In uscita il 3 / /2019 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine DSULOH e inizio PDJJLR 2019 (5,99 euro)
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FABRIZIO MALFATTI
IL SEGNO DEL POTERE
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ IL SEGNO DEL POTERE Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-298-0 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Aprile 2019 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Agli amici dell’Associazione Storico Culturale “Il Cuore di Bartolomeo”. Grazie a una loro scoperta è nata l’idea per questo libro
“Il desiderio naturale degli uomini di bene è conoscenza.” Leonardo da Vinci
E così, il giovane Horus diede la caccia al malvagio Seth, per vendicare l’assassinio del padre Osiride. La terribile battaglia fra i due Dèi e i loro seguaci durò tre giorni e tre notti. Seth ne uscì dilaniato nel corpo, mentre il giovane Horus perse l’occhio sinistro, che si divise in sei parti…
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LA GENESI
Spazio extra orbitale, circa 5000 a.C. L’oggetto proveniva dalle profondità del cosmo e aveva viaggiato per eoni attraverso lo spazio. Nel suo lungo peregrinare attraverso gli abissi interstellari, aveva più volte mutato la sua rotta, influenzato dai campi gravitazionali di corpi celesti giganti, dall’attrazione di stelle senza nome, da nubi di polvere cosmica e dall’urto con altri piccoli asteroidi. L’ultima correzione lo stava portando verso una stella di scarsa importanza, situata ai margini di quella galassia che un giorno sarebbe stata conosciuta come Via Lattea. Con un diametro di un metro circa e il peso approssimativo di cinquemila chili era una roccia insignificante, se paragonata ai suoi enormi fratelli, veri e propri mondi desolati e senza vita che orbitavano nell’universo. Questo meteorite di poco conto, dopo aver mutato la rotta ancora una volta, sfiorando il campo gravitazionale di un mondo di quel sistema, un gigante gassoso, si dirigeva verso il terzo pianeta. Entrato nella sua atmosfera l’attrito lo rallentò, e cominciò a riscaldarlo sempre di più, fino a che non iniziò a fondersi e frammentarsi, lasciando nel cielo lunghe scie luminose. Sahara, circa 5.000 a.C. Con lo sguardo rivolto al cielo, un gruppo di pastori nomadi osservò il fenomeno in un silenzio colmo di terrore, mentre l’oggetto celeste piombava al suolo con un grande fragore, alzando una nuvola di sabbia e detriti. Poi regnò il silenzio. Con gli sguardi atterriti e le mani tremanti, gli uomini che avevano assistito all’evento radunarono faticosamente gli animali che si erano dispersi, mormorando antichi scongiuri, e cominciarono ad allontanarsi da quel luogo che aveva visto scatenarsi l’ira dei loro Dèi. Tutti, meno uno.
10 Incurante delle urla e delle suppliche dei suoi compagni, un uomo poco più che ragazzo, salì sul dromedario e si avviò verso il luogo della collisione. Il gruppo si era messo in movimento da un po’. Gli uomini ancora scossi discutevano animatamente di quello che avevano appena visto. Nessuno accennava al giovane che si era allontanato: lo credevano ormai perduto per sempre, punito dalle Divinità per la sua curiosità. Fu l’ultimo componente della fila che, girandosi per controllare un animale rimasto indietro, vide un dromedario lanciato al galoppo dirigersi verso di loro. Avvisò gli altri con un grido e tutti si fermarono in attesa, posando istintivamente le mani sulle armi che portavano al fianco. Lo stupore fu enorme quando riconobbero nel conducente il ragazzo che li aveva lasciati poco prima. Non appena raggiunse la carovana lo circondarono, subissandolo di domande, rimproveri, prediche e minacce. Lui non disse una parola ma prese una bisaccia legata alla sella dell’animale e, una volta aperta, ne rovesciò sul terreno il contenuto. I presenti ammutolirono vedendo quello che il ragazzo aveva portato con sé e lo guardarono con occhi diversi, quasi con reverenza. Poi, in silenzio, rimontarono sui loro animali e, sempre senza dire una parola, ripresero il loro cammino fissando di tanto in tanto, di sottecchi, quello strano ragazzo che aveva ricevuto un regalo dagli Dèi. India Nord Occidentale, circa 5.000 a.C. Il rombo che pareva provenire dal nulla fece sobbalzare la piccola comunità, interrompendo il lavoro quotidiano. Smisero di raschiare pelli, d’intagliare pietre, di tessere fibre e macinare semi, per osservare stupiti e spaventati la lunga scia luminosa che passava sopra le loro teste. Dopo pochi istanti dall’avvistamento, un boato spaventoso, seguito da un forte tremito del terreno e da una folata di vento caldo, investì il gruppo di persone, facendole urlare dal terrore mentre scappavano in ogni direzione, cercando di sottrarsi a quell’evento misterioso. Passò diverso tempo prima che i più coraggiosi tornassero sul posto, osservando terrorizzati una densa colonna di fumo che si levava non molto lontano da dove si trovavano e si mettessero a radunare in fretta, incitandosi l’un l’altro a fare presto, le poche cose che costituivano le loro ricchezze, decisi ad abbandonare quel luogo che aveva visto scendere su di loro la collera del cielo.
11 Mentre tutti si affaccendavano, cercando di non guardare nella direzione dell’impatto, un uomo rimase in piedi, immobile, a fissare il luogo dello schianto. Incurante dei gemiti delle donne e delle grida di sgomento dei suoi compagni si avviò verso il posto in cui l’oggetto era caduto, scomparendo dopo poco tra i fitti cespugli. Il gruppo era in marcia da un paio d’ore, carico di tutto quello che aveva potuto prendere. Erano ancora spaventati e si erano dimenticati del compagno, quando un fruscìo alle spalle dell’uomo che chiudeva la fila lo fece voltare. Un grido di stupore e di meraviglia gli uscì dalle labbra quando riconobbe nella figura che veniva verso di lui attraverso la folta vegetazione, colui che ormai avevano dato per morto. Tutti gli si affollarono intorno sbigottiti e increduli, qualcuno addirittura lo toccò come per accertarsi che non fosse una visione. Allo sbalordimento seguì la curiosità e cominciarono a tempestarlo di domande. Lui li guardò in silenzio, poi infilò una mano nel rozzo indumento che indossava e ne estrasse un pezzo di scorza ripiegato. Quando lo aprì per mostrare quello che celava, fecero tutti un balzo indietro, spaventati alla vista di quell’oggetto. Superato il primo momento di timore, si avvicinarono per osservarlo con curiosità. Dopo qualche istante, uno alla volta si inginocchiarono lentamente e posarono la fronte a terra mentre l’uomo richiudeva l’involucro e lo riponeva nella veste. Quando ripartirono, lui si mise in testa alla fila.
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IL PASSATO
Abydos, Alto Egitto, 3100 circa a.C. Le zattere formate da fasci di canne di papiro, strettamente legate assieme tramite cavi dello stesso materiale, risalivano in formazione compatta il grande fiume, scivolando pigramente lungo la corrente, aiutate dal ritmo lento e costante delle pagaie impugnate da uomini che remavano con ritmo cadenzato. Le schiene lucide per il sudore e il capo coperto da un semplice fazzoletto di lino per ripararsi dal sole cocente. Un uomo, con il torso nudo muscoloso e abbronzato, era in piedi sulla prua dell’imbarcazione di testa e osservava con gli occhi socchiusi per ripararsi dal riverbero, le acque davanti a sé. Nulla lo distingueva dagli altri, tranne il bordo rosso del copricapo e dello “shendjut”, il corto gonnellino di stoffa che cingeva i fianchi. “Non manca molto” pensò, poi si voltò verso il gruppo di persone che alle sue spalle attendeva in silenzio. «Notizie dagli esploratori?» domandò rivolgendosi a un uomo anziano, dal volto segnato da numerose cicatrici, che impugnava una spada falcata. «Non ancora, oh potente, ma ormai è questione di poco: dovrebbero essere di ritorno a momenti» rispose quest’ultimo con deferenza. Improvvisamente, da una delle zattere più vicine alla sponda destra, si levarono delle voci e uno degli occupanti alzò la pagaia agitandola per richiamare l’attenzione della barca regale. «Devono essere loro» disse il vecchio soldato, spostandosi verso il bordo della grande chiatta e osservando un uomo che, saltando agilmente da un’imbarcazione all’altra, si avvicinava alla loro. Un ultimo balzo e l’esploratore fu sul ponte. Fece pochi passi e s’inginocchiò, posando la fronte a terra, ai piedi del suo Re. «Parla» gli intimò quest’ultimo. «Sono accampati dietro la prossima ansa, oh Divino, sulla riva occidentale» ansimò l’uomo senza alzare la testa. «Quanti sono?» «Non più di duemila» rispose l’esploratore. «Hanno arcieri?»
13 «Non ne ho visti.» Dopo averlo congedato con un cenno della mano, il Sovrano si voltò verso il suo Generale. «Poco più di noi e senza arcieri… o almeno con pochi di loro…» mormorò mentre un sorriso crudele gli si disegnava sul volto. «Come ci schieriamo?» domandò il vecchio guerriero. «Fai sbarcare tutta la fanteria, ma una sola unità di arcieri, tutti gli altri tiratori rimarranno sulle imbarcazioni. Da lì potranno colpire stando al sicuro.» Rapidi ordini furono impartiti e uomini armati di lance con la punta di rame, mazze, spade falcate e asce da combattimento, sbarcarono velocemente passando da una chiatta all’altra, per disporsi poi in formazione sulla riva e, successivamente, a un secco ordine cominciare a marciare costeggiando l’argine. Mentre gli uomini a piedi si allontanavano e le barche, con gli arcieri allineati in file compatte, continuavano a navigare spostandosi verso il centro del fiume, il Re si girò e si avviò verso un piccolo baule in legno, posato a poppa della sua imbarcazione e sorvegliato a vista da due possenti guerrieri nubiani. Lo aprì e con delicatezza sfiorò lo scrigno d’oro custodito al suo interno, passando quasi con timore le dita sull’occhio inciso sulla sua superficie, mentre mormorava alcune parole. Dopo qualche istante, con un sospiro, richiuse il forziere e tornò al suo posto. Le prime ad arrivare sul luogo dello scontro, aiutate dalla corrente che si era fatta più forte, furono proprio le imbarcazioni dalle quali, non appena furono alla giusta distanza, partì un nugolo di dardi verso gli uomini schierati sulla riva che, disorientati e decimati da quella pioggia di frecce, cercarono di rispondere, scagliando le loro lance che perlopiù non raggiunsero le chiatte, perdendosi nelle acque limacciose del Nilo. Infuriati per quel primo insuccesso, molti di loro entrarono in acqua per portarsi a tiro, mentre i pochi armati di arco cercavano di contrastare il tiro degli avversari. Alcuni soldati sulle barche cominciarono a cadere, colpiti dalle aste della fanteria nemica, che prese coraggio avvicinandosi fino a che l’acqua non arrivò loro al torace, impedendogli di proseguire e rendendoli bersagli facili, ma mettendoli tuttavia in grado di colpire più efficacemente gli equipaggi. Fu in quel momento che alle loro spalle sopraggiunse la fanteria, sbarcata poco prima, che si gettò nella mischia, urlando e colpendo i nemici con tutto quello che avevano.
