Il rumore del tempo che passa

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ANTONIO DE GIOVANNI PATRIZIA FABBRI

IL RUMORE DEL TEMPO CHE PASSA

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IL RUMORE DEL TEMPO CHE PASSA

Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-724-7 Copertina: Foto di Elena De Giovanni

Prima edizione Maggio 2014 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Solo quando è buio riusciamo a vedere le stelle Martin Luther King



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Capitolo I

Da quando Asia mi aveva lasciato non sapevo se suicidarmi o partire per Cuba. Erano trascorsi ormai due anni e, con il tempo, l'interrogativo si era fatto via via più pressante. Entrambe le opzioni mi apparivano attraenti anche se mutuamente esclusive. In realtà ci sarebbe stata anche una terza possibilità, andare a Cuba per poi suicidarmi, ma era un’alternativa che in quel momento non avevo ancora preso in considerazione. Ero appena uscito dall’agenzia di viaggi, dove mi erano stati consegnati una serie di dépliant su Cuba e li avevo riposti nello zainetto, accanto a quelli che mi erano stati proposti da alcune onoranze funebri. Non avendo nulla da fare mi incamminai pigramente lungo il viale che costeggiava il lago e mi sedetti su una delle poche panchine al sole a sfogliare le due proposte. A una prima e superficiale occhiata sembrava che non ci fosse molta differenza, il prezzo era più o meno lo stesso, entrambi erano all inclusive, tutti garantivano la stessa pace... l'unica differenza erano le foto dei luoghi in cui sarei stato e soprattutto il tempo che ci avrei trascorso. Stabilii di darmi una settimana di tempo per decidere, scegliere tra il suicidio e una lunga permanenza ai Caraibi non era una scelta che si poteva fare a cuor leggero. Dopo aver riposto nuovamente tutto il materiale illustrativo nello zainetto, mi alzai e ripresi a passeggiare lungo il viale. Nonostante fosse un sabato mattina e la cittadina fosse illuminata da un tiepido sole, il lungo lago si presentava desolatamente deserto. Era evidente come, con l'arrivo delle prime giornate fredde, la gente cominciasse a preferire il calore intimista della propria casa alle passeggiate lungo il corso. E poi era novembre. Non sapevo perché, ma lo avevo sempre considerato il mese più triste dell'anno, il più timido, per certi versi il più aleatorio. Non si vedevano più gli splendidi colori


6 che ti poteva regalare un assolato ottobre e non si viveva ancora l'eccitazione festaiola di un frenetico dicembre. Era un mese sospeso. Una specie di purgatorio emotivo. Da un certo punto di vista, il mese ideale per chi doveva decidere un eventuale suicidio. Mi fermai ad accendere una sigaretta e, come sempre mi accadeva negli ultimi tempi, ne approfittai per dare una fugace occhiata agli annunci funebri affissi sul cartellone. Da quando, due anni prima, avevo compiuto cinquanta anni, quello di guardare gli annunci funebri era diventato più o meno un rito quotidiano. Avevo cominciato quasi in modo inconsapevole. Controllavo i nomi dei deceduti ma soprattutto le loro età al momento del decesso. Benché fossi indeciso se suicidarmi o meno, non potevo nascondere a me stesso di provare un sottile piacere nell'essere ancora vivo. Ciò che in realtà mi spingeva a controllare i necrologi non era la paura della morte ma, più che altro, curiosità; curiosità di vedere chi nel frattempo non ce l'aveva fatta e fino a che età aveva combattuto prima di arrendersi. L'eventualità di morire era una circostanza che non mi aveva mai preoccupato, ancor meno negli ultimi due anni, la cosa che più di ogni altra mi stava devastando era il timore di invecchiare. Rendermi conto che, mentre la mente continuava ad avere le stesse emozioni e gli stessi desideri di sempre, il corpo cominciava a non rispondere in modo adeguato. Nonostante fossi medico, anzi forse proprio per questo, avevo sempre pensato che la vita andasse vissuta pienamente, senza rinunciare a nessun tipo di esperienza, neanche a quelle poco salutari. Non ero mai stato uno di quelli che avrebbero fatto di tutto pur di morire in perfetta salute. Non avevo mai desiderato essere immortale, l'immortalità, come tutte le cose destinate a durare in eterno, mi avrebbe sicuramente annoiato. Mi sarebbe piaciuto però poter fermare il tempo a mio piacimento. Non sapevo se gli uomini e le donne della mia età provassero la stessa fastidiosa sensazione rispetto alla paura di invecchiare ma saperlo non mi avrebbe sollevato. Dicono che per vivere la vita con pienezza e accettare con serenità la vecchiaia occorrano senso di appartenenza e realizzazione di sé. Due cose che io in quel momento non possedevo. Ero figlio unico, i miei genitori erano deceduti anni prima a distanza di sei mesi l'uno dall'altro, non avevo figli ed ero stato lasciato dalla donna con cui avevo sperato di passare il resto dei miei giorni. Non appartenevo a nessuno e nessuno mi apparteneva e il lavoro non mi


7 dava più gli stimoli e l'entusiasmo del passato. Non potevo ignorare che il tempo, il mio tempo, stesse volando mentre avrei voluto che si fermasse. Ogni mattina lo specchio mi confermava quanto e come il mio fisico si stesse velocemente, se non proprio deteriorando, almeno trasformando. Sul mio viso cominciavano a comparire le macchie dell'invecchiamento, cominciavo a perdere peli in zone in cui non avrei dovuto e a vederne comparire in altre in cui non avrei voluto. Per non parlare dei dolori articolari dovuti all'artrosi. Anche il più semplice movimento cominciava a provocarmi fitte dolorose e preoccupanti. Il tempo passava e io sentivo l'assordante rumore dei suoi passi. Non era stato sempre così. Fino a quarant’anni ero riuscito a vivere la mia realtà quotidiana senza pormi grandi domande, quelle che molti miei coetanei si facevano e alle quali non sapevano mai dare una risposta. Avevo sempre considerato la vita come un fine e non come un mezzo. L'avevo sempre vissuta cercando di goderne ogni attimo, conscio del fatto che comunque ci sarebbe stato un futuro ancora più piacevole. Ma adesso le cose stavano cambiando, il presente cominciava a pormi certi interrogativi e il futuro cominciava a terrorizzarmi. Iniziavo a comprendere, seppur non a giustificare, i miei coetanei che uscivano con donne e uomini molto più giovani di loro. Non era, come avevo sempre pensato, il risultato di un patetico desiderio di sentirsi ancora appetibili e desiderati, era il patetico desiderio di non invecchiare. Come aveva detto giustamente Groucho Marx... un uomo ha l'età della donna che ha per le mani. In amore, all'inizio, avevo cercato di seguire il teorema di Marco Ferradini: prendi una donna, trattala male, lascia che ti aspetti per ore, non farti vivo e quando la chiami fallo come fosse un favore. Dosa bene amore e crudeltà, cerca di essere un tenero amante ma fuori dal letto nessuna pietà. E allora sì vedrai che ti amerà, chi è meno amato più amore ti da, chi meno ama è più forte si sa... Mi ero reso subito conto però che era un teorema di difficile applicazione, almeno per uno come me. Solo chi ha avuto la fortuna di essere veramente bello può permettersi il lusso di essere egoista, egocentrico e narcisista, in pratica uno stronzo. Io questa fortuna non l'avevo avuta. Anche se la bellezza è qualcosa di soggettivo e non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace, esistono comunque dei canoni più o meno universali che vanno rispettati e io non li rispettavo


