Il rogo, Anderea Buccianti

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ANDREA BUCCIANTI

IL ROGO

ZeroUnoUndici Edizioni


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IL ROGO Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-452-6 Copertina: immagine fornita dall’Autore da www.viareggiocomera.it Prima edizione Marzo 2021


A Sandra compagna di una vita



Il suo cuore non si stava spezzando. Sembrava piuttosto che le sobbollisse nel petto, si andasse sciogliendo. Aveva paura che il calore sprigionato dal suo cuore distruggesse la sua sanità mentale in un rogo. Stephen King, It



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PROLOGO

Albergo Alto Matanna, 9 settembre 1910 primo pomeriggio L’uomo e la donna erano nudi e assorbiti dalla loro passione, incuranti del mondo circostante. Non si accorsero della chiave che aprì silenziosamente la serratura della porta della camera. La porta fu chiusa altrettanto silenziosamente e due ombre dai passi felpati s’insinuarono nella camera semi buia, appena rischiarata dalla luce del primo pomeriggio che filtrava dalle pesanti cortine. Il giorno si avviava al culmine della sua carica vitale, come del resto i due amanti, anche se la loro fine era vicina. Il primo fu l’uomo. Una mano protetta dal guanto gli inarcò la testa violentemente all’indietro, mentre un coltello affilato affondò nelle carni della gola esposta e indifesa con un taglio netto e rapido. L’assassino non si era dato pena di coprire la bocca dell’uomo. Ne fuoriuscì solo un singulto soffocato dal sangue. Non avrebbe richiamato l’attenzione di nessuno, ma l’assassino sostenne la testa dell’uomo per impedirgli di crollare sull’amante. La donna sotto di lui, con gli occhi socchiusi, non si accorse di niente scambiando sussulti di morte per brividi di piacere. Il secondo assassino era già sul fianco del letto e tagliò quasi simultaneamente quell’altra gola indifesa. I sospiri di piacere si trasformarono in rantoli senza soluzione di continuità. Il primo assassino lasciò andare l’uomo e i due corpi che ancora si contorcevano si fusero in uno scomposto abbraccio di morte. Sullo scrittoio c’era il porta documenti. Era per quello che i due erano lì. L’assassino che aveva ucciso la donna si tolse i guanti che lo impacciavano, lo aprì e dette una rapida scorsa ai fogli prendendone alcuni che nascose all’interno della camicia. Il complice era già alla porta che dischiuse controllando che nessuno fosse in giro. Le due ombre sparirono dalla stanza e il mondo non fu più lo stesso.


8 Grotta all’Onda, Stazione di partenza del pallone frenato “Rosetta”, 9 settembre 1910 al tramonto Il capitano Andrea Uberti, appartenente ai Reali carabinieri, immerso nell’alone dello splendido tramonto, era tranquillo nonostante qualcosa di grave e oscuro aspettasse il suo intervento. L’attenzione del capitano era calamitata dall’enorme involucro di seta gialla del pallone frenato “Rosetta” che, guidato dal comandante Frassinetti, in un attimo li avrebbe portati all’albergo Alto Matanna. La direttrice e madrina del pallone, Rosetta Barsi, non aveva voluto spiegare per telefono più di tanto. Con voce rotta dall’emozione, aveva solo detto che era accaduta una disgrazia che coinvolgeva persone del seguito della famiglia reale belga. Pertanto si rendeva quanto mai opportuna la presenza del comandante della compagnia di Viareggio, l’Uberti appunto. Egli aveva accettato di buon grado la rottura della monotonia della Viareggio settembrina. Inoltre l’opportunità di quel tragitto in pallone aveva alimentato la sua curiosità. In pratica si trattava di una funivia, lunga circa un chilometro, che funzionava da ancoraggio e guida per un pallone frenato. Si trattava di un’assoluta novità, unico esempio di trasporto di questo genere. Andrea si era fatto accompagnare dal brigadiere Coscini, il più brillante giovane della sua compagnia. Per raggiungere il pallone frenato, i due militi avevano approfittato dell’auto dell’albergo, che raccoglieva i clienti alla stazione ferroviaria di Viareggio. Grazie alla sua posizione incantevole, circondato da bellezze naturali quali sono le Alpi apuane, l’albergo Alto Matanna stava attirando turisti da tutta Europa. Con una comoda escursione al vicino monte Matanna si godeva anche di una bellissima veduta del mare dell’arcipelago toscano. In quel preciso istante, vi dimorava il re del Belgio Alberto I con la famiglia e il suo seguito, la principessa di Borbone, la marchesa Sciamanna, la baronessa Von Strantz e lo scienziato Ficher. Il pallone partì dalla stazione della Grotta all’Onda a quota settecento metri, e in pochi minuti arrivò a quota millecento metri vicino all’albergo Matanna, scorrendo dolcemente sul suo cavo di acciaio dal diametro di ventisette millimetri. Una bellissima esperienza, piacevole e priva di rischi, che Uberti avrebbe ricordato con piacere. Peccato che l’albergo non fosse alla portata delle sue tasche.


9 L’edificio dell’albergo accolse Uberti e Coscini con la grande eleganza dello stile inglese che era stato lanciato in quegli anni nelle località turistiche più alla moda. I clienti dell’albergo potevano contare su molti agi fra cui il telefono collegato con Viareggio, che troneggiava vicino alla reception, lo stesso che era servito per avvertire Uberti. La pallidissima Rosetta Barsi raccontò con un filo di voce che poche ore prima una cameriera aveva sorpreso, nella camera del segretario di stato del re, Alberto Willem Menling con la moglie del marchese Woluwe Saint Lambert, dama di compagnia della regina Elisabetta. Già sarebbe stato uno scandalo, ma il vero problema era com’erano stati trovati i due. Erano nel letto di Willem, nudi e sgozzati. L’assassino, o più probabilmente gli assassini, erano stati molto efficienti nel tagliare la gola a entrambi senza che nessuno si accorgesse di nulla. Era possibile che facessero parte del personale dell’albergo perché non c’erano segni di effrazione. Non era certo da escludere che qualche cliente potesse aver avuto modo di entrare fraudolentemente nella camera. Il capitano provò un brivido di eccitazione accompagnato da un filo di preoccupazione. Dire che era roba che scotta era poco. Una carriera poteva essere costruita ma anche distrutta in un amen. Capiva anche perché la direttrice non ne avesse parlato per telefono. «Perché la cameriera è entrata in quella camera?» «Dopo pranzo gli ospiti si ritirano in camera e alle quattro le cameriere passano per riassettare le stanze. Ovviamente bussano, ma se non ottengono risposta entrano con il passe-partout. Come può immaginare, questa storia rischia di rovinare l’immagine del mio albergo. La cameriera non ne ha parlato con nessuno e la stanza è stata chiusa. Gli unici a sapere siamo io, mio marito e ovviamente sua maestà, che mi ha pregato di chiamarla con la massima discrezione.» «Certo signora, come sempre.» «Già la gente di Casoli mormora che con la costruzione della stazione del pallone frenato, è stato profanato un luogo sacro qual è da secoli Grotta all’Onda. Pensano che in qualche modo la forza divina si vendicherà…» «Superstizioni signora, solo superstizioni. Ora la prego di accompagnarmi sul luogo del delitto.» Ciò che colpì immediatamente Uberti fu il sentore di morte che pervadeva l’elegante stanza. I due corpi giacevano sul letto, coperti


