Il Senza Nome, Fabrizio Malfatti, giallo

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In uscita il 22/12/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre e inizio gennaio 2018 (3,99 euro)

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FABRIZIO MALFATTI

IL SENZA NOME L’ASSASSINO PERFETTO

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni

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IL SENZA NOME

Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-159-4 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Dicembre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A Federico, Nina, Celeste e Zeno. I miei quattro fantastici nipoti.

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Noi diciamo che l’ora della morte non può essere prevista; ma, quando diciamo questo, immaginiamo che quell’ora si collochi in un futuro, oscuro e distante. Non ci sfiora lontanamente l’idea che abbia un legame col giorno appena cominciato, o che la morte possa arrivare questo stesso pomeriggio; questo pomeriggio che ci appare così certo, che ha ogni ora già stabilita e programmata… Marcel Proust


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PROLOGO

Lo sguardo vagava, senza peraltro vederli, sui quadri appesi alle pareti, sulle librerie colme di volumi, sui mobili antichi, sulle poltrone con tappezzerie ormai passate di moda, sui piccoli tavolini pieni di soprammobili. Gli occhi si fermarono, ma solo per un attimo, sul ritratto di una donna in una cornice d’argento poggiata su una vecchia credenza, poi proseguirono nel loro vacuo scrutare fino a quando si tornarono a posare sulla scrivania alla quale era seduto: solo allora parvero riprendere vita. Osservò il materiale sparso davanti a lui e annuì, soddisfatto di quello che vedeva: c’era voluto del tempo e tanta, tanta prudenza per riuscire a completare il disegno che aveva in mente ma adesso… adesso era pronto! Ritornò con il pensiero a quando lo aveva concepito: da principio era stata solo un’idea folle, ma lentamente, giorno dopo giorno, questo pensiero assurdo aveva preso forma ed era diventato realtà. Era stato un lavoro lungo e noioso, a tratti anche pericoloso, ma con la sua perseveranza era infine riuscito a portarlo a compimento. E ora finalmente… Si alzò di scatto e raccolta tutta la documentazione la infilò in una borsa di pelle, gettò un ultimo sguardo intorno a sé e si avviò verso l’uscita, con un sorriso compiaciuto sul volto. Il gioco era cominciato.


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1 DICEMBRE, GIOVEDÌ

Scosse leggermente con la punta del piede il corpo che giaceva supino nell’erba alta con gli occhi semichiusi, un braccio allungato sul fianco e l’altro appoggiato sul torace, le gambe piegate, la siringa ancora infilata nell’incavo del gomito sinistro. Niente. Riprovò con più decisione, e anche questa volta non ebbe risposta: nessun segno di vita. Si chinò per osservare meglio e, alla scarsa luce dell’alba, si rese conto che l’uomo non respirava più. Un fugace sorriso gli passò sul volto, tutto era andato esattamente come aveva previsto. Del resto non era difficile immaginare che la miscela che aveva preparato e che l’altro si era sparato in vena gli sarebbe stata fatale. Ridiventato di colpo serio rifletté su cosa fare: lasciarlo lì perché lo scoprissero i suoi amici oppure… no, chissà quando lo avrebbero trovato e lui voleva che la scoperta fosse fatta al più presto, quindi doveva farsi venire un’idea, e alla svelta… ma certo, il fiume. Si mise a cercare nella sterpaglia lì intorno qualcosa che potesse servirgli per quello che aveva in mente. Trovato un grosso ramo poco distante, ritornò al cadavere e, usando come leva il pezzo di legno, cominciò a farlo rotolare fino al bordo del corso d’acqua che scorreva poco lontano. Spostarlo in quella maniera era difficile, il morto era pesante e i vestiti si impigliavano in continuazione nei cespugli, ma era anche molto più sicuro: nessun contatto, nessun trasferimento di materiale fra lui e la salma, nessuna traccia reperibile sui resti. Probabilmente l’acqua avrebbe cancellato ogni cosa lo stesso, ma non si poteva mai essere troppo sicuri: non poteva lasciare qualcosa al caso, non lui. Arrivato sull’argine, con la punta del bastone diede un’ultima spinta


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al cadavere che scivolò nell’acqua con un lieve gorgoglio, restando per un po’ accanto alla riva, come riluttante a lasciare la sicurezza della terraferma, finché la corrente se ne impadronì e cominciò a trascinarlo verso il centro del fiume. Lo seguì con lo sguardo per qualche istante, osservandolo allontanarsi pigramente e vedendolo scomparire a tratti per poi riemergere più avanti. Quando il corpo fu a un ventina di metri e ormai si scorgeva a stento, si girò e tornò sui suoi passi, diretto alla macchina che aveva parcheggiato poco lontano.


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8 DICEMBRE, GIOVEDÌ

Era morta di sicuro: gli occhi socchiusi e le labbra contratte lasciavano pochi dubbi. Per sicurezza le tastò il polso: nessun battito, Adele Rostati aveva finito di vivere. «Ora non soffre più» mormorò mentre guardava la donna stesa sul letto. Indugiò ancora per qualche istante davanti al corpo, osservandolo con occhio critico. Poi raccolse le sue cose e si diresse verso la porta dell’appartamento. Giunto sulla soglia si girò, gettò un ultimo sguardo alla scena e annuì soddisfatto: niente che facesse pensare che non si trattava di un suicidio. Uscendo diede un’occhiata fuori, si chiuse il battente alle spalle e scese le scale con calma, varcò il portone di ingresso e si mischiò alla gente nella strada, canticchiando.