8 completamente. Per esempio l'altezza. Avevo sempre odiato quel detto popolare che diceva “altezza mezza bellezza”. Ne avevo sempre preferito un altro, che reputavo molto più saggio e veritiero: “il vino buono sta nella botte piccola”. A seconda del contesto e dello stato d'animo, con il mio metro e sessantacinque, mi definivo un falso basso o un diversamente alto o il nano più alto del mondo. Mi ero sempre voluto considerare un delizioso vino pregiato in una piccola ma robusta botte di rovere. E poi, come a volte capita, madre natura aveva cercato di farsi perdonare gli errori compensando la scarsa bellezza fisica con altri attributi. Sebbene esistano delle eccezioni, la natura cerca il più possibile di non essere totalmente generosa con alcuni e completamente avara con altri. Esiste una specie di legge di compensazione, una democratica suddivisione dei talenti e delle doti. A me aveva regalato un sorriso accattivante, una simpatia contagiosa, una discreta sensibilità e mi aveva dotato di una sufficiente intelligenza. Queste erano le armi di cui disponevo per non soccombere nel grande e a volte cruento campo di battaglia che era la vita e, a poco a poco, avevo imparato a usarle con arte. Con gli anni avevo capito quanto fosse importante far ridere una donna e quanto fosse utile saperla ascoltare. Avevo imparato cosa dire e come dirlo quando volevo farla ridere e quando invece era il momento di tacere e ascoltare. Era quella che io avevo definito la strategia della risata e dell'ascolto e dovevo ammettere che, almeno fino a quarant’anni, aveva funzionato alla grande. Non potevo certo affermare di aver avuto una moltitudine di donne ma non potevo neanche dire di non averne conosciute a sufficienza. Avevo inoltre sempre cercato di privilegiare la qualità alla quantità anche se, in alcuni momenti, anche la quantità della qualità aveva lasciato molto a desiderare. Potevo affermare di piacermi, avrei quasi potuto definirmi innamorato di me stesso, anche se, a volte, l'amore che provavo non mi sembrava corrisposto. Tutto era filato liscio fino alla soglia dei miei primi quarant’anni, poi avevo incontrato Asia e nel giro di pochi giorni, da essere quello che aveva tentato di “prendere una donna e trattarla male” ero diventato quello che “le faceva anche spremute di cuore”. Dopo dieci anni di spremute, il giorno del mio cinquantesimo compleanno, se ne era andata senza dire una parola, senza un addio, lasciandomi solo il suo diario. Un diario che non avevo mai avuto il coraggio di leggere. Ed era anche per colpa sua se in quel momento mi trovavo lì, con una


9 sigaretta in bocca, davanti a dei grigi annunci funebri, a decidere tra il suicidio o una vacanza di sei mesi a Cuba. Per colpa sua e per colpa della mia fottuta paura di invecchiare solo.


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Capitolo II

Una settimana più tardi, dopo aver esaminato con attenzione i pro e i contro delle due opzioni che avevo di fronte, conclusi che sarei partito per Cuba. Lo decisi mentre mi facevo la barba in una fredda e grigia mattina di novembre. Lo feci d'impulso, come sempre avevo fatto nella mia vita. Senza pensare a cosa avrebbe significato per il futuro, ma solo rispondendo a una sollecitazione del presente. A prima vista poteva sembrare la scelta di un debole codardo, in realtà era il risultato di una lucida e razionale analisi. Trascorrere un periodo di sei mesi a Cuba mi avrebbe dato la possibilità, in caso di insoddisfazione, di ricorrere comunque al suicidio una volta rientrato in Italia. Nel caso invece mi fossi suicidato prima di partire per Cuba e la scelta si fosse rivelata insoddisfacente, non avrei più potuto sperimentare alcuna alternativa. Nella mia lucida e razionale analisi avevo sorvolato ovviamente su un piccolo e insignificante dettaglio: come avrei mai potuto rendermi conto, una volta suicidato, di aver fatto la scelta sbagliata? Ma non era questo il vero problema. Il problema era che non mi era ancora ben chiaro che cosa cercassi di ottenere o cosa volessi raggiungere vivendo sei mesi a Cuba. Mi convinsi che lo avrei capito solo dopo averlo sperimentato. Avevo sempre fatto così nella vita, prima agivo e poi, a volte, mi interrogavo sul motivo delle mie azioni. Quella stessa mattina di novembre, durante la pausa pranzo, mi recai all'ufficio personale e consegnai la mia richiesta di aspettativa nelle mani di una meravigliata e incuriosita impiegata. Se la mia domanda fosse stata accolta sarei stato assente dal servizio dal primo di gennaio al trenta giugno. Non era un caso che avessi scelto proprio Cuba come alternativa al suicidio. Nel mio immaginario, ma credo non solo nel mio, Cuba aveva sempre rappresentato il simbolo della vita. Spiagge,


11 mare, sole, musica, salsa, rum e naturalmente... donne, anche se quello, in quel particolare momento, era l'ultimo dei miei interessi. Per uno come me, che si era trovato a dover scegliere tra vivere e morire, quella era la destinazione ideale. Per me Cuba era l'Avana, una città dove sogno e realtà sembravano confondersi, un luogo dove l'entusiasmo per la vita si intrecciava con la disperata necessità di sopravvivere. L'Avana, con il suo interminabile splendido lungomare, le sue notti calde e sensuali, le sue case coloniali dai colori pastello e la sua gente semplice che viveva a ritmo di salsa e rum. La mia domanda di aspettativa fu accolta dopo una quindicina di giorni. A quel punto cominciai a organizzarmi. Avevo poco più di un mese a disposizione per i preparativi e la prima cosa che dovevo fare era trovare un posto in cui vivere. Non potevo ovviamente permettermi di passare sei mesi in un resort o in un hotel, sarebbe stato troppo costoso, quindi cominciai a cercare in internet una casa da affittare. Con mia grande sorpresa scoprii l'esistenza di molti siti cubani in cui era possibile trovare proposte per tutti i gusti e, quasi, per tutte le tasche. Quello che mi sembrò più affidabile, e anche il più abbordabile dal punto di vista economico, fu il sito di un’organizzazione chiamata Casecuba.com. Fui colpito dalla presentazione che campeggiava sulla homepage del sito: Benvenuto nel miglior sito web per prenotare una casa particular, dove troverai tutta l'ospitalità e il calore della Isla Grande e della sua straordinaria gente, per scoprire la vera vita cubana... e innamorarsene. Era esattamente ciò che stavo cercando. Concentrai le mie ricerche su l'Avana e in particolare sul quartiere dell'Avana Vecchia, il cuore storico e artistico della città dichiarato patrimonio dell'umanità. Tra le numerose offerte immobiliari che venivano proposte, tutte corredate da foto e minuziose descrizioni dei servizi a disposizione, mi colpì un alloggio semi indipendente in calle Obispo, una delle vie più popolari e più frequentate del quartiere. La descrizione della vivacità della strada − la prima a essere stata pavimentata a Cuba e ora trasformata in un'isola pedonale −, la sua incredibile posizione − collegava il quartiere di Avana vecchia con quello di Centro Avana −, le condizioni e il prezzo della casa mi parvero incredibili. Iniziai uno


12 scambio frenetico di email con casecuba.com e alla fine, con mia grande soddisfazione, prenotai ufficialmente l'alloggio. Finalmente avevo una casa a l'Avana, in calle Obispo, nel cuore della Habana Vieja. Una volta risolto con successo il primo problema, affrontai il secondo: la lingua. Non conoscevo lo spagnolo ed ero uno di quei tanti italiani convinti che per parlarlo fosse sufficiente aggiungere una esse alla fine di una parola italiana. Dopo un’accurata ricerca in libreria acquistai un audio corso dal titolo significativo, lo Spagnolo senza sforzo, e, allo stesso tempo, cominciai a frequentare delle lezioni individuali presso un’insegnante madre lingua, tre volte alla settimana. Fu così che mi resi conto che lo spagnolo non era solo aggiungere una esse ma era qualcosa in più. Nel tempo che mi rimaneva iniziai a documentarmi sugli usi, i costumi, i luoghi ma soprattutto i rischi che avrei corso, o che avrei potuto correre, una volta giunto a l'Avana. Per avere informazioni aggiornate visitai quasi tutti i blog che trattavano di Cuba. Attraverso i reportage e gli aneddoti dei vari viaggiatori per caso scoprii i diversi stratagemmi utilizzati dai cubani per sopravvivere sfruttando l'ingenuità e la stupidità dei turisti. Le raccomandazioni andavano dal non cambiare mai soldi in strada, anche se ti dicevano che le banche sarebbero state chiuse una settimana, a non dare soldi a madri con bambini piccoli per comprare il latte perché si sarebbero tenute i soldi senza comprare quanto promesso. Fu una lettura interessante e per molti versi divertente. Non volendo far nascere falsi miti o inutili leggende circa il perché, il quando e il dove mi sarei recato, avevo fatto di tutto per tenere nascosta la mia aspettativa. Nonostante tutto, come avevo immaginato, la notizia si diffuse e lo capii dalle espressioni di coloro che incontravo. Ogni volta che mettevo piede in ospedale i miei colleghi maschi mi guardavano con un'espressione che era un misto di invidia, compassione e malizia. Nel viso delle mie colleghe leggevo invece solo compassione. La settimana precedente la partenza, uscendo dalla mensa, incrociai un chirurgo con il quale, fino a quel momento, avevo scambiato solo dei formali saluti dettati dalla condivisione dello stesso ambito lavorativo. «Ciao, ho saputo che hai preso sei mesi di aspettativa per andare a Cuba» lo disse con enfasi, come se fossimo due amici di lunga data.