10 pietosamente da un copriletto da cui spuntava solo un piede femminile. A un cenno del capitano, Coscini piegò il copriletto su sé stesso fino a scoprire i corpi. La donna giaceva di schiena completamente nuda. Gli occhi sbarrati e la gola tagliata con un orrendo squarcio entrarono prepotentemente nella coscienza dei due carabinieri e non ne sarebbero usciti tanto presto. Il sangue era scorso copioso e aveva intriso le lenzuola del letto, ma oramai era rappreso. L’uomo mostrava la schiena giacendo scompostamente di fianco alla donna. Gli assassini avevano abbandonato sul letto i coltelli insanguinati e due paia di guanti. Un’ottima idea per non essere pescati con oggetti compromettenti. Stefania Woluwe Saint Lambert era una bella donna. Il corpo dalle proporzioni perfette, il seno opulento, gli occhi blu che, sebbene ora velati dalla morte, dovevano essere stati bellissimi, avevano stregato più di un uomo. I capelli biondi erano corti, alla moda. Uberti spostò la sua attenzione dal letto allo scrittoio, dove un porta documenti attrasse la sua attenzione. Era aperto e i documenti erano sparsi sullo scrittoio come se qualcuno avesse fatto una rapida cernita. Uberti si chiese se i delitti fossero legati in qualche modo a quei documenti. Una piccola scatola piena a metà di polvere bianca attirò ugualmente la sua attenzione. L’etichetta del tipo farmaceutico diceva che si trattava di cocaina. Uberti aveva letto che si trattava di una potente droga sintetizzata da poco in Germania e venuta di gran moda fra le classi agiate. Era venduta in polvere da inalare, come fosse tabacco da fiuto, ma con effetti affatto diversi. Si diceva che allentasse le tensioni e le inibizioni favorendo le sensazioni e naturalmente il sesso sfrenato. Uberti si manteneva aggiornato sulla cronaca italiana ma anche estera. Dedicava ogni mattina almeno una mezz’ora alla lettura del Corriere della Sera, sognando di essere coinvolto in eventi e indagini ben più importanti di quanto gli riservava la sonnolenta Viareggio. Adesso era il suo momento e non doveva compiere passi falsi. «Coscini ha tutto il necessario per prelevare le impronte?» «Certo capitano.» «Sui coltelli non troveremo impronte, gli assassini hanno usato i guanti. Inizia dal porta documenti. Probabilmente hanno maneggiato i


11 documenti a mani nude quindi è lecito aspettarsi che la tensione abbia favorito il sudore delle mani, regalandoci delle eccellenti impronte.» «Sarà fatto capitano.» Coscini venerava il giovane e brillante capitano e ne aveva ben donde. Il poco più che trentenne Uberti aveva letto con interesse gli studi di Ottolenghi, insistendo con i suoi superiori perché anche il comando carabinieri di Viareggio fosse in grado di condurre autonomamente le indagini, utilizzando le novissime tecnologie di polizia scientifica. Il giovane e brillante Coscini l’anno prima era stato introdotto a queste nuove tecniche e promosso brigadiere. Che l’indagine fosse delicata era fuori di dubbio. L’ospite più illustre dell’albergo, il re del Belgio Alberto I era il nipote di quel Leopoldo II che fu libero di controllare come un dominio personale lo stato libero del Congo, con un’area settantasei volte più grande del Belgio. Resoconti di sfruttamento selvaggio e diffuse violazioni dei diritti umani della popolazione nativa, incluse la schiavitù e le mutilazioni, specialmente nell’industria della gomma naturale, avevano portato a un movimento internazionale di protesta nei primi anni del Novecento. Stime sulle perdite umane oscillano fra i tre e i dieci milioni di morti e molti storici considerano le atrocità commesse tali da costituire un genocidio. Alla fine, nel 1908 il parlamento belga aveva costretto il re a cedere lo stato libero del Congo al Belgio. Uberti lasciò al lavoro il brigadiere Coscini e ritornò nell’atrio dell’albergo avvicinandosi a una finestra. Si era fatto completamente buio e i primi goccioloni di pioggia avevano iniziato a cadere. Nel giro di pochi minuti lampi e tuoni squarciarono il cielo, accompagnati da torrenti d’acqua. La signora Barsi lo vide e si affrettò verso di lui. Era piuttosto agitata. «Capitano sono spaventata. Gli assassini di quei due poveretti si celano fra i clienti dell’albergo. Siamo tutti in pericolo.» «Fra i clienti o il personale signora», sottolineò Uberti. «Impossibile, conosco i miei dipendenti e nessuno sarebbe non dico in grado di fare una cosa del genere ma neppure di pensarla.» «Non si può mai dire signora. Comunque non perdiamo tempo. Concordo con lei che gli assassini sono ancora nell’albergo. Potrebbe cortesemente chiedere a sua maestà re Alberto se avesse la cortesia di ricevermi? In fondo è stato il suo segretario di stato a essere stato


12 ucciso e ho il sospetto che avesse documenti assai interessanti per gli assassini.» Per fortuna, in considerazione del lignaggio degli ospiti, aveva indossato la grande uniforme. Abito turchino scuro a code chiuso con due file parallele di nove bottoni bombati di metallo bianco, risvolti e profilature scarlatti, guarnito di doppi alamari al colletto e ai paramani, con spalline d’argento e cappello a “feluca” dal pennacchio rosso-blu a “salice piangente”. Il re del Belgio Alberto I, che lo accolse da solo in un salottino privato, sorprese Andrea. Si aspettava un signore austero e pomposo, invece si trovò davanti a un suo giovane coetaneo, con i capelli e i baffetti castani, che lo fissava con i suoi occhi vivaci da dietro un paio di occhiali tondi a pince-nez. Aveva l’aria preoccupata, ma traspariva intelligenza non panico. Andrea s’inchinò. Dopo le presentazioni, il re gli si rivolse in francese dando per scontato che egli fosse padrone della lingua, cosa che in effetti era. «Capitano, in questo tragico frangente devo contare sulla sua discrezione. Questo doppio terribile assassinio non deve assolutamente divenire preda di dominio pubblico. Regno sul mio paese da meno di un anno con la pesante eredità coloniale di mio zio Leopoldo II, con cui devo convivere. In più, il mio è un piccolo paese fra grandi potenze e la situazione europea sta diventando di giorno in giorno più difficile. Vede bene che lo scandalo che inevitabilmente circonderà questo duplice delitto, rischia di compromettere la stabilità del mio regno.» «Maestà, comprendo perfettamente la situazione e chiaramente sono stato coinvolto in queste indagini solo in virtù della mia prossimità al luogo del delitto. Forse sua maestà desidera che le indagini siano affidate ai miei superiori o preferisce coinvolgere l’autorità diplomatica…» «Per carità capitano. Più gente si coinvolge e più lo scandalo deflagra. Lei è giovane e spero rapido e aperto a comprendere le situazioni. Inoltre la direzione dell’albergo mi ha informato che la tempesta in corso ci rende irraggiungibili, quindi dovrà cavarsela da solo almeno fino a domattina.» «Come lei desidera maestà, spero di ripagare la sua fiducia. Il brigadiere Coscini che mi accompagna sta rilevando le impronte digitali nella stanza del crimine. Confido molto in questa nuova tecnica…»