14 Fu praticamene un massacro: chiusi nella morsa tra il fiume da dove continuavano a piovere frecce e le truppe che li avevano sorpresi da tergo, dalle fila delle quali altri arcieri li bersagliavano, ai sopravvissuti non rimase altro che arrendersi o morire. Dalla chiatta sulla quale era rimasto a osservare lo scontro, circondato dalla sua guardia personale, il Re vide i suoi uomini finire i pochi che rifiutavano di capitolare e radunare gli altri che avevano preferito una vita di schiavitù alla morte sul campo di battaglia. «È finita, oh potente, hai vinto. Questa era l’ultima resistenza e ora la strada verso il Nord è aperta. Le “Due Terre” sono tue e potrai cingerti delle due corone» gli sussurrò il vecchio generale. Selk-Hor, conosciuto anche come Horo Scorpione, ultimo Re predinastico, si voltò e lo guardò serio in volto. «Ur-Atum, vecchio amico, Horus ha vinto. Io sono solo il suo strumento» gli disse. Harappa, India Nord Occidentale, (odierno Punjab), 2500 a.C. Guadato il fiume Iravati, i due uomini – uno anziano e uno molto più giovane – si diressero verso le mura che cingevano la città, accodandosi a un bambino che spingeva avanti a sé un grosso bufalo pungolandolo con un bastone Appena varcata la Porta del Tramonto, i due uomini si trovarono immersi nella festosa confusione di un mercato e spalancarono gli occhi stupiti, scrutando i banchi allineati ordinatamente lungo i lati della strada che vendevano ogni sorta di mercanzia: stoffe, verdure, monili, vasi di terracotta decorati, riempivano i ripiani ed erano oggetto di animate contrattazioni fra i mercanti e i clienti. Rimasero per qualche istante fermi in mezzo alla strada, appoggiati ai loro lunghi bastoni, indecisi sul da farsi. Nel povero villaggio ai piedi delle montagne da dove venivano, non avevano mai visto tanta gente tutta insieme, e la cosa incuteva loro un po’ di timore. Si scossero dallo stupore quando la gente, indaffarata, cominciò a spingerli da una parte all’altra per passare, mentre osservavano con disprezzo le povere vesti che indossavano e gli rivolgevano parole in una lingua che non capivano, ma che dal tono non sembravano amichevoli. Proseguirono guardando con malcelato sbalordimento le case che sembravano raggiungere il cielo; tutt’altra cosa rispetto alle capanne di fango e paglia in cui erano abituati a vivere.
15 Passarono sotto logge che ospitavano altre botteghe e quelle che sembravano taverne, con la gente seduta a grezzi tavoli di legno che rideva rumorosa mentre beveva da boccali di terracotta. Il più giovane dei due uomini si fermò, osservando curiosamente gli avventori che non fecero caso alla sua presenza, finché uno di questi – forse più ubriaco degli altri – lo fissò e gli urlò qualcosa, sghignazzando e suscitando l’ilarità di quelli seduti attorno a lui. Il ragazzo lo guardò a sua volta e gli rispose con calma in una lingua armoniosa, dalla cadenza musicale. La cosa fece infuriare ancora di più l’uomo che, barcollando, si alzò dal tavolo e si diresse verso di lui, allungando le braccia robuste per afferrarlo. Era più alto e più grosso e lo scontro pareva segnato: il giovane, tuttavia, non si mosse e anzi aspettò che l’energumeno gli si avvicinasse. Poi, con un movimento fluido e così rapido che sfuggì agli occhi di chi stava guardando, ruotò di fianco, allungò una gamba e con il braccio libero dal bastone, parve accarezzare il collo del suo assalitore. L’uomo emise un grugnito e si piegò in avanti, inciampando nel contempo nella gamba tesa e cadendo rovinosamente a terra dove rimase privo di sensi. Senza scomporsi, il giovane fissò i suoi compagni, che a loro volta lo guardarono a bocca aperta, incapaci di realizzare come avesse fatto un tipo talmente gracile ed esile ad avere la meglio, in modo così rapido e decisivo, sul loro amico. Il vecchio, che in tutto quel trambusto era rimasto a pochi passi di distanza senza proferire una parola o accennare a un gesto qualunque, si scosse dalla sua immobilità e, appoggiando la mano sulla spalla del suo compagno, gli sussurrò all’orecchio alcune parole, usando quella lingua strana e melodiosa. Il ragazzo annuì e dopo aver gettato un’ultima occhiata al gruppo intorno al tavolo, si girò e seguì l’anziano che aveva ripreso la strada. La città era dominata da un centro fortificato sopraelevato, al di sotto del quale sorgevano le case in mattoni d’argilla disposte secondo uno schema ad angolo retto. Altri edifici di grandi dimensioni, presumibilmente dei granai, erano disposti su più file e dotati di fori per la ventilazione. I due uomini si diressero alla base di uno di questi dove, quasi soffocata dalla gigantesca struttura che la sovrastava, si trovava una casupola sulla
16 soglia della quale era seduto un uomo intento a tracciare dei segni su una pelle tesa su un’intelaiatura. Era di mezza età, senza capelli e indossava una veste che s’indovinava essere stata di qualche pregio ma che ora, consunta e logora, non pareva molto diversa da quella che indossavano i due che venivano verso di lui. Quando furono più vicini, alzò gli occhi dal lavoro che stava facendo e li fissò con uno strano luccichio nello sguardo. «Siete in ritardo» disse alzandosi «vi aspettavo due giorni fa.» «Abbiamo avuto dei problemi lungo la strada» rispose il più anziano, non specificando di quali problemi si trattasse e lui, d’altro canto, non lo chiese. Spostò lo sguardo sul suo compagno, squadrandolo a lungo da capo a piedi, come a valutarlo. Il giovane sostenne quell’esame in silenzio e solo l’aggrottarsi della fronte per un momento denotò una qualche sua preoccupazione. «È lui?» chiese poi rivolgendosi nuovamente all’anziano che annuì. «È molto giovane, non so se…» mormorò riportando lo sguardo sul ragazzo. «Non lasciarti ingannare dalla sua età» lo interruppe il vecchio «è un errore che hanno fatto in molti, non ultimo un tale poco fa…» Il calvo si strinse nelle spalle. «Se lo dici tu… seguitemi» disse facendogli strada dentro casa. L’interno era spoglio e buio, appena rischiarato dalle fiamme di alcune piccole lucerne che tremolarono al passaggio dei tre uomini. Il loro ospite fece cenno di aspettare e, mentre i due nuovi arrivati attendevano in piedi nella penombra, andò in un angolo e tolse un involucro di cuoio da sotto un mucchio di altre pelli. Tornò indietro e porse il fagotto al più anziano che scosse il capo. Indicò il suo compagno e sussurrò: «È lui il prescelto.» Il ragazzo prese l’involto e con reverenza mista a timore, cominciò lentamente ad aprirlo, finché il suo contenuto non apparve. Rimase a lungo in silenzio a fissarlo, alla fioca luce dei lumi, mentre i suoi compagni lo osservavano pochi passi dietro di lui. Diversi minuti dopo, il giovane ripiegò le pelli e s’infilò il fagotto sotto la veste, poi, senza dire una parola, uscì dalla stanza e si fermò sulla soglia. Gli occhi fissi verso il cielo. Anche gli altri due uscirono, poi si fermarono davanti al telaio su cui era adagiata la pelle su cui stava lavorando l’uomo prima del loro arrivo. La tolse da lì, e dopo averla arrotolata la diede al vecchio.
17 «Qui c’è tutta la storia, tutto ciò che è stato tramandato fino a oggi sull’origine di… di… quello…» spiegò «abbiatene cura.» Ringraziando con un cenno del capo, l’uomo anziano si avviò dietro al suo giovane compagno che nel frattempo aveva imboccato la via del ritorno. Dopo pochi passi si fermò e si girò. «Tu cosa farai?» chiese all’uomo che li stava osservando a braccia conserte «gli uomini del Re sono sulle tue tracce, se dovessero catturarti…» Lasciò la frase in sospeso: non c’era bisogno di dire altro. Entrambi sapevano benissimo cosa sarebbe successo se i soldati lo avessero preso: la tortura fino a che non avesse rivelato tutto ciò che sapeva. «Non preoccuparti per me, so cosa fare» rispose l’altro. Rientrò in casa, si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò a una finestrella, osservando i due che si allontanavano finché non scomparvero dietro una curva. Una volta spariti dalla sua vista, tolse da una nicchia della parete una bottiglietta di ceramica dipinta e, dopo un attimo d’indecisione, ne bevve il contenuto tutto d’un fiato. Quella sera stessa le guardie reali irruppero nella casupola, ma l’uomo che erano venuti a prendere era già freddo e l’unica cosa che poterono riferire al Sovrano fu che il cadavere aveva una strana espressione sul volto, come se stesse ridendo. *** Quando giunsero in vista del villaggio erano allo stremo, stanchi e affamati. Le provviste erano finite da qualche giorno e da allora non si erano cibati che di radici e bevuto l’acqua dei torrenti. Avevano patito il freddo, la pioggia li aveva inzuppati fino al midollo e la fatica aveva reso le loro membra legnose. Ma la volontà non era mai venuta meno. Li aveva sospinti lungo tutto il viaggio di ritorno, anche quando il corpo urlava il proprio dolore e la mente vacillava per le privazioni. Lo spirito che li animava, la consapevolezza dell’importanza di quello che trasportavano li avevano aiutati a sopportare gli stenti e i pericoli che si annidavano in quel territorio selvaggio e inospitale. Arrivati a un bivio il giovane, che camminava in testa, si fermò e si voltò verso il suo anziano compagno. «Io non vengo con te» gli disse pacatamente.
18 L’altro lo guardò e capì: le loro strade si sarebbero divise lì. A quel crocevia il cammino che ognuno di loro avrebbe preso da quel momento in poi sarebbe stato diverso e non solo in senso concreto: il loro stesso destino sarebbe stato differente. Per un attimo ebbe compassione di quel ragazzo: così giovane e con un fardello così pesante da portare che avrebbe schiacciato uomini ben più maturi. Ma fu solo un momento. Comprese in un lampo che la stessa grandezza del compito che lo aspettava lo avrebbe aiutato a portarlo a termine. Lo salutò con un cenno della mano e lo guardò allontanarsi lentamente in direzione dei monti che facevano da maestosa corona alla valle. Lo seguì con lo sguardo fino a quando non scomparve al di là di un crinale. Una volta perso di vista riprese il suo cammino verso il villaggio. *** Era vecchio, molto vecchio, e stava morendo. Guardò con occhi ormai stanchi i parenti e gli amici raccolti intorno al suo giaciglio, le loro facce tristi e compunte e avrebbe voluto dire loro di non affliggersi, perché lui non aveva paura né tanto meno rimpianti: la sua era stata una vita piena e felice, migliore di tante altre e ora aspettava solo di andarsene. Nessun rammarico… o forse sì, una cosa avrebbe voluto sapere: che fine aveva fatto quel ragazzo con il quale tanti anni prima aveva fatto un viaggio alla ricerca di qualcosa di meraviglioso? Che ne era stato di lui? Era ancora vivo? Sospirò rumorosamente, allarmando i presenti che credettero avesse esalato il suo ultimo fiato. Le voci preoccupate intorno a lui si spensero all’improvviso, riducendosi a un mormorio concitato, mentre la luce del sole che entrò dalla porta gli ferì gli occhi. “Ancora gente!” pensò “ma non hanno nulla di meglio da fare?” Poi però si rese conto che non si trattava della solita visita di cortesia, lo capì dal silenzio che era piombato nella stanza e dalla parola che, sebbene sussurrata a bassa voce, non poté fare a meno di udire: “sadhus”. Cosa ci faceva un santone lì? In tutta la sua lunga vita non era mai stato particolarmente religioso, aveva sempre preferito la razionalità alla fede cieca e non capiva perché ora quel tipo venisse a fargli visita.