13 «Sì» risposi io alquanto imbarazzato e senza la stessa enfasi. «Ti invidio, è sempre stato il mio sogno». «Beh, lo puoi fare anche tu, non è poi così difficile... a meno che tu sia sposato». «No, non sono sposato grazie a Dio, ma sarebbe troppo complicato... e poi ho appena comprato l'ultima versione della SLK della Mercedes». «Ah capisco, beh in questo caso...» lo dissi pensando alla mia Fiat Regata con duecento mila chilometri di vita e una morte imminente. «Parli spagnolo?» chiese. «Sto cercando di impararlo». «Fai bene, quando uno va a Cuba deve sapere maneggiare bene... la lingua» aggiunse con un sorriso malizioso. Finsi di non aver capito la sottile allusione e, prima di andarmene, risposi un formale: «Proprio così». Nonostante la sua allusione mi avesse in qualche modo infastidito, non riuscii a biasimarlo. Affermare di aver intenzione di trascorrere sei mesi a la Avana non era come dire “ho deciso di passare sei mesi nella striscia di Gaza”. Quello che evocava Cuba erano rum, salsa, ma soprattutto donne allegre, belle e, si diceva, di una sfrenata generosità. Mi chiesi che cosa avrebbero pensato o detto, lui e gli altri, se avessero saputo che avevo scelto quella meta come alternativa al suicidio, un suicidio che comunque non avevo ancora del tutto scartato. Un paio di giorni prima della partenza ricevetti una mail da casecuba.com nella quale mi veniva comunicato che, per improvvisi e imprevisti problemi tecnici, la casa precedentemente prenotata da me era stata sostituita con un'altra che però, mi assicuravano, aveva le stesse caratteristiche e si trovava, più o meno, nella stessa zona. La comunicazione, a soli due giorni dalla partenza, mi sorprese non poco e mi rese molto sospettoso. Sul sito non c'era traccia di questa abitazione né tanto meno nessuna foto che la riguardasse. Sospettai di essere vittima del mio primo imbroglio cubano ancor prima di aver messo piede sull’isola. Comunque ormai era troppo tardi, non c'era più tempo per richiedere spiegazioni o per intavolare discussioni. Accettai, seppur contro voglia, la mia nuova sistemazione in calle Chacón numero 8, Habana Vieja. La sola nota che affievolì il mio malumore e mi generò un sorriso fu il nome della proprietaria della mia futura nuova casa: la señora Milagros... la signora Miracoli. Era proprio ciò di cui avevo disperato bisogno, un miracolo.


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Capitolo III

Poiché dovevo trovarmi in aeroporto alle prime luci dell'alba preferii non disturbare nessuno dei miei pochi amici e, approfittando del fatto che Arona fosse a solo una ventina di chilometri da Malpensa, decisi di prendere un taxi. Il mio unico errore fu non chiedere prima quanto mi sarebbe costato. Dopo aver pagato il tassista senza battere ciglio, stabilii che al ritorno avrei disturbato uno dei miei pochi amici. Nonostante fossero le cinque di mattina l'area gruppi era sovraffollata di gente e le operazioni di check in si protrassero per più di un'ora. Non avevo mai capito quale fosse la misteriosa ragione che faceva decidere alle compagnie aeree degli orari di partenza così assurdi, ma accettai con stoica rassegnazione. Finalmente, alle sei e trenta, mi sedetti nella sala d'attesa del gate con altre trecento persone ad aspettare il volo per l'Avana con partenza alle otto. Dalla mia postazione decentrata diedi un'occhiata distratta a quelli che sarebbero stati i miei futuri compagni di viaggio e mi accorsi, non senza sorpresa, che, a parte alcune coppie italo cubane con figli, c'era una netta prevalenza maschile. Colto da un dubbio improvviso, aprii lo zainetto per controllare se ci fosse il diario di Asia. Il diario fortunatamente era lì, ben chiuso con un elastico. Era incredibile ma, da quando mi aveva lasciato, pur provando a volte un desiderio quasi compulsivo, non lo avevo mai aperto. Mi aveva detto di averlo cominciato quando ci eravamo conosciuti, ma non era un normale diario, su quelle pagine scriveva solo le cose che le avevano procurato delle forti emozioni. Il giorno in cui Asia se ne era andata avevo sentito il forte impulso di bruciarlo, ma poi avevo cambiato idea. Era l'unica cosa che mi restava di lei e non volevo perderla. La rabbia che ancora provavo per quello che mi aveva fatto e il timore di strisciare come un ladro nella sua mente mi avevano però sempre impedito di aprirlo. C'era poi anche un altro aspetto, la possibilità di leggere cose che mi


15 avrebbero fatto soffrire ancora più di quanto avessi sofferto. Per tentare di distrarmi estrassi dal mio zainetto la guida della Lonely Planet ma, prima che potessi cominciare a leggere, l'uomo che era seduto alla mia destra mi rivolse la parola. «È la prima volta che vai a Cuba?» lo chiese indicando la guida e dandomi del tu, in una sorta di complicità tra camerati coetanei. «Sì» risposi un poco a disagio. «Vedrai, ti piacerà» lo disse strizzandomi l'occhio in modo ancora più complice. «A Cuba ci si diverte. Questa è la quinta volta che ci vado ma questa volta è diverso... vado a sposarmi» aggiunse raggiante. «Ah, congratulazioni» replicai senza troppo entusiasmo. «Anche io sto andando a sposarmi» disse sporgendosi allegramente l'uomo alla mia sinistra. «Davvero?» domandò quello alla mia destra. «Allora auguri a tutti e due!». Si diedero la mano stringendomi in un abbraccio quasi mortale. Con la velocità di un ghepardo in calore l'uomo alla mia destra estrasse dal portafoglio la foto della sua futura sposa e la mostrò all’altro che, senza pensarci due volte, estrasse a sua volta la foto della propria esibendola. Sembravano due pistoleri che si sfidavano in un duello: sfoderavano e maneggiavano le foto come fossero delle colt 45 e io mi sentivo come il barista scemo del saloon. «La mia si chiama Kety» diceva l'uomo alla mia destra. «La mia Lady» replicava quello alla mia sinistra. Kety, Lady, mentre mi scorrevano davanti agli occhi decine di foto di ragazzine in bikini mi chiedevo che fine avessero fatto le Consuelo, le Carmen e le Marie. «Kety ha venti anni e vive a Camaguey con i genitori» insisteva il primo. «Lady ne ha ventuno e abita a Holguin con i suoi» replicava il secondo. Ragazze di venti anni o poco più che vivevano con genitori probabilmente più giovani dei loro fidanzatini italiani. Non sapevo se fosse più ridicolo o più patetico, poi mi ricordai della frase di Groucho Marx e capii. Volevano sentirsi giovani quanto le donne che avevano per le mani. Mi guardai intorno e vidi altri uomini tra i cinquanta e i sessanta mostrarsi reciprocamente le foto delle “fidanzate” cubane di trenta o quaranta anni più giovani con lo stesso orgoglio e lo stesso entusiasmo di un adolescente. Sembrava si sfidassero in una specie di giostra