13 «Per questo mi affido completamente a lei capitano.» «Vostra maestà non vorrei violare dei segreti di stato.» «La verità capitano, desidero solo la verità.» «Nella stanza c’è un porta documenti che è stato rovistato dagli assassini in tutta fretta. Forse vostra maestà avrà la bontà di controllare quali documenti esso contenga…» «Di più capitano. Ho voluto visionare il luogo del delitto e ne sono rimasto sconvolto. Quel porta documenti mi è noto e ne conosco perfettamente il contenuto. Le devo una premessa. Willem ha servito anche mio zio Leopoldo II e conosceva perfettamente tutti i retroscena dello stato libero del Congo. Capitano, posso contare solo su di lei e devo avere la sua parola di ufficiale che tutto quello che sto per dirle rimarrà assolutamente confidenziale.» «Ha la mia parola.» «Willem custodiva dei documenti che legavano mio zio ad alcune società per lo sfruttamento delle risorse naturali del Congo. Oggi tutto questo appartiene al passato, ma devo decidere l’uso più opportuno di quei documenti. Sono agghiacciato. Quei documenti sono spariti e sono in mano a un assassino. In altre parole potrei essere sotto ricatto.» «Forse maestà, ma trovando gli assassini rientreremo in possesso anche dei documenti.» «Come pensa di procedere capitano?» «Normalmente dovrei interrogare il personale e tutti gli ospiti dell’albergo, ricostruire i loro movimenti nel pomeriggio, perquisire anche le loro camere dell’albergo alla ricerca dei documenti o di qualche indizio che li leghi al delitto. Purtroppo ogni minuto che passa ci allontana dagli autori dei delitti. Immagino che oltre a lei e la direzione dell’albergo, anche il marchese Woluwe-Saint-Lambert, marito della defunta, sia stato messo a parte del tragico evento.» «Ovviamente capitano. Oltre a lui, abbiamo dovuto avvertire la sorella della defunta Augusta di Reuss-Ebersdorf, che l’ha accompagnata in vacanza. Posso chiederle una cosa in assoluta franchezza?» «Certo maestà.» «Io sono fra i sospettati? Dopo pranzo ero in questo salottino e lavoravo da solo, quindi temo di non avere quello che per voi è fondamentale, ovvero un alibi.» Andrea si specchiò in quegli occhi limpidi e quasi senza volere sorrise.


14 «Maestà lei avrebbe avuto mille modi per fare sparire quei documenti e poi non è la mancanza di un alibi che crea un assassino. Anzi, sono i delinquenti che cercano di crearsi dei solidi alibi mentre le persone oneste ne sono di solito sprovviste. Piuttosto, con il vostro permesso, partirei interrogando il marchese Woluwe-Saint-Lambert. Un marito tradito ha sempre qualcosa d’interessante da raccontare. Poi passerò alla sorella della defunta.» «Faccia pure, ma non credo possano avere un qualsiasi interesse nei documenti che sono stati trafugati.» «Vedremo maestà, vedremo. A più tardi maestà.» Il capitano si fece indicare dove fosse la camera del marchese. Bussò ripetutamente senza ottenere risposta. Stava per desistere, quando un colpo di pistola sovrastò il rumore della tempesta che si stava abbattendo sull’albergo. Andrea non perse tempo. Estrasse la pistola d’ordinanza dalla fondina e fece saltare la serratura della pesante porta di castagno. Il marchese Woluwe-Saint-Lambert giaceva riverso contro il letto centrato da un colpo in pieno petto. Respirava ancora o meglio gorgogliava cercando d’inspirare aria con scarso successo. Andrea si avvicinò alle sue labbra, ma non ci furono ultime parole da sentire. Uno sbocco di sangue eruttò dalle labbra del moribondo e, con un ultimo tremito, spirò. L’assassino era fuggito dalla finestra che lasciava entrare scrosci di pioggia. Andrea si avvicinò rimanendo defilato. La lampada a petrolio della camera lo rendeva un bersaglio perfetto e non voleva allungare la lista dei cadaveri. La camera era al primo piano, ma il terreno era in declivio verso il terrazzo, quindi l’assassino non aveva avuto difficoltà a saltare e a dileguarsi. Ah se avesse appostato Coscini a tagliare quella via di fuga… Andrea saltò a sua volta nell’erba umida. Perse l’equilibrio e rotolò all’indietro rovinosamente fino a che non fu fermato dal muro dell’albergo. Un po’ ammaccato risalì il poggio e all’altezza del punto in cui era saltato trovò una serie d’impronte che si allontanavano dall’albergo. Nonostante la pioggia, alla luce dei lampi le impronte erano molto nitide grazie al terreno fradicio. Andrea, pistola alla mano, le seguì. Facevano un largo giro attorno all’albergo dirigendosi verso la stazione di arrivo del pallone frenato. A quel punto le impronte non erano più visibili, ma le intenzioni