19 Sperava in sua conversione? Beh, sarebbe rimasto deluso. Vide un viso, incorniciato da una folta barba brizzolata, chinarsi sul suo. Osservò due occhi dolci e velati di lacrime che lo fissavano e in un attimo li riconobbe. «Sei tu!» mormorò con un filo di voce «il ragazzo di tanti anni fa…» «Sono io, vecchio amico.» «Avrei mille cose da chiederti ma purtroppo il mio tempo ormai è finito… ma una cosa la vorrei sapere, prima di morire…» «Dimmi.» «Quello che abbiamo preso a Harappa, una vita fa… ce l’hai ancora?» Quello che un tempo era un ragazzo, aprì la bisaccia che portava a tracolla, su un corpo completamente nudo, e ne mostrò il contenuto al moribondo che con uno sforzo alzò il tronco per guardare meglio. Fissò a lungo il contenuto della sacca, poi riportò gli occhi sull’uomo chino su di lui, sorrise, si adagiò nuovamente, abbassò le palpebre e spirò. Mentre i pianti e i lamenti cominciavano a levarsi nella misera capanna, il santone appoggiò la mano sulla fronte del defunto, mormorando alcune parole. Poi, con un movimento fluido e aggraziato, si alzò e uscì. Gli abitanti del villaggio videro la sua figura magra e nuda allontanarsi sulla strada polverosa, in direzione delle montagne. Oasi di Siwa. Deserto Libico. 332 a.C. Il drappello avanzava lentamente nell’immensa distesa di sabbia. Gli uomini procedevano a piedi, trascinando a fatica una gamba davanti all’altra e tirando i cavalli per le briglie, stanchi e assetati quanto loro. I volti erano sudati, le labbra aride e la pelle chiara – sotto i raggi implacabili del sole – si era arrossata e screpolata. Le armature, le armi e gli scudi, un peso insostenibile da portare addosso con quel caldo, erano legate sul dorso degli animali da soma, insieme ai pochi viveri rimasti e agli otri pieni di un’acqua torbida e calda. Avevano percorso quasi trecento chilometri da quando erano partiti dai loro insediamenti sulla costa del Mediterraneo, e alcuni di loro non ce l’avevano fatta. I loro corpi giacevano là dove erano caduti, sepolti sotto un mucchio di sassi. Un misero sepolcro ma l’unico possibile per evitare che gli animali selvaggi ne facessero scempio. Solo due uomini erano a cavallo, in testa alla piccola schiera: uno non era molto alto ma di corporatura robusta, i capelli erano ispidi e di un colore biondo rossiccio, il viso glabro. Quello che colpiva di più in lui
20 erano gli occhi: uno azzurro e l’altro marrone rendevano il suo sguardo magnetico e per certi versi inquietante. L’altro era più alto ma dal fisico più snello, i capelli erano lisci e scuri, gli occhi neri. Costui ruppe il silenzio che durava da parecchio. «Mio signore, hai idea di quanto manchi ancora?» L’interpellato si girò verso di lui e tenendo il collo leggermente inclinato a sinistra, lo guardò torvo. Poi gli rispose con una voce dal tono aspro: «Poco, Aristonoo, poco… o tanto, non lo so.» «Gli uomini sono stanchi e anche tu non…» «Gli uomini andranno avanti finché io lo dirò e io andrò avanti finché non troveremo quello che siamo venuti a cercare.» «Ma…» Fu interrotto da un grido proveniente dal sommo di una duna, a circa un centinaio di metri davanti a loro, dove un uomo a cavallo sventolava un drappo bianco. «È uno dei nostri esploratori» disse l’uomo più alto «deve aver trovato qualcosa. Speriamo non sia un’altra banda di predoni. Affrontare un combattimento in queste condizioni non è certo uno scherzo…» Il cavaliere spronò il suo animale, cavando le ultime stille di energia dalla bestia, e si precipitò giù. In pochi attimi raggiunse il gruppo e si fermò, sollevando una nuvola di sabbia. «Mio signore…» la voce era rotta dalla fatica, ma sotto il tono stanco si indovinava una grande eccitazione. «L’ho trovata… l’ho trovata… è là, dietro quella duna, distante non più di un paio di miglia.» Gli strani occhi dell’uomo che comandava parvero accendersi di una luce interiore quando si voltò verso il suo compagno. «Hai visto, amico mio? Gli Dèi sono con me. Di’ agli uomini di indossare le armature e prendere le armi, non ci presenteremo al tempio come degli straccioni qualunque.» Dopo circa un’ora di marcia lo spettacolo che si presentò al gruppo di soldati, schierati in pieno assetto di battaglia lungo un crinale, sembrò il giardino degli Dei: palme verdi e ondeggianti al leggero vento, si stendevano a perdita d’occhio; giardini e campi coltivati circondavano un grosso villaggio fatto di fango essiccato, al di là del quale si scorgeva una costruzione più grande a massiccia.
21 Lasciarono i cavalli sulla sommità e scesero verso l’oasi, in formazione serrata; le lance in pugno, gli elmi calzati e le “kopis”, le temibili spade macedoni, appese al fianco. Solo Aristonoo e il suo compagno rimasero in sella, anche loro ben equipaggiati. Proseguirono fendendo una piccola folla, uscita dalle case per fissare ammutolita lo spettacolo di quei guerrieri che marciavano compatti, con passo cadenzato, in un silenzio carico di tensione, coperti di corazze di cuoio e riparati dietro grandi scudi, con elmi lucenti che lasciavano intravvedere solo gli occhi, ardenti e vigili. Sempre in una calma irreale, il gruppo arrivò, infine, davanti a quello che appariva proprio per quello che era: un tempio. Era un santuario antico, molto antico, si capiva dai muri levigati dalla sabbia portata dal vento, dalle pitture sbiadite che l’ornavano, dalle crepe sulle pareti e dai mucchi di pietre cadute dalla sommità. Fermo, davanti al grande portone spalancato che immetteva all’interno, c’era un solo uomo: era anziano e con il capo rasato, la veste di lino bianca e gli ornamenti d’oro, lo qualificavano come un sacerdote. A un cenno di uno dei due uomini a cavallo, il plotone si fermò, disponendosi a semicerchio; le schiene al tempio e le lunghe lance rivolte all’esterno. Scesi a terra si avvicinarono al sacerdote che li fissava imperturbabile. Il più basso si tolse l’elmo a forma di testa di leone, ornato di due lunghe piume bianche, e si rivolse al vecchio. «Sai chi sono?» chiese con la sua voce rude. L’altro chinò il capo impercettibilmente, in un cenno di assenso. «Ti stavamo aspettando, Macedone. Sapevamo che prima o poi saresti venuto da noi.» «Allora saprai anche perché sono qui.» «Amon, il nostro Dio a cui è dedicato questo santuario lo sa… ma tu lo sai?» Il soldato attese un istante prima di rispondere e quando lo fece la sua voce parve tremare, ma fu solo un attimo. «Prete, il mio destino si deve compiere, è scritto nelle stelle.» Il sacerdote annuì ancora. «Allora andiamo» disse poi e si diresse verso l’interno seguito da quello che aveva chiamato Macedone. Vedendo il suo signore avviarsi dentro, Aristonoo fece per seguirlo, quando un gesto imperioso della mano dell’altro lo fermò.
22 «No, amico mio, questa è una cosa che devo fare da solo» disse alla sua guardia del corpo «tu aspettami fuori con gli altri. Tornerò, non ti preoccupare» e scomparve all’interno. Aristonoo vide chiudersi lentamente i portoni dietro le spalle dei due. Era scesa la sera e gli uomini avevano acceso dei fuochi per scaldarsi dall’aria che si era fatta pungente. Il morale era risalito dopo che si erano rifocillati e ora si sentivano risa e battute levarsi dai bivacchi. L’atmosfera era rilassata, segno che le fatiche e le privazioni della lunga marcia erano solo un brutto ricordo. Erano però pur sempre dei soldati, veterani di tante battaglie e quindi le armi non erano mai lontane. L’unico che non sembrava godere della situazione era Aristonoo. Da quando il suo compagno era entrato nel tempio, ed erano ormai passate diverse ore, non si era mosso dal suo posto. Seduto su una coperta stesa sulla sabbia teneva d’occhio la porta sbarrata, l’ansia e la preoccupazione che aumentavano mano a mano che il tempo passava. Stava sbocconcellando nervosamente alcuni datteri e bevendo del latte di cammella che una donna gli aveva portato poco prima, pensando seriamente di fare irruzione all’interno della costruzione, quando un movimento impercettibile dei battenti lo fece balzare in piedi. L’anta si aprì di quel tanto per permettere a una figura di uscire, e poi si richiuse. Riconobbe la sagoma che si avvicinava e si avviò correndo verso di lei. «Tutto bene, mio signore?» chiese. L’uomo parve non sentirlo. Aristonoo lo vide alzare lo sguardo al cielo. Gli strani occhi di due colori percorsero la volta stellata scintillante di migliaia di punti luminosi come se fossero alla ricerca di qualcosa che solo lui sapeva esserci, per poi posarsi sul piccolo cofanetto d’oro che stringeva fra le mani, e infine sulla figura dell’amico che gli stava davanti. «Tutto a posto. Tranquillo. Lasciamo riposare gli uomini ancora un giorno e poi partiamo.» «Dove andremo?» Alessandro III, Re dei Macedoni, il vincitore del Granico e di Isso, il conquistatore dell’Egitto, colui che i posteri avrebbero conosciuto come Alessandro Magno, guardò il compagno e rispose: «A fondare una città.»
23 Taxila, fiume Indo. Odierno Punjab. 326 a.C. Aristonoo scostò il velo della tenda di Alessandro ed entrò all’interno. Il Macedone stava discutendo animatamente intorno a un tavolo con alcuni dei suoi generali. Sul piano di legno grezzo era spiegata una pelle di pecora sulla quale era disegnata una mappa approssimativa della regione. Blocchetti di legno disposti sulla carta rappresentavano le truppe macedoni e quelle avversarie. Gli uomini studiavano la disposizione delle armate, discutendo sulle strategie migliori da adottare in vista dello scontro con il Re Porro, che esploratori avviati in ricognizione avevano comunicato essersi arrestato nei pressi del fiume Idaspe. Aristonoo osservò in silenzio il suo Re: la fronte corrugata, i capelli biondo rossicci scompigliati come sempre, la luce ultraterrena che sembrava scaturire da quei suoi strani occhi, la volontà sovrumana di portare a compimento i suoi scopi, qualunque essi fossero, che emanava come un’aura dal corpo robusto. Alessandro alzò la testa, sbuffando. «No, Cratero. Sono convinto che la mia strategia sia ancora la migliore. Divideremo l’esercito in vari drappelli, compiendo scorrerie per tenerli sempre all’erta, mentre io con un contingente guado il fiume più a monte… Aristonoo, vieni avanti, voglio sentire anche la tua opinione!» La guardia del corpo si avvicinò. «Mio Re, Onesicrito è tornato.» Alessandro lo guardò con un lampo negli occhi. «Li ha portati con sé?» chiese ansiosamente. L’altro annuì. «Bene amici miei, interrompiamo per un po’ questa riunione» disse il condottiero rivolgendosi ai suoi comandanti «riflettete su quanto abbiamo discusso e stasera ci rivedremo.» Rimasti soli, Alessandro si versò una coppa di vino e fissò Aristonoo. «Dove sono?» domandò «Qui fuori, attendono che tu li riceva.» «Bene, falli entrare.» Aristonoo si avvicinò all’ingresso, spostò la tenda e fece un cenno all’esterno. Il gruppo di persone meravigliò anche il Macedone, che pure era abituato alle sorprese. Oltre a Onesicrito, che li aveva trovati e condotti al campo, e a un paio d’interpreti, i restanti dieci uomini erano qualcosa che nessuno dei Macedoni aveva mai visto: magrissimi, quasi emaciati e di varie età; i capelli lunghi e incolti scendevano sulle spalle, a qualcuno dei più vecchi
24 addirittura sino alla vita ed erano completamente nudi. Nessun drappo, niente chitoniskos1, mantelli o panni che li coprissero, solo delle logore bisacce di pelle che alcuni portavano appese a una spalla. Anche i piedi erano scalzi, duri e callosi. Fissavano il Macedone con sguardi tranquilli, privi di ogni timore reverenziale, come se essere convocati da Re o Potenti fosse per loro cosa di tutti i giorni. «Sapete chi sono?» chiese Alessandro. L’interprete si rivolse al più anziano fra loro, un vecchio dall’aspetto austero, i capelli bianchi che gli scendevano a coprire il petto che aveva assunto un colore bruno, come il cuoio antico. L’interpellato, senza distogliere lo sguardo da Alessandro, rispose in una lingua cantilenante: «Mandani, questo è il suo nome» tradusse l’interprete «conosce il tuo nome, o Magnifico.» Alessandro sogghignò e bevve un altro sorso di vino. «Presumo che Magnifico lo abbia aggiunto tu» osservò rivolto all’interprete che arrossì e chinò il capo. «Traduci esattamente quello che dicono» aggiunse poi il Macedone in tono duro «se tieni alla tua testa.» Il rosso del volto dell’uomo si trasformò, con rapidità sconcertante, in un pallore mortale. «Chiedi chi sono e perché girano nudi.» Il vecchio rispose all’interprete parlando lentamente, sempre con quella strana intonazione. «Sono dei saggi, mio Re, proclamano l’ideale di una vita vissuta secondo natura, rifuggendo da ogni comodità della civiltà e disponendo con libertà del proprio corpo. Considerano il cibo ricercato e i vestiti come ostacoli alla purezza del pensiero. Attraverso questo modo di vivere dicono di raggiungere il fine ultimo della vita.» Alessandro li osservò pensieroso. «I gynmnosophistaί2» sussurrò tra sé e sé, poi continuò rivolto all’interprete «il fine ultimo della vita… e cosa sarebbe secondo lui?» Questa volta la risposta fu breve. 1
Piccola tunica.
