Il Roseto Nero di Alice De Ravin, Isabella Liberrto, thriller

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In uscita il 22/12/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre e inizio gennaio 2018 (3,99 euro)

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ISABELLA LIBERTO

IL ROSETO NERO DI ALICE DE RAVIN

ZeroUnoUndici Edizioni ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/


IL ROSETO NERO DI ALICE DE RAVIN Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-160-0 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Dicembre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


"Il cielo non ha collere paragonabili all'amore trasformato in odio, nÊ l'inferno ha furie paragonabili a una donna disprezzata� William Congreve – La sposa in lutto



PRIMA PARTE



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CAPITOLO 1

Il piumone era tirato fin sopra i capelli, i miei respiri si facevano più veloci man mano che mi svegliavo. La sveglia suonò pochi istanti dopo e, con una mano incerta e infreddolita, premetti il pulsante regolandomi col tatto, facendo cessare così il suo basso ronzio. Mi girai dall'altro lato e con una mano cercai il corpo di David. Stava ancora dormendo. Il viso caldo e i capelli arruffati. Lo guardai e le mie labbra si distesero automaticamente in un sorriso ancora immerso nel sonno. Al tocco della mia mano mugugnò qualcosa, prima di aprire lentamente gli occhi e invadermi della sua luce dorata. «Buongiorno, amore» disse avvicinandosi a me. «Ehi, buongiorno. È ora di alzarsi, tesoro». Lo baciai e mi misi a sedere sul letto, scostando la coperta, ma la sua mano mi afferrò un braccio e mi attirò nuovamente a sé. «Dove credi di andare?». Adesso era sveglio. «Faremo tardi al lavoro» risi, fingendomi contrariata. «Direi che possiamo concederci dieci minuti» sorrise lascivo alzando un sopracciglio, e mi attirò a sé, baciandomi con passione. Ero in ritardo. Mi truccai in fretta, approfittando del fatto che David fosse sotto la doccia, o avremmo ricominciato. Lo specchio rimandò la mia immagine e una luce di felicità investì la mia figura come un sole caldo in un giorno luminoso d'estate. A ventisei anni, avevo tutto quello che si potesse desiderare. Ero bella, in salute, facevo un lavoro che adoravo e avevo un fidanzato che amavo più della mia stessa vita. David uscì dalla doccia con un asciugamano legato ai fianchi e con un altro prese ad asciugarsi i capelli energicamente. «Dannazione, sono in ritardo» disse iniziando a vestirsi. Lo guardai dallo specchio e gli sorrisi: «La colpa è tua, io ti avevo avvisato». «La signora si sta lamentando?» chiese lascivo senza guardarmi. «Certamente no». Mi avvicinai a lui e gli diedi un rapido bacio sulle


8 labbra. «Stasera ci vediamo?» gli chiesi con una punta di timore. Solitamente non passavamo mai due giorni di fila insieme. Era una cosa che, dopo quasi due anni di relazione, mi faceva stare un po' male. Lo amavo tantissimo e iniziavo a desiderare un rapporto più serio e stabile. Non volevo mettergli pressione, e quindi di rado tiravo fuori il discorso matrimonio. Sapevo che non era ancora pronto a fare quel passo, ogni volta glissava l'argomento o metteva il broncio. «Stasera non posso, domattina ho una riunione importante e devo prepararmi» sorrise distratto e mi strinse le braccia, poi tornò a vestirsi. Incassai la delusione e gli dissi: «Va bene», poi presi la mia borsa e mi apprestai a uscire. Salutai David mentre si dirigeva alla sua auto parcheggiata nel mio vialetto. Io solitamente andavo a lavoro in treno, erano appena cinque minuti da casa mia e così facendo evitavo il traffico caotico della città. Mi concessi un attimo per respirare a pieni polmoni l'aria pulita e fresca di quella mattina di novembre. La mia casa era immersa nel verde. C'era un ampio giardino e poco dopo averla comprata, grazie a una lauta eredità da parte di uno zio piuttosto generoso, al quale ero molto legata da bambina, feci piantare diversi alberi e un roseto stupendo che mi riempiva di orgoglio. Un giardiniere una volta mi disse che far crescere le rose era un compito particolarmente difficile, perché necessitavano di grande cura. Ma il mio roseto cresceva rigoglioso e riempiva le mie giornate di profumo e colori scarlatti. Inspirai a pieno l'aria profumata e fresca della giornata, e mi diressi alla stazione, pronta per un nuovo giorno. Non appena misi piede a scuola, Grace, la mia collega dell'asilo nido, si precipitò da me con lo sguardo eccitato per qualcosa e iniziò a raccontarmi le sue novità del weekend. «Oh Alice, non ci crederai!» disse con voce emozionata. «Ehi Grace, che succede?». Saltellando come una ragazzina, si mise davanti a me e mi mostrò l'anulare della mano sinistra. Un anello di fidanzamento. «Paul mi ha chiesto di sposarlo!». Rise senza riuscire a trattenere la sua gioia e l'emozione, concentrata tutta in un metro e cinquanta per cinquanta chili di ragazza ventiquattrenne. "Oh Dio... sai che meraviglia..." pensai cinicamente tra me e me. La verità è che ero invidiosa. Attorno a me non facevo altro che vedere


9 coppie felici che si sposavano e avevano figli. Donne della mia età, persino più giovani, riuscivano a coronare il loro sogno romantico di sposare l'uomo amato e costruire una famiglia partendo tutto da un "sì". «Oh Grace, ma è meraviglioso! Congratulazioni». La abbracciai, nonostante tutto, ero davvero felice per lei. «Tu e David siete invitati, naturalmente» disse euforica sciogliendosi presto dall'abbraccio. «Oh, devo organizzare così tante cose! Pensavamo di sposarci in primavera, e poi approfittare delle vacanze per andare in luna di miele...» continuò a ubriacarmi di chiacchiere sul matrimonio per i successivi dieci minuti, ma io avevo smesso di ascoltarla. "Levati dai piedi e vai in classe" pensai mentre le sorridevo con cortesia. Fortunatamente la campanella della prima ora la scosse dalle sue chiacchiere. In tutta fretta si accinse ad andare in aula dai suoi bambini e io presi la mia borsa e andai dai miei. Facevo la maestra di scuola materna ormai da tre anni, e quel lavoro mi riempiva di gioia. Adoravo i bambini, e certamente volevo dei figli miei. Ma non mi azzardavo a tirare fuori l'argomento con David. Se lui non era pronto, era inutile pressarlo. Quando e se l'avesse voluto, sarebbe stato lui a chiedermelo. "Sì certo... continua pure a raccontarti questa bugia" mi ripeteva sarcasticamente la parte negativa della mia coscienza. Ma scansai subito quel pensiero. Amavo David alla follia ed ero sicura che anche lui amava me. Che altro potevo desiderare? Dopo essere entrata nella grande aula piena di giochi e disegni appesi al muro, salutai i bambini con entusiasmo e iniziai la mia giornata.