16 medievale usando le età e le foto delle loro donne come fossero asce o spade con cui tramortire l’avversario. Mi sembravano alieni. Quando però mi resi conto che il sentimento che provavo nei loro confronti si stava trasformando in un misto di invidia, tenerezza e compassione, mi vergognai di me stesso. Mi chiesi se sarebbe successo anche a me, se anche io sarei ritornato da quel viaggio con la foto di una ventenne da esibire fieramente ai colleghi e agli amici ma respinsi la cosa con sdegno. Io ero io e loro... erano loro. Non capivo che cosa volesse dire ma mi parve un'accettabile giustificazione. Fortunatamente le operazioni di imbarco cominciarono, la giostra si interruppe e io, sperando di non finire in mezzo a quei due anche sull'aereo, riuscii a fuggire alla loro stretta mortale. Con un sorriso di plastica stampato sul volto, una delle assistenti di volo mi indicò la direzione che avrei dovuto prendere per raggiungere il mio posto lato corridoio. Lo avevo chiesto esplicitamente perché, dopo decine di voli, ero arrivato alla conclusione che fosse il migliore. Sedersi accanto al finestrino era ideale nei voli di corto raggio, ti permetteva di seguire il decollo, l'atterraggio e dare un'occhiata al paesaggio, ma in un volo di più di dieci ore si trasformava in una trappola mortale. Ogni volta che si voleva o si doveva lasciare il proprio posto per andare alla toilette o per sgranchirsi le gambe semiparalizzate si era costretti o a disturbare il vicino o, nel caso dormisse profondamente, a scavalcarlo. La classe economy di un charter era uno dei pochi luoghi al mondo dove la mia statura mi faceva sentire un privilegiato. Le mie gambe, proporzionate ma corte, si inserivano perfettamente nel poco spazio che avevo a disposizione e mi davano la possibilità di muovere il piede di qualche centimetro a destra e a sinistra e, con un po' più di fatica, anche in alto e in basso. Vedere uomini o donne di un metro e ottanta e più tentare di adattarsi disperatamente in spazi angusti, nei quali anche il famoso mago Houdini avrebbe avuto seri problemi, era uno spettacolo desolante. Se poi, come spesso capitava, alla statura esagerata era associato un sovrappeso o, peggio, una franca obesità, lo spettacolo ti calpestava l'anima. Nello scegliere il lato corridoio avevo avuto una fortuna sfacciata. Non solo mi era capitato un posto nella fila centrale ma, accanto a me, si era seduta l'unica coppia italiana che si recava a Cuba per il viaggio di


17 nozze. Ciò significava che avrei fatto il volo senza essere costretto a vedere foto di ragazze cubane ventenni ma, soprattutto, che non sarei stato disturbato dalle eventuali passeggiate dei miei vicini nel recarsi alla toilette. Appena dopo il decollo, mi infilai le cuffie per ascoltare un po' di musica, chiusi gli occhi e, senza volerlo, i miei pensieri scivolarono a dieci anni prima, ad Asia e ai nostri primi due incontri.


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Capitolo IV

Alla soglia dei quarant’anni avevo già vissuto un profondo stato di black out esistenziale, una sorta di cortocircuito psichico tra ciò che avrei desiderato e la realtà. Mi capitava tutti gli anni, nella settimana che precedeva il mio compleanno, di fare una sorta di bilancio della mia vita, ma i quarant’anni in particolare avevano rappresentato per me una specie di giro di boa. In quell’occasione rimisi in discussione tutta la mia vita ma, poiché la mia capacità di introspezione era sempre stata ai minimi termini, da tutto quel turbinio mentale emerse solamente che i miei giorni, negli ultimi anni, erano stati sempre uguali. Mi ero paralizzato in un’esistenza che sentivo non appartenermi. Avvertivo la necessità di un cambiamento, di qualcosa che mi facesse provare, se non la felicità, almeno l'entusiasmo di un tempo. Ma la felicità e l'entusiasmo non sono emozioni che ci si può imporre e io sapevo bene che inventarsi una nuova vita non era cosa facile. Mi ero reso conto di aver bisogno di novità, avevo bisogno dell'imprevedibile e che questo potesse portarmi in un dove “non immaginato”. Avevo un disperato bisogno di respirare aria diversa, frequentare spazi nuovi, stimolanti, magari alternativi, luoghi dove la presenza delle donne non fosse solo probabile ma prevalente. L'occasione arrivò attraverso un'insignificante locandina appesa alla porta di un bar: reclamizzava un corso di hatha yoga. Sapevo che l'Hatha Yoga si basava su una serie di esercizi psicofisici che, oltre a produrre effetti benefici sul corpo, insegnavano a dominare l'energia cosmica presente nell'uomo. Avevo letto inoltre, e questo era l'aspetto più interessante, che i corsi di yoga si trovavano al primo posto nella lista di quelli più frequentati dalle donne. Fin da giovane ero sempre stato affascinato dalle filosofie orientali ma non avevo mai trovato il


19 tempo e la voglia di approfondire. Avevo tentato di frequentare un corso di tai chi, uno di karate e uno di reiki ma mi ero sempre limitato alle prime due o tre lezioni. Nonostante avrei preferito frequentare un corso di tantra, con tutte le opportunità erotiche che magari avrebbe comportato, decisi infine di iscrivermi al corso di hatha yoga. Avrebbe stimolato e fortificato il mio vecchio corpo nella sua globalità, mi avrebbe insegnato il modo più efficace di respirare, aiutato a sviluppare una migliore conoscenza del mio sé e, soprattutto, mi avrebbe offerto la possibilità di conoscere una donna interessante. Quando giunsi davanti alla porta della sede dell'associazione ImmensaMente fui dapprima investito e successivamente avvolto da un intenso profumo di incenso. Appena varcata la soglia, lanciai una rapida ma attenta occhiata ai presenti e notai che, oltre all’insegnante femmina, c'erano altre quattordici persone: dodici donne tra i trenta e quaranta anni e una coppia di omosessuali maschi dichiarati. Fu come aver già raggiunto il mio personale Nirvana, mi sentii illuminato. Provai la meravigliosa sensazione di essere Narciso e Boccadoro allo stesso tempo. A quel punto l'unico problema sarebbe stato individuare la persona giusta, una donna attraente, con tanti interrogativi e poche risposte, una donna in cerca di profondità e sensibilità... insomma, una donna delusa dalla vita e disponibile a farsi accompagnare in un percorso di crescita e consapevolezza, possibilmente da me. Non c'era bisogno che mentissi a me stesso, non ero lì per una crescita interiore, non mi interessava diventare uno yogi, sapevo che al massimo avrei potuto aspirare a diventare un Bubu, in quel momento volevo l'inaspettato e per me l'inaspettato non poteva che passare attraverso una donna diversa. Dopo averci spiegato brevemente quali fossero i principi e le attività dell'associazione, l'insegnante ci invitò a metterci in circolo e a presentarci. Fu in quel momento che la vidi, in piedi di fronte a me. Lunghi capelli rossi e ricci che le scendevano sulle spalle, una tuta nera attillata che ne esaltava le curve, un corpo snello e un seno non troppo generoso ma dotato di personalità. Dimostrava tra i trenta e i trentacinque anni. «Salve a tutti, io sono Asia» disse con un sorriso quando fu il suo turno. Ascoltare quel nome mi provocò un'emozione piacevole; il nome di una persona dice molto sul suo conto.


