Il risveglio della cicala

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In uscita il 31/5/2017 (1 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2017 ( ,99 euro)

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CRISTIAN RUFFA

IL RISVEGLIO

DELLA CICALA

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IL RISVEGLIO DELLA CICALA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-104-4 Copertina: immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Maggio 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A Marco, i cui consigli, preziosi come gemme, mi hanno indicato “la strada dei maestri”. A Barbara, il cui estro creativo ha conferito alle parole la forma tangibile delle immagini. E a te, marinaio, che senza la tua luce scompigliata, la mia penna vagherebbe ancora nell’oscurità.

“Ama et fac quod vis”. (Sant’Agostino)



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L’APPARENTE RISVEGLIO

La luce del nuovo giorno colava debole tra le ferite delle persiane socchiuse. Gli colpì gli occhi come un ferro rovente, strappandolo da quel sonno privo di sogni, carezzevole e brutale a un tempo, quale solo l’abuso di alcool era in grado di offrire. Nella penombra della stanza, solcata da lame luminose simili a lunghe dita, ormai del tutto sveglio, il ragazzo si alzò, ancora prigioniero di quell’umida segreta dove erravano i fantasmi della notte. Un nuovo mattino era alle porte, ospite dapprima a lungo atteso, ora impaziente che si levasse subito di torno. Lo squillo del cellulare, la cui minacciosità era pari al richiamo all’ordine dei secondini, lo colse impreparato. Lo colse ancora con calce e cazzuola in mano, la prima sigaretta della giornata stretta tra i denti, intento a erigere quella roccaforte di menzogne nella quale cercava rifugio ormai da tempo. Bastioni e torrette, grazie alle quali avrebbe potuto avvistare il pericolo, e forse prevenirlo, erano ultimati. Mancava l’ultimo tassello, il ponte levatoio, grazie al quale avrebbe sbarrato dietro di sé la brezza insidiosa di ogni possibile dubbio. «Pronto?» disse, con voce ancora impastata dal sonno. «Si può sapere dove cazzo eri finito ieri sera?! Sei sparito. Almeno una telefonata potevi farla!». Il suo timpano cedette di colpo sotto le ferree incornate autoritarie di quella voce. Le ingenti quantità di alcool ingurgitate la notte prima tornarono prepotentemente a dar battaglia alla sua scatola cranica. «Scusa Maya…» cercò dire, premendosi una mano sulla fronte pulsante, «ma ero troppo ubriaco per guidare. Era tardi e non volevo svegliarti…Nel pomeriggio puoi darmi uno strappo così recupero la macchina?». «Certo, come no!» fu la risposta, la cui ironia superava di gran lunga la rabbia impressa in ogni sillaba. «Il mio tempo è interamente dedicato ad accudire te e il tuo alcolismo da scrittore fallito. Invece di cercare ispirazione sul fondo della bottiglia prova a volgere lo sguardo al di sopra del tuo ego. Forse noterai che, a parte i tuoi fantomatici compagni di sbron-


6 ze, qualcun altro necessita delle tue attenzioni. Chiamami quando ti saranno svaniti i postumi. Ciao!». Nonostante la conversazione fosse terminata, il ragazzo continuò ancora per qualche minuto a premere il cellulare contro l’orecchio con tutte le sue forze. Che sensazione celestiale, pensò. Lo sciabordio di un telefono muto, privo di quelle parole che, come grandine, si abbattevano senza posa sul fragile involucro delle sue meningi stanche. Quel cazzo di cellulare rappresentava il suo unico appiglio, la sola salvezza dall’abisso spalancato al di sotto di lui. Ma ben presto fu costretto a mollare la presa. La caduta era pressoché inevitabile. Avrebbe voluto dirle che non era vero, che non beveva poi così tanto, che il suo ego non era così smisurato, che qualche riga l’aveva pur scritta… Ma niente da fare. La verità su se stessi era la prima cosa a conoscersi, ma l’ultima ad ammettersi. Era un dato di fatto. Si tentava con ogni fibra del proprio essere di non ammettere la verità di cui si era portatori, quella riguardante desideri, paure, bassezze, sentimenti di ognuno. Ma quella stessa verità compiva solo qualche giro, per poi tornare con la forza di un boomerang. E quando colpiva, allora sì che si realizzava di averla sempre conosciuta, simile a un volto amico emerso dalle nebbie dell’infanzia. Ma come ogni verità, in un modo o nell’altro, faceva sempre ritorno, allo stesso modo essa non esauriva tutto il campo del possibile. Nelle parole sputategli nell’orecchio da Maya c’era del vero, questo non lo metteva in dubbio… Ma non era tutto. Il suo consumo di alcool negli ultimi tempi era aumentato a dismisura, questo lo riconosceva, ma di righe ne aveva buttate giù un bel po’, solo che non era niente che potesse essere letto. La musa era morta. O meglio, il posto che prima era suo, ora era vacante. Era finito il tempo di quando le parole sgorgavano dalla sua penna come il sangue sgorgava da uno squarcio profondo nella carne. Non era rimasto che qualche foglio sporco di inchiostro, disteso accanto alla bottiglia vuota della sera precedente.


7 Bere così smodatamente era uno sbaglio, certo, ma a volte era pur necessario un piccolo aiuto per impedire alle cose di essere quali realmente erano, per anestetizzare il sentore di quello che effettivamente si provava. L’alcool come fonte di ispirazione per la scrittura era una grandissima stronzata. Esso non produceva romanzi o poesie, ma solo vomito e una piacevole sensazione di illusione, così da rendere più sfumati gli spigolosi contorni della realtà. Si beveva perché era bello e per trovare una scusante alle azioni che non si avrebbe avuto il coraggio di compiere da sobri. La filosofia del bere era tutta qua. Tornò a passi lenti nella camera ancora immersa nella penombra. Le persiane erano ancora quasi del tutto abbassate. L’odore di quella stanza non era dei migliori, un misto di tabacco, incenso e malinconia, ma poco importava. Si accese un’altra sigaretta e restò a guardare le volute di fumo dipanarsi nell’aria stantia. Cazzo, tra poco più di un’ora sarebbe di nuovo dovuto andare a lavorare. Ecco un’altra cosa che non capiva: il lavoro. Era utile per non affogare nello sterminato oceano di noia che una giornata vuota portava con sé (anche se qualcosa da fare lo avrebbe di certo trovato), era adatto a rimediare qualche soldo da spendere per cose tipo l’affitto, la benzina, le sigarette, qualche cicchetto ogni tanto… Ma a parte il soddisfacimento di queste esigenze primarie, che scopo aveva il lavoro? Nobilitava l’uomo? Chiunque fosse stato il propugnatore di tale teoria doveva aver avuto una vita arida e piatta come solo il deserto del Sahara. Anzi, peggio. Almeno sul Sahara si abbatteva ogni tanto una tempesta di sabbia a smuovere l’immoto paesaggio. Per non parlare della favola “La cicala e la formica”! Quanto detestava la morale di fondo di quell’insulsa storiella, atta a far germinare un qualche segno di responsabilità in giovani menti fragili come gusci d’uovo. Anche quando gliela raccontavano o leggevano da piccolo, aveva sempre patteggiato per la cicala, ricordò il ragazzo con un certo orgoglio. C’era un qualcosa di eroicamente superficiale e gioiosamente effimero nel suo cantare mentre le brave formichine si affannavano sotto i raggi cocenti del sole.


8 La figura imperfetta della cicala aveva sempre rappresentato per lui l’essenza stessa della vita, la sua caducità e il voler viverla attimo per attimo, fregandosene delle ombre che il domani portava con sé. Al contrario, le diligenti formiche, il prototipo della cosiddetta “carità” umana: arrangiati, non è un mio problema! Piccole bastarde. Non c’era bisogno di ricordare come andava a finire questa istruttiva e moralmente corretta favola del cazzo, ma tant’è. I moralisti dicevano no agli altri, la figura morale diceva no solamente a se stessa. A quanto sembrava, le formiche, armate di una buona dose di solidarietà umana, non avevano mai letto Pasolini. Ora basta però! Lui, per quanto lo desiderasse, non era la cicala. Quelli come lei a questo mondo vivevano sotto i ponti o maceravano nell’oscurità agli angoli delle strade e non c’era nessun Esopo o formica di sorta, con la loro morale da barboncini, disposti a tirarli fuori dalla fossa nella quale marcivano. Spense la sigaretta nel posacenere appoggiato sul comodino di fianco al letto sfatto. Per un secondo, indugiando sugli ultimi anelli di fumo che svanivano nell’aria immobile, gli balenò nella mente l’idea di rifarlo. Le lenzuola ricadevano sul pavimento come i petali di un fiore appassito, riarso dalla perenne esposizione al sole che neanche la notte riusciva ad annullare. Il cuscino, pugile uscito malconcio da un incontro truccato, giaceva accartocciato ai piedi del letto, nella speranza di trovare un po’ di pace dopo l’estenuante match notturno. Ah, il cuscino. Che meravigliosa invenzione. Il pettine perfetto. Non c’era niente di più appagante della casualità con cui questo fedele compagno della notte si prodigava per render impresentabili quei capelli che il mondo esigeva apparentemente presentabili. L’idea di dover mettere in ordine quel disordine perfetto si allontanò istantaneamente dalla sua mente così come si era affacciata. Tanto la notte successiva ci avrebbe di nuovo dormito, in quello stesso letto. A volte non esisteva via di fuga dalla circolarità di certe azioni quotidiane.


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IL LAVORO (E L’AMORE) NOBILITANO L’UOMO… O LO AFFONDANO

La piscina dove lavorava da quasi dieci, interminabili anni, distava non più di qualche chilometro da casa sua, ma anche pedalando con tutte le sue forze, il ragazzo non riuscì comunque ad arrivare in orario. «Alla buon’ora! Dov’eri finito? Il tuo turno è cominciato mezz’ora fa!». Il gorgheggio fastidiosamente squillante della donnina alla reception lo accolse nel mentre attraversava a rotta di collo il vasto salone d’entrata in direzione degli spogliatoi. Era questa una figura minuta, sui cinquant’anni, tanto spregevole quanto insignificante. La sua insulsa esistenza pareva restringersi alla bianca scrivania dietro alla quale impartiva dispotiche indicazioni a tutti coloro che entravano. Nonostante il ragazzo macerasse in quel posto da anni, non si erano mai rivolti la parola, salvo quei quotidiani battibecchi in cui lei non faceva che pigolargli addosso i suoi abituali ritardi e lui si prodigava in scuse sempre più labili sulla macchina che non partiva, la ruota bucata della bicicletta, il reflusso gastroesofageo che non gli dava tregua e altre stronzate simili. Però, a discapito di tutto, non aveva mai fatto rapporto al gran capo dei piani alti. Da quel che ne sapeva il ragazzo, condividevano lo stesso cognome, quindi tra i due doveva intercorrere qualche legame di parentela. Altrimenti, come si sarebbe potuto spiegare che un essere talmente inetto potesse anche solo sperare di svolgere un qualsivoglia lavoro a contatto con una fauna ancora più inetta? «Mi scusi, signora Aquino! L’auto non dava segni di vita e ho dovuto farmela in bicicletta. Non succederà più, lo prometto!» le urlò il ragazzo di rimando. Certo, come no. Lo prometteva. La promessa sarebbe durata fino alla settimana seguente, quando la prossima sbronza lo avrebbe nuovamente costretto a farsela a piedi fino a casa, dimentico dell’auto parcheggiata chissà dove.