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CAPITOLO 2

Tornai a casa alle diciassette, come sempre. Lavorare con i bambini poteva sembrare un gioco, ma in realtà rincasavo ogni giorno con il mal di schiena e la gola irritata per il troppo parlare, gridare e leggere favole. Gettai la borsa sotto l'appendiabiti e mi liberai in fretta dei vestiti per indossare qualcosa di più comodo. Mentre mettevo su l'acqua per il tè, presi il cellulare e controllai le chiamate. Nessuna chiamata o messaggio da parte di David. Doveva ancora essere al lavoro. Con la bustina ancora in infusione, presi la tazza e mi lasciai cadere stanca sul divano. Ripensai a Grace e alla sua felicità per l'imminente matrimonio. Non potevo di certo biasimarla, io stessa sarei uscita di testa per la gioia se fosse toccato a me. Proprio mentre mi perdevo in quei pensieri, ecco che David chiamò: «Ciao, bellissima». Sentivo in sottofondo il rumore del traffico della città. «Come va, tesoro? Com'è andata la giornata?». «È andata bene, tutto alla grande. Sto tornando a casa adesso. A te com'è andata la giornata?» mi parve incerto e distante. «Come sempre. Mal di schiena e piedi distrutti». Sorrisi nel sentire la sua risata. Improvvisamente quella casa mi sembrò vuota. Non vivevamo insieme, lui passava occasionalmente qualche notte da me, ma non aveva mai affrontato l'argomento "vivere insieme". «Immagino piccola, vorrei tanto stare lì con te. Ma stasera è un casino, sai...». Ecco di nuovo quella sensazione di lontananza. «Va tutto bene?». «Sì, tutto bene, certo. Solo che qui in ufficio siamo alle prese con certi clienti e questo stress sembra non finire mai». Mi presi alcuni istanti per elaborare le sue parole, volevo passare la serata con lui, ma non mi andava di fare la fidanzata appiccicosa. Decisi di lasciargli il suo spazio. «Capisco tesoro, ma cerca di non stressarti troppo, d'accordo?». «Tranquilla piccola, ti prometto che domani sera passo da te e mi faccio perdonare. Va bene?». «Va bene amore» sorrisi, anche se non poteva vedermi. Prima di


11 salutarlo gli dissi: «A proposito, Grace si sposa, ci ha invitati al suo matrimonio». David attese alcuni istanti prima di parlare. «Davvero? Wow, che notizia», ma non c'era traccia di felicità nella sua voce, solo stupore misto a indifferenza. «Già beh... lei e Paul stanno insieme da tre anni ormai…» dissi cauta, non volevo far degenerare la conversazione. David non amava parlare di matrimonio, né il nostro (ipotetico), né quello di chiunque altro. «Capisco. Beh, sono felice per loro. Ascolta, amore, devo andare. Ti chiamo domani, d'accordo?» rimasi delusa dalla sua indifferenza e dal fatto di non poterlo sentire fino all'indomani mattina. «Va bene... certo, ci sentiamo domani. Ti...». Non ebbi il tempo di finire la frase che chiuse la telefonata. Rimasi a guardare lo schermo del cellulare per alcuni istanti. Lo sfondo mostrava una nostra foto insieme, scattata in una giornata di primavera trascorsa al lago. Io ero felice, e lo ero anche adesso. Decisi di non dare troppo peso al comportamento distante di David. Era stressato per il lavoro e aveva bisogno del suo spazio per risolvere il problema. Lo capivo e allontanai qualsiasi eventuale paranoia da fidanzata gelosa e iperprotettiva. David mi amava e io amavo lui. Il resto non contava. Il giorno dopo arrivai a scuola con alcuni minuti di ritardo a causa di un guasto al treno. I bambini mi stavano aspettando in classe, con i loro libri delle favole già in mano. Avevo promesso ai piccoli che quel giorno avremmo letto le loro favole preferite. Avevo chiesto a ognuno di loro di scegliere quella che preferivano di più e, come esercizio di lettura, le avremmo lette insieme, e poi avrebbero fatto un disegno da appendere alla parete. I bambini si dimostrarono subito entusiasti e quella giornata volò in fretta. Ero sempre rapita dalla gioia e dall'entusiasmo genuino dei bambini. Per loro l'emozione più grande, la cosa più importante del mondo, fattore di vitale importanza, era la principessa che sconfiggeva la strega cattiva e sposava il principe azzurro, vivendo per sempre felice e contenta insieme a lui nel suo grande castello. Mi ritrovai più volte, nell'arco di quella giornata, a ridere di gusto per i commenti buffi dei bambini. «Signorina Alice, questo principe è stupido. Perché non capisce subito che Cenerentola è la principessa con cui ha danzato al ballo?».


12 «Beh, la vede vestita in modo diverso e quindi pensa sia una persona diversa» avevo cercato di spiegare. Ma in realtà anch'io pensavo che il principe azzurro fosse un vero idiota. «E poi perché la scarpetta di cristallo può entrare solo a lei? Le mie sorelle si scambiano scarpe in continuazione e non sono gemelle». “Perché per la Disney il 'fattore C' è essenziale, tesoro”. Tenni quel commento sarcastico per me e, a quella dolce bambina arguta che faceva tutte quelle domande, risposi semplicemente: «Per marcare maggiormente la differenza tra Cenerentola e le sorellastre cattive. Lei era buona e aggraziata e ha trovato il vero amore, mentre le sorellastre erano cattive e viziate e hanno avuto quello che si meritavano». Per fortuna non avevano letto la versione originale dei fratelli Grimm, in cui le sorellastre di Cenerentola venivano entrambe accecate il giorno delle nozze della ragazza, come punizione per tutto il male che le avevano inflitto. Purtroppo non era facile spiegare ai bambini che lo stereotipo classico delle favole vuole il buono come bello e aggraziato e il cattivo come brutto e privo di qualsiasi armonia. La triste e dura verità è che spesso la natura regala grazia e bellezza a chi è profondamente cattivo, come se l'aspetto seducente potesse in qualche modo mitigare la propria indole malvagia. Ma non mi sembrava il caso di infilarmi in una discussione così complicata con loro, per cui dissi semplicemente: «Chi ha buon cuore avrà sempre quello che merita, ragazzi. È questa la morale di molte delle favole che abbiamo letto. Se sei buono, sei in grado di amare e fai sempre le scelte giuste, sarai ripagato con la felicità. Se invece sei cattivo e fai soffrire il prossimo, sarai punito». A noi adulti piace chiamarlo karma. Quella sera tornai a casa distrutta e quasi senza voce. Avevo passato la mattinata a leggere le favole insieme ai bambini, e adesso le mie corde vocali protestavano. Era stata una giornata lunga e intensa, ma pensai con gioia che di lì a poco avrei rivisto David e la stanchezza lasciò presto il posto all'eccitazione. Feci una lunga doccia calda e lasciai che il calore dell'acqua sciogliesse la tensione dalle mie spalle. Respirai profondamente l'essenza di lavanda del mio bagnoschiuma e sentii una nuova energia fluire nel mio corpo. Indossai un vestito bordeaux con un motivo a fiori neri, piuttosto attillato, e mi truccai leggermente.