20 Ero sempre stato convinto che il nome, in qualche strano modo, potesse segnare il destino e la psiche di una persona. Quando si sceglie un nome per il proprio figlio, solitamente, ci si ferma solo al presente, senza riflettere abbastanza sulle conseguenze che potrebbe generare nel futuro di quell'innocente creatura. Spesso ci si limita a seguire la moda del momento, a ripercorrere ciecamente le tradizioni familiari o religiose, a farsi attrarre dal fascino di un suono o dall'originalità delle lettere. Ma il nome è qualcosa che va oltre la semplice identificazione fisica di una persona, ne segna la vita sociale e personale per sempre. Ci sono nomi comuni o banali che producono vite comuni o banali e nomi solari o incomprensibili che danno vita a esistenze maniacali o depressive. Per esempio, ero convinto che un Giuda sarebbe stato sempre guardato con sospetto dai suoi compagni di classe, soprattutto se li avesse baciati su una guancia alla fine di una cena, mentre da un Jesus ci si sarebbe sempre aspettato qualcosa di grande, quasi di miracoloso. E da una donna di nome Asia? Che cosa mi sarei dovuto aspettare? Che cosa poteva nascondere un nome così? Non potevo non immaginarmi un divorzio alle spalle, un amore per la pittura floreale, un'attrazione per il massaggio ayurvedico e la cucina vegetariana, qualche fugace esperienza con droghe leggere e, soprattutto, una vita sessuale libera e senza problemi. Tutti dettagli che sarei stato curioso di verificare in seguito. Cominciai a guardarla, a scrutarla in ogni dettaglio, cercavo di carpire da un gesto, da un particolare anatomico o da uno sguardo, ciò che avrebbe innescato il moto perpetuo verso un mio nuovo ciclo di vita. Dopo esserci disposti su tre file, cominciammo la nostra prima lezione. Casualmente mi trovai posizionato proprio dietro di lei. Nonostante cercassi di concentrarmi con tutte le mie forze sulle parole e sui movimenti della nostra insegnante, tentando di imitarne le posizioni e la respirazione, la mia mente era già proiettata al dopo. Quando la lezione fu terminata, l'insegnante ci invitò a bere una tisana insipida e ad assaggiare degli schifosissimi biscottini nepalesi. Era quello il momento in cui i discepoli alla ricerca della luce potevano finalmente rivolgere le loro stupide domande all'insegnante, anzi, alla maestra. Avendo frequentato in passato quel mondo avevo imparato quanto fosse importante inserire ogni cinque o sei frasi la parola “consapevolezza”, se poi la intercalavi con le parole “luce” e” abisso


21 interiore” oppure “la sola cosa che so è non sapere”... facevi bingo. Sapevo che questa era la fase più delicata, il primo approccio diretto, quella in cui mi sarei giocato, se non tutto, sicuramente molto. Era il momento in cui non potevo sbagliare, dovevo usare le parole giuste, i silenzi giusti, gli sguardi giusti e i movimenti giusti. Con gli anni avevo compreso quanto il linguaggio del corpo fosse importante nella seduzione e nel decifrare le reazioni dell'altro. Sapevo che non mi era permesso criticare, giudicare o dire qualcosa che potesse farmi apparire troppo egocentrico. Mi inserii nella discussione di gruppo ricorrendo ad aforismi o citazioni, stando ben attento a non dare risposte ma a suscitare altre domande. In un contesto come quello, fatto più di interrogativi che di risposte o di risposte sotto forma di interrogativi, era più conveniente apparire portatori di dubbi che di verità. Solo il maestro, dall'alto della sua esperienza e della sua saggezza, poteva esprimere certezze, al discepolo questo non era permesso. Nonostante la mia recitazione fosse indirizzata all'intero gruppo, era lei che guardavo mentre parlavo, lo facevo con parole misurate, pronunciate lentamente, arricchite con gesti impercettibili delle mani e con la voce profonda e impostata cercando di non perdere mai il contatto visivo. Lei mi guardava e mi studiava con una specie di sguardo indagatore toccandosi ripetutamente i capelli. Era evidente che la incuriosivo e la cosa mi eccitava. Poi accadde l'inaspettato o, meglio, l'imprevisto. Dopo averci invitato a sorseggiare un'altra tazzina di quell'insipido te indiano, la nostra guru chiese a ognuno di rispondere a una semplice domanda. «Che cosa cercate nell'Hatha Yoga?». Era una domanda banale ma pertinente. Fortunatamente fece partire il giro di risposte indicando la donna grassottella che si trovava alla sua sinistra e non da me, che invece sedevo proprio alla sua destra. Avevo tutto il tempo per inventarmi qualcosa di saggio ma non troppo. Cominciò il festival dei luoghi comuni e degli stereotipi simil pseudo orientali. «Il mezzo per raggiungere la piena consapevolezza». «Una tecnica che mi aiuti a guardarmi dentro». «La serenità in me stessa». «Capire finalmente chi sono».


22 «Essere in pace con me stessa e il mondo». «La calma interiore». «L'unione tra psiche e corpo». «Una sinergia con l'energia del cosmo». «Imparare ad amare l'altro come amo me stesso» questo lo disse uno dei due omosessuali. «Imparare ad amare me stesso come amo l'altro» questo lo disse il secondo omosessuale guardando teneramente il primo. Nonostante avessi avuto a disposizione tutto il tempo necessario per inventarmi una risposta “giusta”, quando giunse il mio turno mi ritrovai senza sapere cosa dire. Non potevo certo confessare la reale ragione che mi aveva spinto a iscrivermi a quel corso. “Ero alla ricerca di una donna trasgressiva e disponibile e ho pensato che qui l'avrei trovata”, sarebbe stata una risposta illuminante ma poco illuminata. Non sapevo proprio cosa rispondere anche perché, una dopo l'altra, tutte le sciocche opzioni orientali a cui avevo pensato erano state sistematicamente espresse dagli altri. Non volevo, non potevo e non dovevo ripetere qualcosa che fosse già stato detto da qualcuno. Il tempo passava e tutti erano in attesa della mia risposta o almeno di una parola che dimostrasse che non fossi entrato in una improvvisa trance astrale. Sfinito da quella vana ricerca dissi la prima sciocchezza che mi venne in mente. «Non so che cosa cerco, spero di scoprirlo alla fine del viaggio». L'insegnante, seduta nella classica posizione del loto, chiuse gli occhi, appoggiò i polsi sulle ginocchia con le palme verso l'alto, l'indice e il pollice delle due mani si toccarono delicatamente formando un anello, sorrise e si illuminò, come se quelle parole non le avessi pronunciate io ma le avessero pronunciate il Dalai lama o Sai Baba in persona. Alla mia frase seguì un silenzio buddista, carico di rispetto e ammirazione. Tutte mi guardavano con lo stesso amore e tenerezza con cui avrebbero guardato il piccolo budda reincarnato. Capii immediatamente di aver fatto “bingo”. Quando uscimmo dalla palestra notai che Asia aveva posteggiato la sua auto proprio accanto alla mia. Era una coincidenza sincronica che non potevo lasciarmi sfuggire. «Ciao Asia» le dissi mentre saliva in macchina. Lei mi guardò in modo strano poi, con la gamba destra già nell'auto, mi disse:


23 «Tu reciti sempre così o qualche volta riesci a essere anche sincero?». Non mi diede neppure il tempo di rispondere, se ne andò facendomi un cenno con la mano dal finestrino, lasciandomi in piedi nel piazzale, solo e con l'unica espressione possibile in un momento simile, quella di un coglione. Nei giorni che seguirono, per quanto mi sforzassi, non riuscii a non ripensare alle sue parole. Erano state un duro colpo per il mio ego. Io che sino a quel momento ero convinto di essere a un livello superiore rispetto a quella fauna umana che gravitava intorno ai centri olistici in cerca di una risposta. Con un'unica frase mi aveva ridimensionato e ricondotto al mio posto, un posto che poi non era così diverso da quello di chi cercava risposte in filosofie e discipline che non conosceva. Era stata l'unica tra tutti a rendersi conto di quanto il mio ruolo fosse costruito ad arte e come lo fossero anche le cose che dicevo, formulate con l'unico scopo di differenziarmi dagli altri. Passai i giorni che mi separavano dalla lezione successiva riflettendo su cosa avrei potuto fare per recuperare, per essere convincente ai suoi occhi ma, più ci pensavo, più mi sentivo patetico. Mi tornò alla mente un vecchio proverbio che la mia anziana madre mi pronunciava ogni qualvolta stavo per compiere una scelta sbagliata: “Fare per far male, meglio non fare”. Alla fine decisi di lasciar perdere ogni strategia per un ulteriore approccio con Asia. Salutarla con un cenno del capo quando l'avrei rivista sarebbe stata forse la miglior cosa. Sebbene avessi deciso che avrei tentato di non recitare, non me la sentivo di presentarmi alla lezione completamente vulnerabile. Dopo anni passati a recitare uno stesso copione, l'idea di andare a braccio, di essere spontaneo e naturale, non solo non mi solleticava, mi spaventava. Mi ci era voluto parecchio tempo per costruire le battute, imparare le citazioni, studiare gli aforismi, costruire posture, esercitarmi nell'ascolto, nei silenzi e negli sguardi, tutte cose alle quali sapevo non avrei potuto rinunciare così facilmente. Volevo presentarmi con qualche argomento, niente che fosse scontato o banale, qualcosa che fosse calzante in ogni caso, senza annoiare. Ricordai di avere alcuni testi che parlavano dello hatha yoga e delle filosofie orientali in genere. Erano per lo più regali ricevuti da parte di amici che sapevano quanto la mia curiosità mi spingesse a voler viaggiare non solo fisicamente ma anche mentalmente. Non volevo