15 dell’assassino erano chiare e Andrea affrettò il passo. Quando arrivò alla stazione di arrivo, vide alla luce dei lampi che un’ombra, quasi un fantasma, stava utilizzando il cavo del pallone frenato come se fosse una teleferica tramite un carrello per il trasporto merci. Era già a metà della discesa, appena distinguibile nel turbine della tempesta. Uberti gridò un no con quanto fiato aveva in gola, ma fu un sussurro nella tempesta. Gli ultimi granelli di sabbia nella clessidra della vita dell’assassino furono inghiottiti da un lampo che avviluppò il cavo e l’assassino in una luce abbagliante che in un attimo fu sostituita dal buio. Quando riacquistò la piena capacità visiva, sul cavo non c’era più nessuno e il carrello penzolava nel vuoto quasi del tutto sganciato dal cavo. Con calma e attenzione discese fra le rocce, mantenendosi ben distante dal cavo e finalmente raggiunse il corpo scomposto fra le rocce. L’ennesimo lampo illuminò il viso e l’imponderabile, anzi l’impossibile, entrò in scena. Quelli erano gli occhi blu di Stefania Woluwe-Saint-Lambert che guardavano l’infinito, spalancati per sempre dalla morte. Il solido senso pratico del capitano vinse e ritornò in sé. Doveva esserci una spiegazione logica. La camicetta fradicia della donna, divenuta trasparente, rivelò al suo interno dei fogli e Andrea non ebbe dubbi sulla natura di quelle carte e sul da farsi. Aprì la camicetta con le mani tremanti e recuperò i fogli fradici. Difficilmente sarebbero stati ancora utili a qualcuno, l’acqua li aveva danneggiati rendendoli quasi illeggibili. A ogni buon conto li riparò sotto la sua giacca bagnata e la camicia umida. Una figura scendeva la china lentamente e Andrea estrasse la pistola. «Alt, chi va là!» «Sono Coscini capitano.» Di lì a pochi minuti arrivò e, esattamente come Andrea, rimase impietrito di fronte al cadavere della donna. «Capitano ho finito di prendere le impronte del cadavere un’ora fa ed è là in albergo…» «Ci penseremo poi Coscini, deve esserci una spiegazione. Ne capiremo di più confrontando le impronte. Adesso dobbiamo riportare il cadavere all’albergo e non sarà cosa facile. Comunque è il cielo che ti manda.» Coscini sorrise.


16 «Più semplicemente Signor capitano ho sentito lo sparo e ho seguito finché ho potuto le tracce che portavano al cavo, poi l’ho vista.» «Bene Coscini, diamoci da fare.» Salottino privato di sua maestà il re del Belgio Alberto I, albergo Alto Matanna, notte del 9-10 settembre 1910 «Capitano, non si vergogna a presentarsi al mio cospetto così conciato?» In effetti, Uberti aveva perso la feluca e la divisa era fradicia, strappata, macchiata di sangue e di fango e, a capo chino, porgeva al re un fascio di fogli sbiaditi dall’acqua. «Perdoni maestà…» Ma il re sorrideva. «Getti via quei fogli senza rimpianti, il destino ha deciso per queste carte macchiate del sangue di molti. Piuttosto si cambi o prenderà un accidente.» «Temo di non avere un cambio maestà.» «Abbiamo la stessa taglia, le darò uno dei vestiti del mio guardaroba, ne ho troppi. Nel frattempo in albergo cercheranno di sistemare la sua divisa, domattina ne avrà bisogno. Arriveranno i suoi superiori, le autorità diplomatiche…» «Oramai maestà è tutto chiarito…» «Già capitano… che orribile e strana storia.» «Vero maestà. Un marito tradito e una sorella gemella, Augusta di Reuss-Ebersdorf doppiamente tradita, uccidono i due amanti. La sorella come salvacondotto trafuga le carte coperte dal segreto di stato. Abbiamo trovato le sue impronte sulla cartella porta documenti.» «Una curiosità capitano, le impronte di due gemelli omozigoti sono diverse?» «Certo maestà. Le abbiamo confrontate e non ci sono dubbi in proposito.» «Non so come pensasse di passarla liscia, non avrei mai ceduto al ricatto.» «Non avevo dubbi in proposito maestà.» «Ed è sicuro che Augusta di Reuss-Ebersdorf abbia partecipato attivamente al delitto?» «È difficile da credere, ma le prove sono inoppugnabili. Il marchese di Woluwe-Saint-Lambert non può aver ucciso i due amanti da solo senza


17 che reagissero o urlassero. È stata un’azione coordinata, provata dalla presenza dei due coltelli insanguinati. Augusta era non solo presente ma ha anche partecipato all’uccisione della sorella e dell’amante. Non capisco però cosa sia poi successo fra i due complici. Perché mai ha ucciso il marchese? Una mossa insensata seguita da una fuga disperata. Io penso che fosse in preda agli effetti della droga. Sappiamo ben poco della sua azione sulla mente, soprattutto se assunta in dosi smodate senza alcun controllo medico, in concomitanza con una situazione di stress.» «Questo non lo saprà mai mio caro capitano. Riusciremo a impedire che la notizia di queste morti faccia il giro d’Europa?» «Maestà, penso che sia anche nell’interesse del mio paese che la notizia non sia divulgata e sono convinto che sarà usato il massimo della discrezione possibile. In fondo, gli assassini sono già stati puniti dal destino e tutto questo scandalo può scendere nelle loro tombe e lì rimanere per sempre.» «Lo spero proprio capitano. Come potrò mai ringraziarla?» «Ho fatto solo il mio dovere maestà.» Alberto cavò di tasca l’orologio a cipolla, svincolò la catena e lo porse al capitano. «Non potrò ringraziarla pubblicamente, ma voglia accettare questo mio ricordo personale.» Uberti s’inchinò. «Sono commosso maestà.» «Orsù, ora si cambi e vada a riposare. Abbiamo tutti bisogno di un buon sonno. Buonanotte capitano.» «Buonanotte maestà.» Alto Matanna, febbraio 1911 Una notte del febbraio del 1911, una spaventosa tempesta si abbatté sul Monte Matanna. Al mattino, il pallone era distrutto sotto le macerie dell’hangar che lo custodiva. La gente del luogo si convinse che le forze divine, il Dio della selva, si fossero vendicate della profanazione di quel luogo sacro per opera della modernità. Questa fu la fine del sogno ambizioso e avveniristico dei Barsi, di cui rimane solo la struttura di cemento e pietre su cui poggiava l’hangar. Nessuno, invece, potrà mai rintracciare le quattro tombe sparse fra i castagni che da


18 allora custodiscono i resti ignoti di quattro anime perse. Possa il Dio della selva aver cura e pietà di loro.