2
Sapienti nudi.
25 «La conoscenza.» Gli sguardi del Re e del vecchio asceta s’incrociarono e per un attimo il tempo parve fermarsi, poi Mandani parlò ancora. «Dice che ha un dono per te, mio signore ma…» esitò l’interprete che però, all’occhiata furente di Alessandro, si affrettò a proseguire «dovete essere soli. Quello che deve darti non può essere visto da nessuno all’infuori di te.» «No, non è possibile…» sbottò Antinoo facendo un passo avanti e poggiando la mano sulla spada che teneva al fianco «potrebbe tentare di ucciderti… non sappiamo chi realmente sia quest’uomo, potrebbero averlo mandato i tuoi nemici!» «E con che cosa dovrebbe assassinarmi? Potrei spezzarlo come un fuscello con una mano sola, e non vedo armi!» rise Alessandro indicando il corpo nudo dell’uomo. Il vecchio proferì ancora qualche parola. «Dice che ciò che ha da darti completerà quello che hai preso in un altro tempo e in un altro luogo… non so cosa voglia dire esattamente, mio Re… le parole non sono chiare… io…» balbettò confuso l’interprete. «Fuori tutti. Lasciatemi solo con quest’uomo» ordinò secco Alessandro. «Ma…» tentò di obiettare ancora Antinoo, ma a un cenno perentorio del condottiero uscì anche lui dalla tenda, seguito dagli altri. Non appena furono soli, il vecchio si avvicinò al Macedone e, dopo aver frugato nella sacca che portava a tracolla, stese il braccio e aprì la mano che fino ad allora aveva tenuto chiusa a pugno, mostrando quello che conteneva. I due si guardarono in viso: due occhi neri come la notte più buia fissi nello strano sguardo azzurro e marrone del giovane conquistatore. Rimasero così in silenzio per un po’, immobili come statue, senza scambiarsi una parola, ma dicendosi in quel modo più di quello che mille discorsi avrebbero potuto fare. Poi, scuotendosi, Alessandro prese l’oggetto che l’altro gli porgeva, lo osservò per un momento, indi si diresse verso un angolo della tenda e lo ripose in un cofanetto d’oro. Tornò dal vecchio che era rimasto fermo al centro della tenda e, ponendogli le braccia muscolose e coperte di cicatrici sulle spalle, lo ringraziò. L’altro sorrise e annuì, poi senza dire altro uscì all’aperto dove lo aspettavano i suoi compagni. Non appena li ebbe raggiunti, iniziarono a camminare diretti verso oriente.
26 I soldati di guardia fecero per fermarli, ma una voce alle loro spalle li bloccò. «Lasciateli andare» intimò Alessandro, fermo sulla soglia del padiglione, fissando lo strano drappello che si allontanava. Alessandria d’Egitto, 30 a.C. Il tintinnio delle armi che urtavano tra loro e i mormorii di stupore che i soldati si scambiavano guardandosi intorno, erano sovrastati dal rumore dei loro passi cadenzati che riecheggiavano nell’edificio semivuoto, mentre prendevano ordinatamente posizione all’interno della struttura. Erano tutti veterani della X Legio Fretensis e avevano valorosamente combattuto ad Azio per il loro Generale e per questo motivo era toccato a loro l’onore di scortarlo in quella visita. Quando tutti gli angoli furono perlustrati e ogni locale messo in sicurezza e presidiato, un centurione si avviò verso la porta, dove un piccolo gruppo era rimasto in attesa. Dopo una breve conversazione tornò al suo posto, mentre a un cenno di uno degli uomini del drappello, le gigantesche porte bronzee si aprirono del tutto, facendo entrare un manipolo scelto di legionari, alcuni alti ufficiali e svariati sacerdoti. Guidata da questi ultimi, si diresse verso l’interno della costruzione, attraversando stanze spoglie e vuoti corridoi rischiarati da torce infilate in supporti di ferro. Dopo aver camminato per diversi minuti in quell’ambiente austero, arrivarono alla soglia di una piccola camera, al centro della quale si scorgeva un sarcofago e, come obbedendo a un muto ordine interiore, si fermarono, quasi fossero timorosi di entrare. «È qui?» chiese quello che sembrava essere il capo, un uomo magro ma ben proporzionato dal naso aquilino, i capelli biondi e leggermente ricci e gli occhi di un intenso azzurro. I sacerdoti accennarono di sì e così l’uomo entrò nella stanza, avvicinandosi con riverenza alla tomba. Arrivato vicino al sepolcro vi passò leggermente la mano sopra, come ad accarezzarlo, restando pensieroso per alcuni minuti. «Apritelo» ordinò poi imperioso, girandosi verso i suoi uomini. Dopo il primo attimo d’incertezza, i soldati della sua guardia personale obbedirono al loro Generale e si misero all’opera, spingendo il coperchio del sarcofago e usando i manici delle lance per fare leva e alzarlo.
27 Non fu un’impresa facile, perché la pietra tombale che chiudeva la sepoltura era pesante, ma alla fine i loro sforzi furono premiati e la massiccia lastra di granito scivolò di lato, mostrando il corpo racchiuso all’interno. L’uomo biondo si avvicinò e contemplò a lungo in silenzio, i resti mortali di quello che era stato il più grande conquistatore di tutti i tempi, Alessandro Magno. Facendo un cenno a uno dei suoi generali si fece consegnare una corona d’oro intrecciata con dei fiori, che depose con riverenza sul capo mummificato della salma. Stava per ordinare di richiudere la tomba quando notò, vicino alla testa del Macedone, un cofanetto d’oro seminascosto dalle stoffe che avvolgevano il corpo. Non seppe neanche lui perché allungò la mano e prese lo scrigno: dentro di sé sentì che doveva farlo. Era come se lo stesso Conquistatore del Mondo che giaceva ai suoi piedi glielo avesse sussurrato. Lo aprì e, dopo aver osservato a lungo il suo contenuto, lo richiuse con un colpo secco. La fronte corrugata e lo sguardo perso nel vuoto. Mentre usciva, stringendo l’oggetto d’oro, un sacerdote gli si avvicinò e gli chiese se volesse vedere anche la tomba di Tolomeo. Cesare Ottaviano, il futuro Augusto, il fondatore dell’Impero Romano, lo guardò socchiudendo gli occhi azzurri. «Sono venuto a vedere un Re, non a visitare dei morti» gli rispose seccamente per poi allontanarsi a grandi passi, seguito dai suoi generali. Nolana. Colonia Felix Augusta (odierna Nola), 14 d.C. L’Imperatore era morto. Si era spento dolcemente, come aveva sempre sperato, all’età di settantasei anni, lasciando un impero che si estendeva dalla Spagna alla Siria, dal Baltico alla Nubia. Lasciava un’economia florida: agricoltura, artigianato e industria erano cresciute, la popolazione era aumentata e, inoltre, Roma era diventata una città grandiosa, ricca di marmi ed edifici monumentali. Il fondatore dell’Impero poteva essere fiero del suo operato: lasciava un mondo ordinato e ben governato, e molti rimpianti fra coloro che gli erano vicini. Quintiliano Metilius, Tribuno Militare, comandante della Prima Coorte della Guardia Pretoriana e membro degli “speculatores”, il servizio segreto dell’Imperatore, sostava silenzioso in un angolo osservando con
28 fare distaccato le persone che, in una lenta e mesta processione, si avvicendavano al capezzale di Augusto. Non era indifferenza la sua, amava il suo sovrano, che aveva sempre servito con fedeltà e dedizione. La sua era preoccupazione: timore di non riuscire a portare a termine la missione che gli era stata affidata appena due giorni prima, quando Augusto aveva capito che non sarebbe vissuto ancora a lungo e lo aveva chiamato, di notte e solo, per affidargli un ultimo incarico. I capelli grigi e ispidi, il volto segnato da cicatrici e il fisico robusto coperto dall’armatura, stonavano fra tutte le persone ben curate e vestite di candide toghe che, simili ai gabbiani che volteggiano sulla carcassa della balena morta, attorniavano il letto su cui giaceva la salma. Li guardò disgustato e capì perché il suo Generale, che tale lo considerava ancora, non si fidasse di loro: erano pronti a sbranarsi per accaparrarsi un posto di favore agli occhi di Tiberio, il successore, che accanto al giaciglio osservava con occhi attenti quell’andirivieni, pronto a cogliere nei gesti di qualcuno una pena non proprio genuina. Guardò meglio l’erede designato e la sua espressione cupa, non dovuta del tutto al dolore della perdita: era stato scelto dopo varie vicissitudini e manovre di palazzo e già era costretto a guardarsi le spalle. Ma la cosa non lo interessava. Lui era un soldato con un compito da svolgere e lo avrebbe portato a termine a costo della vita, lo doveva all’uomo appena deceduto. Era rimasto solo, sua moglie Lorentia era morta anni prima e non aveva figli. Non si era più risposato, anche se aveva avuto altre donne. Aveva dedicato la sua vita al servizio dell’Imperatore. Tornato al suo alloggio, chiamò uno schiavo e gli ordinò di preparare i bagagli per un lungo viaggio. Quando questo gli chiese cosa avesse dovuto mettere nei bauli, lui rispose di preparare abiti leggeri: si sarebbe recato in posti caldi. Mentre il servitore si affannava a riempire le casse, si recò nei suoi appartamenti privati e, finalmente solo, sollevò una mattonella dal pavimento e prese dal nascondiglio quello che Cesare Augusto gli aveva dato: un piccolo scrigno d’oro. Alessandria d’Egitto, 14 d.C. Sceso dalla nave oneraria salutò il comandante, un campano piccolo e irsuto. Si sistemò meglio la sacca sulla spalla e si avviò attraverso i vicoli del porto, controllando di tanto in tanto di non essere seguito. La
29 cosa non era molto probabile, aveva scelto un battello mercantile, anziché una più rapida imbarcazione militare, che faceva abitualmente la spola tra l’Egitto e il porto di Roma, e aveva sostituito l’uniforme con abiti semplici proprio per non dare nell’occhio, ma la prudenza non era mai troppa. Sapeva dove andare, era già stato in quella città e, anche se negli anni era cambiata parecchio, certe cose non mutavano mai, come la mole della biblioteca che si stagliava in lontananza. Attraversò, indisturbato, le vie gremite di gente di ogni parte del mondo conosciuto finché, arrivato alla soglia dell’imponente costruzione, fu fermato al cancello dalle guardie che lo apostrofarono in malo modo, ma quando mostrò le sue credenziali, si fecero da parte con deferenza. Percorse con passo sicuro i saloni gremiti da studiosi, finché non trovò un inserviente al quale chiese di accompagnarlo. Altra occhiata malevola e altro rapido mutamento di atteggiamento alla vista del sigillo imperiale. Fu condotto alla presenza di un uomo anziano, seduto a un tavolo e intento a consultare alcuni rotoli di papiro. Non appena costui lo vide lo scrutò per qualche istante, socchiudendo gli occhi. Poi si alzò all’improvviso e gli andò incontro sorridendo. «Ave Tribuno, sono passati molti anni dall’ultima volta…» lo salutò. Quintiliano lo fissò perplesso. «Mi conosci?» L’altro lo guardò divertito. «Sei cambiato, ma non potrei non ricordarti: eri accanto a me quando un uomo che allora non era così potente, mormorò delle parole che mi sono rimaste impresse…» «Quali parole?» domandò Quintiliano. «Sono venuto a vedere un Re, non a visitare dei morti» rispose il vecchio. Il Tribuno sgranò gli occhi. «Eri tu quel sacerdote!» «Esatto. E non ho mai dimenticato ciò che mi disse.» «Saprai che Augusto è morto.» «Le brutte notizie viaggiano veloci» mormorò il sacerdote. «Prima di morire mi ha affidato un incarico: riportare questo al suo posto» disse frugando nella sacca per estrarre un involto di stoffa. Quando lo aprì, rivelò un cofanetto d’oro. Il vecchio guardò il manufatto con deferenza.