24 spacciarmi per un esperto in materia, avevamo un'insegnante con esperienza ventennale, ma rileggere almeno la prefazione delle Upanishad, un antico testo vedico indiano, mi sembrò abbastanza appropriato. In tutti i casi mi ripromisi di non fare il saccente. Arrivai alla lezione di yoga con una ventina di minuti d'anticipo e ne approfittai per bermi un caffè e fumarmi una sigaretta nel baretto di fronte. Quella di sorseggiare un caffè e poi fumarmi una sigaretta prima di cominciare una qualsiasi attività era una delle mie abitudini. Anche se sapevo perfettamente che caffè e tabagismo non fossero proprio in linea con lo yoga, non avevo nessuna intenzione di rinunciarvi. «Ciao Antonio!». Mi voltai e la vidi scendere dall'auto. Una sua mano armeggiava all'interno del borsone che aveva a tracolla e ancor prima di avvicinarsi a me per salutarmi e stringermi la mano, ne sfilò un libro. Me lo mostrò. «Ieri ho pensato a te e non ho potuto fare a meno di prenderti questo». Me lo pose fra le mani. Era una copia delle Upanishad. Sorrisi, non tanto per la sorpresa quanto per l'ironia della sorte. Era destino che con lei non avrei mai potuto elaborare concetti altrui e farli passare per miei per farmi bello ai suoi occhi. Sapevo che da quel momento avrei dovuto, mio malgrado, essere me stesso o almeno tentare. Il suo regalo però mi diede il pretesto per invitarla dopo la lezione, per ringraziarla del pensiero e mostrargli concretamente la mia riconoscenza. «Ti andrebbe di andare da qualche parte a bere qualcosa dopo la lezione? Vorrei conoscerti meglio, vorrei scoprirti un po'» le dissi cercando di essere un poco originale e velatamente ironico. «Di scoprirmi scordatelo e comunque non capiterebbe mai la prima sera» rispose lei con finta malizia mostrando di aver capito l'ironia. Ridemmo entrambi di gusto. «Comunque non mi spiacerebbe bere qualcosa dopo la lezione» aggiunse prendendomi sotto braccio e camminando verso la palestra. Durante la lezione i nostri sguardi non s'incrociarono mai. L'insegnante ci aveva disposti in modo che ognuno di noi potesse avere lo sguardo indirizzato unicamente su di lei per evitare che i movimenti degli altri allievi potessero condizionarci in modo errato. Tutta la mia concentrazione non era sulle posizioni che cercavo di tenere o sulla respirazione, ma piuttosto su come avrei dovuto comportarmi con Asia. Finalmente la lezione finì. In un'altra circostanza sarei rimasto volentieri, a pavoneggiarmi e a snocciolare perle di saggezza per


25 raccogliere gli applausi del pubblico, ma non in quel momento. Leggevo dal suo linguaggio del corpo che anche lei non vedeva l'ora di andarsene. Rispondeva per monosillabi alle domande degli altri, nella mano aveva già il mazzo di chiavi dell'auto che faceva girare intorno al dito indice e la sua gamba sinistra era tesa verso la porta d'uscita. Tutti segni e indizi inequivocabili. Io cercavo di sfuggire a chiunque e, anche quando costretto, evitavo comunque di esprimere una qualsiasi opinione che potesse dare inizio a un’interminabile carrellata di altre opinioni. Fu Asia che seppe porre fine ai convenevoli dicendo chiaramente che doveva andar via e, cercando uno sguardo di complicità nei miei occhi, mi fece cenno di seguirla. «Senti se ti va ti porto io in un posto carino, dove è possibile anche fare due chiacchiere» mi propose appena usciti dalla palestra. «Va bene» risposi senza obiettare. Mi fece cenno di salire in auto con lei e io continuai a non obiettare. Avevo inteso chiaramente che Asia nutriva la necessità di gestire dall'inizio alla fine il nostro primo incontro e a me andava bene così. Lungo il tragitto, il nostro dialogo si focalizzò quasi unicamente sulla musica che usciva dal suo lettore. Qualcuno le aveva appena venduto quel cd sostenendo che ogni pezzo emetteva suoni a una frequenza in mega hertz ben precisa e che questi influenzassero positivamente i sette centri energetici del nostro corpo. La guardai con sguardo perplesso ma non dissi nulla. Lei mi sorrise. «Lo so, può darsi sia una sciocchezza ma mi piace crederlo... e poi la musica non è male» disse quasi per giustificarsi. Mise la freccia e svoltò in una stradina scarsamente illuminata. Intesi dal rumore degli pneumatici che la via era in ghiaietto o in ciottolato. Sin da bambino alcuni suoni avevano il potere di influenzare il mio stato d'animo e farmi rivivere emozioni a essi collegate. Quello delle gomme che scricchiolavano sulla ghiaia mi faceva cadere in una profonda tristezza. Avrei voluto dirle che i mega hertz non mi avevano influenzato positivamente nessun chakra ma, al contrario, la nostra auto che avanzava lenta su quel vialetto mi aveva ridestato il ricordo di un carro funebre che trasportava i miei nonni lungo il viale del cimitero. Quei momenti di tristezza potevano affliggermi anche per delle ore e di solito non era un problema, avevo imparato a conviverci, ma in compagnia di altre persone era difficile da gestire. Rispondere alle inevitabili domande sul mio stato emotivo del momento, era un peso


26 insopportabile da portare anche perché non sapevo mai esattamene cosa rispondere. Davanti a noi la strada si aprì in un grande spiazzo al fondo del quale Asia fermò l'auto. «Siamo arrivati, il posto è quello» disse indicandomi una casetta che ricordava una baita di montagna. Ero diventato taciturno e lei se ne accorse. «Tutto bene?» mi domandò quando fummo sulla porta del locale. «Se non ti piace possiamo andare da un'altra parte» aggiunse un poco delusa dalla mia apparente apatia. «No, no. Va benissimo! Scusami, ero sovrappensiero» le risposi per giustificarmi. Il posto era veramente carino e guardando Asia non era difficile immaginare che a lei potessero piacere proprio questo tipo di locali. Un po' nascosti, molto intimi e poco frequentati dalla massa. C'erano pochi tavoli, forse quattro o cinque. Uno di questi era posto davanti a una grande vetrata che dava sul lago. Non riuscivo a riconoscerlo e durante il tragitto, non guidando, avevo fatto poco caso alla strada. Cercai in qualche modo di recuperare, di uscire da quel calo d'umore che poteva pregiudicare il buon esito della serata. La sola cosa che mi venne in mente fu chiederle quando e come avesse conosciuto quel locale. Mi raccontò che fu in occasione dell’addio al nubilato di una sua compagna di liceo, una serata che, partita per essere all'insegna della trasgressione con spogliarellisti, balli proibiti e tante risate, era finita con l'auto in panne proprio a pochi metri da quello spiazzo, nel giorno settimanale dedicato alla degustazione dei liquori. Fu così che lei e altre quattro amiche finirono per trascorre la serata, degustando grappe di tutti i tipi e raccontandosi il loro passato. «Ho sempre pensato che il passato sia un qualcosa che deve stare esattamente dove si trova, riportarlo a galla toglierebbe senso al tempo presente» lo dissi più a me stesso che a lei. Era una delle poche volte che, con una donna, mi ritrovavo a dire quello che pensavo realmente. Lei rimase in silenzio per qualche secondo. «Credo che questo valga solo per i ricordi spiacevoli, riportare a galla quelli piacevoli a volte ti può aiutare ad affrontare un presente difficile e a sperare in un futuro migliore. Non credi?». «Forse hai ragione, il problema è che i momenti spiacevoli sono quelli