10 Ma nonostante la certezza della brevità di quella sua promessa, lo prometteva ugualmente. Le persone passavano metà della loro vita a fare promesse che sapevano benissimo di non poter mantenere e l’altra metà a cercare di infrangerle. Cazzo, la macchina. Se nel pomeriggio Maya non lo avesse accompagnato a riprendersela, o meglio, a cercarla prima di tutto, avrebbe di nuovo dovuto chiedere a qualcuno di dargli uno strappo. Oppure farsela in bicicletta. Un bel po’ di pedalate alla ricerca della macchina perduta. Forse gli avrebbe anche fatto bene, un po’ di esercizio fisico per tentare di dissipare la nuvola nera incombente sulla sua testa fin da quelle prime ore del mattino. Ci avrebbe pensato a fine turno. Per l’ennesima volta in quel mese era in ritardo di mezzora e il licenziamento alitava sul suo collo come una puttana in cerca di un cliente. Giunto nello spogliatoio cominciò a cambiarsi velocemente e mentre si infilava costume e canotta venne avvolto dall’odiato quanto famigliare odore di cloro, dalle urla e dagli spruzzi che giungevano dall’altra parte della porta chiusa. Da troppo tempo ormai quell’odore e quei rumori erano parte integrante del suo vivere quotidiano e quasi ogni giorno di quei quasi dieci, stramaledettissimi anni si era augurato di non doverli sentire mai più. Tutto sommato all’inizio era stato anche divertente, se un lavoro poteva essere così definito, insegnare a stare a galla a bambini con un autentico talento nel piangere e nel chiamare a gran voce la mamma che li guardava adorante dagli spalti. Ed era stato ancor più divertente cercare di insegnare a signori e signore, la cui età poteva essere misurata dal numero di passi che compivano per cercare di arrivare incolumi dallo spogliatoio alla vasca. Era un lavoro come un altro per potersi pagare l’università. Quell’università che gli avrebbe garantito un futuro certo come quello che si tentava di leggere nelle carte di una chiromante. Ma quando, dopo la laurea, si rese conto che quello sarebbe stato l’unico sostegno economico su cui avrebbe potuto fare affidamento, il divertimento iniziale, con il passare dei giorni e dei mesi, si mutò in autentica avversione per qualsiasi cosa riguardasse piscine, cloro, bambini urlanti e vecchi stringenti nella mano rugosa un biglietto di sola andata per l’aldilà.


11 Nell’aprire la porta che conduceva alle vasche, gli oggetti della sua avversione gli si materializzarono davanti come lo schiocco di una frusta. Un nuovo giorno altamente produttivo era incominciato. «Accidenti, che faccia! La stanchezza ti dona. Con un altro po’ di occhiaie potresti diventare quasi irresistibile». Irene, collega e alleata in quel posto infame. L’ironia era un’arma a doppio taglio e pochi erano in grado di maneggiarla con la stessa disinvoltura e padronanza di quella ragazza ormai prossima ai trent’anni. Il suo non era un lavoro, ma una missione. Farsi in quattro, in otto se necessario, per insegnare a sguazzare in una pozza d’acqua a bambini e vecchi, i due poli opposti della vita. O della morte. Il ragazzo aveva perso il conto delle volte che le aveva chiesto quale mai potesse essere il motivo di quel perenne, radioso sorriso dipinto in faccia mentre tentava di spiegare a qualche vecchio, più di là che di qua, il modo corretto di eseguire una bracciata a dorso o una gambata a rana. Se non erano riusciti a impararlo in più di mezzo secolo di vita cosa mai poteva farle pensare che ci sarebbero riusciti adesso, grazie alle sue lezioni? Per lui rimaneva un autentico mistero. Non capiva cosa ci potesse essere di appagante in tutto quello. E ci capiva ancora meno quando Irene, alzando le spalle, gli dava sempre la solita risposta. «Non c’è nulla di male a fare una cosa che ti fa sentire ridicolo, se quella cosa ti rende felice. A volte l’unico rimedio contro la vecchiaia che incombe è compiere quelle follie che non si ha avuto il coraggio di compiere durante la giovinezza». L’originalità di Oscar Wilde trovava accoglimento anche tra le fila del mondo acquatico. Quale innata saggezza. E quale abissale ingenuità. Ma forse era proprio quella sua apparente ingenuità, quasi fuori luogo in una ragazza di quell’età, a far risplendere il suo volto di una luce che poteva ancora conferire un qualche senso alla parola speranza. Se ancora non lo avevano licenziato, poteva dire solo grazie a lei. Era Irene, ogni volta che non lo vedeva arrivare, a inventarsi le scuse più improbabili da rifilare all’insulsa figurina incollata alla scrivania della reception, che dette da qualsiasi altra persona sarebbero apparse come un maldestro e disperato tentativo di salvare il culo a un amico, ma pronun-


12 ciate dalla sua bocca apparivano quasi come una verità sacra: incontestabili e accettate senza la benché minima prova empirica. E tutto senza mai scostare quell’impalpabile velo ironico che aleggiava costantemente sulla superficie dei suoi occhi. Rimuginando su tutto questo e altro ancora, la raggiunse all’inizio della prima corsia, dov’era in corso una lezione con dieci e più bambini, i quali facevano a gara su chi avesse le corde vocali meglio temprate. «Scusa socia, la macchina in questi giorni sta esalando i suoi ultimi sospiri. Non voleva saperne di partire. Ho dovuto farmela in bicicletta» disse il ragazzo, dandole un leggero colpetto sulla spalla. «Figurati, nessun problema…» rispose lei, lanciandogli un sorriso obliquo. «La tua macchina starà sicuramente contando i giorni che le restano, magari in qualche sperduta strada di campagna dove l’hai lasciata ieri sera, perché troppo sbronzo anche per riuscire a togliere il freno a mano». Il ragazzo fece per protestare, ma lei gli fece segno di tacere. «Ho fatto io lezione ai tuoi bambini mentre arrivavi con tutta la calma di cui sei maestro. Questa però è veramente l’ultima volta che ti copro. Non posso sempre sostituirti quando anch’io ho la mia lezione da fare». Si allontanò velocemente, lasciandolo in balia di quei figli del diavolo. Al ragazzo parve però di scorgere un lampo di un’emozione singolare in quegli occhi scuri e apparentemente intransigenti. Nulla a che vedere con la solidarietà o il cameratismo. Più che altro rifletteva quel sentimento incondizionato, e il più delle volte inspiegabile, che si poteva scovare nello sguardo di una madre nei confronti del figlio, quasi a voler dire: non mi interessa di tutti i casini che combini e che continuerai a combinare, io per te ci sarò sempre. Ci mancava questa, pensò il ragazzo rabbuiandosi ancor di più di quanto già non lo fosse. Una quasi sua coetanea che cercava di elargirgli calore materno. In quel momento si sentiva alquanto vicino allo spirito del vecchio e sfortunato Edipo. A quanto sembrava, la coltre etilica del dopo sbronza non si era ancora diradata del tutto dalla sua mente. Solo quella poteva essere la causa per fargli desiderare di essere accomunato a un triste re tebano, uscito dalle nebbie della mitologia, il quale si era cavato gli occhi dopo aver accoppato il padre e essersi scopato la madre. La prossima sbronza chi gli avrebbe fatto desiderare di essere? Gesù forse?


13 Ma più cercava di convincersi di dover diminuire il consumo di alcool, più lo opprimeva una voglia impetuosa di un bicchierino… Nonostante non fosse neanche mezzogiorno. Nonostante il fegato urlasse a pieni polmoni di concedergli una tregua, almeno momentanea. Nonostante la sua sempre più incontrollabile dipendenza stesse corrodendo l’ormai esausto filo che lo legava a Maya. Le parole sputategli nell’orecchio quella mattina continuavano a perseguitarlo, come una volpe spaurita circondata da una muta di cani famelici. Non tanto perché a dirle era stata Maya. Da qualche tempo la sua opinione lo bagnava come rugiada portata dalla notte, e con la stessa velocità evaporava con l’affacciarsi del primo raggio del sole mattutino. No, quello che più lo tormentava era la possibilità della verità che quelle parole nascondevano, il sottile bisbiglio del dubbio che gli si insinuava nella testa come un gelido spiffero. “Scrittore fallito”, “ego smisurato”, “alcolizzato senza futuro”, parole queste che, pronunciate da quella voce di ghiaccio e miele, gli vorticavano in testa come un mantra preregistrato, mandato in loop per un tempo di cui ignorava la fine. Dovette fare uno sforzo non indifferente per impedirsi di voltarsi, infilare la porta dello spogliatoio, rivestirsi con un vigore molto maggiore rispetto a quello impiegato per svestirsi, imboccare senza esitazioni l’uscita da quella stramaledetta piscina e prendere residenza fino a data da definirsi nel suo bar preferito. E fanculo il licenziamento. Lo sforzo mentale per impedire tutto ciò, dovette costare al ragazzo parecchi minuti. Quando riprese il controllo del suo corpo, era immobile a bordo vasca, con Irene a urlargli dalla parte opposta della piscina di darsi una svegliata e incominciare la lezione. I bambini del suo corso, zittiti da un qualche sconosciuto miracolo, forse colpiti dal conflitto interiore propagatosi anche sul suo viso, lo guardavano immersi fino alle spalle nell’acqua. Infreddoliti e tremanti, a causa dell’immobilità prolungata nell’acqua, lo fissavano quasi speranzosi, desiderando che dicesse che potevano uscire, o che almeno gli consentisse di giocare fino alla fine di quella lezione mai iniziata. In fondo, non era poi così immune alle tacite suppliche… Proprio per quello, nei minuti separanti la fine di quell’inutile lezione, il ragazzo li fece nuotare con una tale intensità che, una volta usciti


14 dall’acqua, poteva quasi ricalcare le linee dell’odio dipananti nei loro occhi di velluto, segno tangibile di quell’effimera innocenza che ogni bambino aveva l’innata fortuna di possedere e che non vedeva l’ora di scrollarsi di dosso il più presto possibile. Si precipitò a rotta di collo fuori dallo spogliatoio, quasi come se avesse avuto il diavolo alle calcagna. Be’, se così fosse stato poteva invitarlo a farsi una bevuta. Erano le cinque meno dieci, il suo turno finiva alle cinque e voleva andarsene prima che qualcuno potesse accusarlo di aver sottratto pochi preziosissimi minuti dalla sua già miserevole busta paga. Ovviamente sperarlo era troppo. La speranza, infatti, era il secondo nome dell’imbecillità. Irene lo attendeva all’uscita e la sua espressione prometteva un discorso redatto dalla Noia in persona. «Hai fretta? Posso parlarti un attimo?». Era buffa la concezione che le persone avevano della parola “attimo”. In quell’“attimo” in cui tentavano di manifestare il loro pensiero ci si poteva racchiudere un’eternità intera. «Non ho molto tempo, devo sbrigarmi ad andare a recuperare la macchina…» rispose di malavoglia. Notando però che Irene non accennava a parlare, il ragazzo si spazientì. «Sii concisa per favore!» sbuffò irritato. «E usciamo da qua, ho bisogno di fumare una sigaretta». La verità era che all’aperto avrebbe avuto più occasioni per darsela a gambe, risparmiandosi così una conversazione che, già lo sapeva, non contemplava un elogio delle sue virtù. Si diresse spedito verso la bicicletta appoggiata al muro della struttura, accendendosi la tanto agognata sigaretta. La potente ondata di fumo che gli invase i polmoni lo riportò a galla dall’umida palude in cui aveva respirato per sei interminabili ore. Fu come uno schiaffo in faccia dell’aria salmastra dopo aver infranto la superficie dell’oceano con la testa. «Allora, di cosa vuoi parlare?». La guardò in tralice attraverso le volute di fumo che si contorcevano nell’atmosfera. L’inconfondibile decisione che animava di solito gli occhi di Irene sembrava restia a emergere in quel momento e questo lo colpì.


15 Doveva trattarsi di qualcosa o di molto importante, e quindi la cosa non gli interessava, o di molto noioso, e quindi gli stava facendo solo perdere tempo prezioso che avrebbe potuto impiegare altrove. Ma l’indecisione durò il tempo di una voluttuosa boccata di fumo. Purtroppo per lui. «Si può sapere cosa cazzo ti sta succedendo?!» proruppe lei, infervorandosi di colpo. «Non che muoia dalla voglia di saperlo né tantomeno voglio saperlo per poi psicanalizzarti. Con te sarebbe tempo perso, non basterebbe un martello pneumatico per abbattere quella barriera che ti circonda il cuore. Ammesso che tu ne abbia uno». La conversazione tutto sommato si prospettava più interessante del previsto, rifletté il ragazzo. Ecco il problema di chi pensava di possedere una qualche inspiegabile capacità di saperti leggere dentro: che la lettura risultava sempre sbagliata, o meglio, sembrava opera di un dislessico. Il più delle volte, individui uniti da un certo legame, fosse anche per tutta una vita, rimanevano avvolti in quell’alone di interrogativi senza risposte che niente riusciva a spiegare, tantomeno l’amore. Due persone potevano trascorrere fianco a fianco la loro nuda e cieca esistenza senza mai conoscersi veramente e non a causa dell’incapacità di comunicare dell’una o dell’altra, ma perché loro stesse erano le prime a non voler farsi conoscere. La più intima conoscenza di una persona, trascendente i limiti dell’apparenza, poteva dirsi possibile solo a patto del rispetto del divieto di accesso posto all’entrata di quella zona trasudante ombre di cui ogni essere umano era portatore. Forse era proprio questo l’arcano segreto di una duratura convivenza, una volta deposti i fiori sulla tomba della passione ormai defunta. Poveri idioti coloro che credevano che attraverso l’amore si potesse giungere alla conoscenza suprema dell’oggetto amato. L’amore non era altro che l’anelito a cercare di capire qualcuno che in parte ci rimaneva sempre oscuro. «Allora? Ti ho fatto una domanda. Puoi almeno fingere di darmi una risposta?» lo redarguì Irene, vedendolo assorto in chissà quale remota fantasia. Si era lasciato di nuovo trasportare da elucubrazioni senza alcun senso. «ALLORA?!». Si costrinse a guardare Irene negli occhi. Non vi scorse la benché minima traccia di accondiscendenza. Solo rassegnazione.