30 «Ha mantenuto la promessa…» sussurrò, poi fece cenno a Quintiliano di seguirlo «vieni con me, sarai tu a rimetterlo al suo posto.» Il Tribuno lo accompagnò attraverso corridoi e stanze che aveva percorso anni addietro, finché non giunsero a una camera che ben conosceva. «Adesso vai, finisci il tuo lavoro» gli disse il prete. Il vecchio soldato entrò nel locale e si avvicinò al sarcofago custodito al suo interno, posò lo scrigno sulla pietra e uscì senza dire una parola. Mentre tornavano indietro, il sacerdote gli chiese cosa avrebbe fatto. «Mi spetta il congedo, ho servito per molti anni» rispose Quintiliano «troppi forse… penso di tornarmene in Betica, la mia terra di origine. Una volta lì comprerò dei terreni e li coltiverò, cercando di vivere in pace e tranquillità il resto dei miei giorni. Addio e che gli Dèi siano con te.» «Ti auguro buona fortuna, soldato, te la meriti» mormorò il vecchio guardandolo mentre si allontanava. Atropatene (odierno Azerbaigian), 68 d.C. Era seduto sotto un albero, con la schiena appoggiata al tronco rugoso, e i lunghi rami che si protendevano dal fusto lo riparavano dai raggi ardenti del sole. Era anziano: il volto scavato e il corpo emaciato mostravano impietosamente il tempo passato peregrinando in posti e luoghi lontani e quasi sconosciuti, tra mille privazioni e disagi, al solo scopo di diffondere il Suo credo. L’uomo si passò una mano, macchiata dall’età, sul cranio calvo e sospirò. Ripensava agli anni trascorsi, tanti, da quando aveva lasciato la Galilea dopo che il suo Maestro Yeshua, o Gesù, come lo conobbero in seguito, vi aveva trovato la morte. Era partito per diffondere il Suo verbo tra i popoli della Terra e questo vagabondare lo aveva portato a contatto con genti di ogni paese, lontano migliaia di parasanghe dal piccolo fazzoletto di terra in cui era nato. Natanaele Bartolmai, questo era il suo nome, si riposava e intanto rifletteva sul significato della sua Fede. Non che dubitasse della parola del Messia o della Sua origine divina, questo no, aveva visto troppi segni perché l’incertezza sfiorasse la sua mente, si chiedeva solo se non si fossero manifestati anche altrove, se la parola di Dio non avesse trovato altre orecchie per farsi sentire, altri popoli per interpretarla.
31 Sotto tende in mezzo al deserto e fra boschi sulle pendici di aspre montagne, aveva visto e parlato con mistici e santoni che gli avevano spiegato il loro punto di vista, mentre lui parlava del suo Profeta, della Sua vita improntata sull’amore e della Sua cruenta morte. Lo avevano ascoltato mentre rivelava loro i Suoi insegnamenti e poi li aveva ascoltati a sua volta, imparando che molti sono i modi per onorare Dio, la Sua Sapienza e la Sua Misericordia. Li aveva sentiti parlare di mondi interiori, di conoscenze che potevano essere acquisite solo con la più profonda meditazione e il distacco dai beni terreni. Parole che, sotto altre forme, aveva già udito e condiviso. In particolare l’aveva colpito la narrazione di alcuni strani asceti – che avevano la bizzarra abitudine di girare completamente nudi – di fatti avvenuti migliaia di anni prima e che erano avvolti, come accadeva quasi sempre, nella nebbia del mito. Raccontavano avvenimenti straordinari, di strisce di fuoco che avevano solcato il cielo e di uomini che erano stati scelti per portare la voce degli Dèi, o di Dio, fra la gente. Di quando uno di loro, del cui nome ormai non avevano più memoria, aveva incontrato un grande guerriero venuto da Occidente, di come si fossero conosciuti e di come avesse donato a quel Re qualcosa di straordinario. Annuì fra sé, naturalmente sapeva delle grandi conquiste del Macedone che aveva assoggettato metà del mondo conosciuto e che credeva di essere un Dio. Scosse la testa, chiaramente non lo era, nessun uomo poteva esserlo, ma dovette ammettere a malincuore che qualcuno, almeno nell’immaginario popolare, vi si avvicinava. Aveva chiesto ai quegli eremiti cosa fosse stato regalato ad Alessandro, ma nessuno seppe o volle rispondere e nonostante i suoi sforzi soltanto uno, il più vecchio di loro, gli sussurrò in confidenza e di malavoglia che ciò che era stato dato al Conquistatore del Mondo era qualcosa di molto, molto potente. E misterioso. Natanaele, come del resto quasi tutti in quel tempo, conosceva il luogo in cui era sepolto il Condottiero e aveva intrapreso il lungo viaggio di ritorno per recarvisi e cercare risposte alle mille domande che il racconto aveva fatto nascere nella sua mente. Si era fermato in quella città, Albanopoli, perché il Re aveva sentito parlare di lui ed era curioso di conoscerlo, di sentire cosa aveva da dirgli quell’uomo che parlava di perdono, di amore universale, di fratellanza.
32 Si trovava lì da qualche mese. All’inizio era stato accolto come un eccentrico predicatore, poi con sua somma meraviglia, con il tempo era diventato un ascoltato consigliere, un prezioso sostegno spirituale del sovrano che, pian piano, aveva cominciato a manifestare sempre più interesse alla dottrina che predicava, fino a manifestare la volontà di convertirsi e abbracciare la nuova religione. Per questo motivo si era creato dei potenti nemici che, neanche troppo larvatamente, reclamavano la sua testa: la classe sacerdotale che temeva di veder svanire il proprio secolare potere, il fratello stesso del Re che sentiva sminuire la sua autorità, i nobili che erano preoccupati per le parole dello straniero che suonavano destabilizzanti per il sistema. E così, suo malgrado aveva deciso di partire, non che temesse la morte o il martirio, se lo aveva subìto Yeshua chi era lui per sottrarvisi, ma solo perché prima di morire voleva comprendere, doveva capire se veramente Dio aveva voluto manifestarsi in altri modi e, soprattutto, cos’era quel dono fatto secoli prima a un uomo. Atropatene (odierno Azerbaigian), 68 d.C. Le persone attorno a lui lo fissavano ostili, malevoli, eppure nello stesso tempo compiaciuti: avevano raggiunto il loro scopo e finalmente potevano gioire della morte dell’uomo che aveva minato la loro autorità e il loro prestigio. Il compiacimento per la prossima fine di colui che agli occhi del loro Re li aveva fatti passare per gretti e meschini, solo perché erano ricchi e potenti, illuminava i loro occhi di una luce crudele. Natanaele Bartolmai li guardò in faccia, uno per uno: stranamente non provava rancore per loro, non riusciva a odiarli, nonostante le loro accuse infamanti e il loro disprezzo. Anzi, sentiva una gran pena per loro, un profondo dispiacere per la rabbia e la frustrazione che oscurava i loro cuori. Chiuse gli occhi mentre il carnefice si avvicinava a lui, impugnando un coltello che serviva per spellare le bestie, e ripensò a quando, ancora fanciullo e gravemente malato, venne adagiato sul letto del suo Maestro e miracolosamente guarì. Ricordò il tempo passato con Lui in giro per la Galilea, e le moltitudini che lo seguivano; il Suo sorriso dolce e la piega severa che assumeva la Sua bocca quando ammoniva la folla. Ricordò la Sua morte e lo smarrimento che aveva preso tutti loro. Sgomento che passò, trasformandosi in speranza, quando si dispersero per il mondo per portare a tutti la Sua novella.
33 Sorrise: presto le sue pene sarebbero finite e lo avrebbe raggiunto. Un solo rimpianto: non avrebbe mai saputo cos’era stato dato ad Alessandro il Grande. In questo modo, scuoiato come un animale, ebbe termine la vita di Natanaele Bartolmai, venerato nei secoli a venire come San Bartolomeo. Alessandria d’Egitto. Aprile, 415 d.C. «Non andate, Domina, vi scongiuro! La strada non è sicura, restate qui dove siete protetta.» Il tono dell’uomo era angosciato e rifletteva il clima che si respirava in quei giorni di Quaresima per tutta la città, frutto delle tensioni religiose fra cristiani e pagani che si susseguivano ormai da quasi un anno, da quando torme di fanatici monaci, detti Parabolani, scesi tempo prima dai monti della Nitria, avevano aggredito il Prefetto Imperiale Oreste, che aveva risposto con l’arresto di uno di loro. Da quel momento gruppi di facinorosi percorrevano le strade, provocando agitazioni e disordini e aggredendo, il più delle volte senza motivo, gli ebrei e i pagani. La donna si scostò dal parapetto del terrazzo, dal quale stava osservando con sguardo angosciato le volute di fumo che si levavano dalle case di Alessandria. Si voltò a guardare l’uomo anziano che le stava di fronte e un sorriso carico di amarezza si disegnò per un attimo sul suo volto. «Mio caro Isidoro» rispose Ipazia, quasi sussurrando «nessuno, ormai, mi può proteggere. È solo questione di tempo e poi il Vescovo Cirillo avrà la sua vendetta.» «Non dite così, Domina, potete ancora fuggire, mettervi in salvo. C’è molta gente che vi stima e che vi aiuterà a…» Lei lo interruppe con un gesto secco della mano. «I nostri amici hanno già fatto più del dovuto, non voglio che patiscano altre sofferenze a causa mia e poi…» smise per un momento di parlare, mentre un nodo le serrava la gola «e poi è tutto inutile, amico mio. Il mondo come lo conoscevamo è finito e niente lo riporterà in vita. Mi dispiace solo che tutto questo…» rivolse un ampio gesto verso le stanze che s’intravedevano nella penombra alle spalle del suo interlocutore, indicando i locali con gli scaffali ancora coperti, nonostante i saccheggi e le devastazioni precedenti di libri e pergamene, di testi e documenti già antichi quando l’edificio in cui si trovavano era stato edificato. «Tutto questo sparirà, svanirà come nebbia al sole» concluse con amarezza.