27 che ricordi con più intensità e che riaffiorano anche quando non vorresti» risposi io. «Come prima?». «Prima?» domandai io senza capire. «Quando sei diventato improvvisamente taciturno e distante». «Sì, come prima» risposi senza entrare nei dettagli. Lei non fece ulteriori domande e, percependo che il tema mi avrebbe messo ancor più a disagio, cambiò argomento. «Pensa che la prima volta che ti ho visto ho pensato che fossi il classico tipo che frequenta corsi di ogni genere in cerca di prede da intortare con quattro chiacchiere, magari facendo leva sulle loro fragilità. Quello che scruta, imposta la voce, misura i movimenti, lancia sguardi penetranti e poi spara perle di saggezza trovate sui baci perugina» disse lanciandomi un'occhiata strana. «Davvero?» esclamai fingendo una sorpresa che non c'era. «Davvero!» ribadì lei. Non mi piaceva la piega che stava prendendo la serata. Sentirmi sotto esame non mi era mai piaciuto, ancora meno se chi ipotizzava qualcosa su di me si avvicinava così maledettamente al vero. Decisi che fosse meglio cambiare argomento. «Perché ti sei iscritta al corso di Yoga?» «Sono più di dieci anni che pratico la meditazione trascendentale, per cercare di annullare le illusioni dell'ego, per stabilire un nuovo e reale contatto con il mio vero sé, ma con la sola meditazione ancora non mi è riuscito. Come puoi immaginare il cammino verso la consapevolezza è lungo e difficile, a volte contorto e incomprensibile. Ho pensato che ci fosse bisogno di qualcosa anche di fisico come l’Hatha Yoga». «O come il sesso e l'amore!» ribattei io cercando di essere spiritoso e provocatorio allo stesso tempo. «La meditazione è l'amore, l'Hatha Yoga è il sesso, quando le pratichi insieme raggiungi il tuo vero orgasmo attraverso la conoscenza del tuo vero sé» rispose lei socchiudendo gli occhi ed espirando profondamente dalla bocca. La guardai senza sapere cosa dire. Cercai di ricordare qualche stralcio della prefazione delle Upanishad che avevo letto il giorno prima, ma non mi venne alla mente nulla di adatto al momento. Temevo di rompere un'atmosfera che sembrava magica. Asia era lì davanti a me, in silenzio, con gli occhi socchiusi, il suo respiro era calmo e regolare, era


28 lì con il corpo ma sembrava che la sua mente fosse lontana anni luce da me. La guardavo e mi appariva distante, sprofondata in un mondo di serenità, in un'altra dimensione spirituale. Poi, lentamente, quasi si risvegliasse da una trance ipnotica, riaprì i suoi magnifici occhi scuri, mi guardò per alcuni secondi in silenzio e, dopo averli buffamente sgranati, scoppiò in una risata divertita che mi lasciò di sasso. «Stavo scherzando! Non ho mai praticato meditazione trascendentale in vita mia e mi sono iscritta al corso di yoga per curiosità. Lo vedi che anche io sono capace di recitare una parte e sembrare credibile?». Rise fin quasi a farsi scendere le lacrime. «Io invece mi sono iscritto al corso di yoga solo nella speranza di incontrare una donna come te» lo dissi senza nessun pudore, senza voce impostata e senza sguardo teatrale. Lo dissi veramente con il cuore. «Una donna come me? Non mi conosci, non sai nulla di me. Potrei essere la peggiore delle donne» replicò lei tornando rapidamente seria. «È vero, non ti conosco e potresti essere la peggiore delle donne come io il peggiore degli uomini ma... mi piacerebbe conoscerti e farmi conoscere». «Se tu ora provassi a baciarmi io ti respingerei, ma se tu non lo facessi so che da domani non vorrei più vederti» disse lei all'improvviso con una strana luce negli occhi. «Se dovessi ascoltare il mio cuore ti bacerei subito, in questo momento, ma voglio ascoltare il mio cervello e quindi non mi azzarderò». «Ti sbagli, quello che tu ascolteresti e che chiami cuore in realtà è un'altra parte del tuo corpo, meno nobile... anche se bisogna ammettere, altrettanto utile» rispose lei con il suo tipico sorriso malizioso. «Allora mettiamola in questo modo, non ti bacerò questa sera perché non sopporterei di essere rifiutato, ma soprattutto perché tu non vorresti essere baciata». «Mi sembra un accettabile compromesso» rispose lei con un sorriso soddisfatto. «Ora è meglio tornare a casa, si è fatto tardi». Tornammo al parcheggio della scuola senza dire nulla, accompagnati solo dalla rilassante musica new age del suo cd. «Sai una cosa Antonio? Mi piaci molto di più quando sei veramente te stesso e non quando fingi di essere chi non sei» disse lei salutandomi prima di andarsene. Era il complimento migliore che una donna potesse farmi, soprattutto se a farmelo era la donna di cui mi ero già perdutamente innamorato.


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Capitolo V

Il ricordo del primo incontro con Asia mi turbò fino a farmi soffrire fisicamente. Nonostante avessi più spazio degli altri, cominciai a muovermi nervosamente nel mio angusto sedile lato corridoio. Mi rendevo conto di come la tristezza stesse prendendo il sopravvento e con essa anche il desiderio del suicidio. Decisi di scrollarmi di dosso la sua immagine e tutte le emozioni che mi evocava e mi concentrai sullo schermo che avevo di fronte. Mentre mi accingevo a vedere uno dei tre film che erano stati messi in programmazione per allietare il volo, sentii la voce squillante e professionale di una delle hostess irrompere con violenza nelle cuffie. «Se c'è un medico a bordo è pregato di contattare urgentemente il personale di cabina, grazie». Quella era proprio la comunicazione che un medico in volo per i Caraibi, non vorrebbe mai sentire. Soprattutto un medico come me. In primo luogo perché non sai mai con che cosa dovrai scontrarti, in secondo luogo perché ti riporta con durezza al mondo reale, risvegliandoti con malvagità da quello che fino a pochi secondi prima stavi sognando di essere: un turista che non vuole nessun tipo di fastidio. A voler essere pignoli c'era anche un... terzo luogo, quello per me più preoccupante. Negli ultimi venti anni avevo lavorato come responsabile di un servizio per le tossicodipendenze e mi ero occupato più di aspetti burocratici e legali che di clinica e tornare a fare clinica dopo venti anni che non l'hai esercitata non è come tornare in sella a una bicicletta. C'erano tutte le condizioni per trasformare quel volo nel volo dell'aereo più pazzo del mondo. C'era però una cosa che mi faceva ben sperare. L'aereo era strapieno e con più di trecento passeggeri le probabilità statistiche che a bordo ci fosse un pediatra, un cardiologo, un oculista, un medico di famiglia, un chirurgo, insomma un vero medico erano alte. Trascorsi pochi secondi dall'annuncio un uomo si alzò agilmente dal