13 David bussò alla mia porta verso le sette e io lo accolsi con calore. Aveva portato una bottiglia di Chardonnay rosso. La portai in cucina e presi due bicchieri. La cena era ancora nel forno, il profumo di arrosto invadeva l'ambiente e David disse di essere affamato, perché aveva saltato il pranzo al lavoro. «Ancora pochi minuti, amore» sorrisi mentre stappavo la bottiglia e versavo il vino nei bicchieri. Durante la cena mi raccontò della sua giornata in ufficio. Un via vai continuo di clienti e prove per il nuovo software, nonché la famosa riunione. «Stavolta dovremmo esserci. Se il test va come speriamo, dovremmo avere il contratto firmato per la prossima settimana» disse entusiasta. «Sembra eccezionale» annuii mentre sorseggiavo il vino. «Sarebbe un Natale in anticipo». Non appena finì di mangiare, si rilassò sulla sedia e chiuse gli occhi un istante. Notai delle profonde occhiaie incorniciare il suo sguardo. Era stanco. Allungai la mano e presi la sua. «Sembri esausto. Forse stai lavorando troppo» sorrise senza gioia, ma rispose al tocco della mia mano stringendola a sua volta. «Stai tranquilla. Sto bene» si alzò e venne verso di me e, prendendomi le mani, mi fece alzare a mia volta. Mi abbracciò e mi baciò con passione. «Sai che non sono mai abbastanza stanco per te...» mi sussurrò all'orecchio prima di baciarmi il collo. Mentre eravamo così, provai a prendere l'argomento: «Sai, potresti venire a stare qui da me... credo che sarebbe più pratico per te... insomma saresti più vicino all'ufficio». Smise di baciarmi e mi guardò, ma non era ancora arrabbiato, così continuai: «Ecco... credo che siamo pronti per questa cosa, David...». Inarcò un sopracciglio e accennò un sorriso cinico: «Stiamo parlando di nuovo di matrimonio?». Si allontanò da me e prese i piatti sporchi. "Ecco che scappa di nuovo..." pensai sconfitta. «Non vedo cosa ci sia di strano. E poi non ho parlato di matrimonio...». «Ma è esattamente lì che volevi arrivare, vero?». "Cazzo, è arrabbiato". «Non capisco perché ogni volta che si affronta questo argomento ti arrabbi in questo modo». «Perché ne abbiamo già parlato, Alice. È troppo presto...» lo disse senza guardarmi, mentre metteva i piatti sporchi nel lavello. Una fitta di dolore si irradiò dal mio petto e il mio cuore perse un battito.


14 «È davvero così penoso il pensiero di una vita con me?». Avevo le lacrime agli occhi. Si girò a guardarmi e parve desolato. «Aspetta, non ho detto questo» fece per avvicinarsi a me, ma lo bloccai con una mano. «Troppo presto, David? È troppo presto dopo due anni di relazione? Non siamo più dei ragazzini». «Alice ti prego, non cominciare» disse scuotendo la testa. «Qual è esattamente il tuo problema?» chiesi arrabbiata. Poi un pensiero improvviso mi attraversò la mente ed ebbi paura «Forse... forse non mi ami...». «Ma come accidenti ti viene in mente una cosa simile?». Questa volta si avvicinò a me e mi prese il viso tra le mani, ma mi divincolai subito. «Se ami davvero una persona, è normale pensare a certe cose...». Non riuscivo quasi a parlare. «Alice, adesso stai esagerando. Calmati, vieni qui», ma scossi la testa e mi avviai verso le scale. «Sono stanca, vado a letto. Forse è il caso che vai anche tu». Non provò a fermarmi, andai di sopra e dopo alcuni minuti lo udii chiudere la porta d'ingresso. Mi lasciai cadere sul letto delusa e triste. Come era degenerata quella discussione? Sapevo che non era incline all'idea del matrimonio, ma stavolta gli avevo semplicemente proposto di venire a vivere con me. Non credevo possibile che non avesse mai accarezzato l'idea di andarsene da quella specie di scatola da scarpe in cui viveva per venire invece a convivere in una casa vera con la donna che amava. Improvvisamente quell'idea si insinuò in me talmente in profondità da toccare prima il cuore e poi gli occhi, che presero a lacrimare copiosamente: forse non mi amava davvero. Mentre stavo per mettermi a letto, sentii il suono di un nuovo messaggio. Era lui: Lo sai bene che ti amo... solo che è una cosa che reputo ancora troppo grande per me... dovremmo parlarne quando me la sentirò sul serio. Ti amo piccola, buona notte 23.15 Le sue parole non mi furono di alcun conforto. Gli risposi brevemente


15 con: "va bene, buonanotte" e decisi di congelare la cosa. Non volevo litigare continuamente con lui per questo motivo. Forse non era davvero pronto per quel passo. Non mi tormentai ulteriormente e di lĂŹ a poco mi addormentai. Ero certa che l'avrei sognato.


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CAPITOLO 3

Non avevo dormito granché. La discussione con David mi aveva ferita e non avevo fatto altro che girarmi e rigirarmi nel letto, tormentata dal dispiacere per le sue parole. Alla fine mi convinsi a mettere da parte i miei dubbi. Sapevo bene che mi amava e forse aveva davvero bisogno di tempo. La mattina seguente gli mandai un messaggio per chiedergli scusa e dirgli che poteva passare da me quella sera, se ne aveva voglia. Forse eravamo entrambi stressati e di certo litigare non aiutava nessuno dei due. Andai al lavoro e iniziai la mia giornata, ma non ricevetti nessuna risposta da David. Pensai che non aveva ancora guardato il cellulare, forse era uscito presto per andare al lavoro. Erano appena le undici, i bambini erano intenti a giocare e a disegnare tranquilli ai loro tavolini. Io approfittai di quel momento di quiete per andare a prendere un caffè e controllare le chiamate sul cellulare. Niente. Controllai di nuovo l'ora e stavolta iniziai a preoccuparmi. David non era mai sparito così, al mattino mi mandava sempre un messaggio e durante la pausa cercava sempre di telefonarmi quando poteva. Pensai con rammarico che forse era ancora arrabbiato con me per la discussione della sera prima, ma non eravamo dei ragazzini e non era di certo la prima volta che litigavamo per qualcosa. Scacciai dalla mente qualsiasi preoccupazione e tornai in classe dai bambini. Ma proprio quando stavo per aprire la porta dell'aula, una voce mi costrinse a girarmi: «Signorina De Ravin?». Un uomo alto, di mezz'età con i capelli brizzolati e gli occhi neri, mi mostrò il distintivo. «Tenente George Vincent, squadra omicidi. Possiamo parlare un attimo?». "Squadra omicidi? Che diavolo significa?". Lo guardai senza capire e senza sapere bene cosa dire. «Ehm... sì... ma, che succede?». «La prego, andiamo a parlare in un posto più tranquillo» si rimise in tasca il distintivo e in quel momento intravidi la pistola. Un brivido mi attraversò la schiena e distolsi lo sguardo, non avevo mai visto un'arma così da vicino. Vidi Grace dall'altro lato del corridoio e, intuendo che la conversazione con il detective sarebbe stata più lunga di un attimo,