34 Isidoro rabbrividì a quel pensiero. «Non oseranno, Domina, qui c’è la memoria dell’uomo, una conoscenza che non ha prezzo! Nessuno sarà così pazzo da distruggere tutto questo!» «Amico mio, non c’è limite all’umana follia! Specialmente a quella dei fanatici religiosi.» L’uomo la guardò. Quella che aveva davanti era una donna di circa cinquantacinque anni, con il fisico un po’ appesantito e i capelli quasi del tutto grigi; una persona ordinaria, una come tante. Bastava, però, guardarla negli occhi vivaci e intelligenti, sempre in movimento sotto le sopracciglia perennemente aggrottate, per capire che era un tipo fuori dal comune, uno spirito indomito e libero. Era ancora fiera come era stata in gioventù. Capì, allora, che non l’avrebbe mai convinta ad abbandonare la biblioteca e a fuggire da Alessandria. «Resterò con voi» disse dopo qualche attimo. Lei scosse la testa. «No, non dovete sacrificarvi anche voi, non è necessario.» «Ma non posso lasciarvi sola!» «Non sarò sola, con me ci saranno gli spiriti di tutti quelli che hanno retto questo luogo di sapere nei quasi settecento anni della sua esistenza. Come vedi sono in buona compagnia.» Isidoro scosse la testa, frustrato. «C’è qualcosa che posso fare per voi, Domina?» Lei lo guardò e nel suo sguardo l’uomo vide brillare una luce. «In effetti qualcosa c’è…» disse poi Ipazia, quasi parlando se stessa «seguimi, Isidoro, e ascoltami bene perché quello che sto per dirti è d’importanza vitale.» Lasciando a malincuore il terrazzo dal quale aveva osservato la città che amava così tanto, si avviò verso l’interno dell’edificio, seguita dall’uomo. I passi dei due risuonavano nel silenzio irreale dei corridoi e delle stanze che fino a poco tempo prima avevano ospitato studiosi giunti alla biblioteca da ogni parte del mondo conosciuto e che ora erano ormai vuote: era troppa la paura dei disordini e del caos che regnava ovunque in città. Ormai i frequentatori del complesso erano solo uno sparuto gruppo che restava lì probabilmente perché non sapeva dove andare. Proseguirono, senza parlare, per diversi minuti fino a quando non raggiunsero la parte più antica dell’edificio, una zona che non era quasi più frequentata, in quanto il materiale che conteneva era stato trasferito da tempo in locali più ampi e funzionali.
35 Arrivarono, infine, in un corridoio cieco, chiuso da una porta di legno rinforzata da borchie di ferro e illuminato da piccole lucerne affisse alle pareti. Ipazia lo imboccò e, una volta giunta davanti al battente, infilò una mano nella veste e ne trasse una piccola chiave di bronzo. La stanza al di là era buia e la donna staccò una torcia dal muro per illuminare l’ambiente, e si avviò all’interno. L’ambiente era ampio e completamente vuoto, tranne che per una specie di sarcofago sul quale era posto uno scrigno d’oro che brillava alla luce tremolante della fiamma. La donna lo prese con reverenza. Rimase pensierosa per qualche istante, ammirandone la superficie finemente lavorata da orafi di cui si era persa anche la memoria. Si soffermò sull’occhio inciso sul coperchio e infine spostò lo sguardo sul sepolcro, come se stesse riflettendo su quello che stava facendo, se fosse giusto o sbagliato, se quello che aveva in mente era la cosa migliore da fare o se non avesse dovuto lasciare tutto come stava, confidando nella sorte. Isidoro la osservava in silenzio, anche lui sapeva cosa conteneva il cofanetto e capiva il tormento interiore della donna. Infine Ipazia si decise: avvolse la scatola in un panno e la porse all’uomo. «Portala in salvo, amico mio. Portala fuori di qui e nascondila. Non possiamo permettere che quello che contiene cada in mano a dei fanatici. Le conseguenze sarebbero terribili, sia che lo distruggano sia che ne facciano uso. Tutto quello che c’è qui intorno» fece un ampio gesto con le mani «un giorno forse potrà essere riscoperto e ricostruito ma quello… quello no.» «Mia signora, lo sai che darei la vita per te, ma quello che mi chiedi è troppo… io non credo di essere all’altezza di… di questo… sono solo un povero vecchio studioso.» «Ascolta!» la voce di lei ora si era fatta dura «non c’è altro modo! Synesius è stato ucciso e io non posso lasciare la città, verrei immediatamente riconosciuta e fermata mentre tu… lo hai appena detto… sei un vecchio studioso… nessuno farà caso a te» la voce le si addolcì mentre pronunciava queste ultime parole. «Ci sono ancora navi in partenza» proseguì «imbarcati e raggiungi un porto sicuro, se ce n’è ancora qualcuno. Non voglio sapere dove andrai, mi fido del tuo giudizio. L’importante e che tu faccia presto, non credo che rimanga molto tempo.» Riposero lo scrigno in una bisaccia di cuoio e lasciarono la stanza.
36
Il carro procedeva lentamente attraverso le vie di Alessandria e Ipazia, seduta dietro il conducente, era così immersa nelle sue riflessioni che dapprima non udì il tumulto che si stava avvicinando. Quando le urla si fecero più vicine alzò gli occhi e ne cercò l’origine: sembrava venire da dietro una curva davanti a loro, sulla strada che stavano percorrendo. «Domina, cosa devo fare?» chiese con la voce incrinata dalla paura il servo che conduceva il veicolo. Mille immagini le affollarono la mente: le accanite discussioni filosofiche con il padre Teone, i giorni e le notti passati sui trattati di matematica e astronomia, gli insegnamenti impartiti ai suoi giovani discepoli che sembravano pendere dalla sue labbra… «Prosegui» disse poi. Il cavallo aveva appena ripreso il passo che una torma di persone svoltò l’angolo e si arrestò improvvisamente alla vista del veicolo. Lo schiamazzo si smorzò e si mutò lentamente in un brusìo, dove la curiosità sembrava avere la meglio sulla collera. Poi da dietro le prime file si alzò un grido. «È Ipazia, la pagana, l’amica del Prefetto!» E il furore riprese il sopravvento. La folla si lanciò verso il carro: il cocchiere, terrorizzato, saltò a terra e si mise a correre nella direzione da cui erano venuti. Ipazia rimase immobile, raddrizzò la schiena e guardò dritta negli occhi i volti sconvolti che si avvicinavano, ebbri di violenza e rabbia. Quasi non sentì il primo sasso che la colpì, né le decine di mani che la trascinarono giù dal sedile, urlando il suo nome come se fosse il peggiore insulto. Così, fatta a pezzi da una folla ottusa e fanatica, morì Ipazia di Alessandria, matematica, filosofa, astronoma, insegnante. Ma non tutte le sue conoscenze morirono con lei. Alessandria d’Egitto. Aprile, 415 d.C. Il sole non era ancora sorto quando due uomini avvolti in ampi mantelli scuri, il cappuccio tirato sul volto e diversi fagotti sulle spalle, imboccarono un molo situato in un angolo poco frequentato del grande porto.
37 Il profumo della salsedine, portato dalla leggera brezza del nord, ingaggiava una battaglia persa con il fetore delle alghe e dei pesci morti che galleggiavano nell’acqua oleosa e scura e con il puzzo del legno marcio dei pali che sostenevano il pontile. Facendosi largo tra vecchi mucchi di corde, reti abbandonate, barche tirate in secco, e facendo scappare i grossi topi che tra quel ciarpame cercavano qualcosa da mangiare, si diressero verso una sagoma indistinta ferma alla sommità della banchina. «Siete in ritardo, ancora un po’ e me ne sarei andato» sibilò la figura che si rivelò essere di quella di un marinaio. «Come osi rivolgerti…» scattò il più giovane dei due, ma l’altro gli appoggiò una mano sulla spalla stringendogliela. «Non importa, Nemazio, ha ragione» lo interruppe l’uomo più vecchio «ci scusiamo, non è stato facile attraversare la città, ma ora siamo qui e siamo pronti.» Il marinaio, apparentemente rabbonito, grugnì qualcosa relativa ai venti e alle correnti poi si rivolse nuovamente ai due. «Avete…» Alcune monete d’oro cambiarono rapidamente di mano. «Come convenuto: la metà ora e il resto a destinazione raggiunta» disse il giovane. Il marinaio bofonchiò ancora qualcosa, poi indicò un’imbarcazione malridotta ormeggiata a uno dei piloni. «Imbarcatevi alla svelta, il mio capitano aspetta solo che cambi la marea per salpare e ormai non manca molto. Rischiate di restate a terra.» «Scendo prima io e poi vi aiuto a…» sussurrò Nemazio. «No. Vado solo io, tu rimani qui» disse l’anziano con un tono che non ammetteva repliche. «Mio caro» proseguì poi, quasi scusandosi «tu sei ancora un ragazzo, hai tutta la vita davanti a te, non devi correre questo rischio.» «Ma non posso lasciarvi andare da solo, è troppo pericoloso. Chi vi proteggerà da… da… tutto!» replicò l’altro quasi implorando. «Ci penseranno gli Dèi, amico mio, come hanno sempre fatto. E adesso per favore aiutami a salire a bordo » indicò il marinaio che strusciava nervosamente i piedi nudi sul piancito di legno, agitandosi «il nostro amico sta diventando nervoso.» Senza dire altro il giovane lo aiutò a calarsi nella piccola lancia, poi gli passò i vari fagotti. Mentre il marinaio scioglieva la cima che legava la barca ai pali, tentò ancora una volta, inutilmente, di convincerlo a lasciarlo salire.
38 Infagottato nel mantello, immobile sulla cima del pontile, in un silenzio rotto soltanto dallo sciabordio della risacca, guardò la scialuppa allontanarsi lentamente nella lattiginosa luce che precede l’alba. Fu l’ultima volta che vide il suo maestro Isidoro. Roma. Settembre 537 d.C. La città era ormai allo stremo: gli scarsi difensori erano spossati dagli attacchi degli assedianti e sulla popolazione, già molto provata, incombeva lo spettro della carestìa. La situazione, inoltre, si era ulteriormente aggravata da quando gli antichi acquedotti che rifornivano Roma erano stati distrutti dagli Ostrogoti. Era in questa drammatica situazione che in una tiepida serata di metà settembre, un uomo di mezz’età, non molto alto ma robusto, il viso incorniciato da una corta barba brizzolata, percorreva a passo svelto una viuzza buia e malridotta, gettando in continuazione sguardi furtivi verso le catapecchie che fiancheggiavano quella che una volta era stata una strada lastricata, ma che ora era poco più che un viottolo pieno di buche e invaso dalle erbacce con solo poche pietre levigate qua e là, miracolosamente sopravvissute allo scempio che da poco meno di un secolo si era perpetrato nei confronti di quella che una volta era stata la città più importante del mondo. Tra un’occhiata e l’altra ai dintorni, cercava di stare attento a quello che calpestava, ma era un’impresa persa in partenza, considerato che ormai nessuno si curava più di raccogliere i rifiuti che venivano gettati direttamente sul terreno dai tuguri che gli facevano da cornice e che spandevano tutto intorno un odore nauseabondo Era preoccupato, non tanto per la sua incolumità, quanto piuttosto per quello che aveva nella bisaccia: non poteva assolutamente permettersi di perderlo o, peggio ancora, di farselo rubare. Se le circostanze fossero state diverse, non avrebbe mai e poi mai tirato fuori dal suo nascondiglio lo scrigno che ora portava nella sacca che teneva a tracolla, ma la città poteva cadere da un momento all’altro e non poteva permettere che, nell’inevitabile saccheggio che ne sarebbe seguito, venisse preso. Quell’idea gli faceva gelare il sangue nelle vene. Un rumore proveniente da un anfratto buio alla sua destra lo fece sobbalzare e portare la mano alla corta daga che teneva celata sotto il leggero mantello.