30 suo posto, due file davanti a me, e si diresse con passo sicuro verso una delle assistenti di volo. Nel vederlo il mio cuore ritornò a battere in maniera regolare, ma solo fino a quando non lo vidi deviare improvvisamente sulla sinistra per infilarsi nella toilette. Sembrava che tutti i passeggeri fossero stati come trasportati in uno stato di ipnosi collettiva. A parte il tipo che era entrato nella toilette, non c'era una persona che facesse un movimento o desse segni di vita. Non potevo credere di essere l'unico medico a bordo di un aereo su cui volavano più di trecento persone. Purtroppo, dopo aver atteso altri cinque minuti nella speranza che qualcuno si alzasse, dovetti concludere che, non solo ero il solo dottore presente sull'aereo, ma sembrava fossi anche l'unico essere vivente in stato di veglia. Sconfortato e intimorito mi tolsi le cuffie, mi alzai dando un ultimo disperato sguardo nei corridoi a destra e a sinistra e mi diressi verso l'assistente di volo con la stessa voglia che avrebbe avuto Silvio Berlusconi di uscire a cena con la Bocassini. «Salve, sono un medico... posso esserle utile?» chiesi con un filo di voce. «Oh dottore, grazie per la sua disponibilità. Venga, l'accompagno» rispose la giovane donna smettendo di riordinare i vassoi della cena. Erano passati all'incirca cinque minuti dall'annuncio e io, vigliaccamente, seguii la hostess sperando con tutte le mie forze che in quel lasso di tempo il problema, qualunque fosse stato, si fosse risolto con una guarigione spontanea, con un miracolo o con un decesso. Quando giungemmo al posto 32A mi resi conto con costernazione che nessuna delle tre eventualità si era avverata. «Signora, c'è il dottore» disse la hostess rivolgendosi con soddisfazione a una donna di colore prima di scomparire per sempre tra i sedili della business class. «Buonasera, mi dica, che cosa si sente?» lo chiesi cercando di riprendere un po' della semiotica che avevo studiato trent’anni prima. «Non sono io, è mia figlia» disse la donna indicandomi un fardello che teneva tra le braccia. A una prima occhiata mi sembrò di capire che fosse un essere vivente di circa sei mesi di vita. Con una forza di volontà che non pensavo di possedere riuscii a non svenire. Mi limitai a imprecare dentro di me e a maledire le compagnie aeree che permettevano a bambini così piccoli di viaggiare sul mio stesso velivolo. «Continua a lamentarsi, non vuole il seno e credo che abbia la febbre»


31 aggiunse la donna coprendo il fardello, già avvolto in una copertina di lana, con un'altra coperta. Liberai a fatica la piccola da tutte le trapunte e i plaid in cui la madre l'aveva amorosamente avvolta e scoprii un faccino arrossato in cui brillavano due occhi scuri. Potevo percepire il calore che emanava il suo corpicino senza neanche toccarla. Chiamai la hostess e le chiesi di controllare se avessero un termometro e degli antipiretici a posologia pediatrica. Nell'attesa, con evidente sgomento della madre, denudai completamente la piccola per darle la possibilità di perdere un po' del suo calore. La hostess tornò con un termometro e mi disse ciò che avevo temuto: gli unici farmaci presenti nell'armadietto erano per adulti. Posizionai il termometro digitale nella piega tra coscia e inguine e aspettai di sentire il segnale dell'avvenuta registrazione della temperatura. Sembrò un’eternità. Quando lo ripresi tra le mani il termometro segnava 40.2. Per poco non svenni sul serio. La cosa peggiore che poteva capitarmi sarebbe stata gestire delle convulsioni febbrili senza nessun tipo di farmaco. Controllai la frequenza respiratoria della piccola e mi resi conto non solo che era superiore a quello che avrebbe dovuto, ma che presentava il tipico triage intercostale da polmonite. Maledissi il momento in cui mi ero dichiarato medico e disponibile. Ma ormai era troppo tardi. Mi concentrai sulla febbre. Mi feci portare dalle assistenti di volo quelle garzette che normalmente venivano distribuite per rinfrescare il viso e le mani, le impregnai di alcool e cominciai a passarle con delicatezza sulle braccia e sulle gambe della piccola. Insegnai alla madre come doveva fare, le raccomandai di cambiare garza ogni cinque minuti e di insistere nell'offrirle il capezzolo. La tranquillizzai sul fatto che sarei ritornato a controllare la bimba ogni mezz’ora. Ogni volta che tornavo al mio posto, in attesa del controllo successivo, mi ritrovavo a sperare in qualche aiuto divino. Scoprii dentro di me un lato religioso che non pensavo di possedere. Quando ci si trova ad affrontare situazioni tragiche viene naturale sperare e affidarsi in qualcosa di superiore. Qualcuno aveva detto che “non ci sono atei in trincea” e io mi sentivo in trincea. Fortunatamente, seppur con una lentezza che mi logorava, la febbre cominciò a scendere. Dopo circa tre ore il termometro segnava 38.5 e io cominciai a sentirmi meno angosciato. La piccola non era più paonazza, non emanava calore come un termosifone e sembrava riprendere un po'


32 di interesse per il capezzolo della madre. La frequenza del suo respiro continuava però a essere più veloce del dovuto e il triage era ancora presente. Monitorai la mia piccola paziente ogni mezz’ora fino al momento dell'atterraggio. Prima di scendere dall'aereo raccomandai alla madre di portarla da un pediatra il più presto possibile e ringraziai chi, dal cielo, mi aveva fornito aiuto e assistenza. Quando i miei piedi toccarono finalmente il suolo sentii l'irrefrenabile desiderio di fare quello che presumo avesse fatto Cristoforo Colombo allo sbarco su quella che pensava fosse la spiaggia delle Indie: inginocchiarmi e baciare la terra. Non lo feci per pudore. Dopo aver espletato le lunghe, noiose formalità doganali e aver cambiato duecento euro in pesos convertibili di piccolo taglio, mi diressi alla ricerca di un taxi regolare con l’apparente sicurezza di un veterano. Avendo studiato con attenzione le vicissitudini riportate da molti turisti sui blog, non mi feci irretire dalle proposte molto più economiche dei taxi particular. Non volevo correre il rischio di farmi rubare tutto proprio il giorno del mio arrivo. Mentre mi affannavo a cercare un taxi di una delle compagnie governative, fui raggiunto dai due futuri sposi conosciuti al check in e da altri tre potenziali prossimi fidanzati che avevano fatto il volo con noi. «Scusate» disse uno di loro «ma... visto che andiamo tutti e sei a l'Avana, perché non prendiamo un pulmino invece che tre o quattro taxi? Spenderemmo meno e sarebbe anche più sicuro per tutti. Che ne pensate?». Dovemmo ammettere che non aveva tutti i torti. Cominciammo a chiedere dove sarebbe stato possibile trovare un tassista con un van per sei persone e la ricerca non si rivelò né facile né breve. «Sembriamo quei personaggi del libro di Ludovico Pirandello» disse dopo un quarto d'ora di infruttuosa ricerca uno dei tre nuovi arrivati in un afflato culturale. «Luigi» tentai di rettificare. «Dimmi» mi rispose uno degli altri. «Niente, scusa» replicai io un poco confuso. «Quale libro?» chiese uno degli altri anche lui evidentemente appassionato lettore del grande scrittore siciliano. «Quello dei “sei personaggi in cerca d'autista”» rispose serio il primo. «Ahh, è vero» replicò l'altro annuendo. Ero sempre più confuso. Li guardai per capire se stessero scherzando o


33 parlando sul serio. Capii purtroppo che dicevano sul serio. «...d'autore» volli precisare comunque. «Cosa?» chiese il cultore pirandelliano. «Sei personaggi in cerca... d'autore» insistetti. «Ah ah, non male» disse lui ridendo mentre finalmente un pulmino di una compagnia pubblica si fermava davanti a noi. «I sei personaggi hanno finalmente trovato l'autista... anzi l'autore come ha detto simpaticamente Antonio» risero tutti e cinque una volta che il pulmino fu partito. Cominciai a mettere in dubbio le mie vaghe conoscenze su Luigi Pirandello e tutta la sua produzione letteraria. Decisi che sarei stato il primo a scendere, non volevo mettere a repentaglio quei pochi ricordi di letteratura che ancora mi erano rimasti. Diedi l'indirizzo di calle Chacón, con la segreta speranza che esistesse realmente una calle Chacón. Il tassista non fece una piega e io, almeno in quel frangente, mi tranquillizzai. )LQH DQWHSULPD &217,18$


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