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12 DICEMBRE, LUNEDÌ

16:50 Zanelli smise di tamburellare con le dita sulla scrivania e si rivolse all’uomo dalla pelle olivastra e dagli occhi e capelli nerissimi seduto in silenzio davanti a lui. «Questa situazione non mi piace» disse appoggiandosi allo schienale della poltrona. «Non mi piace per niente.» «Quale situazione, Commissario?» chiese perplesso l’Ispettore Gelsu. «Il fatto che non abbiamo niente da fare. Tu che ne dici?» proseguì Zanelli. L’Ispettore Gelsu si strinse nelle spalle e quel gesto lo fece sembrare ancora più minuto di quello che appariva. Apparenza, appunto: sotto quei panni si nascondeva un fisico asciutto e nervoso e molti avevano dovuto ricredersi amaramente per averlo sottovalutato. «Beh, proprio niente da fare non direi. C’è quella donna trovata morta in casa, il proprietario di bar ferito in una sparatoria, la prostituta accoltellata e poi se non mi sbaglio quel tale trovato nel Tevere… anche se a dire il vero non credo che quest’ultimo caso ci riguardi perché…» «Gelsu, per favore! Sai cosa intendo… è tutto troppo tranquillo, troppo calmo… questa città sembra essersi addormentata… e la cosa non mi piace!» «Dipenderà dall’aria natalizia?» azzardò Gelsu pentendosi subito di quello che aveva detto. «Per piacere! Da quando in qua le feste hanno fermato qualcuno?» «Ma cosa vuole Commissario, una strage al giorno, o magari un serial killer in giro per le strade?» sbottò l’Ispettore. «Hai ragione», rispose Zanelli alzandosi e avvicinandosi alla finestra,


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«sono un imbecille! Invece di essere contento di come stanno le cose mi preoccupo se non c’è qualcuno ammazzato in modo strano.» Scrutò fuori per qualche istante, poi si girò e cominciò a passeggiare per la stanza passandosi la mano fra i capelli eternamente spettinati. “Se non lo conoscessi così bene”, pensò Gelsu osservandolo, “ne avrei paura”. E non avrebbe avuto torto: un metro e novanta di altezza per quasi cento chili incutevano sempre un certo timore in chi gli stava davanti. Timore che cresceva osservando quel volto rude e squadrato dall’espressione corrugata. Ma chi lo frequentava da parecchio, come lui, sapeva che quell’apparenza minacciosa e severa nascondeva una sensibilità e una comprensione non comuni. Sensibilità e comprensione che si potevano cogliere nello sguardo, se si aveva la pazienza, e la forza, di fissare fino in fondo quei suoi occhi di un castano scuro quasi nero. «Come sta la signorina Laura?» chiese Gelsu cercando di interrompere quell’andirivieni. «Bene, bene. L’ho sentita poco fa. È ancora a Londra ma dovrebbe farcela a essere qui per Natale.» «Speriamo. Non si dimentichi che siete invitati da noi. Mia moglie non me lo perdonerebbe mai se non veniste.» «Non ti preoccupare, ci saremo.» Un lieve bussare alla porta interruppe la conversazione e un agente in divisa fece capolino. «Mi scusi dottore, ma c’è un giornalista che vorrebbe parlarle.» «Ancora!» sbottò Zanelli. «Digli che non ci sono, che sono uscito… anzi, meglio ancora: digli che sono morto!» L’agente uscì trattenendo a stento il riso. «Non ne posso più» riprese Zanelli. «Non ho un attimo di pace. È assurdo! Io voglio solo essere lasciato in pace e fare il mio lavoro!» “Allora è per questo che è così nervoso!” pensò Gelsu. «Commissario, Commissario… lei è… come dire… diventato piuttosto famoso» riprese dopo un attimo l’Ispettore. Zanelli fece per aprire la bocca, ma Gelsu lo prevenne.


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«Lo so, la cosa la scoccia, ma se ne faccia una ragione: è così, che lo voglia o no! Il suo ultimo caso ha avuto troppa risonanza e per questo lei è così… richiesto. Prima o poi la lasceranno perdere, succederà, stia tranquillo, ma almeno per un po’ le conviene stare al gioco. Anche perché gli altri non smetteranno di giocare, almeno fino a quando non troveranno qualcosa di più interessante.» Zanelli rimase pensieroso per qualche istante, ma non trovò nessun argomento con cui ribattere: era così che andavano le cose e l’Ispettore aveva ragione, doveva stare al gioco. Almeno fino a quando qualcos’altro, o qualcun altro, non avesse distratto i media. A quel pensiero, uno strano brivido gli corse lungo la schiena. Sbuffando si avviò verso la porta. «Io vado a casa, se dovesse succedere qualcosa fammi chiamare subito, hai capito? Altrimenti ci vediamo domani mattina.» «Va bene Commissario, va bene», rispose Gelsu, «non si preoccupi: se c’è qualcosa la chiamo e per cortesia…» «Che c’è ancora?» «Non esca dalla porta principale. Non ho voglia di raccogliere la denuncia di qualche giornalista sulla brutalità della Polizia.» Sorridendo Zanelli lasciò l’ufficio. Uscito dalla Questura si avviò di buon passo verso vicolo dei Cimatori, dove abitava nella casa lasciatagli dai genitori. Era una sua vecchia abitudine quella di spostarsi quasi sempre a piedi, almeno nel centro della città, un’abitudine che non mancava di attirargli i commenti ironici di Laura, la sua compagna, e di molti dei suoi colleghi. Ma era una consuetudine alla quale non avrebbe mai rinunciato, se non per cause di forza maggiore. “Non sapete cosa vi perdete, chiusi nelle vostra auto” pensò per l’ennesima volta guardandosi intorno. Non mancavano molti giorni a Natale e la città era già pervasa da una magica atmosfera: i negozi scintillavano di luci e di colori, le vetrine erano addobbate con sfarzo e la gente si accalcava per le strade con l’aria felice e trasognata, per una volta almeno