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CAPITOLO UNO

Hotel Doriguzzi, Feltre, sabato 6 gennaio 1917 ore 21.30 Il tenente Alessandro Costa dei Reali carabinieri era appena giunto davanti all’hotel Doriguzzi di Feltre assieme al brigadiere Conte e a due militi. Era una notte veramente gelida e Alessandro invidiava gli ospiti dell’albergo, dediti ai piaceri che il denaro poteva garantire anche in piena guerra a chi se li poteva permettere. Anche lui a breve sarebbe stato uno degli ospiti, anche se era lì per una missione delicata e forse anche rischiosa, non certo per diletto. Alessandro Costa era figlio di un carabiniere che aveva fatto anni di sacrifici per permettergli di studiare al liceo, perché questo gli avrebbe aperto le porte per l’esame di ammissione alla scuola Allievi ufficiali carabinieri reali di Torino, esame che Alessandro aveva superato brillantemente. Con la guerra era arrivata la promozione a tenente. Solo da poco Alessandro, che era di carattere brillante e perspicace, si era liberato dalla gabbia delle pressioni paterne, vivendo di vita propria. In questo aveva grandemente contribuito il suo superiore, il tenente colonnello Andrea Uberti, che aveva subito colto le sue doti affidandogli incarichi via via più impegnativi, con reciproca soddisfazione. Soprattutto gli aveva insegnato che la vita andava affrontata con serietà ma anche con leggerezza, soprattutto nei momenti più difficili. Alessandro, guardando il Doriguzzi in quella gelida notte, rifletteva che in tempo di guerra gli ufficiali erano privilegiati e separati dai soldati semplici per il piacere, anzi lo erano ancora di più che non in trincea. I soldati ordinari dovevano attendere in coda davanti ai bordelli militari per avere a disposizione, per un periodo assai limitato, la donna a loro assegnata, stremata dalla vita e di dubbia igiene. Gli ufficiali trascorrevano invece i periodi di riposo in camere o alberghi privati, di grande decoro se non di lusso come il Doriguzzi. Allietavano i propri giorni con signore ordinate, profumate e ben vestite


20 che facevano loro visita. Il risultato di questo diverso trattamento era che gli ufficiali erano in gran parte risparmiati dall’espansione delle minacciose e pericolose malattie sessuali che si erano propagate fra la truppa ordinaria. Il tenente Alessandro Costa, però, non era lì per vegliare sulla moralità degli ufficiali; del resto la sessualità repressa era considerata perniciosa dallo stato maggiore e la prostituzione addirittura incoraggiata. Era lì perché aveva saputo di un giro illegale di cocaina e morfina tra gli ufficiali al fronte, organizzata dal colonnello Attilio Morelli e dal tenente Giorgio Fontana tramite una prostituta, certa Maria Santoro. Maria Santoro era la porta di accesso per molte altre prostitute di lusso, il che aveva espanso il traffico, attirando l’attenzione dei carabinieri. La convenzione internazionale sull’oppio, firmata all’Aia il 23 gennaio 1912, aveva stabilito che “gli stati firmatari (fra cui anche l’Italia) devono compiere i loro migliori sforzi per controllare, o per incitare al controllo di tutte le persone che fabbrichino, importino, vendano, distribuiscano ed esportino morfina, cocaina e loro derivati, così come i rispettivi locali dove queste persone esercitino tale industria o commercio”. Orbene, Alessandro Costa non era lì per quella legge astratta, rimasta lettera morta. L’assunzione di droga in tempo di pace era addirittura tollerata, purché a beneficio dei ricchi e gestita con discrezione. In tempo di guerra cambiava tutto. La fucina di morte non aveva bisogno di ufficiali dalla psiche alterata e dalla capacità di giudizio fuorviata. Era tollerato l’alcol per infondere coraggio alla truppa, ma gli ufficiali quel coraggio lo dovevano avere insito nel loro animo, o almeno trovarlo. Un ufficiale in preda alla droga fuori controllo era inaccettabile e pericoloso per gli alti comandi e quel traffico andava stroncato immediatamente. Era di cattivo esempio per la truppa, che doveva andare a morire convinta della saldezza morale di chi li comandava. Alessandro si era finto cliente, indossando le mostrine e mostrando una finta identità da ufficiale dell’esercito, giacché i carabinieri destavano sempre sospetto, e aveva appuntamento con Maria Santoro per una notte di follie a base di sesso e droga. Lei era l’anello debole della catena e lui avrebbe fatto leva su quello per mettere fine a quel commercio. Si scosse, fece cenno agli altri di attendere il segnale


21 convenuto dalla finestra della camera che aveva prenotato, che dava sul fronte dell’hotel, e si avviò verso l’entrata. Hotel Doriguzzi, Feltre, sabato 6 gennaio 1917 ore 22.30 Un lieve tocco alla porta fece trasalire Alessandro Costa che si era quasi appisolato nel tepore della camera d’albergo dopo il freddo patito fuori. Aprì e fece cenno di entrare a Maria. Era una donna sicuramente di bella presenza, ben vestita e profumata, con uno sguardo provocante ma non sfacciato. «Buonasera signor capitano.» «Buonasera Maria. Il colonnello Morelli mi ha raccomandato i suoi servigi. L’ha descritta come una signora di gran classe, ma soprattutto mi ha detto che lei era in grado di aggiungere parecchio pepe alla serata.» La ragazza ridacchiò: «Piuttosto parecchio borotalco…» E tirò fuori un pacchetto dalla sua borsetta. Alessandro non aveva bisogno di altro. La agguantò per il polso e la scaraventò sul letto. «Ehi! Ma che modi! Non mi piace questa violenza.» Alessandro sfoderò la voce più dura che aveva: «Adesso zitta, se solo fai un fiato, te ne pentirai.» La ragazza ammutolì. Alessandro accese e spense la luce tre volte. «Sono un tenente dei carabinieri. Adesso mi dici tutto. Per prima cosa voglio sapere dove sono il colonnello Morelli e il tenente Fontana.» La ragazza iniziò a singhiozzare, bofonchiando qualcosa, ma uno schiaffo la rimise in carreggiata. Alessandro non ricorreva mai alla violenza, ma in quel momento non aveva tempo da perdere e un manrovescio aveva accelerato la collaborazione della ragazza. All’arrivo del brigadiere Conte, affidò Maria ai due militi e con Conte andarono ad arrestare il colonnello Morelli, che per un colpo di fortuna quella notte sarebbe stato colto addirittura in flagranza di reato. Alessandro era molto soddisfatto, quell’incursione sarebbe stata un successo.