17 pensai che sarebbe stato opportuno non lasciare i bambini da soli e le feci cenno di avvicinarsi. «Grace, ascolta, io devo parlare con questo signore. Potresti dare tu uno sguardo ai bambini per favore?» le chiesi quasi a bassa voce. «Certo, ma che succede?» mi domandò sussurrando preoccupata. Aveva capito che si trattava di un poliziotto. «Non ne ho idea...» dissi lasciandola lì e seguendo il tenente in un'aula libera. Il tenente Vincent si appoggiò alla cattedra e io mi misi davanti a lui, sedendomi per metà su un banchetto. Tirò fuori dalla tasca una fotografia che mi mostrò, e per poco non mi venne un infarto. «Conosce quest'uomo?». Dio mio, era David. «Sì... è il mio fidanzato, David Bloom. Ma che succede?». Lo guardai allarmata. Si rimise in tasca la foto e mi guardò con aria grave, poi mi chiese: «Signorina De Ravin, quando ha visto David Bloom per l'ultima volta?». "Che sta succedendo?". «Ieri sera... ma che...?». «Signorina De Ravin... Posso chiamarla Alice?» mi chiese incerto. «Sì, certo» scossi la testa. «La prego non mi dica che è successo qualcosa a David». Sentii le lacrime affacciarsi e dovetti trattenerle. «Alice... mi spiace doverla informare che abbiamo trovato il cadavere di David stamattina, nei pressi di un cantiere». Non saprei descrivere di preciso la sensazione che provai nell'udire quelle parole. Posso solo dire che non le capii subito. Rimasi a guardarlo per un tempo che mi parve lunghissimo e d'un tratto mi sembrò che la stanza si stesse squarciando, e che il pavimento sotto i miei piedi fosse diventato instabile; le mie gambe cedettero, facendomi vacillare fino al punto che il tenente dovette tirarmi nuovamente su. "Non è vero... è solo uno scherzo... ora ti dirà che si è sbagliato". «No, senta... non è così. David... David è al lavoro». Come un automa sotto shock presi il cellulare e chiamai David. «Alice...». Il tenente cercò di richiamarmi alla realtà, sostenendomi per un braccio e cercando di prendermi il cellulare. "Smettila, devo chiamarlo" pensai infastidita. «Alice, mi ascolti. Si sieda, le porto un po' d'acqua, d'accordo?» mi aiutò a sedere e sparì dalla stanza. Rispose la segreteria: "Sono David, non posso rispondere, lasciate un messaggio e sarete richiamati". Avevo un nodo in gola che non accennava a sciogliersi, ma riuscii comunque a


18 lasciargli un messaggio: «David...». Le lacrime mi travolsero. «David, un poliziotto dice che... ti prego... richiamami...». Esplosi in un pianto disperato e quando il tenente Vincent tornò da me, non riuscii neanche a guardarlo. «Alice, sono terribilmente dispiaciuto» mi disse stringendomi una mano. «So che sarà molto difficile per lei, ma le devo chiedere di seguirmi in centrale». "Ma di che parla? Perché non riesco a capirlo?". Udivo il tenente parlare, ma non riuscivo a comprendere nulla delle sue parole. Quando mi aiutò ad alzarmi, dovetti aggrapparmi a lui per non cadere. Non mi sentivo le gambe e un senso di nausea si impossessò improvvisamente di me. Lo fermai mettendogli una mano sul braccio e corsi in bagno. Vomitai più volte e il tenente venne in mio soccorso. Ma, poco dopo avermi aiutata a tirarmi su e a sciacquarmi il viso, persi i sensi. Quando ripresi conoscenza, una donna mi puntava una lampadina negli occhi, per controllare i miei riflessi. «Signorina De Ravin, mi sente?». "Sì...". «Sono la dottoressa Madlein Rose, psichiatra della squadra omicidi. Come si sente adesso?». "Non sento niente...". «Bene...» dissi flebilmente. Mi portarono un po' d'acqua e la dottoressa controllò il mio battito e la mia respirazione. Il tenente Vincent si sedette accanto a me e mi strinse la mano. «Andrà tutto bene Alice, glielo prometto». La sua voce e la sua espressione erano rassicuranti, ma io mi sentivo devastata e vuota. “Di che stanno parlando? Che diavolo è successo? Dov'è David?”. Guardandomi intorno, capii di non essere più a scuola, ricordai di aver ripreso conoscenza e di averla persa di nuovo poco prima di scendere dalla macchina del tenente. Dovevano avermi trascinata lì dentro come una bambola di pezza priva di vita. Eravamo in una stanza spoglia e grigia, con un grande tavolo al centro e alcune sedie appoggiate senza troppa cura attorno a esso. C'erano tanti specchi e vidi un paio di telecamere agli angoli del soffitto. Doveva


19 essere una sala interrogatori. «Signorina De Ravin, il tenente Vincent dovrebbe farle alcune domande riguardo David Bloom» la dottoressa Madlein parlava con calma, come se si stesse rivolgendo a una bambina. Non riuscii a rispondere, annuii semplicemente. «Bene, cominciamo da qui, Alice». Prese un blocco per appunti e lesse alcune cose prima di rivolgersi a me: «Ha detto di aver visto David ieri sera per l'ultima volta. Le ha per caso parlato di qualche problema che lo impensieriva?». Ricordai la cena della sera prima, il suo viso, i suoi occhi, le sua labbra e le sue mani... dovetti fare forza su me stessa per non piangere e ripiombare nell'oblio di poco prima. Cercai di ricordare la conversazione durante la cena. "Natale in anticipo", no. Niente lo preoccupava, andava tutto alla grande al lavoro. «Lui... stava lavorando a un nuovo progetto. Lavora... lavorava per un'azienda informatica». Il tenente annuì e mi lasciò continuare. «Avevano sviluppato un nuovo software per certi clienti. Quel progetto lo stava assorbendo più del solito, ma le cose andavano bene. Ieri sera si era detto entusiasta delle ultime prove...». Senza potermi controllare, presi a piangere. La dottoressa Madlein mi porse un bicchiere d'acqua e una scatola di kleenex. «D'accordo Alice». Lesse ancora qualcosa sul blocco e poi mi guardò con aria grave: «C'erano problemi tra voi?» mi chiese. Io lo guardai e fui subito tentata di dire "no, certo che no", ma poi ripensai alla discussione di ieri sera. E se avessero letto il messaggio che mi aveva inviato? «Io... noi... abbiamo avuto una piccola discussione ieri sera, ma in generale le cose andavano bene tra di noi». Il tenente Vincent e la dottoressa Madlein si scambiarono un'occhiata d'intesa. «Sì, abbiamo letto il messaggio che le ha inviato ieri sera tardi. E abbiamo trovato anche quello che lei le ha inviato stamattina». "Quindi hanno trovato il suo cellulare? Dove, quando? Che diavolo è successo?". «Mi può spiegare il motivo della vostra lite?». Mi asciugai gli occhi e gettai il fazzoletto sporco in un cestino accanto a me.