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apparentemente preoccupata solo degli acquisti. Percorse le vie dello “shopping” storico con le boutique dai nomi famosi e le gioiellerie esclusive. Mentre si avvicinava a Piazza Navona udì, in sottofondo al brusio della folla, la classica musica di uno zampognaro che, incurante degli urti e degli spintoni che riceveva, continuava imperterrito a soffiare nel suo strumento, riuscendo nello stesso tempo a sorridere a chi gli lasciava qualche spicciolo. Riuscito a stento a fendere la calca che affollava le bancarelle del mercato di Natale che si svolgeva ormai da quasi cento anni nella celebre piazza, si trovò a percorrere le stradine che portavano verso casa sua. Qui c’erano meno luci sfavillanti, meno esibizione, meno persone frenetiche ed eccitate, ma non per questo l’atmosfera era meno incantata, meno coinvolgente anzi… forse proprio perché l’ambiente era più calmo e rilassato il piacere della ricerca, la curiosità per l’oggetto originale, qui avevano maggiori possibilità di essere soddisfatte. Si vedeva anche dall’espressione dei passanti: le persone apparivano più distese e, pur nella laboriosa ricerca di qualcosa da comprare, gli sguardi si facevano più attenti, si discuteva davanti alle vetrine su oggetti che da altre parti sarebbero passati inosservati: tutto sotto gli occhi disincantati di vecchi commercianti che valutavano e giudicavano il possibile acquirente. Zanelli sorrise: gli piaceva quell’aspetto della città, quel modo di essere nello stesso tempo distaccata e partecipe, indolente e al contempo energica, sonnacchiosa eppure vivace. Appena svoltato l’angolo che il vicolo dei Cimatori formava con Via Giulia vide un capannello di curiosi intorno a un’ambulanza ferma davanti a un negozio con i lampeggianti accesi che illuminavano di lampi di luce blu i muri circostanti. «La libreria! Il Principe!» esclamò Zanelli, mentre un’ombra di preoccupazione gli oscurava il volto. Si avvicinò rapidamente e facendosi largo fra la gente si diresse verso l’ingresso del locale.


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Lo raggiunse proprio mentre ne stava uscendo una lettiga con un corpo adagiato sopra. Non riusciva a distinguere di chi si trattasse e così cercò di scostare un paramedico che, sentendosi afferrare per la spalla, si girò di scatto. «Ma cosa…?» disse stupito quest’ultimo fissando quell’uomo grande e grosso. «Sono un Commissario di Polizia! Cosa è successo? Chi è il ferito?» chiese Zanelli, lanciando un’occhiata minacciosa all’inserviente mentre cercava di scorgere il volto della persona sdraiata sulla barella. «Ci lasci passare, per cortesia» ribadì l’infermiere dando una spinta a Zanelli che non si mosse. «Commissario!» Zanelli si girò verso la persona che l’aveva chiamato e vide una persona anziana, minuta, con due limpidi occhi azzurri che lo fissavano vivaci da sotto un panama bianco, il volto magro e affilato tagliato da un sorriso. Lo sguardo gli scivolò sul vestito grigio di lana pettinata indossato dall’uomo, sulla cravatta blu dal nodo perfetto, sulle mani curate che, sporgendo dai polsini della camicia bianca perfettamente simmetrici, stringevano il pomo d’argento di un bastone da passeggio. «Principe, lei… lei… sta bene!» «Certo che sto bene Dottore, la ringrazio, ma perché mi…» L’ometto aggrottò le sopracciglia per un attimo e poi sorrise. «Perché… lei credeva che… no, no… si tratta di un cliente! Ha avuto un malore e così… è stato spiacevole… sì, proprio increscioso.» Bernardo Cetraro Corti, il “Principe” come lo chiamavano tutti in virtù di una, presunta ma mai realmente accertata, patente di nobiltà, titolare di una libreria antiquaria, assentì, diventando di colpo serio mentre si toglieva dalla giacca un immaginario granello di polvere. «Mi ha fatto prendere un accidente!» «La ringrazio per la sua premura, Commissario, ma voglio rassicurarla: nonostante la mia non più verde età non mi sento ancora pronto per il grande passo, anche se, come diceva Orazio “La morte


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raggiunge anche l’uomo che fugge”.» «Mi vuol dire cosa è successo?» chiese Zanelli mentre l’ambulanza, riaccesa la sirena, partiva a grande velocità e il capannello di curiosi si disperdeva lentamente. «C’è poco da dire: c’erano tre o quattro clienti che gironzolavano nella libreria… sa come fa la gente qui dentro… bene, a un certo punto ho sentito un rumore di libri che cadevano, mi sono alzato, sono andato a vedere e l’ho trovato: era steso a terra e respirava con difficoltà artigliandosi il petto con le mani. Ho subito pensato a un infarto, o qualcosa del genere e ho chiamato il 118. Questo è tutto quello che le posso dire.» «Lo conosceva?» Cetraro Corti scosse la testa. «No, non credo di averlo mai visto. Di sicuro non è un mio cliente abituale, me li ricordo tutti.» «Va bene, Principe» disse Zanelli avviandosi verso casa. «Visto che lei sta bene, la saluto.» «Arrivederci Commissario, e buona serata.»


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13 DICEMBRE, MARTEDÌ

02:00 La figura percorse lentamente i corridoi semideserti dell’ospedale, scambiando qualche cenno di saluto con lo scarso personale che incontrò lungo il percorso e avendo cura di tenere il volto il più nascosto possibile. Era difficile che qualcuno lo potesse identificare in seguito, ma la prudenza non era mai troppa. Giunto fuori, trasse un profondo respiro e sorrise compiaciuto: ce l’aveva fatta. Si tolse il camice che aveva indossato fino a quel momento e, rabbrividendo nell’aria fredda della notte, si diresse a passo svelto verso lo scarso traffico del lungotevere. 07:30 Mentre chiudeva la porta di casa, Zanelli stava pensando in quale bar sulla strada per la Questura poteva bersi un buon caffè visto che quello che si era appena preparato faceva letteralmente schifo. Si era appena incamminato verso Corso Vittorio quando si sentì chiamare. Era Cetraro Corti che, fermo sulla porta della libreria, lo guardava serio in volto. «Principe! Cosa fa qui a quest’ora? È successo qualcos’altro?» «No… beh, forse… per essere sincero non lo so. Sono qui proprio per questo: ho bisogno del suo parere.» «Mi dica.» «Andiamo dentro, se non le dispiace…» Zanelli seguì l’ometto attraverso vecchi scaffali di legno colmi di ogni genere di volumi, cercando di non far cadere i mucchi di libri accatastati in precario equilibrio su ogni superficie. La faccenda non