16 La stessa che poteva sopraggiungere mentre si osservava qualcosa di caro trasportato lontano dalla corrente di un fiume. «Sì, ti ho sentita, non c’è bisogno di urlare…anche se non vedo come la cosa ti potrebbe interessare» ribatté il ragazzo, irritato da quell’insistenza. Era un ingrato, ne era ben consapevole. Che la cosa la potesse o meno interessare era irrilevante, ma dato che era solo grazie a lei e alle illuminanti scuse partorite fuori da quel suo cervello se non lo avevano ancora sbattuto fuori da quel posto, meritava di ricevere come risposta una scusa altrettanto illuminante. «Scusa…» proseguì il ragazzo, ammorbidendo il tono, «una spiegazione è d’obbligo, visto che solo grazie a te posso ancora dire di avere un lavoro. Non so cosa mi stia succedendo, è un periodo in cui non riesco a scrollarmi di dosso un senso di inspiegabile confusione…». La faccia di lei non appariva per nulla convinta. «E se stai per chiedermi il motivo risparmia il fiato. Sono il primo a non saperlo…» concluse velocemente, al fine di evitare altre noiose domande. Rimasero in silenzio per qualche istante, mentre il ragazzo assaporava le ultime boccate di quella sigaretta ormai ridotta a mozzicone. Sempre la stessa storia, una volta buttata via sarebbe stato costretto a dedicare tutta la sua attenzione a quella conversazione adorna di tiepide parole che non avrebbero mai portato a niente. Stava quasi per riprendere a sciorinare frasi a casaccio, nella speranza di indurla a chiudere quel colloquio che solo lei aveva voglia di portare avanti, quando senza alcun preavviso, Irene tornò all’attacco, più caparbia che mai. «Smettila di dire stronzate! Sai benissimo cosa ti sta succedendo, solo che non me lo vuoi dire. Potrai pure avere molti difetti, e ti assicuro che se li elencassi avresti bisogno di un altro pacchetto da fumare nel mentre». In quello del ragazzo ne erano rimaste solo due. «Ma non sei mai stato sprovvisto del talento di autopsicanalizzarti» continuò imperterrita. «Tu sguazzi letteralmente nei tormenti che ti circondano. A prima vista questo potrebbe anche renderti interessante, ma preclude ogni possibilità di una conoscenza più approfondita delle persone che ti stanno vicino. Io stessa ne sono stata la prova. Cercare di conoscerti a un livello più profondo è come immergere un braccio tra le onde del mare, puoi dimenarlo finché vuoi, ma non riuscirai mai a toccare il


17 fondo. Non ti resta che annaspare invano, cercando un sostegno che non arriverà mai in tuo aiuto». Le ultime parole, accompagnate da una dolente sfumatura di rimpianto, parevano un ringhio, un profondo ululato nei confronti della luna mascherata dalle nubi. Il ragazzo guardò Irene senza battere ciglio, ma dentro di lui, gli artigli di un passato neanche troppo remoto usufruivano delle sue viscere come di una lima. Parole, parole, nient’altro che parole. Il soggetto da cui provenivano cambiava, i volti si sovrapponevano ad altri volti, come in un grottesco carnevale senza fine dove i partecipanti continuavano a scambiarsi le maschere tra loro, ma le parole, quei sibili solcanti l’aria, non mutavano mai. Mutava il tono, l’inflessione della voce, l’accento rimembrante il luogo natio, ma come in un gioco di specchi il loro significato riconduceva, in ultima istanza, sempre alla solita, vecchia, stantia e maleodorante immagine. Ecco riapparire la presunzione altrui di possedere la facoltà di scostare con un semplice gesto della mano quel velo intessuto di oscurità che si dipanava intorno all’io autentico e puro dell’individuo per il quale si provava una certa simpatia. Dapprima ci si illudeva che quel velo si potesse effettivamente scostare, in modo da rivelare qualcosa nel quale ci si potesse riconoscere, magari anche capiti, ma l’illusione durava il tempo di un’eclissi. Appena tornata la luce, ci si accorgeva non solo che quello intravisto nella fessura era più lontano che mai dalle trepidanti aspettative covate con il maggior calore possibile, ma soprattutto, si rimpiangeva l’aver solo tentato di spostare quel paravento dietro al quale l’anima respirava rumorosamente. Irene lo osservava come svuotata, in attesa che il sibilo delle parole provocasse qualche increspatura sulla superficie di quell’acqua immobile, ma non era altro che un tiepido vento incapace di gonfiare qualsiasi vela. Il paravento del ragazzo funzionava alla perfezione. «In questo momento mi sembra che quella che psicanalizza sia tu» le rispose impassibile. «Ti ho già chiesto scusa per il ritardo di questa mattina. Mi spiace che per mezz’ora tu abbia dovuto addossarti anche la mia lezione, ma se avessi avuto la macchina sarei arrivato in orario. Quindi, per favore, non cercare un significato recondito nel mio ritardo perch…». Ma non fece in tempo a finire la frase.


18 Irene lo interruppe con uno sbuffo che avrebbe piegato una quercia su se stessa. «Riesci a capire che a me non interessano i tuoi pseudo problemi esistenziali?! O meglio non mi interessano più. Sto solo facendo un favore a una persona che è preoccupata per te!». «Vale a dire?». Un presagio tutt’altro che lusinghiero ghermì il ragazzo per i capelli e incominciò a tirare. «Ieri sera Maya mi ha chiamata. Sì lo so, è inutile che fai quella faccia, ha sorpreso anche me. Non sono certo la prima persona che le verrebbe in mente di chiamare, visti i trascorsi. Ma se lo ha fatto vuol dire che non sa più a chi rivolgersi. Non sapevo neanche che avesse il mio numero…». «Lo avrà preso dal mio telefono senza dirmelo…e cosa voleva? Che ti ha detto?» domandò il ragazzo con apparente noncuranza. Ma i presagi parevano uno stormo di avvoltoi, volteggianti sopra un succulento pasto. «Mi ha chiesto se anch’io avessi notato qualcosa di strano in te negli ultimi tempi…» rispose Irene esitante. «Sembrava veramente preoccupata, ma non me la sono sentita di avvalorare le sue preoccupazioni, visto che io stessa non conosco i pensieri che ti vorticano in testa. Le ho detto che mi sembravi normale, come al solito insomma…se normale può essere definito il tuo comportamento quotidiano. Anche se, a dirtela tutta, non lo pensavo e a maggior ragione non lo penso tuttora. Non gliel’ho detto solo per non farla preoccupare più di quanto già non lo sia». Il ragazzo prese la penultima sigaretta dal pacchetto. La frazione di secondo che gli ci sarebbe voluta per accenderla gli avrebbe anche consentito di vagliare lo sconfinato iperuranio delle spiegazioni più credibili da dare. «Probabilmente pensa che tra me e te possa essersi riacceso qualcosa, spento ormai da parecchio tempo… » disse tranquillamente, una volta che il tabacco ebbe preso fuoco, «Credo che non abbia ancora accettato del tutto il fatto che lavoriamo insieme…o meglio, che lavoriamo insieme dopo quello che c’è stato tra noi. E di esserlo venuta a scoprire per puro caso, quella volta in cui venne ad aspettarmi a mia insaputa fuori dalla piscina…». Lo disse con la più totale ponderazione, come se stesse spiegando a un bambino smarrito la strada più corta per tornare a casa, per poi rendersi conto che quel bambino in cerca di aiuto altri non era se non lui stesso,


19 immobile sotto la luce di un traballante lampione, alla fine di un vicolo male illuminato. Non era Irene quella che stava cercando di convincere. Era se stesso l’ostinazione più ardua da vincere. Sapeva bene che quella telefonata era stata fatta per un altro scopo. La preoccupazione nei suoi confronti certamente era il motivo primario, dietro al quale però si celava lo spettro senza pace della sfiducia, nero astro oscillante, nella cui orbita ruotavano preoccupazioni e distanze. Doveva trovare al più presto il modo di sottrarsi a quella conversazione, prima di riesumare presunte incertezze che per il momento preferiva rimanessero sottoterra. Buttò il mozzicone ormai spento, si mise a tracolla il borsone con tutta la roba della piscina al suo interno e incominciò a dirigersi verso la bicicletta, con l’intento di scatenare quella reazione che gli avrebbe consentito la fuga. «Si può sapere dove stai andando?!» lo rincorse Irene infuriata. «Non abbiamo ancora finito di parlare. Se non vuoi dare una spiegazione a me, almeno dalla alla persona a cui presumibilmente dici di tenere. Sono l’ultima con cui si sarebbe confidata se non fosse veramente preoccupata!». «E chi ti dice che tu non sia effettivamente l’ultima persona?» ribatté il ragazzo montando in sella. «Potrebbe aver già telefonato a tutti quelli che mi conoscono senza aver ricevuto una risposta soddisfacente. E questo può voler dire solo una cosa. Che non c’è nessun fantomatico tormento ad attanagliarmi!». «O forse nessuno lo ha notato perché nessuno ti conosce come ti conosce lei!» urlò Irene, facendo un passo nella sua direzione. «O come ti conosco io! Anzi, come credevo di conoscerti. Ormai non posso più neanche dire di averti mai conosciuto veramente. Ogni volta in cui mi sembra di essere riuscita ad afferrare qualcosa di te, quel qualcosa non si rivela altro che un pugno di sabbia sgusciante tra le dita. Una volta aperta la mano, non è rimasto niente. Ecco la definizione che ti si adatta come un abito. Una maschera di sabbia, dietro alla quale non c’è che il nulla!». Quello sputo di parola scivolò tra le orecchie del ragazzo come un filamento appiccicoso piovuto da chissà dove. Già, il nulla. Se così fosse stato, allora si sarebbe dovuto rettificarne la definizione sul dizionario. Non era mancanza, annientamento, privazione di un qualsivoglia essere.


20 Ma fuoco. Fuoco vivo e pulsante. Vittima e aguzzino di quella stessa baluginante, crepitante scintilla dal quale divampava. Inarrestabile come il fluire del tempo, desiderio, inestinguibile quanto disperato, per due labbra ormai divenute cenere, lascivo come un vento gelido mormorante tra le crepe di una scogliera di cristallo, insondabile come l’universo riflesso su di uno specchio d’acqua. Paradossalmente assurdo, assurdamente assoluto, come poteva esserlo solo l’amore per un dio invisibile. Ecco cos’era, questo nulla celato dietro alla sua maschera di sabbia. Puntò la bicicletta in direzione della strada, pronto a partire. «Non dici niente? Neanche una misera constatazione per tutto quello che ti ho detto?». Irene sembrava quasi delusa, sperava di provocare una reazione che lo avrebbe costretto a parlare, anche solo per mandarla al diavolo. Il ragazzo la scrutò, con un piede già sul pedale. «Pensi che possa essermi offeso per quello che mi hai detto?» osservò scettico. «Be’, ti sbagli. Noi siamo come gli altri ci vedono. Puoi chiedere a tutte le persone che ti conoscono e ognuna di esse ti dirà o quello che in cuor tuo vorresti essere o quello che non sei. Nessuno ti potrà mai dire quello sei perché la prima persona a non saperlo sei proprio tu. Potrà sembrarti deprimente e triste, ma la nostra storia è costruita dalle opinioni altrui. Puoi accettarlo e quindi vivere attraverso gli occhi degli altri, oppure puoi negarlo, così da incominciare a tessere la leggenda nella quale seppellirti, come ha scritto qualcuno di cui ora non ricordo il nome!». Facendole un burlesco segno di saluto, il ragazzo partì di gran lena, pedalando velocemente. Voleva allontanarsi il più presto possibile da quel luogo, dalla vacuità di quella conversazione, dai frammenti scombinati di una verità che non aveva alcuna fretta di ricomporre. Non al momento almeno. E cosa più importante, doveva ancora setacciare la città alla ricerca di quella cazzo di macchina. Ma dove poteva averla mollata? Continuò a pensarci nell’euforia dell’incertezza, mentre il vento, sfiorandogli il volto, tratteneva sé i granelli invisibili di cui la maschera di sabbia era composta.