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Hotel Doriguzzi, Feltre, 6 gennaio 1917 ore 23.30 Alessandro fece irruzione con il brigadiere Conte usando il passepartout dell’hotel, ottenuto solo dietro minaccia dal portiere di notte. Il colonnello Morelli era a letto con Angela, una prosperosa ninfa con la pelle color latte e i capelli rossi, che aveva già dato il meglio di sé. La porta si spalancò di colpo e il colonnello istintivamente agguantò la pistola d’ordinanza che teneva sul comodino. Andrea mise mano alla sua. «Sono il tenente Costa dei Regi carabinieri. Signor colonnello Morelli la dichiaro in arresto per vendita illegale di sostanze stupefacenti a ufficiali del regio esercito.» Angela, che si era appena destata da tutto quel fracasso, iniziò a gridare. Il colonnello invece dette prova di quanto la droga, in dosi smodate, annullasse il discernimento degli ufficiali in guerra. «Col cazzo, io faccio quello che mi pare.» Tuonò, lasciando partire un colpo di pistola che mancò clamorosamente il bersaglio. Testimonianza diretta che non era solo il discernimento a essere alterato, ma, fortunatamente, anche la mira. Alessandro, sia pur colto di sorpresa da quella reazione, istintivamente sparò con ben altra mira, cogliendo il colonnello al bersaglio grosso e aggiungendoci un secondo colpo risolutivo per il misto di rabbia e spavento che l’aveva assalito. Il colonnello ricadde supino nel letto, intridendo le lenzuola di sangue. Angela non la smetteva più di urlare mentre il tenente Costa, incurante delle grida, faceva le sue considerazioni: si rischiava la pelle anche nelle retrovie, altro che storie. Per arrestare il barone Giorgio Fontana avrebbe preso le sue precauzioni, non voleva morire per mano di un altro cocainomane fuori di testa. Poi, fece segno alla prostituta di tacere e lei, cogliendo il suo sguardo feroce, la piantò immediatamente. Il colonnello Morelli era un uomo robusto e volitivo, dal fisico ancora atletico nonostante l’età. Era stato centrato da due colpi, entrambi al torace, a poca distanza uno dall’altro. La violenza dei due colpi a distanza così ravvicinata aveva causato una copiosa fuoriuscita di sangue che aveva intriso il lenzuolo e schizzato la disgraziata accompagnatrice. Un ultimo brivido scosse Alessandro Costa e non era di freddo. Hotel Doriguzzi, Feltre, domenica 7 gennaio 1917 ore 01.30


23 Il direttore dell’hotel Doriguzzi, svegliato in piena notte, guardava il tenente Costa con aria di superiorità. «Signor tenente, la riservatezza dei nostri clienti come ben può immaginare prevale su ogni suo desiderio. Noi ospitiamo ufficiali del massimo livello. Senza un mandato scritto, non le dico niente di niente.» L’adrenalina di Alessandro era vicina al livello di guardia in quella notte gelida in cui solo una mano tremante di un cocainomane lo aveva salvato per pochi centimetri dalla morte. Agguantò il direttore per la farfallina che si strappò sotto l’impeto della sua furia. Alessandro cambiò presa, prendendolo per i baveri dello smoking. «Desiderio? Forse non hai capito come funziona. Poco fa uno dei tuoi stimati clienti, drogato marcio, mi ha sparato addosso. So che non è qui, ma adesso mi dici se il barone Giorgio Fontana è ospite abituale di questo hotel e le date in cui è stato qui negli ultimi tre mesi.» Il direttore, pur preso per la giacca, non aveva perso l’alterigia. «Altrimenti?» «Altrimenti non mi pare che lei abbia più di trentanove anni.» Il direttore afferrò al volo dove Alessandro voleva andare a parare. «No, infatti, ne ho ben di meno. Sono però affetto da insufficienza polmonare e ho un certificato che mi dichiara rivedibile. La visita di controllo è giusto del mese scorso. Posso mostrarle il certificato di esenzione.» Alessandro ghignò, l’aveva in pugno. «Magari firmato da qualche ufficiale medico compiacente che frequenta questa bella alcova. Fra i compiti dei carabinieri c’è anche il controllo dei renitenti alla leva. Quando ha finito su di sopra con il morto, ti procuro io una bella visita di controllo con il nostro ufficiale medico. Entro la settimana sarai spedito in prima linea. Ti piace questo altrimenti?» «N…no signor tenente.» «Allora posso avere quello che ti ho chiesto?» «Subito signor tenente.» Alessandro mollò la presa. «Bravo. Sei anche disposto a testimoniare sui maneggi di droga in questo bell’albergo? Secondo me ne sai parecchio.» «A sua disposizione signor tenente.» «Così mi piaci.» Strapazzare quel borioso vigliacco gli aveva sistemato i nervi.


24 L’avrebbe tenuto d’occhio e comunque la prossima visita di leva sarebbe stata con un ufficiale medico vero. Caserma dei carabinieri di Belluno, domenica 7 gennaio 1917 ore 7.30 Il tenente colonnello Andrea Uberti continuava a fissare Maria Santoro senza profferire verbo. La voleva mettere a disagio e ci stava riuscendo. Andrea era un uomo che da poco aveva superato la quarantina, alto e prestante, con una brillante carriera alle spalle e una ancora più brillante davanti. La svolta alla sua carriera era avvenuta anni prima, quando era comandante della compagnia carabinieri di Viareggio. Aveva risolto brillantemente e con discrezione un caso di omicidio che aveva coinvolto la famiglia reale belga e questo lo aveva posto sotto i riflettori giusti. Allo scoppio della guerra, la promozione a tenente colonnello e la posizione attuale erano il frutto delle sue doti riconosciute di diplomazia e perspicacia. Andrea era il comandante che coordinava tutte le sezioni e i plotoni dei carabinieri distaccati per i servizi di polizia militare, al Comando supremo, all’Intendenza generale, ai Comandi e alle Intendenze d’armata e infine a ogni Comando di divisione di fanteria e cavalleria. Era una bella responsabilità che in concreto lo metteva in contatto con tutti i vertici del regio esercito anche se, di fatto, i reparti distaccati dipendevano dai vari comandi. Presso quei reparti i carabinieri agivano non solo nelle retrovie, ai posti di medicazione controllando i falsi feriti o peggio gli autolesionisti, agli sbocchi dei camminamenti e nei punti di passaggio obbligato per controllare che ognuno fosse coperto da specifici ordini per essere lì, ma anche nelle posizioni di prima linea per garantire l’ordine e la disciplina. I carabinieri erano anche dislocati lungo le strade e le direttrici di marcia delle truppe al fronte per disciplinare il traffico. Questi erano i compiti loro assegnati, oltre a quelli come il recapito di ordini, servizi di sicurezza in sosta e in marcia, polizia giudiziaria per i reati militari e comuni, vigilanza sanitaria, assistenza ai feriti, ordine interno dei centri abitati in prossimità del fronte, sicurezza delle comunicazioni e infine prevenzione e repressione dello spionaggio.