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appariva delle più semplici visto che il locale ne era letteralmente invaso e la luce fornita dai vecchi lampadari di cristallo non migliorava certo la situazione. “Ancora non riesco a capire come faccia a trovare qualcosa qui dentro” pensò Zanelli e non per la prima volta. Giunto alla fine della lunga stanza, Cetraro Corti lo fece entrare nel suo piccolo studio e si sedette dietro una vecchia scrivania, facendo cenno a Zanelli di occupare l’unica altra sedia. «Mi sono permesso di prepararle un caffè con dei croissant» disse il Principe indicando un vassoio con un bricco d’argento fumante e un piatto coperto da un coperchio pure d’argento. «Se gradisce…» Il profumo che emanava dalla caffettiera lo convinse, come se ce ne fosse stato bisogno. «La ringrazio, molto volentieri… Allora, Principe, come mai questa uscita così mattiniera?» chiese Zanelli allungando una mano verso il vassoio. Va tutto bene vero?» «Spero di sì.» «Spera?» Cetraro Corti si chinò e da sotto la scrivania estrasse una vecchia borsa di cuoio dalla pelle consunta e graffiata. Zanelli diede un’occhiata alla cartella poi riportò lo sguardo sull’uomo che aveva davanti. «Adesso le spiego» disse quest’ultimo vedendo l’espressione del suo interlocutore. «È proprio per questa che mi sono permesso di disturbarla. Vede, Commissario, ieri sera, stavo rimettendo a posto dei libri… quelli che quell’uomo, quello che si è sentito male, aveva fatto cadere sa… Bene, mentre li stavo raccogliendo da terra, proprio sotto lo scaffale ho trovato questa borsa. Non era mia e quindi la prima cosa che ho pensato è che fosse di quel tale. L’ho aperta per vedere se riuscivo a trovare un indirizzo, un numero di telefono, qualcosa insomma che mi permettesse di restituirla, ma quando ho visto cosa conteneva ho pensato bene di venire da lei.» «Ma cosa c’è di così terribile in questa borsa? Una bomba?» «In un certo senso… ma forse è meglio che veda con i suoi occhi.» Il Commissario lo guardò perplesso e notò una sincera apprensione


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su quel volto ben curato. A quell’esame l’imbarazzo dell’altro sembrò aumentare e Zanelli cominciò a preoccuparsi sul serio: non lo aveva mai visto così. Lo conosceva come una persona tranquilla, posata, sicura, sempre all’altezza di ogni situazione. «Okay, vediamo…» disse il Commissario. Senza dire altro l’ometto aprì la borsa e cominciò a tirarne fuori il contenuto. Il Commissario guardò il fascio di fogli, ritagli di giornale e fotografie che il Principe, dopo averlo estratto dalla borsa, aveva appoggiato sul piano dello scrittoio. Cominciò a esaminare quel mucchio di carte. Lesse con sempre più attenzione gli articoli ritagliati, gli appunti, studiò le fotografie e dopo una mezz’ora di quel leggere, controllare, vagliare, si appoggiò perplesso allo schienale della poltrona. «Li ha letti anche lei?» chiese al Principe che per tutto quel periodo era rimasto in silenzio. «Ci ho dato solo una rapida occhiata, ma ho visto quanto bastava a preoccuparmi.» «In effetti la cosa è un po’ strana, ma potrebbero non significare niente.» «Già, potrebbero» commentò poco convinto Cetraro Corti. «Ma lei non ci crede, vero?» «Come ebbe a dire Voltaire: “Il dubbio è scomodo ma solo gli imbecilli non ne hanno”. Cosa ha intenzione di fare con quel materiale?» «E cosa posso fare? Ripeto, per quello che ne sappiamo potrebbe essere… che so… semplice curiosità… un po’ morbosa glielo concedo, ma pur sempre curiosità!» «Capisco.» Il Principe sembrava deluso. «Per usare il “burocratese”: non ci sono elementi sufficienti per poter avviare un’inchiesta ufficiale, è esatto?» «Proprio così.» «E una non ufficiale?» Zanelli non poté fare a meno di sorridere alla velata, ma non tanto,


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allusione. «Diciamo che non ufficialmente si potrebbe cercare di sapere in quale ospedale è stato portato il nostro uomo e, se è in condizioni di parlare, chiedergli qualche informazione. Il tutto, ovviamente, per pura e semplice curiosità.» «Ovviamente.» Cetraro Corti rimase in silenzio per qualche secondo, poi cominciò a raccogliere il materiale e a riporlo nella borsa. «Cosa sta facendo?» «Rimetto tutto a posto, come vede» rispose candidamente l’uomo. «Principe, Principe… non faccia il furbo con me! Lei ha intenzione di fare quello che abbiamo appena detto, non è vero?» «Confesso che l’idea mi solletica. Questa roba non mi piace, Commissario» disse sollevando un fascio di fogli. «Non voglio fare del melodramma, ma quello che c’è qui dentro è quantomeno… come dire… inquietante.» Malgrado tutto, Zanelli sentì un brivido corrergli lungo la schiena. «E va bene» disse dopo un attimo di riflessione. «Visto che per il momento la città sembra pervasa da uno spirito Natalizio, ci penserò io.» «Da cosa è pervasa la città?» chiese stupito il Principe. «Lasci stare, sono cose mie» gli rispose Zanelli imbarazzato. «Allora ci pensa lei?» «Farò qualche indagine e appena saprò qualcosa glielo farò sapere.» «Grazie, Commissario e mi raccomando… stia attento. Come le ho già detto ho una brutta sensazione.» Zanelli si alzò e si diresse verso l’uscita, accompagnato dall’uomo. Appena la porta della libreria si fu chiusa alle sue spalle, Cetraro Corti si avviò verso il retro del negozio, la fronte corrugata e un’espressione preoccupata sul volto. La stessa espressione che aveva Zanelli mentre si dirigeva di buon passo verso il suo ufficio.