21

TELEFONATA AD ALTO TASSO ESISTENZIALE

Ci mise due ore e parecchie telefonate per trovare l’auto. Nessuno dei quasi perfetti sconosciuti con cui si era sbronzato la sera prima ricordava con precisione dove l’avesse lasciata. Questo la diceva lunga sulle condizioni di lucidità nella quale anche i suoi compagni di sbronza versavano dopo quella nottata in cui i ricordi più nitidi apparivano comunque cosparsi da una coltre di fumo nero pece. Grazie alle loro mai così “precise” indicazioni telefoniche, riuscì in qualche modo a percorrere a ritroso gli avvenimenti della sera precedente, i quali lo condussero al recupero del suo unico mezzo di trasporto dotato di una certa credibilità. Quando la scorse in lontananza, la vecchia CLIO blu cobalto sonnecchiava sul ciglio di una strada di campagna, neanche troppo lontano dall’ultimo lembo di periferia. Pareva una matrona, esausta dalle frenesie di una notte di cui non scorgeva la fine. Stava là, cullata dal suono dei grilli, attendendo l’arrivo di quell’umida malinconia che l’ultimo barlume del sole morente portava sempre con sé. Per qualche minuto, il ragazzo stette a guardarla dalla posizione da cui l’aveva scorta, non sapendo con precisione il perché. Neanche si fosse trattato di un animale raro che al minimo rumore si sarebbe dileguato. Era semplicemente una macchina, la sua macchina, ferma sul ciglio di una strada di campagna qualunque, sommersa dal tepore di un tramonto qualunque. Eppure rimase immobile a osservarla, in sella alla bicicletta e con l’ennesima sigaretta tra le labbra, giusto per completare la scena. Un paesaggista sentimentale avrebbe potuto ricavarne un quadro niente male dove poter riversare il suo languore: un giovane idiota pensieroso, intento a rimirare una carcassa di lamiere incendiata dal tramonto, riflesso opaco del suo stato interiore. I Romantici si sarebbero prostituiti volentieri per un soggetto del genere. Si abbandonò ancora per qualche istante nel miraggio di quella scena, giusto il tempo di finire la fumata, immaginando lo spettro di un pittore


22 nascosto tra i cespugli, intento a immortalare su tela quell’attimo totalmente privo di significato. Rincasò che dovevano essere circa le nove di sera, ma non si degnò minimamente di accertarsi dell’ora. Il ritorno era stato una fatica immane. Aveva infilato la bicicletta meglio che poteva nel baule, ma pur con tutti gli sforzi possibili non gli era riuscito di chiuderlo, percorrendo poi i chilometri che lo separavano dalla sua abitazione a una velocità pari a quella di una tartaruga in fin di vita, con il timore che a ogni sobbalzo causato dalla strada sterrata, la bicicletta schizzasse come un proiettile fuori dal bagagliaio. Per quasi ventiquattrore aveva abbandonato al proprio destino il suo principale mezzo di trasporto e gli sarebbe piaciuto che quello di riserva non facesse la stessa fine. Una volta in camera, gettò in malo modo il borsone della piscina in un angolo e si lasciò cadere sul letto senza neanche togliersi le scarpe. Quale meraviglia ritrovarsi nuovamente avvolto da quelle caotiche lenzuola, ancora stropicciate e frementi dall’agitazione alcolica percorrente l’ultimo sonno, constatò il ragazzo, precipitando quasi subito nella pacatezza meditativa del dormiveglia. Lo squillo del cellulare però lo allontanò quasi subito dalle braccia tese di Morfeo. Non aveva idea di chi potesse essere e se anche l’avesse avuta, alzarsi dal letto per rispondere rappresentava l’ultima azione che avrebbe voluto compiere in quel momento. Disteso in quella goccia di oscurità che era la sua stanza, mentre le callose mani della notte issavano la luna al di sopra della sua finestra, attese che il telefono smettesse di far sentire la sua presenza. Ma invano. Lo squillo si protraeva senza sosta, taceva qualche secondo a riprendere fiato, per poi ricominciare la sua incessante corsa verso uno speranzoso traguardo che lo avrebbe fatto rimanere in silenzio. Niente da fare, c’erano cose che andavano accolte per avere la possibilità di rifiutarle. Il ragazzo, senza alzarsi, cercò di capire da quale luogo della stanza potesse provenire lo squillo, ma non ci riuscì. Nessuna luce a fornirgli un’indicazione.


23 Abbandonò di malavoglia il calore materno delle lenzuola e si lasciò guidare da quel monotono grido di aiuto che, lo sapeva, non sarebbe cessato finché non avesse ottenuto risposta. Dopo una ricerca compiuta a tentoni nel buio, scovò il telefono sul fondo della borsa della piscina, cullato da calzini sporchi e magliette sudate. Al posto che gli spettava insomma. Rimase per qualche secondo immobile al centro della stanza, a osservare il nome lampeggiante sul display, sorprendendosi dell’arrivo ritardatario di quella chiamata. L’attendeva da quando aveva finito di lavorare. Col pretesto di far cessare quell’odiosa suoneria, premette esitante il testo verde. «Finalmente! Nell’ipotetico caso in cui avessi avuto bisogno di aiuto, a quest’ora potevo già essere all’obitorio, nell’attesa che tu rispondessi!». Appunto, il pretesto era quello di far tacere lo squillo del telefono, che tacesse anche la voce all’altro capo della linea invece era chiedere troppo, pensò rassegnato il ragazzo. Prima di parlare inspirò, trattenne il fiato per qualche secondo, giusto il tempo per illudersi di poter evitare l’ennesima litigata in arrivo. Una volta buttato fuori, però, non aveva più scuse. «Non riuscivo a trovare il telefono, era rimasto sepolto in fondo alla borsa della piscina. Sono rientrato da poco e mi sono messo subito a letto. Mi sono assopito quasi subito, per questo non ti ho chiamata…». Una risposta “conciliante” non tardò ad arrivare. «Mi sembra che tu abbia fatto la scelta più logica! Metterti subito a letto invece di chiamarmi intendo. Soprattutto dopo la nostra discussione di stamattina. E poi perché sei rientrato solo poco fa? Sono le nove passate, il tuo turno finiva alle cinque. Fammi indovinare, tornando a casa sei inciampato “casualmente” in una bottiglia di birra e hai pensato che sarebbe stato poco meno di un delitto non aprirla e scolartela!». L’ironia di cui era capace Maya bruciava di un parossismo radicale. Con diabolica naturalezza, le riusciva di occultare tra le maglie dell’incredulità lo sguardo inquisitorio del giudizio. All’imputato alla sbarra non restava che qualche balbettante e inconsistente parola, intrappolata in una gola piena di carta. «Il mio turno, infatti, è finito alle cinque. E se non ricordo male, stamattina ti ho chiesto se gentilmente potevi accompagnarmi a recuperare l’auto. Non ottenendo risposta, per forza di cose sono andato da solo. In bicicletta tra l’altro. Per questo sono rientrato a casa alle nove passate, ci


24 ho messo quasi due ore per trovarla. Se mi avessi dato un passaggio probabilmente sarei riuscito a ottimizzare i tempi». La piega presa dalla conversazione necessitava assolutamente di una sigaretta. A ogni imputato che si rispettasse, il tribunale avrebbe dovuto fornire come minimo una stecca di sigarette scadenti, altro che avvocato d’ufficio. Al ragazzo riuscì difficile trovare il pacchetto, immerso com’era nell’oscurità della camera. Guidato dal pallore lunare filtrante dalla finestra, si destreggiò il più rapidamente possibile verso il cassetto della scrivania, dove sapeva esserci il pacchetto di riserva. Una volta accesa, si sedette rassegnato sul letto. La corte non era ancora pronta a ritirarsi per deliberare. «Sei dovuto andare in bicicletta?» domandò Maya, fintamente scandalizzata. «Lo dici quasi come se fosse per colpa mia! Potevi farti accompagnare da quelli con cui ti sei ubriacato ieri sera. Oppure potevi semplicemente non ridurti in quello stato, così da riuscire a guidare fino a casa. Se l’hai dimenticato io durante il giorno lavoro, non ho tempo di venire in tuo soccorso ogni volta che ti metti nei casini. Quello sì che sarebbe un lavoro a tempo pieno, ma purtroppo per me non è retribuito. Se il pagamento implicasse qualche attenzione in più da parte tua ci potrei anche pensare…». Ecco che ci risiamo, sospirò stancamente il ragazzo tra sé. L’assoluzione dei suoi reati implicava quindi l’elargizione di quelle attenzioni reclamate a bassa voce, mormorate con accento inquisitorio, echi richiedenti lo scheletro di un affetto che in quel momento non era assolutamente in grado di riesumare. La richiesta non venne accolta e la conversazione cominciò a librarsi al di sopra di un limbo di verità camuffate e banalità il cui senso lo si sarebbe potuto ricercare solo nella cortesia ipocrita che legava due estranei. Com’era andata la giornata, cosa pensava di fare quella sera, se sarebbe uscito, cosa avrebbe fatto se invece fosse rimasto a casa, quando si sarebbero visti. Domande, quelle, che rimandavano, o meglio, occultavano la ricerca di una seppur flebile richiesta di bisogno, di comunicazione, di comprensione, forse anche di amore… E poi, all’improvviso, senza alcuna ambasciata ad annunciarne l’arrivo, come una scopata al termine di una serata in cui l’unica certezza era la solitudine che attendeva impaziente al momento di mettersi a letto, come la materia fuoriuscita dal nulla eterno per opera di una volontà le cui


25 forme abbracciavano l’intero firmamento, giunse la domanda fondamentale. Quella domanda, formulata sempre al capolinea di una conversazione le cui stazioni precedenti erano solcate da binari morti, percorsi da vagoni il cui arrivo era vuotamente annunciato dal sordo gracchiare dei corvi. Emerse dal telefono premuto contro l’orecchio del ragazzo con la stessa speranzosa disperazione che avrebbe potuto animare la richiesta di soccorso di un naufrago dopo aver avvistato una nave adagiata sul sinuoso profilo dell’orizzonte. Ti manco? La risposta gli restò bloccata in gola. Una bolla d’aria pronta a scoppiare alla minima vibrazione delle corde vocali. Non c’erano motivi per cui dovesse continuare a rimanere intatta. «Conosci già la risposta a questa domanda…» tentò di dire il ragazzo, una volta scoppiata. «Sai benissimo che sento la tua mancanza, soprattutto in quest’ultimo periodo in cui vedersi è diventata un’impresa quasi titanica…». Avrebbe voluto aggiungere ancora qualcosa per convincerla della veridicità delle sue parole, ma forse più che convincere lei sarebbero servite solo per tentare di persuadere se stesso. Preferì quindi tacere, nella speranza che l’asse della conversazione si riassestasse su di un equilibrio dove non sarebbe più stato costretto a ricoprire la parte del funambolo. Un funambolo affetto da vertigini. «Mi spiace…» rispose Maya, con voce incrinata, «ma ti sbagli di grosso se pensi che possa conoscere la risposta, perché non è così! Non sono più sicura di niente per quanto ti riguarda…». «Riguardo a cosa non sei sicura?» le chiese il ragazzo, accorgendosi che l’asse su cui arrancava cominciava a dare allarmanti segni di instabilità. «Te l’ho appena detto! Non sono più sicura di niente. Mi è venuta a mancare la sicurezza di quello che sei, o peggio, di quello che sei diventato negli ultimi tempi. Pensi che mi faccia piacere doverti chiedere continuamente se per puro caso ti sono mancata? Pensi che mi renda felice dover sempre elemosinare un po’ di quella dolcezza e di quell’amore che due persone innamorate si riservano incondizionatamente? Anche durante le poche ore che trascorriamo insieme sembri...». «Mi spiace dover interrompere questo monologo!» scattò il ragazzo senza preavviso, non potendone più di quello sproloquio, emanante il fetore tipico di quel romanticismo in decomposizione, perfetto per l’arte masturbatoria di casalinghe dalle dita consumate. «Ma prima che tu vada