25 Quest’ultimo compito era quello più importante per Andrea, anche perché era l’unico che svolgeva direttamente, assieme ai casi più spinosi che coinvolgevano più reparti del regio esercito. Negli ultimi tempi associava quasi di soppiatto, ma con ottimi risultati, ai compiti ordinari anche quelli di spionaggio o meglio di raccolta d’informazioni dai territori italiani occupati dall’impero austro-ungarico. Per questo stava imbastendo con pazienza e tenacia un gruppo di contatti di italiani di là dalle linee che poco gradivano il tallone austriaco in trentino, disposti a collaborare con gli italiani. Andrea si scosse dai suoi pensieri, Maria era oramai cotta a puntino e l’interrogatorio poteva iniziare. «Allora signorina Santoro, non ho molto tempo da perdere. Ovviamente a capo dell’organizzazione a delinquere per la vendita illegale di droga agli ufficiali del regio esercito c’era il colonnello Morelli, ma sappiamo che altri ufficiali sono coinvolti, in particolare uno. È il momento di vuotare il sacco.» «Non so di cosa stia parlando.» «Le illustro meglio la sua posizione. Se lei ci dice tutto quello che sa e testimonia al processo, se la cava con pochi mesi di detenzione, dimostrando la volontà di redimersi e di fare ammenda per il suo comportamento. Altrimenti, la aspettano parecchi anni di carcere duro, molto duro. Comunque arriveremo al barone Fontana, anche senza la sua testimonianza, quindi si farà degli anni di galera per niente.» «Io sono solo una povera donna…» «Sto perdendo la pazienza, non faccia giochini con me, non ho tutto il giorno per stare dietro ai suoi scrupoli tardivi.» Maria sospirò rumorosamente. «Che cosa vuole sapere signore?» Andrea dentro di sé provò un moto di soddisfazione, anche questo caso è chiuso e poteva dedicarsi a compiti più importanti. Si sbagliava di grosso. Mulino di Calto, febbraio 1917 Il barone Giorgio Fontana caricò l’ennesimo sacco da venti chilogrammi di farina sul camion militare masticando amaro. Era inaccettabile che un barone fosse costretto a caricare sacchi di frumenti


26 vari su un flusso quasi ininterrotto di camion e carretti che transitavano dal mulino, mescolato a disgraziati senza arte né parte. Era stato processato per direttissima assieme a Maria Santoro, socia e delatrice, ed erano stati entrambi condannati a sei mesi di lavori forzati. Alla fine, secondo il capitano che l’aveva difeso, gli era andata anche bene, considerato che stava per scapparci il morto, per di più un carabiniere, per colpa di quell’imbecille del colonnello Morelli che era oramai preda delle allucinazioni della cocaina. Il vecchio satiro era andato completamente fuori di testa, drogato marcio. Giorgio gli aveva detto che era roba pericolosa, di andarci piano perché altrimenti avrebbe mandato a puttane tutto attirando l’attenzione, ma lui niente e le cose erano andate a rovescio grazie a lui. L’arresto del barone era andato in maniera affatto diversa: lui era al suo reparto in prima linea e si era guardato bene dall’opporre resistenza, recitando la parte dell’innocente, ma la testimonianza di Maria lo aveva inchiodato. Non che gliene facesse una colpa, la poveretta era stata sicuramente minacciata. Per fortuna, essendo stati coinvolti anche alcuni alti ufficiali, la cenere era stata nascosta sotto il tappeto. Del resto il principale colpevole era morto e quindi lui e Maria se l’erano cavata con una condanna mite. Il bello era venuto dopo. Nel corso del conflitto, il crollo dell’offerta di lavoro causato dalla chiamata alle armi rendeva la manodopera coatta particolarmente preziosa. Una circolare ministeriale fresca fresca, del gennaio 1917, poneva l’accento sul bisogno di non lasciare i condannati in fortezza nell’ozio, ma suggeriva di adibirli a lavori forzati. Di conseguenza, si invitano i direttori delle prigioni a intensificare l’impiego di detenuti nei lavori nell’agro alimentare, giacché i bravi contadini erano a morire nelle trincee e qualcuno doveva dare da mangiare all’esercito e alla popolazione. A quel bieco direttore del carcere di Vicenza non era parso vero di mettere un barone a sfacchinare al mulino e questo gli era toccato. Dopo quei mesi di fatica dura, sarebbe stato rispedito al fronte, in un qualche reparto di disciplina, dove avrebbe rischiato di nuovo la pelle. Accidenti a quell’Andrea Uberti che non si era fatto i cazzi suoi, ma gliel’avrebbe fatta pagare, oh se gliel’avrebbe fatta pagare.


27 Il cadavere del colonnello Fabrizio Morelli non si dava pace. Non tanto perché era lì, buttato su un tavolaccio alla morgue dell’ospedale militare di Feltre assieme ad altri disgraziati massacrati dalla guerra. No, lui era incazzato perché l’onnipotenza, le orge sfrenate con le puttane, i soldi come se piovesse erano finiti in quel buco nero. Per quello aveva cercato di ammazzare quel maledetto carabiniere, perché gli aveva annunciato che la festa era finita. Come nei secoli passati i sovrani facevano gettare dalle finestre dei palazzi gli ambasciatori e i latori dei messaggi più sgraditi, così aveva cercato di fare lui. Poi si sarebbe tirato un colpo in testa, ma il carabiniere lo aveva preceduto. Della morte non gli fregava niente. Meglio in una camera di un albergo di lusso con una splendida puttana che non sbrindellato da una cannonata, una bomba oppure ucciso da una delle maledette malattie che infestavano quelli che la guerra la facevano. No, non sarebbe mai andato a marcire in fortezza e questo era un bene. Era finito in bellezza, peccato troppo presto. Che strani pensieri per un morto. Adesso cosa lo aspettava? Chi se ne frega, sempre meglio che marcire in una stramaledetta fortezza.


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CAPITOLO DUE

Cavalese, giovedì 12 luglio 1917 ore 9.30 Il barone Francesco Ferrari, hauptmann dell’aviazione austriaca, si era perso negli occhi blu della sua amante, Elena Tomasi. La volitiva Elena alzò appena il tono di voce per carpire di nuovo la sua attenzione. «Francesco devi fare qualcosa, non puoi tornare a combattere per una guerra non tua. Ho già rischiato di perderti, non voglio farlo un’altra volta.» Francesco era stato leggermente ferito a una spalla in un combattimento aereo e stava ultimando una breve licenza di convalescenza nella propria abitazione di Cavalese. A malapena era riuscito a riportare a terra il suo Hansa-Brandenburg G. I E.III sforacchiato dai proiettili italiani. Francesco Ferrari era uno dei pochi Welschtiroler, tirolesi di lingua italiana ovvero trentini, presenti sul fronte occidentale dopo l’entrata in guerra dell’Italia. I militari austriaci di lingua italiana erano visti con grosso sospetto e preferibilmente assegnati al fronte orientale. Lui invece era stato subito assoldato nella Luftfahrtruppen, vista la sua esperienza di volo aereo privato. Fino allo scoppio della guerra, l’esercito austro-ungarico non aveva dato la priorità all’addestramento di aviatori militari e quindi ce n’era una grande penuria nelle file austro-ungariche. Soprattutto, nessuno conosceva l’area delle montagne trentine come lui. In quei due anni di guerra, partendo dal campo di Pergine in Valsugana con il suo Hansa-Brandenburg G. I E.III, si era assolutamente conquistato la fiducia del suo comandante il Major Franz Gräser. Tanta era la fiducia, da essere uno dei pochi ufficiali che il Major metteva a parte di tutti i segreti militari. Adesso, però, era stufo e convinto che quella guerra non fosse più la sua, quindi l’esortazione di Elena non lo lasciò indifferente, anche se non vedeva altre possibilità. «Elena, sai che non posso farlo, sarei fucilato come disertore. Una morte certa contro una morte solo possibile.» Il momento del rientro al