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11:30 Erano un paio d’ore che stava esaminando il contenuto della borsa e ancora non si era fatto un’idea precisa. Fantasia o realtà? Quello che aveva davanti era solo il risultato delle folli congetture di uno squilibrato o la lucida disamina di fatti reali? Non sapeva decidersi, e la cosa lo irritava parecchio. «Avanti!» sbuffò appoggiandosi allo schienale della poltrona. Una donna dai corti capelli biondi e dal fisico minuto e asciutto, con un viso sottile in cui spiccavano due luminosi ma duri occhi verdi entrò nell’ufficio. «Sovrintendente Ferrari», le sorrise Zanelli, «allora, come si trova qui da noi alla Mobile?» Lei sorrise a sua volta e la durezza dello sguardo si attenuò per un attimo. «Bene, direi. È diverso da quello a cui ero abituata, ma mi sto ambientando. A proposito Commissario, non finirò mai di ringraziarla per aver messo una buona parola circa il mio trasferimento, non…» «Lasci stare, Ferrari, se lo meritava, è fatta per questo lavoro.» Un leggero rossore si diffuse sul viso della donna, ma fu subito cancellato dal suo fare sbrigativo. «Sono qui per un paio di firme, Commissario… se mi fa la cortesia…» Zanelli stese il braccio per prendere una penna, ma si fermò con la mano a mezz’aria. «Ha un attimo di tempo? Beh, anche più di un attimo direi…» «Sì. Perché?» «Vorrei un suo parere su una faccenda. Prima, però, è necessaria una premessa.» Zanelli gli raccontò quello che era successo la sera prima e quella mattina, dall’arrivo dell’ambulanza alla visita del Principe. Lei lo ascoltò in silenzio. «E cosa dovrei fare?» chiese quando Zanelli ebbe finito. «Vorrei che desse una scorsa al materiale contenuto nella borsa e poi


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mi dicesse cosa ne pensa. Faccia pure con calma. Io intanto vado a fare una telefonata e a cercare Gelsu.» Dopo circa mezz’ora Zanelli rientrò in ufficio, seguito dall’Ispettore. La Ferrari sedeva pensierosa. Il fascicolo che il Commissario gli aveva dato era posato, chiuso, sulla scrivania. «Allora? Cosa mi dice? Già che c’è faccia un riassunto anche a Gelsu. Di come ne siamo arrivati in possesso l’ho già informato io.» Dopo un attimo di silenzio la donna cominciò a parlare, lentamente, quasi pesando le parole. «Si tratta di una raccolta di appunti, note, articoli di giornale, fotografie… a proposito… alcune di queste sono così crude che probabilmente provengono direttamente dagli archivi della Scientifica…» «O da quelli di un Medico Legale, o dalla Procura, o da un avvocato… ci sono molte possibilità in questo senso» la interruppe Zanelli. «Ha ragione» convenne la Ferrari. «Comunque, questo materiale si riferisce a decessi per incidente o dovuti a suicidio, che sono avvenuti in un arco di tempo che va dal 2008 a oggi. Quindici morti, per l’esattezza. La cosa che colpisce è che il tizio che ha raccolto tutto quel materiale sembra convinto che queste morti, accidentali o volontarie, in realtà non lo siano e che ci sia in circolazione qualcuno che uccide le persone facendone passare la morte per casuale.» «Tutto chiaro finora Gelsu?» la interruppe Zanelli rivolgendosi all’Ispettore che ascoltava in silenzio. L’uomo annuì senza distogliere lo sguardo dalla Ferrari. «Dai suoi appunti», proseguì la donna a un cenno del Commissario, «sembra emergere l’ipotesi… anzi, mi correggo… lui trae la conclusione che questo tipo, “Il Senza Nome”, come lo chiama, giri per l’Italia ammazzando persone che non conosce, solo per il gusto di farlo, riuscendo poi a mascherare i suoi omicidi.» «E lei cosa ne pensa?» chiese Zanelli. «Non lo so. Mi sembra tutto così assurdo! Anche se in alcuni dei casi citati qualche dubbio circa la dinamica del fatto è stato sollevato, almeno a quanto si dice negli articoli ritagliati, le indagini poi non


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hanno portato a niente.» «Ascoltate», li interruppe Gelsu, «lo sapete benissimo che non è per niente facile far passare un omicidio per incidente o suicidio. Simulare un incidente… No, sono troppe le variabili che potrebbero andare storte e con i mezzi tecnici che ci sono oggi a disposizione non sarebbe difficile scoprire cosa sia successo veramente… Per quello che riguarda poi i suicidi non ci scordiamo che ci vogliono dei motivi, delle situazioni particolari… uno non si ammazza così, dall’oggi al domani.» «Quindi sarebbe tutto frutto di una fantasia malata?» domandò il Commissario. «Abbiamo detto che secondo l’autore di questi appunti l’assassino uccide persone a caso, vero?» chiese a sua volta la Ferrari. «Questo è quanto sembra pensare lui» convenne Zanelli. «E se non uccidesse a caso? Mi spiego, Gelsu hai appena detto che per un suicidio ci vuole un motivo, no?» L’Ispettore assentì. «Bene, e se lui studiasse queste persone, che so… qualcuno che soffre di depressione… lui lo segue, osserva le sue abitudini… e al momento giusto… lo avvelena o lo butta dal terrazzo di casa o qualcos’altro…» «Mi sembra un po’ tirata per i capelli Ferrari!» «Ma potrebbe essere?» «In via ipotetica… sì… potrebbe essere, ma…» «Per gli incidenti non deve fare molto…» continuò lei sempre più infervorata. «Tiene qualcuno sotto controllo, lo pedina poi, che so… di notte, un ponte… una spinta e quel qualcuno finisce in un fiume e annega… chi lo noterebbe? Che c’è?» chiese la donna, notando il sussulto che Zanelli aveva fatto sulla poltrona. «C’è che qualche giorno fa un uomo è stato trovato nel Tevere, morto!» le rispose lui. «Commissario!» Gelsu scattò in piedi. «Non vorrà credere che… no, no… è assurdo solo pensarla una cosa del genere!» «È probabile che tu abbia ragione. Anzi, quasi sicuramente ce l’hai…»