26 avanti vorrei farti notare che non è solo mia colpa per quelle poche ore che passiamo insieme. Potrebbero essere molte di più se tu non avessi accettato un lavoro che dista più di cento chilometri da casa tua!». Stette molto attento a non specificare se si trattasse di distanza emotiva o puramente spaziale. «VAFFANCULO, STRONZO!» sbraitò lei, scoppiando in singhiozzi così forti che il ragazzo dovette allontanare di almeno un metro il telefono dall’orecchio. «Se ho accettato questo lavoro è stato solo perché me lo ha offerto mio padre! Non devo essere di certo io a ricordarti quanto sia difficile di questi tempi trovare un lavoro stabile e ben retribuito, anche se lontano. E se ben ricordo mio padre lo aveva offerto anche a te. Avremmo avuto la possibilità di lavorare insieme, di vederci più spesso. Ma com’era logico aspettarsi, tu hai rifiutato! La sveglia mattutina avrebbe suonato troppo presto, i chilometri da percorrere per andare a guadagnarsi da vivere sarebbero stati troppi. Non ti è neanche passato per la testa che magari avremmo potuto affittare un appartamento, così da essere entrambi più vicini al posto di lavoro e allo stesso tempo provare a mettere in atto una prova generale di convivenza. Non sia mai che la tua mente potesse concepire una così atroce utopia! In gioco c’era la tua libertà, quella libertà che sarebbe stata limitata dall’arrivo indesiderato di una persona all’interno di ogni tuo giorno e di ogni tua notte! Quella libertà che non ti poteva far accettare di sottostare alle dipendenze di un individuo che un domani potrebbe diventare tuo suocero. Ma dimmi, caro il mio anarchico, ora come ora puoi affermare di trovarti in una situazione diametralmente opposta a quella che ti ho appena illustrato?! Io non credo proprio! Forse, in un certo qual modo, sei ancora padrone della tua indipendenza, in quanto vivi da solo e riesci, anche se a fatica, a mantenerti. Ma per il resto cos’è cambiato? Te lo dico io. NIENTE! Fai un lavoro che odi con tutto te stesso, sei alle dipendenze di un individuo che, da come lo descrivi, il regime del terzo Reich sembra il giardino dell’Eden, trascorri le tue serate, salvo le poche in cui ci vediamo, a ubriacarti con gente il cui futuro è luminoso come il buco del culo di un cadavere! E le rare volte in cui non esci te ne stai a casa a leggere libri di autori che solo nella morte hanno trovato il senso del loro vivere. Vorresti fare la loro fine?! Be’, anche questa scelta ti è preclusa! Hai smesso di tentare di scrivere! All’inizio della nostra relazione e anche prima che ci conoscessimo, a quanto mi hai detto, non facevi altro che scrivere, ovunque ti trovassi, eri un fiume di parole che non c’era modo arginare! Non dico che appoggiassi completamente la tua scelta. Avrei preferito che facessi qualcosa


27 di più costruttivo, ma almeno qualcosa facevi! Avevi uno scopo, anche se discutibile. Ora come ora, anche di quello scopo non è rimasto che l’odore stantio che contraddistingue le cose passate. Sei preda dell’inattività più assoluta! E oseresti attribuire il nome di libertà a questo modus vivendi?! Più che di libertà io parlerei di una necessità inconsapevole. Ti illudi di poter controllare una realtà che invece ti tiene in suo pugno!». Per tutta la durata di quell’interminabile pamphlet, trasudante filosofia buona per malati terminali, il ragazzo se ne stette in silenzio, tentando di trovare una scusa plausibile all’amarezza di quelle singhiozzanti verità. «Cosa vuoi che ti dica?» disse infine, fallendo miseramente nel suo tentativo. «Hai ragione! È questo quello che vuoi sentirti dire? Se è questo quello che vuoi, allora hai ragione!». «NON È QUESTO QUELLO CHE VOGLIO LO VUOI CAPIRE?» protestò Maya, tornando a urlare. «La sola cosa che desidero è che tu ti apra con me! Parlami, confidati! Puoi negarlo fino alla morte, ma so benissimo che ultimamente c’è un qualche oscuro motivo che ti procura angoscia. Puoi indossare tutte le maschere che vuoi per tentare di nasconderlo, ma ricordati, quelle stesse maschere di cui vai tanto fiero cominciano ad avere delle crepe che con il passare del tempo non sarai più in grado di riparare!». Non appena sentì pronunciare quelle parole, il ragazzo si portò istintivamente la mano libera al volto, quasi temendo di sentir scorrere sotto le sue dita i profondi solchi di quella veridicità appena espressa. Non seppe per quanto tempo rimase in quella posizione, ma quando finalmente scostò la mano dalla faccia, quasi a indicare un segnale di ripartenza, la voce di Maya tornò a riempire la cella di silenzio in cui si era momentaneamente segregato. Qualcosa però era cambiato, il tono di lei era mutato. Ogni traccia di presunta superiorità morale era svanita per lasciar spazio a uno slancio emotivo che rasentava pericolosamente la supplica. «Tu non capisci…non riesci assolutamente a capire come mi sento da un po' di tempo a questa parte. E non riesci a capirlo perché il tuo interesse nei miei confronti è calato drasticamente e probabilmente non te ne sei nemmeno accorto. Io mi sento sola. Infinitamente sola. Nonostante sia circondata da colleghi di lavoro e amici che farebbero di tutto per strapparmi un sorriso…». «Non si prodigherebbero così arduamente nel tentativo di farti sorridere» sibilò perfido il ragazzo, «se non sperassero che la tua infelicità dipenda dal fatto che entro breve tempo potresti tornare a essere single».


28 «Lasciami finire il discorso per favore. Stavo dicendo che nonostante molte persone provino a tirarmi su il morale, i loro tentativi sono solo tempo perso. Esiste solo una cosa che potrebbe farmi stare meglio e questa cosa è la tua persona, o meglio, la persona che eri fino a qualche tempo fa. Sei cambiato e…». Non riuscì a finire la frase, tanto la sua voce era scossa da singhiozzi. Il ragazzo lasciò che si sfogasse in quel pianto, infetto da aspettative deluse e fatiscenti attese. «Per favore, non piangere…» le sussurrò infine suo malgrado. Le lacrime, di solito, avevano la possibilità di perseguire due scopi: o ammorbidire l’arido terreno della sensibilità, o acuire le insensibili fiamme dell’indifferenza. Nel caso del ragazzo, fu il primo ad averla vinta. «Stammi a sentire» cominciò a dire, «non è che io…». «Ti prego, fammi finire di parlare!» lo interruppe Maya per l’ennesima volta. «Sei cambiato, è inutile che lo neghi! Anche tu te ne sarai accorto anche tu, solo che non lo vuoi ammettere. Forse per non ferirmi più di quanto già non lo sia o forse perché la tua analisi interiore non è ancora giunta a scoprirne la causa. Ciò non toglie che in te è avvenuto un cambiamento e vorrei solo sapere se il motivo possa dipendere da me». «Perché pensi possa dipendere da te?» domandò il ragazzo, ben sapendo che il senso retorico impresso alla sua domanda non avrebbe trovato accoglimento. Infatti, come volevasi dimostrare. «Perché, quando anche le grida del mondo svaniscono e ci ritroviamo solo noi due, tu non sei realmente con me. Colui che mi sta vicino, che mi sfiora, mi bacia, mi annusa e mi scopa, giusto per essere chiari, non è altro che il riflesso del tuo fantasma. Non sei tu! Nelle penombre della tua stanza, o semplicemente al tavolino di un bar, in quei momenti non siamo tu e io, ma io sola… Mi sembra di essere in piedi su di una scogliera immersa nella notte, con i flutti del mare in burrasca a lambirmi i piedi…Ti fa piacere che io mi senta così?». «No…» riuscì a sussurrare il ragazzo, «non mi procura alcun piacere farti sentire così…». Anche se quella sensazione la conosceva fin troppo bene, visto che la sperimentava ogni notte, in quell’istante sospeso che separava la veglia dal sonno. Quando non era troppo ubriaco. «E allora perché ti comporti così?!» insisté ancora Maya. «Sei come prigioniero di un mondo totalmente estraneo al mio! C’è stato un tempo in


29 cui quel mondo rappresentava un rifugio anche per me. Eravamo in due! Ora tu sei come in esilio. Lontano. Errante in una terra sconosciuta, da solo o in compagnia di non so chi, dove non posso raggiungerti. O dove non vuoi che ti raggiunga!». La disperata solitudine intessente quell’ultimo grido procurò al ragazzo una curiosa sensazione. Un misto di sconfinata nostalgia e bruciante fastidio. «No!» esclamò d’un tratto senza quasi rendersene conto, sorprendendosi non poco per la convinzione impressa a quella negazione. Avrebbe potuto ingannare perfino se stesso. «No? No cosa?» chiese Maya confusa. «Stavo solo riflettendo su quanto hai appena detto e penso che tu abbia ragione. Ma adesso come adesso non posso darti una risposta perché il primo a non conoscerla sono io. Però vorrei parlarne di persona, sai che detesto farlo per telefono, trovo che sia il modo più impersonale che esista per tentare di risolvere i problemi che uno ha o che pensa di avere!». Parlò velocemente, mangiandosi quasi del tutto le parole, non riuscendo a capacitarsi della comparsa di quell’improvvisa quanto contraddittoria euforia. Anche perché, c’era ben poco da essere euforici. «Cosa ti è preso?» domandò Maya, esterrefatta da quel repentino cambio d’umore. «Penso che gioverebbe a entrambi proseguire questa conversazione guardandosi negli occhi. Se per te va bene…» sproloquiò il ragazzo, tentando di frenare quell’inspiegabile, minacciosa esaltazione. «Okay…» acconsentì lei infine, e dal suo tono pareva piacevolmente stupita. «Ottimo, quando ci possiamo vedere? Domani sera andrebbe bene?» chiese subito il ragazzo, contemplando in lontananza il miraggio di una tregua a quella disputa. «Proprio di questo ti volevo parlare stamattina quando ti ho chiamato, ma poi ero talmente arrabbiata che mi sono dimenticata di dirtelo. Sarò via per qualche giorno, mio padre è in procinto di chiudere un affare importante e mi ha chiesto se mi andava di accompagnarlo. Ha detto che sarebbe un’ottima occasione per acquisire un po’ di esperienza per quanto riguarda i meeting aziendali». «Be’, se lo dice tuo padre sarà sicuramente vero…» osservò il ragazzo tra i denti, senza riuscire a trattenersi. Già immaginava le conseguenze dell’acquisizione di quell’enorme mole di esperienza, in attesa di riversarsi sulle piccole gioie quotidiane di quei


30 malcapitati esordienti, ancora ingenuamente entusiasti del loro trionfale ingresso all’interno di un sistema addobbato con completi gessati, tacchi vertiginosi e tailleur color vomito. Rifiutare il lavoro che gli era stato offerto dal padre di Maya era stata una delle poche scelte di cui il ragazzo andasse fiero, se il rifiuto di un lavoro che con il tempo gli avrebbe probabilmente fruttato un bel gruzzolo poteva considerarsi motivo d’orgoglio. «Sì, so come la pensi a riguardo» rispose lei stizzita, cogliendo appieno il sarcasmo, «ma esistono persone che magari, dopo aver studiato per quasi metà della loro vita, aspirano a qualcosa di più concreto e duraturo, per esempio a costruirsi un futuro, invece di oscillare tra una sbronza e una ricerca di ispirazione creativa che forse non arriverà mai. Da come ragioni è evidente che tu non rientri tra queste e a dirtela tutta non ho mai capito il perché. Le potenzialità non ti mancano, ma nonostante tutto fai un lavoro che chiunque dotato di mezzo neurone potrebbe fare. Non dirmi che questo ti rende felice o ti appaga perché non ci crederò mai!». «Questo non c’entra niente!» sbraitò il ragazzo, punto sul vivo. «E qual è allora? Puoi spiegarmelo?». «Non adesso». Anche perché sapeva che, una volta imboccato quel sentiero, la fine della conversazione sarebbe concisa con lo spuntare dell’alba. «Sono stanco» aggiunse subito a mo’ di scusa. «Ho avuto una giornata abbastanza spossante tra il lavoro, il recupero dell’auto e tutto il resto…possiamo parlare di questo e di tutto quello che mi vorresti ancora dire al tuo ritorno? Per favore…». «Va bene… ». Anche i migliori pugili intuivano quand’era il momento di gettare la spugna. «Vorrà dire che ne parleremo al mio ritorno. Nel frattempo, cerca di fare un po’ di chiarezza dentro di te. Tenta di capire i motivi che negli ultimi tempi hanno causato questo tuo cambiamento, così da potermene parlare quando tornerò…se lo vorrai…». Non tutti, a quanto sembrava. «Quando torni?». «Se l’affare si concluderà subito, fra tre giorni sarò già di ritorno. Altrimenti la prossima settimana. Non hai idea di quanto sia eccitata, è la prima volta che mio padre mi chiede di accompagnarlo per una cosa così importante!».