20 «Mi spiace ma è personale. Non vedo come questo...». «Alice, mi ascolti. Qui nessuno sospetta di lei, ci serve solo per capire come sono andate esattamente le cose». "Non sospettano di me perché è ridicolo o perché hanno già trovato il colpevole?". «Voglio vedere David» dissi risoluta a un tratto. «Questo non è possibile, Alice...». «La prego... voglio vedere David» mi agitai e la dottoressa mi mise una mano sulla spalla cercando di calmarmi. «Cerchi di stare tranquilla, Alice» disse con la sua voce da ragazzina delle medie. Mi divincolai dal tocco della donna e presi ad alzarmi. «No, voglio sapere cos'è successo. Voglio vedere David!». Alzai la voce e il tenente Vincent mi prese per le spalle cercando di calmarmi. «Alice, la prego. Le spiegheremo tutto. Ma ora deve calmarsi». "Calmarmi? Di che cazzo stai parlando... levami le mani di dosso". Facendo un po' di forza, mi rimise a sedere e continuò con le domande: «La prego. Mi dica di cosa avete discusso ieri sera». Ricominciai a piangere e presi un altro fazzolettino dalla scatola di fronte a me. «Gli avevo chiesto di venire a vivere con me...». Il tenente Vincent annuì, non mi ero accorta che mi teneva per mano. «Gli dissi che poteva essere più pratico per lui, per il lavoro... e così potevamo stare sempre insieme». «Lui non era d'accordo?» mi chiese piano. Ripensai alla faccia di David. No, non era d'accordo. Scossi la testa senza rispondere. «È per questo che avete litigato? Lui non voleva venire a vivere con lei?». Annuii. «Da quanto tempo stavate insieme?». «Da circa due anni. Ci siamo conosciuti a una mostra di quadri contemporanei di una mia amica dell'università...». Gettai un altro fazzoletto nel cestino e stavolta parlai con calma: «Adesso mi dica lei, tenente. Che diavolo è successo?». Il tenente scambiò un'occhiata con la dottoressa e, dopo alcuni istanti, mi spiegò: «A pochi chilometri da qui c'è un centro commerciale in costruzione. Il cantiere è ancora aperto. Il capo degli operai stamattina ha chiamato la polizia dopo aver trovato il corpo di un uomo immerso per metà in una pozza di cemento ancora fresco».


21 "Dio...". Vincent abbassò lo sguardo un istante, poi proseguì: «Alice... il corpo non è identificabile...» mi spiegò con cautela. "Che accidenti significa? Come fate a essere sicuri che si tratta di lui?". Un briciolo di speranza mi attraversò il cuore. «Che vuol dire?» chiesi con orrore. Il tenente ci pensò su, cercando il modo giusto per dirmelo. «Gli hanno sparato un colpo in testa a bruciapelo... e parte della testa è...» si interruppe chinando la testa sulle mani giunte. "Mio Dio...". «Ma...». Deglutii a fatica e cercai di continuare: «se non è possibile identificare il cadavere, come potete avere la certezza che si tratta di lui?». Attese alcuni secondi prima di proseguire: «Aveva addosso i documenti e il cellulare, e le impronte di quello che è rimasto dei denti... confermeranno la sua identità». "No... non è vero... non è David". Scossi la testa incapace di accettare quelle parole. Era tutto assurdo e privo di senso. «David non aveva nemici. Nessuno può avergli fatto questo. E se vi steste sbagliando?». Vidi la compassione negli occhi del tenente. «David non aveva contanti con sé. Sospettiamo che possa trattarsi di una rapina finita nel peggiore dei modi. Le prometto che faremo tutto il possibile per arrestare il colpevole, Alice». "No... non servirà a niente... ormai niente può servire a qualcosa...". Si alzò e mi strinse un braccio. «Un agente la riaccompagnerà a casa. Le metteremo a disposizione la nostra squadra di supporto psicologico se dovesse sentirne la necessità». Aprii la porta d'ingresso, scortata da un agente e dalla dottoressa Madlein. Lei entrò con me e, dopo essersi guardata intorno per alcuni istanti, mi disse: «Signorina De Ravin, posso fare qualcosa per lei?». "Sì... puoi riportare indietro il tempo e cancellare questo orribile giorno dalla mia vita". «No... va tutto bene, la ringrazio...». Mi guardò preoccupata e prese un ricettario dalla sua borsa. «Le prescrivo dei farmaci, ansiolitici e tranquillanti. Serviranno a calmarla un po'».


22 Scrisse in fretta qualcosa e lasciò il foglio sul tavolo accanto al divano. Guardai distrattamente la ricetta, senza vederla davvero e trascinai stancamente i piedi fino alla poltrona, lasciandomi cadere come se avessi affrontato una giornata di trekking in alta montagna. «Le lascio il mio numero, e la prego di contattarmi per qualsiasi cosa di cui avesse bisogno» posò il suo bigliettino sul tavolo accanto alla ricetta, e dopo avermi guardata per un'ultima volta, uscì da casa mia insieme all'agente. Un senso di vuoto e di gelo si impadronì di me quasi subito. Mi guardai attorno. Ero sola.


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CAPITOLO 4

Nei giorni seguenti alzarmi dal letto divenne quasi impossibile. Passavo le giornate sotto le coperte, avevo smesso di mangiare e di rispondere al telefono. Avevo avvisato la scuola che necessitavo di un periodo di pausa e sfruttai le due settimane di ferie arretrate che avevo accumulato. In quei giorni ricevetti parecchie telefonate. Amici, parenti, mia sorella che non sentivo da tempo. Tutte condoglianze e offerte di aiuto. «Posso venire da te se vuoi, hai bisogno di qualcosa? Non esitare a chiedere». Ma tutte le chiamate erano finite in segreteria. Non avevo ne risposto, ne richiamato nessuno. Volevo stare sola col mio dolore. Novembre si stava inoltrando sempre di più. E il grigio del cielo si intonava perfettamente al nero che era subentrato nella mia vita. A volte guardavo fuori dalla finestra, ma non vedevo nulla. Le gocce di pioggia sui vetri si confondevano con le lacrime che offuscavano la mia vista. Non avevo più cucinato, pulito, lavato la biancheria o me stessa. La casa appariva trascurata come me. Ma non mi importava. Erano trascorsi appena cinque giorni da quando il tenente Vincent mi aveva comunicato la morte di David. Ancora stentavo a rendermi conto della situazione. Non mi avevano permesso di vederlo. «Il corpo non è identificabile». Avevano trovato il suo cellulare e i documenti, ma le impronte dei denti avrebbero confermato la sua identità. Che importanza aveva adesso? Chi aveva fatto questo a David? Come avevano potuto ucciderlo? Come si erano permessi di intromettersi nella nostra vita, nella mia vita perfetta e sconvolgerla così? Non ero andata a comprare i farmaci prescritti dalla dottoressa Madlein, non uscivo più di casa da cinque giorni. Forse con quelli avrei evitato di bagnare il cuscino di lacrime. Ma non mi importava. Nulla aveva più importanza ormai.