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Gelsu sospirò. Conosceva il suo uomo. «Però?» «Non abbiamo molto da fare, quindi…» «Questo lo dice lei, comunque ho capito» lo interruppe l’Ispettore. «Vedo chi è incaricato dell’indagine e mi faccio dire quello che hanno scoperto. «Perfetto. Ferrari, lei invece mi faccia il favore di trovare in quale ospedale è stato ricoverato quel tizio così ci andremo a fare due chiacchiere. Spero ardentemente che ci dica che sta raccogliendo materiale per un libro e ci faccia fare così la figura degli scemi!» «Non capisco perché ci tenga così tanto a fare la figura dello scemo!» chiese la Ferrari. «Perché in caso contrario», le rispose serio Zanelli, «ci troveremmo a vivere il peggior incubo della nostra vita! Adesso vada a cercare quell’informazione, per piacere.» Arrivati sull’isola Tiberina, la Ferrari lasciò Zanelli davanti all’ingresso dell’ospedale mentre cercava un parcheggio. Lo ritrovò che stava discutendo animatamente con una delle addette all’accettazione, una donna di mezza età che ne aveva evidentemente viste troppe per lasciarsi convincere a fare qualcosa che derogasse anche minimamente dalle regole. «Ho capito che la privacy è una cosa seria, ma ho urgente bisogno di vedere questa persona!» «Mi dispiace ma senza…» «… L’autorizzazione del medico incaricato non si può! Questo me lo ha già detto, ma. ripeto, è una cosa piuttosto urgente!» «Forse non ha capito…» «Va bene, non volevo arrivare a questo ma…» Tirò fuori il tesserino. «Sono un Commissario di Polizia e ho la necessità di vedere il paziente, subito.» La donna guardò il documento, lo fissò per un attimo in viso poi, con estrema lentezza, come se la cosa le costasse una fatica enorme, sollevò la cornetta di un telefono accanto a lei.


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«Dottor Cinetti? C’è un Commissario di Polizia che avrebbe bisogno di parlare con un paziente ricoverato ieri sera… per la precisione quello con un attacco cardiaco… come dice?» Zanelli la vide corrugare la fronte e digitare qualcosa al computer. «Ma qui non risulta… quando sarebbe successo?» chiese poi. «Capisco… va bene Dottore.» Riagganciato il telefono la donna si rivolse nuovamente a Zanelli: «Il Dottor Cinetti sarà qui fra un attimo» gli disse fissandolo in modo strano. «Se nel frattempo si vuole accomodare…» «Grazie» la ringraziò gelidamente Zanelli. Dopo alcuni minuti che il Commissario passò camminando avanti e indietro nella sala d’aspetto, ricambiando con occhiatacce gli sguardi seccati delle persone sedute mentre la Ferrari, facendogli dei cenni disperati, cercava invano di farlo smettere, una voce metallica chiamò il suo nome dicendo che era atteso all’accettazione. Il Dottor Cinetti era sui sessant’anni, quasi calvo tranne una coroncina di capelli radi intorno alla testa, un po’ sovrappeso e piuttosto basso, così che quando Zanelli si avvicinò al bancone l’uomo dovette inclinare parecchio la testa all’indietro per guardarlo in faccia. «Allora, cosa c’è di così urgente?» chiese con una voce secca. «Il paziente ricoverato ieri sera» disse il Commissario. «Devo parlargli.» «Mi dispiace, ma purtroppo non è possibile.» Zanelli cominciava a perdere la pazienza. «Forse non mi sono spiegato bene Dottore, questa è un’indagine di Polizia e…» «Le ripeto che non è possibile: non è più qui!» «Ma… come… lo avete già dimesso?» «Per essere esatti se ne è andato da solo! Pensiamo questa notte.» Zanelli lo guardò stupito. «Mi faccia capire bene dottore: mi sta dicendo che un paziente ricoverato si è alzato e se ne è andato? Così, come se niente fosse?» L’uomo lo guardò seccato. «Commissario…»


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«Zanelli.» «Commissario Zanelli, questo è un ospedale, non un carcere. Le persone non sono chiuse in cella!» «Ma non stava male? Non era controllato?» «Da quanto leggo nel referto del collega che era in servizio ieri sera l’uomo è arrivato accusando dei dolori al petto. Sono stati fatti i normali accertamenti dai quali è risultata una leggera aritmia e un innalzamento della pressione. Così abbiamo preferito tenerlo in osservazione per una notte. Stamattina sono andato per controllarlo e non c’era più, e con lui i suoi vestiti. Questo è tutto quello che sappiamo.» «Forse se ne è andato perché voleva recuperare…» cominciò la Ferrari, ma il Commissario la interruppe con un gesto secco. «Scommetto che non aveva documenti» disse poi rivolgendosi nuovamente al dottor Cinetti. Il medico lo fissò poi, senza rispondergli, andò verso il banco dell’accettazione. Dopo aver parlato per qualche istante ritornò dai due e porse un foglietto al Commissario. Zanelli lo guardò. C’erano solo due parole: Davide Grossi. «È tutto quello che sappiamo di lui. Ci ripromettevamo di finire di compilare la scheda di accettazione in mattinata ma…» «Nella notte ve lo siete perso!» Il medico divenne tutto rosso in faccia. «Non ce lo siamo perso! Come le ho…» «Ha ragione, mi scusi» lo interruppe Zanelli. «È possibile almeno avere una sua descrizione fisica?» Poco dopo, mentre con l’auto si immettevano sul lungotevere, Zanelli rilesse i suoi appunti. «Sui quaranta/quarantacinque anni, pizzetto, capelli brizzolati e piuttosto lunghi, occhi scuri, corporatura normale…» Chiuse il taccuino con una smorfia. «Uno fra tanti!» esclamò seccato. «Fra troppi direi. E anche il nome probabilmente è falso. Sarà dura trovarlo.»


