Non gli piaceva sentirsi l’anziano leone sbranato dai nuovi maschi, ma doveva ammettere che le forze gli mancavano e che oltre all’inevitabile vecchiaia che gli toglieva ogni capacità di reagire, il pensiero della sua inanità lo limitava e lo frenava ogni volta che c’era la necessità di imporsi sui figli. La rigidità di certe risposte o il silenzio prolungato di fronte alle domande della moglie e della figlia erano gli unici mezzi in suo possesso per poter esercitare la funzione di capofamiglia. Ma in cuor suo doveva ammettere che si era sempre sentito incapace di affrontare le persone che lo circondavano, e la vita più di tutto il resto. Vera si accese una sigaretta senza chiedere a nessuno. Dalla strada arrivò un vociare di bambini, un moto di risa soffocate e un urlare fagocitato di donna. Anna si immerse ancora nei ricordi. Quella voce sguaiata le ricordava la vicina di casa, quando lei e il suo amichetto si


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precipitavano per le scale e trascorrevano il pomeriggio agostano immersi nelle corse sugli skateboard tra un vicolo e l’altro, cercando di evitare i gavettoni così freschi e improvvisi da togliere il fiato. Anche allora ricordava lo sguardo sempre presente della madre, mentre Massimo ancora piccolo si sporgeva dalla terrazza a fissarla e infelice si rifugiava nel lettone dei genitori. Bei tempi quelli, quando l’innocenza del gioco non era ancora rovinata dalle paranoie dell’età adulta, quando l’ora della merenda era il momento che coronava l’intera giornata. Massimo allora era soltanto un moccioso che frignava per l’invidia della sua libertà, di piccole conquiste solo a lei concesse. Ora non conservava che qualche tratto familiare, il sopracciglio arcuato, la bocca leggermente storta dal lato destro e la piccola cicatrice, unica testimone di una caduta improvvisa dalla scala. Era rimasto ben poco, il resto si era perso nella meschinità del calcolo, nelle continue recriminazioni verso un fantomatico status sociale a cui aspirava e che mai era arrivato. Forse, con quella società di servizi informatici ci sarebbe finalmente riuscito. Glielo augurava, anche se in fondo al cuore, quel piccolo carciofo bruciato che le era rimasto, non le importava così tanto del benessere di suo fratello. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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