24 Un giorno, verso le tre del pomeriggio, udii bussare alla porta. "Sarà qualcuno che viene a vedere ancora come sto", ma non avevo intenzione di alzarmi e andare ad aprire. Il campanello prese a suonare diverse volte e, spazientita, decisi di alzarmi. Avevo la testa pesante e barcollai quando uscii dal letto. Ero in pigiama, avevo i capelli sporchi e due occhiaie scure risaltavano sul mio viso pallido e smunto. Misi la vestaglia e scesi di sotto. Fuori dalla porta vidi una donna, che riconobbi come mia sorella Jane. Aveva chiamato diverse volte in quei giorni, ma non avevo avuto né la forza, né la voglia di richiamarla. Soffermandomi per alcuni istanti sulle scale, aspettai un tempo che parve infinito. Speravo che non sentendomi arrivare, se ne sarebbe andata. «Alice, apri per favore. Ho visto la macchina nel vialetto, so che ci sei». "Cazzo". Mi feci coraggio e andai ad aprire. Non appena mi vide, si mise un istante una mano sulle labbra e mi abbracciò prontamente. «Oddio, Alice. Ma che è successo? Ho provato a chiamarti non so quante volte». Mi guardò con attenzione, ma io abbassai lo sguardo iniziando a piangere. Mi abbracciò di nuovo scuotendo la testa e facendosi strada dentro casa. Si guardò intorno con disapprovazione da sorella maggiore, c'era polvere ovunque e la frutta sul vassoio in cucina aveva iniziato a marcire. Poi Jane si concentrò su di me: «Dio, Alice... perché non mi hai chiamata? È evidente che hai bisogno di aiuto adesso, non puoi restare da sola, tesoro». «Sto bene, Jane...» risposi in un sussurro. Stentavo a riconoscere la mia voce. «No che non stai bene» si avvicinò e mi accarezzò il viso. Ma il suo tocco e le sue attenzioni mi fecero piangere nuovamente. Ero a pezzi, e non riuscivo a stare in compagnia di nessuno, per quanto apprezzassi il pensiero. «Dio, vieni qui...» mi strinse in un abbraccio e mi fece sedere accanto a lei sul divano. Poi mi prese le mani e iniziò a strofinarle sentendo che erano ghiacciate. «Da quanto tempo non mangi?» mi chiese guardandosi intorno. Feci spallucce. Non mi importava di mangiare, e comunque non avevo fame. «Hai parlato con la polizia? Hai avuto notizie?». Scossi la testa, la dottoressa Madlein mi aveva lasciato alcuni messaggi


25 in segreteria, chiedendomi se stessi bene e avessi bisogno di qualcosa. Mi disse anche che il tenente stava indagando sulla morte di David e avevano una buona pista. Lo dissi a Jane e la vidi annuire. «Va bene. Ascolta Alice, Simon io e la mamma volevamo sapere quando possiamo organizzare una veglia per David. Non so se sarà possibile fare un funerale ufficiale ma...». Scossi la testa. Non ne volevo neanche sentir parlare. Un funerale, una veglia, significava ufficializzare la sua morte. E lui era ancora insieme a me. Come poteva essere morto se era dentro il mio cuore e la mia testa in ogni istante delle mie giornate? «Non mi sembra il caso di parlarne per ora, Jane. Le indagini sono ancora in corso e io non...» mi asciugai le lacrime con le mani. «Certo tesoro, va bene. Faremo come vuoi» mi accarezzò un braccio. Poi si alzò e disse convinta: «Adesso alzati, vieni con me. Ti preparo un bel bagno caldo. Ti lavo i capelli e poi ti preparo la cena. Nel frattempo darò anche una pulita in giro». «Jane, non sei tenuta a...». «Non voglio sentire discussioni. Devi cominciare a reagire, Alice». Mi prese le mani e mi aiutò ad alzarmi. Poi lo sguardo le cadde sulla ricetta che aveva lasciato sul tavolino del soggiorno la dottoressa Madlein. La prese e la lesse per alcuni istanti. Mi guardò con tristezza: «Non avrei dovuto lasciarti da sola in un momento così». Era desolata, ma la rassicurai: «Non è colpa tua, Jane. Sono io che voglio stare sola». «So che non sono venuta a trovarti molto spesso ultimamente, io e Simon ci siamo trasferiti così lontano...» disse scusandosi, il tono della sua voce tradiva un forte senso di colpa. La fermai. «Jane è la tua vita. La vostra vita... io sto bene qui», ma non era vero. Io non stavo più bene. «Appena mamma mi ha detto cos'era successo ho provato a telefonarti tantissime volte. Stamattina mi sono decisa e mi sono messa in macchina. Posso restare qualche giorno se vuoi, Simon è d'accordo, anche lui era preoccupato, sai?». Scossi la testa. Avevo telefonato a mia madre subito dopo essere tornata a casa, e avevo mandato un messaggio alla preside della scuola, Marta. Adesso me ne pentivo, non mi avrebbero mai lasciata in pace dopo quella notizia.