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Togliendo per un attimo gli occhi dal traffico, la Ferrari gli lanciò un’occhiata perplessa. «Perché l’avrà fatto?» chiese. «Voglio dire, non è logico andarsene così, dopo che ti sei sentito male e sei stato ricoverato.» «Non c’è niente di sensato in questa storia. Torniamo in Questura.» 15:00 «… No Laura, non sono andato a casa, qui c’è un po’ da fare e ho preferito non muovermi… No, no, non ti preoccupare, va tutto bene.» Zanelli fece cenno a Gelsu di entrare. «Adesso ti lascio perché è appena arrivato Gelsu… certo che te lo saluto, ti saluta anche lui, ciao.» Riattaccato il telefono guardò in maniera interrogativa l’Ispettore. «Il nome che mi ha dato…» cominciò l’uomo, «quello del tizio ricoverato…» «È falso, lo immaginavo!» «Falso non direi: qualcuno con quel nome esiste.» «Come esiste?» Zanelli era stupito. «Non solo esiste, ma vive qui a Roma. Ora bisogna solo vedere se è la stessa persona, anche se penso di sì.» «Ma tu guarda…» esclamò Zanelli sempre più perplesso. «Non ci avrei scommesso un euro… perché pensi che sia la stessa persona?» «Senta qui» rispose Gelsu agitando un fascio di fogli. «Il Grossi che di professione fa, o per meglio dire faceva, il giornalista, nel 2012 perse la compagna in circostanze tragiche: la donna si suicidò ingerendo un cocktail di farmaci. Lui fu interrogato, ma non emerse nulla a suo carico, tra l’altro al momento del decesso non era neanche in città, a Milano, dove a quel tempo viveva e lavorava. È stato probabilmente in quel momento che ha avuto origine la sua fissazione: si è convinto che qualcuno andasse in giro a uccidere la gente così, solo per il gusto di farlo, e che la sua compagna fosse una di queste vittime. Ho parlato con un funzionario della Squadra Mobile di Milano che se lo ricordava benissimo: li ha, per così dire, perseguitati per due o tre mesi. Tutti i giorni o quasi si recava in


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Questura cercando qualcuno che gli desse retta. All’inizio hanno cercato di convincerlo con le buone, ma alla fine hanno dovuto minacciarlo di denuncia se non smetteva. E così ha fatto, almeno per quello che riguarda le visite alla Polizia. Ha quindi cominciato a scrivere articoli sul giornale dove lavorava, ma anche lì, dopo diverse minacce di querela da parte dei parenti di alcuni dei morti che lui portava ad esempio, lo hanno fatto smettere. L’anno scorso si è licenziato e da allora non si sono avute più sue notizie. Fino a ieri, quando finge di stare male per farci trovare la borsa con tutti suoi appunti.» «Il suo indirizzo?» «Via delle Coppelle 3. Questo almeno è il suo ultimo domicilio conosciuto.» «Quasi quasi…» «… Lo va a cercare, lo so. Vengo con lei?» «No Gelsu, mi porto la Ferrari. Su quel tizio trovato morto hai scoperto qualcosa?» «Il corpo è stato avvistato nel Tevere presso Settebagni intorno alle nove di mattina del 2 dicembre da due canottieri che si stavano allenando. Hanno subito chiamato i Carabinieri della locale stazione che hanno provveduto al recupero. Ho telefonato in Caserma e mi sono fatto dire quello che hanno scoperto: il morto era una loro vecchia conoscenza, tale Renato Cocchelli, trentacinque anni, scapolo, tossico di vecchia data. Senza fissa dimora da almeno un paio di anni, era ospitato da amici e conoscenti oppure si arrangiava in qualche ricovero. L’ultima volta che è stato visto vivo, per l’esattezza da un certo Luigi Cecini, un altro tossico, è stato il giorno prima che lo trovassero. Per ora non so altro, ma aspetto altre informazioni.» «Vedi perché ti lascio qui?» ammiccò Zanelli in direzione dell’Ispettore. «Nessuno meglio di te riesce a scovare notizie… A proposito… vedi se ti riesce di scoprire qualcosa anche su quella donna trovata morta in casa.» Gelsu lo guardò in modo strano. «Non penserà che anche quella…»