31 «Devi esserne orgogliosa…» disse cauto il ragazzo, cercando di non sminuirne l’entusiasmo. Anche lui era preda dell’eccitazione, ma non aveva nulla a che fare con l’attesa spasmodica per un meeting aziendale. «Infatti lo sono!» esclamò altezzosa. Eccome se lo era. A quanto sembrava, l’orgoglio implicava una sfocata messa a fuoco della realtà delle cose. Contenta lei. «Ora ti lascio. Ti chiamo domani, una volta arrivata in hotel…». Dal tono di voce, il ragazzo capì che l’attenzione di Maya doveva essere ormai interamente rivolta all’incontro di lavoro dell’indomani. Meglio così, voleva dire che l’indagine in corso nei confronti dei suoi mutamenti interiori era momentaneamente sospesa. Fino a nuovo avviso perlomeno. «Ti chiamo domani, una volta arrivata in hotel… E cerca di non bere in questi giorni in cui sarò via…» gli intimò subito dopo. «Fallo per me, una volta tanto!». «Chiamami però dopo le cinque, sai benissimo che il mio turno finisce a quell’ora» rispose il ragazzo, evitando accuratamente di prendere in considerazione la seconda parte della frase. Quella emanante un fetido sentore di promessa. «Allora buonanotte…e cerca di riflettere su quello che ci siamo detti stasera…». «Lo farò, non ti preoccupare. Buonanotte anche a te». Se uno dei due non si fosse imposto di porre fine a quella telefonata si sarebbero augurati anche il buongiorno, pensò stancamente il ragazzo. «Mi manchi già, ti…». Ma quell’ultima sillaba, apparentemente così carica di significati e conseguenze, andò perduta ancor prima di giungere a destinazione, stroncata sul nascere dalla monotonia del telefono muto. Una volta tornato il silenzio, la confusa opacità dell’eccitazione animante il ragazzo fino a pochi istanti prima, si dileguò come un fuoco estinto nell’oscurità. Iniziò a percorrere a grandi falcate la camera accarezzata dalla timida debolezza dei raggi lunari, tentando di riacciuffare l’enigma dell’esaltazione appena sfumata. Ma invano. Non c’era verso di scrollarsi di dosso il senso di smarrimento che l’epilogo di quella conversazione aveva lasciato cadere dietro di sé, a testimonianza del suo passaggio.


32 Uno smarrimento che poteva seguire a un sonno durato mille anni. All’improvviso, senza che alcuna ragione potesse confermarne la scelta, il ragazzo arrestò di colpo il suo andirivieni. Conosceva un’unica persona che in quel momento potesse essergli d’aiuto per cercare di comprendere l’intrico del labirinto serpeggiante davanti ai suoi occhi. In lontananza, l’ululato delle campane squarciò la placidità della notte. Erano le undici. Senza pensarci oltre, senza neanche preoccuparsi di accendere la luce, recuperò sigarette e chiavi della macchina per poi dirigersi spedito verso la porta. Il telefono poteva anche rimanere dove l’aveva lasciato. Una volta in auto, però, la tenue reminiscenza della voce di Maya tornò a infrangersi contro i suoi timpani. In fondo non aveva neanche tutti i torti, constatò il ragazzo tra sé nell’avviare il motore. C’erano volte in cui l’unica libertà praticabile si configurava nell’accoglimento di quella necessità inconsapevole che con risoluto dispotismo governava sulla stabilità del vivere quotidiano.


33

NEL “SOTTOSUOLO”

«Guarda, guarda chi è tornato a farci visita. Erano settimane che non ti facevi vedere. Cominciavo a pensare che, oltre ad aver smesso di vivere, avessi smesso anche di bere!». «Come va, Buck? Ho avuto parecchio da fare in questi giorni, tutto qui… E comunque mi verrebbe più facile confermare la tua prima ipotesi piuttosto che rinunciare alla seconda» gli rispose il ragazzo a mo’ di saluto, accomodandosi sul famigliare e tremolante sgabello di fronte al bancone. Un bancone segnato dalle profonde ferite incise dalla solitudine, che solo il mistico bagliore emanato dalle bottiglie disposte sulle mensole era in grado di rimarginare. Una volta seduto, il suo sguardo si diresse verso l’individuo che gli stava di fronte, già pronto con una bottiglia in una mano e un bicchiere nell’altra. Una coppia meglio assortita non la si poteva trovare. Un ghigno sardonico e amichevole al tempo stesso, dipingeva il volto della losca figura di Buck nel mentre gli versava da bere. Un gesto meccanico e abitudinario, rasentante la noia, per chi di professione faceva il barista. Però, nel suo caso, più che di professione, si sarebbe dovuto parlare di vocazione. Un atto apparentemente naturale e ordinario come quello di versare da bere, compiuto da lui assumeva i contorni solenni del rituale. Avrebbe potuto ripeterlo mille volte in un giorno, come di fatto faceva, ma ogni volta era sempre accompagnato da quel bramoso stupore, da quell’impacciata frenesia che contraddistingueva la prima, tentennante immersione tra gli umidi petali di una donna. Persino un astemio lo avrebbe implorato di versargli qualcosa, solo per ammirarne l’unicità. Era uno spettacolo. Buck. Il vecchio Buck. Che poi tanto vecchio non era. Al massimo sessant’anni, forse anche meno. Però, nonostante la mole dei lustri che si portava sulle spalle, che fossero cinquanta, sessanta o magari anche di più, il candido alone di spensiera-


34 tezza e serenità che lo avvolgeva rendeva la sua persona immune da qualsiasi pretesa di catalogazione all’interno di una determinata fascia d’età. Bastava guardarlo per accorgersi che la semplicità della sua sola presenza rifuggiva ogni descrizione. Un tempo il suo fisico doveva essere stato il perfetto esempio della tonicità, ma ora, vuoi per la permanente immobilità dietro al bancone, vuoi per il cicchetto che tracannava per ogni cliente che serviva, il suo corpo aveva iniziato a compiere quella mutazione inevitabile accomunante la dedizione religiosa degli assidui frequentatori di bettole. I capelli, quei pochi che gli restavano, erano perennemente nascosti da una scura bandana che con ogni probabilità aveva indossato ogni giorno della sua vita. Quel lurido fazzoletto legato attorno alla testa gli conferiva un’aria da vecchio lupo di mare in pensione, ormai saturo di ricordi e di imprese, troppo stanco per poter anche solo pensare di riprendere il mare per un’ultima, eroica avventura. Orecchini, bracciali e collane d’ogni sorta adornavano la sua persona. Pareva un curioso incrocio tra il pirata Barbanera e un Siddharta ancora in cerca dell’illuminazione. Ogni orpello che indossava, aveva confidato una volta al ragazzo, recava con sé lo spirito trattenuto del ricordo di un dolore, di un’amicizia, di una passione, di un amore. Non amava i tatuaggi, rispondeva stizzito a coloro che gli facevano notare che non c’era niente di più duraturo di un marchio sulla pelle per cristallizzare il ricordo di un’esperienza. Proprio quello era il motivo per cui non li amava. I tatuaggi si ergevano a simbolo di quella permanenza e di quella durevolezza che Buck non poteva sopportare. Non c’era niente di peggio che osservare sulla propria pelle il lento, inesorabile scolorirsi del tempo che passava, senza che mai potesse estinguersi del tutto. Nemmeno una volta morto. Buck era un seguace della mobilità. Non di quella fisica evidentemente, visto che ormai accanto ai suoi piedi vi si potevano scorgere robuste, filacciose radici, le quali lo tenevano saldamente ancorato dietro al bancone del suo locale. Ma di quella mobilità spirituale, di quel movimento esistenziale che non consentiva alcun tipo di radicamento né materiale né sentimentale. Un’irrequietezza di fondo, celante in sé il germe dell’originalità e della sorpresa, dell’infinito e della solitudine.


35 Ecco chi era Buck. Un destino impazzito, in lotta perenne contro ogni bonaccia e ogni tempesta. «Allora come ti va?» chiese il barista, facendo scivolare verso il ragazzo un bicchiere colmo fino all’orlo. «Visto che è da un po’ che non ti fai vedere ti spetta una dose doppia». «Mi sembra giusto» approvò lui ridendo. «Cosa mi hai versato?». L’ironia fece capolino tra le pieghe dello sguardo che il vecchio pirata gli scoccò. «Come se non conoscessi i tuoi gusti! Sulla bottiglia di Southern Comfort c’è praticamente impresso il tuo nome. Mi obblighi a prenderlo solo per i capricci del tuo fegato». «E li chiami capricci? Capirei se ti chiedessi di prenderlo solo per esporlo accanto alle altre bottiglie! Ma ogni volta che vengo a farti visita la bottiglia non è mai la stessa. Quindi o ne facciamo fuori una a ogni mia venuta, oppure ti concedi qualche bicchiere anche senza l’ausilio della mia compagnia». Il vecchio Buck proruppe in una rauca risata che fece fremere le migliaia di sigarette sepolte nel cimitero dei suoi polmoni. «Può darsi…» osservò beffardo, una volta che ebbe smesso di ridere. Nel versarsene uno a sua volta, si arrestò all’improvviso, picchiandosi una mano sulla bandana bisunta. «Ah, prima che mi passi di mente, devo restituirti una cosa!» e dimentico del bere sparì nel retro. Rimasto solo, il ragazzo si guardò intorno. A quell’ora e per giunta di lunedì, il locale era praticamente deserto. A parte lui e qualche altro isolato avventore, nessuno aveva osato avventurarsi così presto al di fuori della gabbia alcolica imprigionante i reduci del sabato notte. La maggior parte di loro riposava ancora nell’ovattato incanto del dopo sbronza. Non che quel locale avesse mai pullulato di baldorie e divertimenti anche nei suoi giorni migliori, ma forse era proprio quello il suo maggior pregio. Nessuno andava da Buck per festeggiare compleanni o altre stronzate del genere. Si andava da lui per riflettere su questioni che non si sarebbero potute risolvere da nessun’altra parte, per bisbigliare mezze verità che non si sarebbero confessate neanche davanti a Dio in persona, per incontrarsi