39 Una figura lacera e barcollante uscì dall’ombra e gli si avvicinò, biascicando qualcosa di inintelligibile. Si trattava di un altro diseredato, vittima dei tempi bui in cui vivevano che chiedeva la carità, o un malintenzionato che voleva derubarlo? O forse entrambe le cose. Molti erano diventati ladri e assassini. La fame era una cattiva consigliera, ma molto ascoltata. Affrettò il passo, lasciandosi alle spalle l’individuo che gli urlò dietro qualcosa che non capì ma che certamente non era un grazie. Finalmente giunse alla sua destinazione: una casupola un po’ isolata dalle altre e meno malandata delle sue vicine. Una lampada a olio ardeva vicino all’ingresso, spandendo una luce fioca, ma che in quel buio opprimente risplendeva come un faro. Batté tre colpi in rapida successione sull’anta logora e dopo qualche istante il battente si aprì di qualche centimetro, mostrando in parte un viso solcato da rughe profonde e un occhio di un celeste sbiadito. Riconosciuto il visitatore, il padrone di casa spalancò del tutto l’uscio e lo fece entrare richiudendo subito dopo la porta. L’abitazione consisteva in una unica grande stanza dai muri sporchi e scrostati, divisa in due da una tenda logora e stracciata, ora aperta, che lasciava intravedere un misero giaciglio accostato alla parete di fronte. Un focolaio spento e annerito, sul quale erano posate delle pentole ammaccate, un tavolo sbilenco, un paio di sedie scassate e una cassapanca sgangherata e piena di fessure, erano tutto ciò che arredava quell’ambiente. L’uomo che gli aveva aperto non era certo in condizioni migliori della sua abitazione: vecchio e scarno, il viso incartapecorito e radi capelli bianchi che gli cadevano sul collo macilento in lunghe ciocche. Le sopracciglia s’inarcarono in una muta domanda mentre i suoi acquosi occhi azzurri fissavano l’ospite. «L’ho qui con me» rispose quest’ultimo sedendosi e battendo una mano sulla borsa. L’altro annuì. «Bene» disse poi con un tono caldo e profondo che stonava con la figura emaciata «il primo passo è fatto, adesso però devi portarlo fuori dalla città, in un posto sicuro.» «Ma Filosseno» protestò il suo interlocutore «la città è sotto assedio, non vedo come potrei uscire senza farmi catturare e poi, anche se ce la facessi dove potrei andare? La guerra tra Bizantini e Goti sta infuriando ovunque, bande armate percorrono il territorio depredando paesi, derubando e massacrando tutti.»
40 «Animo Nicandro, amico mio» riprese il vecchio con la sua voce vellutata «la situazione è brutta, è vero, ma non così catastrofica! Innanzi tutto devi sapere che i Goti non hanno uomini a sufficienza per circondare completamente le mura e quindi il controllo da parte loro non è poi così completo. In particolare il lato Sud è quasi del tutto sguarnito e non è difficile passare attraverso le poche pattuglie, magari aiutandosi con qualche Solido d’oro. Dove andare poi non è un problema, ti indicherò io il posto. Piuttosto quello che è importante è la fretta, anche se non credo che i Goti riusciranno a entrare in città tanto presto, anzi, probabilmente non ce la faranno mai. Ho notizia che il Generale bizantino, Giovanni, sta marciando su Ravenna e se non si sbrigano a lasciare l’assedio rischiano di perdere quella piazzaforte e questo il loro Re Vitige non se lo può certo permettere. Come vedi il futuro non è poi così buio, anche se sono convinto più che mai che quello che custodiamo deve essere conservato in un altro posto, lontano da qui. Roma non è più sicura, prima o poi cadrà, se non oggi in futuro, ma succederà, vedrai. I giorni gloriosi dell’Impero sono finiti da molto tempo ormai, e tempi bui si avvicinano. Ma non voglio rattristarti con questi discorsi, beviamoci un bicchiere mentre ti spiego nei particolari quello che dovrai fare.» Presa una brocca scheggiata da sopra il focolare, versò il vino in due coppe di terracotta altrettanto sbrecciate. «Dunque» disse dopo aver vuotato il contenuto del bicchiere in una sola sorsata «per prima cosa…» Era passata la mezzanotte quando Nicandro, con l’animo decisamente più sollevato di quando era arrivato, lasciò la casa per tornare alla propria abitazione. Da qualche parte nel Picenum (odierne Marche). Novembre 537 d.C. La pioggia, che fino a poco prima li aveva sferzati, inzuppandoli nonostante indossassero pesanti cappe e copricapi di cuoio a tesa larga, si era calmata trasformandosi in una acquerugiola, certo meno violenta ma pur sempre fastidiosa. Nicandro si calcò meglio in testa l’ampio cappello, ma inutilmente: l’acqua, quasi fosse dotata di una propria maligna volontà, riusciva sempre a farsi strada e a infilarsi tra le vesti. Scoraggiato si strinse nel mantello, cercando almeno di conservare un po’ di calore, e si voltò a guardare i suoi compagni di viaggio. Era una compagnia eterogenea quella cui si era unito subito dopo aver lasciato Roma, un gruppo di persone che si erano messe insieme quasi
41 per caso e che cercavano, nella compagnia l’uno dell’altro, un senso di sicurezza che in quei giorni foschi poteva dare solo il numero. C’erano dei contadini, che con mogli e figli avevano lasciato i loro campi intorno alla città ormai non più al sicuro dalle razzie, e che avevano accumulato su un piccolo carro tutti i loro averi, cercando un altro posto in cui stabilirsi; alcuni cittadini che erano fuggiti portando con sé i pochi beni che possedevano; pellegrini, mendicanti, diseredati: un’umanità varia e accomunata solo dalla disperazione. Poi c’erano quei quattro che Nicandro temeva e che teneva d’occhio senza farsi notare. Erano senza dubbio uomini d’arme, ma il loro equipaggiamento e le uniformi erano un’accozzaglia di oggetti che non permetteva di identificarli come appartenenti a nessun esercito. Forse erano semplicemente soldati disertori o sbandati di qualche armata. Si erano uniti a loro poco fuori della cerchia muraria e avevano chiesto in maniera abbastanza cortese, cosa strana per dei soldati in quei tempi, di poter proseguire con loro. Nonostante fino a quel momento si fossero comportati in modo corretto, non importunando le donne, dividendo il cibo con gli altri, restando sempre in fondo alla carovana e non mostrando l’arroganza tipica dei militari, lui non si fidava. Forse proprio a causa del loro atteggiamento: troppo remissivi, troppo tranquilli, non era un comportamento tipico di chi era abituato a prendersi quello che voleva senza chiedere e a far valere la ragione del più forte. Strinse ancora più vicino a sé la bisaccia che portava appesa alla spalla e che non aveva mai lasciato, neanche per un momento, da quando era partito. Era talmente immerso nei suoi pensieri che non si accorse che la colonna si era arrestata: se ne rese conto quando urtò la persona davanti a lui. «Cosa succede?» chiese, scrutando dinnanzi a sé. L’altro si limitò a stringersi nelle spalle. Nicandro cominciò a farsi largo e, raggiunta la cima della fila, capì perché si erano fermati: cinque uomini sbarravano il piccolo sentiero fangoso che stavano percorrendo, impedendo loro il passaggio. Erano male in arnese, gli abiti sporchi e logori ma le armi che portavano erano lucide e pronte all’uso: capì subito che si trattava di banditi di strada, di reietti disperati e pronti a tutto. Un brivido gli corse per la schiena. «Questa via è nostra!» esclamò quello che sembrava essere il capo; un uomo robusto dalla folta barba nera e il cranio rasato «se volete passare dovete pagare un pedaggio.»
42 Un vecchio si staccò dal gruppo dei viaggiatori e gli si avvicinò. «Signore, siamo dei poveri viandanti, non abbiamo niente di prezioso, solo poche cose che certamente non vi servirebbero. Chiediamo solo di poter proseguire la nostra strada.» «Non avete niente, eh?» ribatté l’altro sogghignando. «E su quei carri cosa c’è?» chiese poi. «Solo attrezzi, qualche panno e poco altro» rispose l’anziano. Uno degli uomini si avvicinò al primo barroccio e cominciò frugarci dentro, gettandone a terra il contenuto mano a mano che continuava la sua ricerca: zappe, rastrelli, sacchetti di semi, vestiti e altre cianfrusaglie finirono nel fango del sentiero. Quando tutto il carico fu sparso per terra e il pianale rimase vuoto, l’uomo sputò disgustato e tornò dai suoi compagni, mormorando qualcosa all’orecchio del suo capo, che scoppiò in una risata volgare e assentì. «Il mio amico qui» e indicò quello che aveva perquisito il carro «è deluso, molto deluso e non vuole farvi passare!» Un mormorio di scoramento salì dalla colonna. «Io però…» riprese il capo alzando la voce «sono caritatevole e vi lascerò proseguire…» «Grazie, siete molto generoso, io…» cominciò il vecchio. «Taci, nonno, non ho finito!» lo interruppe sgarbatamente il barbuto «come ho detto, vi lascerò continuare il vostro cammino… o almeno lo lascerò fare a quasi tutti voi.» I pellegrini si guardarono l’un l’altro, confusi. «Sapete, siamo un po’ a corto… come dire… di compagnia…» sogghignò mentre i suoi compagni si scambiavano occhiate divertite «e pertanto ho deciso che potrete andarvene dopo che avrete lasciato qui un paio delle vostre signore. Vedo che ne avete diverse e quindi non ne sentirete la mancanza.» Si levarono grida di protesta e di sgomento, mentre le donne si guardavano intorno impaurite. Dopo il primo momento di sbigottimento, il vecchio corrugò la fronte e, raccogliendo tutto il suo coraggio, fronteggiò il brigante. «Signore! Non vi permetto…» La voce gli si spense in un rantolo orribile quando la spada che l’altro stringeva in pugno gli si conficcò nello stomaco. Poi con un sospiro agghiacciante si accasciò a terra in una pozza di sangue.