26 «Non è necessario, io sto bene... starò bene... ho solo bisogno di tempo». «Va bene». Non era ancora convinta, ma annuì e andammo di sopra. Mentre aspettavo che la vasca si riempisse di acqua calda, sentii Jane in camera da letto levare le lenzuola e raccogliere tutti i fazzolettini sporchi dal pavimento, dal materasso e dal comodino. Mise la biancheria sporca in lavatrice e avviò il lavaggio. Avevo diversa roba da lavare arretrata, compreso quello che avevo indossato fino a pochi istanti prima. Mentre mi immergevo nella vasca, una sensazione di caldo benessere mi invase, e per un momento mi sentii in colpa nel provare quel senso di sollievo momentaneo. Presi a lavarmi i capelli, che erano ridotti in uno stato pietoso, e intanto udii Jane passare l'aspirapolvere per casa. Rimasi nella vasca per quasi mezz'ora, mi lavai i capelli due volte e poi presi a sciacquarmi. Quando andai in camera da letto per vestirmi, vidi che le lenzuola erano pulite e Jane aveva riordinato ovunque. Mi asciugai i capelli. Ciocche di ricci neri ricadevano sulle mie spalle e sulla mia fronte pallida. Scesi di sotto e vidi che aveva sistemato tutto anche lì. Aveva gettato la frutta marcia che era sul piano di lavoro in cucina e adesso la vedevo scrivere alcune cose su un foglio preso da un bloc-notes. «Oh, sei qui, bene» disse dandomi uno sguardo veloce e tornando a scrivere. Erano le cinque, e fuori era già buio. In lontananza si udivano dei tuoni. «Allora, io adesso esco un attimo. Vado a fare un po' di spesa e dopo passo in farmacia a prendere i medicinali che ti ha prescritto la dottoressa Madlein» disse leggendo il nome sulla ricetta. «Jane, non è necessario che ti incomodi così tanto per me. Hai già fatto abbastanza, davvero». «Non ci penso nemmeno a lasciarti sola con niente da mangiare. Ho capito che non mangi da giorni» mi squadrò dalla testa ai piedi con aria preoccupata. In effetti avevo perso diversi chili, ma non mi importava. «Ho avviato la lavatrice e pulito la casa. Vorrei che ascoltassi le chiamate in segreteria e cercassi di far sapere alle persone che ci tengono a te, che sei ancora viva. D'accordo?». Sembrava la mamma. Non che mi stessi lamentando del suo aiuto, ma, davvero, volevo stare da sola. «Va bene...» annuii sconfitta. Jane uscì, ma le diedi la mia carta di credito per comprare quello che serviva. Non volevo che pagasse lei. Mi lasciai cadere sul divano e presi il cellulare. Non lo guardavo da giorni.


27 La foto sullo sfondo mostrava me e David. "Dio come fa male", il solo guardare la sua foto mi fece piangere di nuovo. Decisi allora di cambiarla per impedire ogni volta quella reazione. Impostai come sfondo uno di quelli predefiniti del cellulare, poi iniziai ad ascoltare i messaggi in segreteria. Ce n'erano molti, circa una ventina. Alcuni erano di Grace, si diceva dispiaciuta e sconvolta della notizia di David, e mi disse che sarebbe passata presto a trovarmi insieme a Paul, non appena le avessi detto che potevano venire. Altri erano di alcuni vicini di casa, volevano riunirsi per venirmi a portare le condoglianze, ma non capendo se in casa ci fosse qualcuno, avrebbero aspettato di vedermi uscire almeno una volta in giardino, per sincerare la mia presenza in casa. Diversi messaggi erano di Jane e di mia madre, alcuni preoccupati per le mancate risposte da parte mia. Nell'ultimo messaggio, Jane diceva: «D'accordo adesso basta Alice, sto partendo adesso, vengo a trovarti». Dovevo aspettarmelo da mia sorella, era sempre molto protettiva con me. Un paio di messaggi risalivano a quella mattina, ed erano del tenente Vincent. «Alice, volevo informarla che siamo sulla strada giusta e proprio adesso stiamo andando a verificare una pista che potrebbe rivelarsi risolutiva per il caso. La prego di telefonarmi per farmi sapere se sta bene, presto verrò a trovarla». Avrei dovuto sentirmi meglio nel sapere che stavano arrestando l'assassino di David. Ma non era così. Niente me l'avrebbe riportato. E questo era quanto. Jane tornò a casa verso le sei e mezza, carica di buste, la aiutai. «Ho preso le medicine» disse porgendomi il sacchetto della farmacia, che presi con noncuranza e appoggiai sul tavolo della cucina. «Inoltre fuori ho parlato con alcuni dei tuoi vicini. Sono tutti preoccupati per te Alice, ma ho detto loro che stai bene e domani mattina verranno a portarti qualcosa da mangiare, in segno di cortesia». "Splendido, ci mancavano solo i vicini". «Ascolta Jane non ho intenzione di vedere nessuno per adesso...». «Oh, stai tranquilla, andrò io ad aprire la porta. Non sei tenuta a parlare con nessuno se non vuoi». "Quindi rimarrai sul serio...". «Ho ascoltato i messaggi, non me la sento di rispondere a tutti, puoi chiamare tu la mamma e dirle che sto bene?». «Sì, stai tranquilla, l'ho chiamata mentre ero in macchina. L'ho rassicurata». Pensai che forse sarebbe stato il caso di richiamare il tenente Vincent,


28 per cercare di capire di che novità si trattava. A Grace e a tutti i colleghi del lavoro avrei inviato un sms dicendo che stavo bene, ma avevo bisogno di stare da sola. Mentre Jane posava la spesa e iniziava a preparare la cena, presi il cellulare e composi un sms, inviandolo subito dopo a tutti i colleghi di lavoro. Poi decisi di chiamare Vincent, ma proprio mentre stavo per premere il pulsante di chiamata, suonarono il campanello. Guardai verso la porta d'ingresso con paura, non volevo vedere nessuno, e subito lanciai un'occhiata a Jane che capì. «Ci penso io» disse andando ad aprire. Io ero già corsa su per le scale. Quando aprì la porta, udii la familiare voce del tenente Vincent che diceva: «Buonasera, sono il tenente Vincent, squadra omicidi, lei è la dottoressa Madlein, psichiatra della nostra unità. La signorina De Ravin è in casa?». Jane rimase in silenzio solo alcuni secondi, poi si fece da parte e accolse il tenente e la dottoressa in casa. «Sì, certo. La vado a chiamare subito. Sono Jane De Ravin, la sorella maggiore di Alice». Strinse la mano a entrambi e prima che Jane venisse di sopra a chiamarmi, decisi di scendere. «Signorina De Ravin» disse il tenente non appena mi vide «vengo a portarle buone notizie».


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CAPITOLO 5

Ci accomodammo in salotto, il tenente Vincent mi guardava cercando di sorridere, mia sorella mi teneva le mani, dandomi conforto. «Abbiamo arrestato l'assassino di David». Udire nuovamente il suo nome, fu come ricevere una freccia in pieno petto. Mia sorella mostrò subito interesse: «Ma è splendido» disse stringendomi le mani. Il tenente continuò. «Si chiama Callum Grey. Un delinquente di piccolo calibro. Si guadagna da vivere rubando. Aveva avvistato il suo fidanzato aggirarsi nei pressi della zona in cui agisce di solito. Gli è sembrato ricco e l'ha minacciato con una pistola. David ha provato a reagire e la situazione è degenerata. È partito un colpo...». Il tenente si interruppe un momento, per consentirmi di assimilare bene le sue parole. Niente di quello che mi stava dicendo aveva senso. Che diavolo ci faceva David lì a quell'ora di notte? Era uscito da casa mia intorno alle dieci e mezza quella sera, perché era andato li? «Signorina De Ravin...» cercò di dirmi altro, ma lo fermai prima che potesse continuare: «Perché si trovava lì?» chiesi di getto. «Come?». «David... perché si trovava lì? Il posto dove l'avete trovato... quel cantiere» chiesi, agitando una mano. «Perché si trovava lì a quell'ora di notte?». Il tenente Vincent guardò la dottoressa prima di rivolgersi nuovamente a me. Abbassò lo sguardo e poi proseguì con calma: «Signorina De Ravin, quando abbiamo perquisito David, abbiamo trovato i suoi documenti, il suo cellulare e...». "E...? cosa?". «David non aveva contanti con sé. Callum Grey gli aveva svuotato il portafogli per bene. Ma non aveva guardato nella tasca interna della sua giacca...». «Di che sta parlando?» chiesi senza capire. Vincent tirò fuori dalla giacca