36 con la donna che sapevi benissimo che ti avrebbe rovinato la vita e ciononostante, non vedevi l’ora che te la rovinasse. O più semplicemente, per annegare sul fondo di un bicchiere mezzo vuoto con la consapevolezza di non saper nuotare. Più che un pub male illuminato dall’improponibile nome “Il Sottosuolo”, pareva un silente rifugio per cani randagi fradici di pioggia e rimpianti. E dire che un tentativo Buck lo aveva pur fatto per attirare un po’ più di quella gente avvezza al divertimento superficiale e non solo quella manciata di disperati riversa sui tavolini come in penitenza. Ben presto però dovette rendersi conto che era tutto inutile. Il tentativo, fallito in partenza, era consistito nell’allestimento improvvisato di un traballante palco (quattro assi di legno marce inchiodate tra loro) su cui aveva piazzato una “batteria”, la quale, più che allo strumento musicale pareva un’accozzaglia di pentole e piatti in vendita al mercatino delle pulci, una “chitarra” le cui corde prima di sfiorarle urgeva un’antitetanica, un “basso” la cui vernice doveva risalire al pigmento usato nell’Antico Egitto e un “microfono”, in realtà un megafono, probabilmente dimenticato una sera nel locale da un poliziotto ubriaco, legato su di un “cavalletto”, il quale non era un cavalletto ma un bastone fissato in un buco tra le assi. Tralasciando in cosa consistevano gli “amplificatori”, tali carcasse avevano rappresentato per poco tempo la maggior fonte di intrattenimento di cui si potesse usufruire nel “Sottosuolo”. Il ragazzo non aveva mai capito se Buck ci avesse mai creduto davvero in quella sua geniale trovata o se lo fece solo per disfarsi di quelle cianfrusaglie che gli occupavano il magazzino dietro al pub. Da quello che gli aveva detto, quei presunti strumenti avevano una loro storia. Erano appartenuti a certi suoi amici che in un tempo ormai remoto si erano fatti un nome (mai saputo quale fosse quel nome) e che quasi certamente in quel momento stavano cercando di racimolare qualche soldo percuotendo pentole e bicchieri in un qualche sperduto angolo di strada. Gente nuova attirata da quella bizzarra novità non se ne vide mai neanche l’ombra. I clienti rimasero sempre gli stessi, copie sbiadite di quelli che Buck avrebbe voluto adescare per tentare di dare nuova linfa al suo locale. Nonostante tutto, però, nel cuore di certe serate in cui la malinconia defluiva con maggior vigore rispetto ad altre, qualche aspirante poeta da motel, che solo un destino già segnato in partenza avrebbe potuto trascinare in piedi sul quel palco, al cospetto della fantasmagoria di un pubbli-


37 co dagli occhi vacui, si accingeva a imbracciare la chitarra o a sproloquiare nel megafono frasi il cui senso non possedeva maggior comprensione di quel grottesco teatrino a cui tutti inconsapevolmente partecipavano. Quel lunedì sera tutto era insolitamente placido e tranquillo, ancora più del solito. Gli strumenti riposavano avvolti in quello stato di morte apparente che contraddistingueva lo stato vegetativo. Gli esigui clienti se ne stavano curvi sui loro tavolini, segregati nelle loro agonie. E il ragazzo se ne stava al bancone, sorseggiando dal suo bicchiere, intento a osservare con viva curiosità l’insondabile gamma di sfumature che la miseria umana era in grado di produrre. Non poteva dire di essere socio di quel club di diseredati, era ancora troppo giovane perché la vita avesse già tentato di buttarlo a tappeto attraverso una serie di ganci micidiali. Ma cionondimeno, amava incondizionatamente l’atmosfera tesa e allo stesso tempo rassegnata che perennemente aleggiava nelle sottili penombre del “Sottosuolo”. L’aveva sempre trovata infinitamente più vera e autentica di qualsiasi altro luogo in cui la gente inscenava un divertimento fasullo, quando in realtà, se avesse potuto, non avrebbe fatto altro che gridare. Gli piaceva rifugiarsi lì, specialmente nelle sere in cui le strade fuori assumevano la consistenza di arterie morte e il buio che riempiva la città allentava i legami con ogni persona che non si trovasse all’interno di quel pittoresco locale. Nel ventre di quel microcosmo di anime perse si sentiva come in chiesa. L’inspiegabile pace che lo assaliva nel momento in cui oltrepassava la cigolante porta che conduceva nel “Sottosuolo” doveva essere non molto diversa dalla tranquillità estatica che accomunava la devozione dei credenti nei momenti di preghiera. Quel posto era il suo tempio, la sua chiesa, la sua cattedrale di NotreDame, al cui interno non avrebbe ascoltato barbosi sermoni riguardanti presunti doveri morali il cui unico risultato era il sorgere di fastidiosi pruriti pelvici nella massa ascoltante di ipocriti dagli occhi a palla. Ma, al contrario, lì era spettatore silenzioso della caducità di tutti i dolori, di tutte le speranze, di tutte le contraddizioni che rendevano così interessante e bizzarra la meschinità della natura umana. Quella più autentica perlomeno.


38 «Non hai ancora finito quello che avevi nel bicchiere?! E io che pensavo già di versartene un’altra dose abbondante. Mi deludi ragazzo!» esclamò Buck sorpreso, riemergendo dal retro del locale. Il ragazzo lo guardò divertito, ingollando in un sol sorso il resto del whiskey. «Devo ancora smaltire quello di ieri sera…quindi fammi bere con calma vecchio!». Con uno sbuffo di divertita disapprovazione, Buck finì di riempire il bicchiere lasciato a metà, facendo scivolare nel mentre davanti al ragazzo la cosa che era andato a prendere. Si trattava di un libro che non ricordava neanche più di avergli prestato. Dalla consunta copertina verde scuro, raffigurante il profilo di un nudo di donna, fuoriusciva un bagliore sinistro causato dalla scarsa illuminazione presente nel locale, il titolo a lettere dorate gettava a casaccio frammenti di luce che danzavano irrequieti nel vetro della bottiglia adagiata accanto al libro. Il ragazzo lo prese con cura e incominciò a sfogliarlo, mentre Buck buttava giù il primo sorso. Le pagine ingiallite dal tempo e dalle innumerevoli letture scorrevano ruvide sotto la sua mano; ognuno di quei fogli, nessuno escluso, era stato martoriato da sottolineature sempre più insistenti, quasi a voler doppiamente rimarcare il senso delle parole stampate. Annotazioni a margine imperversavano in ogni singola pagina, rendendo quasi indistinguibili i caratteri stampati da quelli aggiunti a mano. Leggendo qualche frase isolata, le sue labbra si schiusero in un sorriso indefinibile, come se quelle pagine, invece di vocaboli, celassero lo sfocato mistero di una fotografia proveniente da un tempo arcaico, non più immaginabile attraverso gli occhi del presente. «Versamene un altro, per favore…» bisbigliò il ragazzo assorto. «Mi stavo giusto chiedendo quanto tempo ci avresti messo per chiederne ancora» ghignò il vecchio barista, inclinando la bottiglia con l’ormai amorevole rotazione del polso, saturo di bracciali di ogni sorta. Ecco un’altra cosa che gli piaceva di Buck. Nonostante quest’ultimo non lo considerasse più da parecchio tempo come un semplice cliente, ma come un amico o, come preferiva definirlo lui, il “nipote” che non aveva mai avuto (e se c’era un Dio, grazie che non glieli avesse fatti avere), non c’era stata volta che lo avesse rimproverato, anche solo per il puro piacere di sfotterlo, per quanto smodatamente bevesse.


39 I problemi di alcolismo andavano tenuti separati dall’amicizia, così come l’infedeltà andava tenuta separata dal matrimonio. E sia Buck sia il “nipote” si erano concessi senza riserve all’accoglimento di quella massima potenzialmente universale. «Non ricordavo neanche più di avertelo prestato…» disse il ragazzo chiudendo il libro e tirando a sé il bicchiere nuovamente pieno. «Come ti è parso?». «Sinceramente? Le scopate abbondano e questo non è mai un male! Soprattutto per chi crede che l’amore non includa anche le scorregge fatte sotto le coperte quando si è nel letto insieme!». Proruppe in una sonora risata che gli mandò di traverso metà del contenuto del bicchiere, mentre l’altra metà andò a infradiciare la sua camicia, già macchiata da altre cento e più bevute maldestre. Una volta ripreso il controllo e tentato di pulirsi con uno straccio il cui colore non poteva essere descritto da parole fino a quel momento conosciute, proseguì serio. «Ma a parte questo, mi sembra che l’autore filosofeggi un po’ troppo per i miei gusti. Ho preferito le parti in cui resta più ancorato alla realtà, rispetto a quelle in cui si lascia andare a flussi di coscienza straccia palle mascherati da filosofia. Poi posso sbagliare…». «Quindi non ti è piaciuto?» chiese pensieroso il ragazzo. Non ne aveva mai capito il motivo, ma considerava le opinioni di Buck, riguardanti qualunque campo, dotate di un certo peso. «Non ho detto questo. Ma rispetto al libro che mi avevi prestato la prima volta che ci siamo incontrati, non c’è assolutamente storia. Mai letto nulla del genere prima di quello! È stata un’autentica rivelazione!». «Ti riferisci a Celine?». «Ci puoi giurare! Non che abbia mai letto molto prima che iniziassi a prestarmi i tuoi libri, ma un libro come quello, te lo ripeto, non l’ho mai letto e sono convinto che non ne leggerò mai più uno anche solo lontanamente simile!». Buck si stava scaldando, una luce rasentante il fanatismo gli animava gli occhi, dilatati da un’adorazione incondizionata e scevra da ogni dubbio nei confronti di un medico antisemita improvvisatosi scrittore. «Cosa di quel libro ti ha colpito in maniera tanto profonda?» domandò il ragazzo, colpito dal critico letterario che aveva improvvisamente preso il posto della figura del vecchio barista ubriacone. «Mi prendi per il culo?!» urlò Buck, sbattendo sul bancone una mano con una moltitudine di anelli annessi. Forse per il clangore che il metallo fece sul legno, forse per l’evaporazione, causata da quel grido belluino, di quella greve cappa di


40 silenzio incombente sull’atmosfera del locale, sta di fatto che anche i pochi cadaveri presenti ebbero un sussulto all’interno delle loro bare esistenziali. Fu questione di un attimo. Scostarono il coperchio per cercare capire chi o cosa avesse osato tentare di farli resuscitare, per poi subito richiuderlo, tornando così nel confortevole e catalettico mutismo che caratterizzava la morte dei viventi. «Ogni fottutissima parola di quel dannato libro mi ha lasciato un segno profondo che fa ancora male adesso!» proseguì Buck infervorato. «Tuttora non mi capacito come si possa provare un odio così sfrontato nei confronti dell’umanità e allo stesso tempo essere capaci di slanci di una dolcezza talmente vera e autentica da far venire le lacrime agli occhi! Solo un individuo animato da profonde contraddizioni ne sarebbe stato capace!». Il ragazzo lo ascoltò con molta attenzione, bevendo un sorso di tanto in tanto. «Indubbiamente…» constatò infine, «Anche se ritengo il nichilismo di Miller più studiato, più ragionato, più… intellettuale si potrebbe dire. Il nichilismo di Celine, invece, è pura forza distruttiva e annientatrice, ma che dalle macerie del suo disastro emergono, come hai detto tu, fuochi eterni di una gentilezza circonfusa di sogno che non avrebbero modo di risplendere in tutta la loro autenticità se prima non si fosse estirpata la falsa luce che tenta di offuscarli». «Esattamente! non avrei saputo dirlo meglio!» approvò Buck con entusiasmo. «Ma credo comunque di capire la tua preferenza nei confronti di Miller. Tu stesso sei un intellettuale, anche sei fai di tutto per nasconderlo! Celine può essere compreso appieno solo da chi ha avuto il coraggio di spolpare la vita fino all’osso, senza mai aspettarsi nulla da essa!». Non erano molti i posti, raccomandabili e non, dove si poteva avere la fortuna di imbattersi in un individuo della risma del vecchio Buck, pensò il ragazzo guardandolo. Dalla sera in cui lo conobbe era ormai passato qualche anno, ma il loro primo incontro lo ricordava ancora come uno di quei momenti che giungevano talmente inaspettati, da chiedersi se per caso non erano sempre stati lì ad attendere, con la segreta speranza di essere semplicemente trovati e accettati. Iniziò così a percorrere il viale dei ricordi, disseminato come il suo solito da enormi stronzi di cane, fino a tornare al tempo e al luogo di quando aveva visto Buck per la prima volta.