43 «C’è qualcun altro che non è d’accordo?» esclamò l’assassino, l’arma ancora gocciolante «lo dica subito e così sistemiamo la questione. No? Bene, allora…» S’interruppe notando del movimento lungo la fila, poi gli occhi gli si spalancarono vedendo quattro uomini che, armi in pugno, correvano verso di loro. Erano ladri da strada, abituati ad avere a che fare con vittime pressoché inermi e spaventate che non avevano mai reagito, e così persero degli attimi preziosi: prima che se ne rendessero conto, un paio di loro erano già caduti, immersi nel proprio sangue, colpiti da daghe e pugnali che gli avevano reciso la gola. I superstiti si ripresero dallo shock iniziale e accennarono a una resistenza che però ebbe breve durata: uno finì con il cranio fracassato da una mazza, mentre il capo venne ucciso subito dopo, trafitto dalla spada impugnata da uno dei soccorritori, e il quinto, che tentò una fuga disperata, cadde dopo pochi passi, trafitto da una freccia che gli conficcò nella schiena. Lo scontro era stato tanto rapido quanto cruento e Nicandro non si era ancora riavuto dalla forte emozione quando il soldato che aveva abbattuto il capo dei banditi, gli si avvicinò dandogli così modo di osservarlo bene per la prima volta. Era un uomo sui trent’anni, con i corti capelli neri e riccioluti che incorniciavano il viso dai lineamenti fini, il corpo agile e forte. Rinfoderando la spada, il giovane gli si rivolse con un sorriso sulle labbra ben disegnate. «Mi dispiace per quello che è successo, nobile Nicandro, non avremmo voluto che accadesse ma purtroppo non avevamo altra scelta.» Lo guardò stupito. «Chi siete e come conoscete il mio nome? Chi è…» una rivelazione improvvisa lo colpì e lo fece ammutolire. «Non siete qui per caso, vero?» proseguì quando si fu ripreso «non vi siete uniti a noi solo per praticità, per fare il viaggio insieme… no, voi siete venuti per proteggerci!» Il sorriso del soldato si accentuò, trasformandosi in una schietta risata. «Mi chiamo Kallistos, e quello che avete detto è quasi del tutto giusto. Quasi…» continuò «perché siamo qui per proteggere voi e nessun altro.» «Ma allora perché siete intervenuti, io non correvo alcun pericolo.» Lo sguardo del giovane s’incupì.
44 «Ci sono cose che un uomo d’onore non può lasciar correre, e questa era una di quelle! Vi sarei comunque grato se non rivelaste agli altri il perché siamo qui, lasciate che pensino quello che vogliono.» Nicandro annuì. «Capisco… ma un’ultima cosa… chi vi ha mandato?» Uno scintillio divertito balenò nello sguardo di Kallistos. «Davvero non ne avete idea?» «No, io non…» poi capì «Filosseno! Quel vecchio briccone!» esclamò sorridendo. «Evidentemente ci aveva visto giusto, non credete? Adesso vi devo lasciare. Mi raccomando, silenzio con tutti.» Nicandro lo guardò allontanarsi e parlare con i suoi compagni, che nel frattempo avevano liberato la strada dai corpi, gettandoli nella boscaglia vicino. Poco dopo la colonna riprese il cammino. *** Erano passati pochi giorni dallo scontro, quando il gruppo raggiunse un punto in cui il sentiero si divideva: da una parte proseguiva verso le valli che si intravedevano in lontananza e dall’altra si addentrava nel fitto del bosco. Una quercia enorme era cresciuta proprio alla biforcazione e sotto i suoi rami era stata edificata una piccola edicola, ormai semidistrutta, con immagini sacre. Nicandro, lamentandosi per la stanchezza a beneficio di chi lo stesse ascoltando, si sedette sul ciglio della strada su un masso coperto di muschio e osservò i suoi compagni di viaggio scorrergli davanti, eccitati e pieni di speranza per la meta che vedevano avvicinarsi. Kallistos si fermò accanto a lui, con la scusa di sistemare il basto dell’asino che trasportava i bagagli suoi e dei suoi uomini e, mentre fingeva di sistemare meglio il carico, si mise a parlare. Discorsi senza importanza, come se cercasse di passare il tempo mentre completava il suo lavoro, fino a quando l’ultima persona non li sorpassò. Allora il tono della conversazione cambiò improvvisamente. «Siete arrivato, vero?» disse rivolto all’uomo seduto. «È questa la biforcazione della quale mi ha accennato Filosseno. In fondo al viottolo che s’inoltra nella macchia, c’è il posto che mi ha indicato» confermò quest’ultimo «sempre che esista ancora…» aggiunse poi.
45 «Io e i miei uomini non possiamo accompagnarvi, almeno non tutti noi. Daremmo troppo nell’occhio se tutti insieme lasciassimo la compagnia. E non abbiamo certo bisogno di suscitare curiosità e chiacchiere.» «Non vi preoccupate, capisco benissimo.» «Vi lascio Eranio» indicò un uomo poco distante, basso e tozzo «è in gamba, discreto e soprattutto… non può parlare.» Nicandro alzò le sopracciglia in una muta domanda. «I Goti gli hanno tagliato la lingua» chiarì concisamente Kallistos, senza dare ulteriori spiegazioni. Non appena l’ultimo dei viandanti sparì dietro la curva che più avanti faceva la strada principale, Nicandro e il suo taciturno compagno si avviarono verso l’interno del bosco, mentre il giovane raggiungeva la colonna in marcia senza voltarsi indietro. Camminarono per più di un’ora, addentrandosi sempre di più nella selva, con gli alberi che si facevano fitti e grossi mano a mano che procedevano, rendendo difficoltoso il sentiero che si snodava sotto i loro piedi. I raggi del sole filtravano attraverso le chiome di quei giganti di legno che svettavano verso il cielo, creando giochi di luce sempre mutevoli, e dando l’impressione di penetrare in un regno fantastico. Nicandro si aspettava da un momento all’altro di vedere comparire le ninfe e i satiri di pagana memoria, che secondo le antiche credenze avevano popolato quei luoghi magici. Finalmente la selva si aprì e giunsero in una radura dove sorgeva una costruzione in pietra. Riconobbe immediatamente il tipo di fabbricato: le colonne che lo circondavano su tre lati, la scalinata in marmo che portava all’ingresso, le fondazioni in tufo… tutto stava a indicare un vecchio tempio. Gli Dèi ai quali era stato dedicato erano stati rinnegati da tempo e ora sul frontone faceva bella mostra di sé una croce cristiana, segno del cambiamento. Alcune persone, sedute sui gradini che portavano all’interno e immerse in una animata discussione, non appena lo scorsero smisero di parlare, si alzarono e gli andarono incontro, fermandosi in silenzio a pochi passi da lui Nicandro notò che erano quasi tutte non più giovani, indossavano vesti di lana bianca intessute grossolanamente ed erano privi di qualsiasi ornamento, a parte una croce di legno che portavano attaccata al collo con un cordino. Quello che lo colpì di più furono i capelli: tutti li portavano lunghi e sciolti sulle spalle.
46 Si schiarì la gola e cominciò a parlare. «Salve, mi chiamo…» «Sappiamo chi sei» lo interruppe uno di loro. Non riuscì a capire chi avesse parlato. «Sappiamo perché sei qui» riprese la voce «quello che porti deve essere custodito. Seguici all’interno.» Senza aspettare risposta, si girarono e cominciarono a salire le scale. Nicandro, ripresosi dalla sorpresa, si girò per dire qualcosa alla sua scorta, ma vide solo la schiena di Eranio che scompariva nel bosco: il compito dell’uomo era terminato e lui se ne stava andando. Rimasto solo nello spiazzo, non poté fare altro che avviarsi verso l’ingresso del tempio, la mano infilata nella bisaccia che stringeva il cofanetto. Da qualche parte nel Picenum (odierne Marche). Luglio 1165. I due uomini erano seduti ai lati opposti di un rozzo tavolo di legno situato sotto un porticato. Faceva molto caldo e avevano già attinto più volte alla brocca di acqua fresca posta fra di loro. Girati verso il cortile guardavano l’affaccendarsi del personale del complesso intento a caricare dei carri. Fu il più anziano dei due, vestito di un saio bianco, a rompere il silenzio che durava già da un po’. «Penso che ogni questione sia stata definita e fra breve noi Camaldolesi ce ne andremo da questo luogo» disse indicando le costruzioni che si ergevano tutto intorno «suppongo che vi costruirete una Capitaneria del vostro Ordine. Quando prenderete possesso di tutto?» L’altro, un uomo maturo ma ancora prestante, si sistemò meglio la spada che portava al fianco e rispose senza voltarsi. «Al più presto, Padre, i miei compagni sono già in cammino. Io sono venuto prima, e da solo, per uno scopo ben preciso.» Nel dire queste parole voltò il capo e fissò negli occhi il monaco vestito di bianco. «Capisco» rispose il vecchio «dunque sarete l’unico al corrente di quello che custodiamo. Perdonate la mia curiosità, ma perché soltanto un uomo?» L’altro sospirò. «Padre Anselmo, anche tra i miei confratelli, malauguratamente, ci sono persone che hanno tradito lo spirito per cui siamo nati. Purtroppo l’avidità e la brama di potere sono un richiamo che per alcuni è
47 irresistibile e quello che custodite qui è troppo pericoloso per fare sì che cada in mani sbagliate. Non appena si è saputo che i vostri possedimenti erano stati ceduti al mio ordine, sono stato incaricato di venire qui e mettere in sicurezza quanto conservate.» «Dove intendete portarlo? Siete sicuro che fuori di qui sarà più al sicuro?» chiese Anselmo Un sorriso fugace passò sul viso del suo interlocutore. «Se permette l’ardire, per il vostro bene è meglio che non sappiate altro. E adesso, se volete mostrarmi…» Il vecchio monaco si alzò e, seguito dall’altro, si diresse verso una costruzione in rovina situata al limitare del bosco, ai confini del complesso monastico. Salirono i gradini malconci e passarono sotto le colonne screpolate. Entrarono all’interno dell’antico santuario. Percorsero la navata polverosa e ingombra di detriti caduti dal tetto in rovina, finché non giunsero in fondo a quello che era stato prima un tempio e poi una chiesa, per essere infine abbandonato quando i monaci Camaldolesi, che avevano eretto quel monastero, avevano costruito un’altra cappella poco lontano. Arrivati davanti a quello che era stato l’altare, Padre Anselmo si chinò e cercò di sollevare una pietra del pavimento, ma inutilmente: le commessure si erano riempite di terra e le dita non riuscivano a fare presa, scivolando sulla piccola lastra. «Lasciate fare a me» intervenne il suo compagno e, sfoderata la spada che portava al fianco, ne infilò la punta nelle fessure e cominciò a fare leva. La piastra oppose un tenace resistenza e, proprio quando cominciava a temere che la lama, pur solida, si spezzasse, il sasso cedette e si sollevò di un paio di centimetri. Posata l’arma, il cavaliere s’inginocchiò e completò l’opera con le mani, rimuovendo del tutto la pietra e scoprendo un vano ricavato nel pavimento. Rimase un attimo in silenzio, contemplando quello che era celato nel buco, poi allungò le braccia e lo tirò fuori. La bisaccia di cuoio era consumata dal tempo e quasi gli si sbriciolò fra le dita mentre frugava al suo interno, tirandone fuori un oggetto avvolto in un panno logoro e tarlato. Svolto il tessuto, quello che apparve ai suoi occhi fu un piccolo cofanetto ornato di simboli a sbalzo antichi di secoli. L’artigiano che lo aveva creato era scomparso da tempo immemorabile, ma nonostante questo il
48 suo lavoro sembrava appena uscito dalla bottega. Era ancora lucido e brillante, e rifletteva la luce solare che entrava dagli squarci nel tetto, danzando sulla superficie istoriata e animando le figure scolpite. Il vecchio monaco, che nel frattempo era rimasto in disparte, si avvicinò. «È meraviglioso» sussurrò «sembra… vivo.» «Non l’avevate mai visto?» chiese l’uomo. L’altro scosse il capo. «Sapevate dove era celato e in tutti questi anni non vi è mai venuta la curiosità di sapere com’era fatto?» «Ci sono cose che è meglio non conoscere se si vuole continuare a vivere una vita serena» ribatté sommessamente Padre Anselmo. «Capisco» rispose il Cavaliere «bene, ora è tempo di andare.» Philippe de Milly, che nel 1169 sarebbe diventato Gran Maestro dell’Ordine, si avvolse nel mantello bianco con la croce rossa, simbolo dei Cavalieri Templari, nascondendo sotto di esso lo scrigno, e uscì seguito dal frate.
INDICE
LA GENESI .................................................................................... 9 IL PASSATO ................................................................................. 12 IL PRESENTE .............................................................................. 69 IL FUTURO ................................................................................ 226Â