29 proprio reparto e alla guerra aerea si avvicinava a grandi passi e non ne era lieto, ma non aveva altra scelta. «Lo so Francesco, infatti noi dobbiamo scappare, non stare ad aspettare che ti vengano a prendere e fucilare.» «Scappare dove perdio, saremmo braccati ovunque, ci arresterebbero e comunque sarebbe la fine.» «Dobbiamo passare le linee e fuggire in Italia, è la nostra unica possibilità.» «Sei pazza? Non riusciremmo mai a passare le nostre trincee e ammesso che ci riuscissimo, gli italiani ci sparerebbero addosso.» «Francesco posso garantirti che qualcuno ci attenderebbe nella terra di nessuno, garantendoci un salvacondotto.» «Tu hai…» «Io ho i miei contatti con un ufficiale dei carabinieri italiano. Possiamo organizzare il tutto in poco tempo, prima che tu debba rientrare alla tua unità.» «Non ci posso credere. Elena tu sei una spia italiana, questa è la verità.» «No Francesco, io sono italiana e lavoro per il mio paese. Un giorno tutto questo finirà ed io sarò dalla parte giusta. Nel profondo del tuo io, ti senti austriaco?» «No ma…» «E giunto il momento di decidere da che parte stai. Se vuoi seguirmi, è già tutto predisposto. Da Cavalese andiamo a Borgo Valsugana e da lì andiamo verso il lago di Corlo, passando le linee austriache.» «Amore, a te sembra tutto facile. Non riusciremmo neanche ad arrivare a Borgo Val Sugana senza essere presi, è pieno di posti di blocco austriaci. Saremmo acciuffati ancora prima di arrivare al fronte.» Elena sorrise. «Ammetto che è rischioso, ma con un po’ di fortuna ce la possiamo fare.» «Stai scherzando?» «No mio caro, andremo con la biancheria pulita. Come sai ho in carico la lavanderia per il circolo ufficiali austriaci di Borgo Valsugana e l’ospedale da campo. Ogni settimana mandano un autocarro a prelevare la biancheria. Il giorno stabilito è dopodomani, come ogni sabato. Ci nasconderemo dietro alle ceste della biancheria pulita e subito prima di arrivare a Borgo Valsugana ce la svigniamo. L’autista non controlla


30 mai lo scarico della biancheria sporca e il carico di quella pulita, ci pensiamo noi mentre lui va a bersi una birra. A Borgo Valsugana la biancheria è presa in consegna da un’infermiera dell’ospedale che è amica mia, ci farà scendere dal camion di nascosto. Da lì fino ad arrivare alle trincee nei pressi di Cismon del Grappa sono circa sei ore di cammino. Ho una guida che ci aiuterà ad arrivare nei pressi del fronte. Da lì ci organizzeremo per passare il fronte. Nella terra di nessuno ci aspetta il maggiore dei carabinieri Andrea Uberti in un punto prestabilito.» «È una pazzia.» «Audace lo ammetto, ma passando il fronte domenica di mattina ce la possiamo fare.» «Passare il fronte? Sei pazza?» «Ho pensato a tutto. A volte ci sono degli ammanchi nelle consegne della lavanderia presso l’ospedale da campo a Borgo Valsugana, prenderò quello che ci serve. Sabato io indosserò una divisa da infermiera, mentre tu cambierai le mostrine della tua con quelle di un ufficiale medico. La guida ci porterà nei pressi del fronte poi aspetteremo le dieci della mattina dopo per passare le linee.» «Perché mai le dieci di mattina? Ci faranno a pezzi, non è meglio la notte?» «Proprio no. Dalle dieci alle dodici di ogni domenica c’è un cessate il fuoco, per portare soccorso ai feriti e recuperare i morti. Noi approfitteremo proprio di quel momento. Nella terra di nessuno incontreremo il mio ufficiale dei carabinieri che sarà vestito da ufficiale medico.» «Suvvia, una donna nella terra di nessuno…» «È raro, ma talvolta alle infermiere capita. Poi mi toglierò la pettorina bianca da infermiera e con un berretto militare passerò ancora più inosservata. Ci sarà una certa confusione proprio in quel momento, ce la faremo.» «E come farai a informare il tuo contatto italiano?» Nel formulare la domanda Francesco capì che stava capitolando. «Tramite i piccioni viaggiatori, scioccone. Siamo già in contatto da mesi.» «E i domestici? Si accorgeranno che ce ne andiamo.» «Certo, ma dirai che passi qualche giorno a casa mia, è già capitato. I


31 miei di domestici sono fidatissimi, altrimenti sarei già stata scoperta.» «Hai proprio pensato a tutto. Ci posso pensare?» «No mio caro, è per domani. C’è un altro aspetto che devi considerare, la mia sicurezza. Sono parecchio esposta e la mia copertura rischia di saltare. Se dovessero scoprirmi, per le spie c’è solo la fucilazione. Non ci sono altre possibilità. Soprattutto per noi italiani non ci sarà pietà.» «Di fronte a questo rischio, cosa posso fare se non dire di sì?» «Bravo, così mi piaci.» «Va bene, va bene, ma ho paura che gli italiani non ci tratteranno molto bene.» «È qui che ti sbagli. Anche noi siamo italiani, sfuggiti al giogo austriaco e per di più con un sacco d’importanti informazioni. Ci tratteranno benissimo.» A Francesco non restò che baciarla e rimettere la vita nelle sue mani. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

PROLOGO ....................................................................................... 7 CAPITOLO UNO ............................................................................ 19 CAPITOLO DUE ............................................................................ 28 CAPITOLO TRE ............................................................................. 39 CAPITOLO QUATTRO .................................................................... 49 CAPITOLO CINQUE ....................................................................... 59 CAPITOLO SEI .............................................................................. 62 CAPITOLO SETTE.......................................................................... 69 CAPITOLO OTTO........................................................................... 76 CAPITOLO NOVE .......................................................................... 83 CAPITOLO DIECI .......................................................................... 97 CAPITOLO UNDICI ...................................................................... 102 CAPITOLO DODICI ...................................................................... 107 CAPITOLO TREDICI ..................................................................... 119 CAPITOLO QUATTORDICI ............................................................ 130 CAPITOLO QUINDICI................................................................... 135 CAPITOLO SEDICI ....................................................................... 140 NOTA DELL’AUTORE .................................................................. 145



AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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