41 Era una sera come tante altre, animata dall’immobilità più assoluta, e lui vagava per la città, non dissimile dal flaneur baudleriano, in cerca di un buco che avesse abbastanza palle da offrire da bere anche a un minorenne. Prima di leggerne l’insegna non aveva mai sentito parlare di quel locale, più che altro perché, non essendo ancora provvisto di patente, non si era mai spinto in quella parte della città così lontana da casa sua. “Il Sottosuolo” recitava l’insegna verde marcio posizionata sopra l’entrata. Sotto la scritta, disegnato probabilmente a mano, stava quello che con molta forza di immaginazione avrebbe dovuto essere un serpente che si mordeva la coda, ma che a prima vista pareva più che altro un orifizio anale vergato da un individuo affetto da labirintite. Con un nome del genere, figurarsi se a quelli dentro importava delle leggi che vigevano nel mondo di sopra, pensò soddisfatto il ragazzo, entrando senza esitazione. La prima impressione, una volta varcata la soglia, fu veramente quella di essere precipitato in un luogo totalmente altro rispetto a quello che si era appena lasciato alle spalle. Forse dipendeva dal fatto che il locale si trovasse davvero nel sottosuolo. Per raggiungerlo, infatti, bisognava discendere una decina di traballanti scalini in ferro battuto, prima di giungere a una porta di legno modello saloon che consisteva nell’entrata vera e propria. Quella prima impressione crebbe in modo sempre più consistente una volta che il ragazzo ebbe gettato il primo sguardo all’interno di quel tugurio dimenticato da ogni dio conosciuto. Luci praticamente inesistenti, l’unica fonte di chiarore proveniva da una lampada al neon posizionata esattamente al centro, in modo da evitare la rottura dell’osso del collo a chi volesse raggiungere incolume il bancone o gli esigui tavolini sparsi nell’angolo opposto. Tavolini, questi, recanti impresso il marchio ormai indelebile di migliaia di gomiti penitenti, immersi nella voragine d’ombra che le luci al neon non riuscivano a scalfire. La sensazione che lo ghermì la ricordava ancora oggi, con una tale nitidezza che gli era quasi inconcepibile pensare che fossero passati quasi dieci anni. Fu come se il tempo materiale e frenetico imperversante nel mondo fuori, lì avesse esaurito ogni pretesa di dominio. Gli esiliati dell’umanità riversi su scheletrici tavolini, le bottiglie mezze vuote, i bicchieri scheggiati, il pavimento di legno consunto cosparso di tutta la merda che l’universo era in grado di cagare.


42 Tutto in quel posto pareva come capovolto, una dimensione sospesa, osservabile come dal vetro di un acquario. «Cosa ti serve ragazzo? Perché te ne stai lì imbambolato?». Negli anni seguenti il ragazzo avrebbe imparato a riconoscere il suono di quella voce anche nel ruggito di una folla inferocita e a provare per essa un incondizionato affetto, ma quella prima volta lo fece sussultare di spavento, come se l’avesse sorpreso a spiare atti illeciti dal buco di una serratura. «Allora? Te ne stai fermo lì? Su, vieni avanti». Un Buck più giovane di quasi dieci anni, con qualche ruga in meno e qualche capello in più lo stava chiamando da dietro il bancone. Il ragazzo gli si avvicinò, annaspando negli abissi di quel cosmo subacqueo. «Cosa desideri?» domandò, quando quest’ultimo gli fu di fronte. Il ragazzo riuscì solo a fatica a sostenere lo sguardo del barista. Quando, tutto a un tratto, nella folgorazione di quell’istante, la piatta bonaccia di quegli occhi grigi si mutò in uno specchio nel cui riflesso scorse la profezia di un futuro contrassegnato da una lunga e duratura amicizia. «Vorrei un whiskey» riuscì finalmente con voce ferma. O così almeno gli sembrava. La risata causata dalla sua richiesta, facendosi largo a suon di spallate attraverso le barriere del tempo, gli risuonava ancora nelle orecchie. Una risata passata al setaccio e poi lasciata a macerare nella nicotina e nell’alcool. «Un whiskey?!» ruggì Buck, una volta ripresosi da quell’attacco di ilarità. «Non sei un po’ troppo giovane? Fuori la carta d’identità, avanti!». «Immagino tu sappia già che non ho l’età per bere, anche senza prenderti il disturbo di guardare la mia carta d’identità. Però vorrei lo stesso un whiskey…». Buck lo guardò impassibile mentre il ragazzo si accomodava sullo sgabello che negli anni seguenti sarebbe diventato il “suo” sgabello, scomodo quanto bastava, così da evitare che la tentazione di addormentarsi sul bancone dopo una serata di bevute non assumesse mai del tutto i contorni della realtà. «Allora, questo whiskey?» rivolgendosi al vecchio, quando ebbe preso posto. Buck continuò a osservarlo senza muovere un muscolo, le braccia incrociate sopra la camicia macchiata. Sempre la stessa tra l’altro. Come del resto la bandana.


43 «Quale vorresti?» sospirò infine rassegnato, sciogliendo le braccia. Con un ampio gesto delle stesse gli presentò la sua collezione di bottiglie, come un mangiafuoco dei bassifondi nell’atto di presentare le sue amate marionette. Ci avrei giurato, pensò trionfante il ragazzo, quel buco aveva le palle. Non si era sbagliato. A quelli del “Sottosuolo” non importava un emerito cazzo delle leggi ufficiali di quelli del piano di sopra. «Non saprei, non sono un intenditore… Sceglimene uno tu». Effettivamente era ancora un “novizio” all’epoca, da poco entrato in seminario. Ma non ci sarebbe voluto molto prima che la sua bocca si sbarazzasse della verginità, cosa che del resto toccava a tutti i novizi, sotto i colpi insistenti delle “marionette” di Buck. «Fammi capire, entri nel mio regno con l’intenzione di bere, ma non sai cosa vorresti bere?! Questa poi!» sogghignò il vecchio, riemergendo dallo stupore che la candida richiesta del ragazzo gli aveva procurato. «Come vuoi, stavolta sceglierò io per te… » proseguì, arraffando dalla mensola una bottiglia ancora sigillata. «Prova questo. Qui non lo beve mai nessuno, forse perché si trascina dietro l’aura di “whiskey da donna”. Ergo da froci!». «Non mi interessa, versamene un bicchiere» ribatté tranquillo il ragazzo. Quei patetici luoghi comuni gli si asciugavano addosso come neve al centro dell’inferno. Infatti, una volta buttato giù il primo sorso, pensò euforico che quella non sarebbe stata certo l’ultima volta che avrebbe percorso gli infausti gradini ricoperti di ruggine conducenti nelle intricate arterie del “Sottosuolo”. Così come realizzò che non avrebbe mai bevuto nient’altro che non fosse quella squisita miscela danzante nel bicchiere, seminatrice di gioie artificiali e concrete disgrazie. Quella folgorazione momentanea si attenuò con il trascorrere del tempo e le sue vedute in fatto di alcool si allargarono drasticamente, ma al cospetto di Buck il solo imperativo morale a cui aderì tacitamente e incondizionatamente, sin da quella prima sera di quasi dieci anni fa, fu quello portatore dell’inviolabilità di quella legge denominata “Southern Comfort”. «A che stai pensando ragazzo?».


44 La voce del Buck di oggi lo strappò dalle rapide dei ricordi per riportarlo nel presente, su quello stesso sgabello sul quale era seduto anche nelle sue fantasticherie. «Stavo ricordando la prima volta che capitai in questo posto…» rispose il ragazzo sorridendogli. «Ricordi?». L’inconfondibile risata di catrame si tinse di bonaria nostalgia rimembrando quell’evento. «E come potrei dimenticarlo?! Non capita tutti i giorni, soprattutto in un buco merdoso come questo, di veder apparire un ragazzino ancora intento a farsi le seghe, ma che si crede un grand’uomo, per chiedere di servigli un whiskey quando in ogni altro bar della città glielo avevano rifiutato! E una volta ottenuto cosa fa lo stronzetto? Si mette tranquillo a leggere appoggiato al bancone! Neanche avesse scambiato questo posto per una sala letture!». Poi giù a ridere di nuovo, fino a piegarsi in due, facendo tintinnare la mole di acciaio e bigiotteria che si portava addosso. Era vero, rifletté il ragazzo divertito, ma quell’ultimo particolare, pur conservando ricordi pressoché perfetti di quella serata, gli riaffiorò alla mente solo dopo che il vecchio glielo ebbe fatto presente. E allora rise anche lui, un riso incontrollato e liberatorio che fece nuovamente sussultare gli antichi relitti adagiati immobili sul fondale del “Sottosuolo”. La sera in cui entrò nel locale di Buck per la prima volta, dopo che quest’ultimo gli ebbe versato il whiskey “da donna”, ergo da froci, si sentì completamente realizzato e in pace con se stesso. Di conseguenza, gli parve del tutto naturale aprire il libro che si era portato dietro, arrotolato nella tasca posteriore dei pantaloni e immergersi nella lettura, cullato dallo sciabordio ovattato e dalla greve patina di rassegnazione che ricopriva ogni cosa lì dentro. «Si può sapere cosa cazzo stai facendo?!» esclamò Buck atterrito, come se la scena che gli si era configurata davanti avesse assunto le fattezze del mito. Non si era mai visto niente di simile prima di allora in quel posto. Passasse che un ignoto ragazzino entrato per caso chiedesse un po’ di alcool, sapendo fin troppo bene che in una terra di fuorilegge come quella glielo avrebbero anche potuto dare, pur non avendo l’età. Ma che quello stesso ragazzino, dopo aver ottenuto l’oggetto del suo desiderio, si accomodasse al bancone a leggere un cazzo di libro in tutta tranquillità era un evento così fuori da ogni logica apparente che lo stes-


45 so Buck, pur possedendo il raro dono della concisione, si lasciò andare a esclamazioni completamente superflue. Si sarebbe potuto redigere un’intera epopea sulle disgrazie che animavano i protagonisti della tragedia umana presenti lì nel “Sottosuolo”. Ma che uno sconosciuto, per di più estraneo all’infernale odissea che li accomunava, scambiasse quel luogo “sacro” per una biblioteca, apparteneva a quella sfera di situazioni che celavano in sé l’impalpabile destinalità dell’agire umano. «Perché scusa?» chiese il ragazzo come se nulla fosse, interrotto ancor prima di arrivare alla fine della prima riga. «In questo buco è vietato leggere oltre che vivere?». Lo sguardo del barista diceva inequivocabilmente che non si era ancora riavuto dall’assurdità di quell’evento inaspettato. Si fissarono per qualche istante, cerando di capire chi dei due avesse un problema. Se Buck, annichilito dall’imperscrutabilità fatta persona di chi gli stava davanti o il ragazzo, fintamente sorpreso dell’incredula reazione del vecchio dietro al bancone. «Lasciamo perdere…» sospirò, scuotendo rassegnato la testa e con essa la bandana bisunta. «Di solito chi viene qui non si porta dietro un libro da leggere come se si trovasse al parco seduto comodo su una panchina. Tutto qui… ». «Io dovunque vada ho sempre un libro con me… ». «Ma davvero? E non potresti startene tranquillo a casa tua a leggere? Magari nella tua cameretta?» chiese Buck noncurante, ma accompagnando la sua domanda con un ghigno degno di Mefistofele. «Non avrebbe alcun senso farlo lì. Leggere mi aiuta a rimanere a galla nello sterminato oceano di banalità che di solito dice la gente. Come se potesse fregare qualcosa a qualcuno di quello che succede nei loro ottusi e piccoli mondi. Come se credessero sul serio che uno sconosciuto qualunque, magari incontrato alla fermata dell’autobus o su qualche anonimo binario, ascoltandoli, custodisse il potere di strapparli dalla banalità di quell’esistenza in cui consumano i loro tranquilli sonni per trasportarli in un’oasi di certezze assolute». «E ci sono certezze assolute?» domandò Buck suo malgrado, ormai assorbito del tutto da quella conversazione che nessun suo cliente avrebbe avuto il coraggio di sostenere. «Come diceva mia nonna quando ero piccolo, l’unica certezza assoluta è un meritato riposo in una cassa di pino o del legno che preferisci a due metri sotto la superficie!» rispose il ragazzo ridendo.


46 «Già, pure la mia lo diceva…» sogghignò Buck. «Due filosofe con le palle a quanto pare!». E poi, tornando serio: «quindi, a parte l’ovvio finale comune a tutti non ce ne sono altre secondo te?». Roba da non credere, pensò il vecchio, guardando il ragazzo intento a rimuginare sulla domanda appena fattagli. Quella conversazione con molta probabilità doveva essere l’unica fiamma in grado di fendere l’impenetrabile oscurità che da molto tempo imperava nel “Sottosuolo”. E a renderla viva e pulsante come un cuore messo a nudo era un giovane sconosciuto entrato per caso, attirato dalla sottile mano d’ombra che l’imbarazzante insegna sopra l’entrata allungava sugli ignari passanti. «Prima di rispondere me ne verseresti un altro? Non ho mai bevuto niente di simile prima d’ora!» disse il ragazzo alzando lo sguardo, con una luce dal sapore d’infanzia a offuscarne gli occhi. Buck non protestò neanche più, aprì la bottiglia e gli riempì il bicchiere. «Te lo avevo detto che era roba da froci!» ribatté perfidamente soddisfatto. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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