30 una piccola scatola blu di una gioielleria. «David si trovava lì perché aveva comprato questo, in uno dei negozi vicino al cantiere...». Mi porse la scatolina che presi con mani tremanti. Non volevo aprirlo, ma non ebbi altra scelta. Dentro c'era un anello di fidanzamento. "No...". Iniziai a tremare e il mio cuore prese a battere energicamente. Credetti che tutti i presenti in quella stanza avrebbero potuto sentirlo. «David voleva chiederle di sposarlo... Non me la sono sentita di darle l'anello quando l'ho convocata in centrale quel giorno. Ho voluto darle alcuni giorni per digerire a poco a poco la notizia». "La colpa è mia...". Mi sentii male. Corsi nel bagno di servizio e mi ritrovai a vomitare. Mia sorella venne a tenermi i capelli e a tamponarmi il viso con un asciugamano bagnato. La sentii dire al tenente che adesso era meglio lasciarmi sola. Non potevo credere a quello che aveva detto Vincent. David si trovava lì perché io gli avevo fatto pressione, perché volevo a tutti i costi sposarmi. Era stato ucciso perché si trovava nel posto sbagliato a causa mia. Era morto per colpa mia. Vedendomi tremare così forte, la dottoressa Madlein chiese a mia sorella se stessi prendendo i farmaci prescritti da lei alcuni giorni prima. Jane allora andò a prendere la busta della farmacia e mi porse le pillole indicate dalla dottoressa, insieme a un bicchiere d'acqua. Non volevo prenderle, ma dopo tante pressioni mi convinsi a mandare giù due pasticche. Mi fecero sdraiare sul divano e Jane mi mise una coperta addosso. Tremavo ancora, ma dopo alcuni minuti iniziai a sentire gli effetti dei farmaci. Una strana calma si stava impossessando di me. Dopo qualche minuto, la dottoressa mi controllò il polso e la respirazione. Disse che era tutto regolare e quindi mi lasciò alle cure di mia sorella. Prima di andarsene le dissero che se lo desideravamo avremmo potuto organizzare il funerale a David. Avrei dovuto scoppiare a piangere nel sentire quella frase, ma i medicinali facevano effetto, e il dolore era sotto controllo. «Per qualunque cosa, mi chiami pure». La dottoressa lasciò a Jane lo stesso bigliettino che aveva lasciato a me alcuni giorni prima. «La ringrazio dottoressa». Strinse le mani a entrambi e chiuse la porta, poi venne verso di me e si


31 sedette ai miei piedi sul divano. Mi sistemò meglio la coperta e mi accarezzò il viso. Ero calda, pensò che potessi avere la febbre. Ma mi sentivo "bene". Mi guardò con aria grave e poi disse: «Sono preoccupata per te, Alice. Credo che dovresti vedere un terapista». «Sto bene, Jane...». Sentivo il dolore attenuarsi con i medicinali, pensai che avrei potuto venirne fuori se avessi preso qualche pasticca regolarmente. Guardò l'anello ancora nella scatola sul tavolino davanti a noi, ma non lo prese. Si alzò asciugandosi le lacrime e tornò in cucina a preparare la cena. Mi misi a sedere e presi la scatola. Guardai di nuovo l'anello. Era bellissimo. David conosceva i miei gusti e sapeva come sorprendermi. Immaginai la scena, come sarebbe dovuta andare, come sarebbe potuta essere. Lui che mi guardava con i suoi occhi color miele, mi sorrideva con fare lascivo e con quell'aria da furbetto che aveva per natura. Mi prendeva la mano sinistra e giocava con le mie dita, mentre mi guardava dritto negli occhi. Poi mi infilava l'anello, senza dirmi niente e osservava con attenzione la mia espressione di stupore e gioia che toglieva il fiato. "Sì... Con tutto il mio cuore, si... voglio diventare tua moglie...". Presi la scatola e mi infilai l'anello al dito. "Sarò sempre tua David... per sempre la tua sposa...". La mattina seguente verso le dieci e mezza, undici, Jane ricevette le visite dei miei vicini, che venivano a portare dolci e pasticci di patate, fiori e biglietti di condoglianze. Io non scesi. Rimasi a letto tutta la mattina, ascoltando le frasi di circostanza delle persone del mio isolato e i ringraziamenti di mia sorella. Assicurò a tutti che adesso andava un po' meglio e presto mi sarei ripresa del tutto. Li invitò alla cerimonia che si sarebbe tenuta l'indomani, in forma privata, a casa mia. Terminate le visite, Jane diede una pulita alla cucina e sistemò il cibo che avevano portato. Pensai distrattamente e frivolamente che non sarebbe stato necessario cucinare per l'indomani. Quando scesi di sotto, mi chiese subito: «Come ti senti?». L'effetto delle medicine della sera prima era svanito, e pensai di prendere altre due pasticche per evitare di stare troppo male e aggirarmi per la casa come un fantasma. «Sto bene...» risposi senza guardarla e andai a prendere un bicchiere


32 d'acqua. «Alice, ho parlato con mamma. Verrà domani mattina insieme a Simon. Passerà a prenderla e poi verranno qui. La casa è pulita e non dobbiamo preparare da mangiare. I tuoi vicini ti hanno riempita di roba...» disse scuotendo la testa pensierosa. Poi mi diede un'occhiata e con un cenno guardò il giardino, attraverso la finestra. «Per il giardino invece... temo non si possa sistemare tutto in una sera...». La guardai senza capire: «Di che parli? Che c'entra il giardino?». Andò alla finestra e l'aprì. L'aria fredda mi investì e mi avvicinai a Jane, che adesso era affacciata. L'erba alta e trascurata mi gettò nello sconforto. Non l'avevo più curato dopo quello che era successo. Foglie secche e marroni erano disseminate ovunque, coperte di fango e pioggia dei giorni scorsi. Un paio di giorni prima aveva anche grandinato, e, grazie al freddo rigido di quei giorni, alcune piccole sfere di ghiaccio persistevano sotto i cespugli provati dal maltempo. Ma fu qualcos'altro che mi fece piombare nello sconforto. «Ricordo bene le tue rose... Un vero peccato...» disse Jane con malinconia, passandomi una mano sulla schiena per confortarmi. Il mio roseto. Il mio bellissimo roseto, che un tempo guardavo orgogliosa e che riempiva le mie giornate di profumo dolce e delicato di rose scarlatte, adesso era diventato nero. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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