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«Mio caro amico», rise Zanelli alzandosi, «prima di pensare a “qualcosa” devo sapere se esiste un “qualcosa”! Ciao.» 16:00 Naturalmente nei pressi di via delle Coppelle non c’era un parcheggio neanche a pagarlo a peso d’oro e così dovettero lasciare la macchina piuttosto distante e fare il resto della strada a piedi con Zanelli che brontolava e la Ferrari che faceva finta di non sentirlo. La donna era arrivata al limite della sopportazione quando improvvisamente il Commissario, a metà della stretta viuzza, si fermò davanti a un vecchio palazzo un po’ malandato, ma che conservava ancora un certo fascino. Ripreso fiato si diressero verso l’ingresso. Sopra il citofono c’erano tre campanelli, ma due soli portavano un nome sulla targhetta e nessuno dei due era quello del Grossi. Senza starci troppo a pensare, Zanelli premette il pulsante senza indicazioni. Attese un po’ poi, non ottenendo risposta, suonò ancora, questa volta tenendo premuto il campanello per diverso tempo. Ancora niente. La Ferrari lo guardò. «O non è in casa o non ci vuole aprire» disse. «Se c’è non vuole aprire a nessuno, visto che non può sapere chi lo sta cercando.» «Cosa facciamo?» Zanelli rifletté per qualche istante poi suonò un altro campanello. «Chi è?» chiese una voce di donna dopo qualche secondo, aggiungendo subito un chiarissimo: «Non voglio niente!» «Sono un Commissario di Polizia. Avrei bisogno di parlare con la signora…» Zanelli sbirciò il nome sulla targhetta «… Cerricono. È lei?» Ci fu un attimo di silenzio poi la voce tornò farsi sentire. «La Polizia? E cosa vuole da me?» «Se ci apre e ci fa salire glielo spiego» rispose brusco il Commissario


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che cominciava a perdere la pazienza. Con uno scatto secco il portone si aprì di qualche centimetro. Il vecchio lampadario in ferro battuto a forma di lanterna che pendeva dal soffitto spandeva una luce fioca, probabilmente anche a causa dei vetri piuttosto sporchi, lasciando l’atrio in penombra. Il Commissario e la Ferrari salirono le scale e si fermarono al primo piano dove una donna di mezza età, dall’aspetto trasandato li stava aspettando sulla porta di un appartamento. «La signora Cerricono?» chiese Zanelli fermandosi davanti a lei. «Sono io. Cosa volete da me?» chiese nuovamente, questa volta con una nota di titubanza, quasi di timore, nella voce. «Da lei personalmente niente, vorremmo solo sapere se per caso sa se il sig. Grossi è in casa.» «Chi?» la donna lo guardò perplessa. «Il sig. Grossi, l’inquilino del terzo piano.» «Ah quello! Cosa vuole che le dica… sarà qui da… da quanto… due mesi, forse meno… e l’avrò visto sì e no tre o quattro volte: sempre di corsa, sempre indaffarato: buongiorno, buonasera e via. Mai una parola di più, e sì che ho cercato di fare un po’ di conversazione… sa… tra vicini…» «Che tipo è?» chiese la Ferrari. La Cerricono la guardò infastidita. «Uno come tanti» rispose poi con un tono di voce acido e scostante. «Di più non so cosa dirle. Non è che faccio la posta a tutti gli uomini del palazzo, mia bella signorina!» La Ferrari fece un passo avanti e aprì la bocca per replicare, ma prima che saltasse alla gola della Cerricono Zanelli intervenne. «Al secondo piano c’è qualcuno?» chiese. «Ci abita il signor Mensali» rispose l’anziana guardando intimorita la Ferrari che continuava a lanciarle occhiate non propriamente benevole. «Grazie, andiamo Ferrari.» Avevano salito sì e no un paio di gradini quando la Ferrari si fermò bruscamente e tornò indietro. Si avvicinò alla donna che li guardava ancora ferma sulla porta e le sussurrò qualcosa all’orecchio poi, con


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un sorriso assassino stampato sul volto, tornò dal Commissario. «Andiamo?» chiese serafica. Zanelli guardò la sua collega poi la Cerricono che era rimasta impietrita sulla porta, bianca in volto. «Cosa le ha detto?» chiese mentre salivano e immediatamente se ne pentì. «Niente di importante, solo che se per caso ci incontriamo ancora e lei mi chiama un’altra volta “mia bella signorina” la arresto. E poi, detto fra noi, sono sicura che la fa davvero “la posta” agli uomini.» Zanelli la guardò a bocca aperta mentre lei lo sorpassava, facendo i gradini a due a due. Arrivati al secondo piano suonarono alla porta dell’appartamento. Dopo qualche istante sentirono lo scatto della serratura e il battente si aprì. «Buonasera. Desiderate?» chiese l’uomo fermo sulla soglia. Sui cinquanta anni, alto e distinto, i capelli e gli occhi neri, il viso affilato, li fissava con uno sguardo perplesso. «Buonasera, il sig. Mensali?» «Sì, sono io, Enzo Mensali, con chi ho il piacere di parlare?» chiese con una voce calda e ben modulata, senza accenti. «Sono il Commissario Zanelli e lei è il sovrintendente Ferrari, avremmo bisogno di farle qualche domanda, se non le dispiace.» «Cosa vuole da me la Polizia?» Lo sguardo adesso era diventato curioso. «Ma prego, entrate.» Zanelli e la donna lo seguirono all’interno. L’uomo li fece accomodare in un salotto che a una prima occhiata il Commissario giudicò anonimo e impersonale: pochissimi mobili, qualche quadro alle pareti, praticamente privo di tutti quegli accessori che agli occhi di Zanelli rappresentano l’anima di una abitazione. E su tutto, il colore o, per meglio dire, l’assenza di colore: il bianco, il nero e varie sfumature di grigio erano infatti le uniche tonalità degli arredi. «Vedo dalla sua espressione che lo stile minimalista non è il suo preferito, Commissario» disse il loro ospite facendoli sedere su un


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divano bianco latte. «Non se ne abbia a male, sig. Mensali, se le dico che i miei gusti sono piuttosto diversi dai suoi.» L’altro sorrise. «Allora cosa posso fare per voi?» chiese poi incuriosito. «Il sig. Grossi, l’inquilino che vive di sopra, lo conosce? Cosa ci può dire di lui?» «Veramente poco Commissario, anzi, quasi nulla. Io sono spesso fuori casa per lavoro, sono un dirigente di una multinazionale e mi occupo di indagini di mercato e statistiche e questa mia attività mi porta a essere sempre in giro, quindi capirà che ho poche occasioni per parlare con i miei coinquilini.» L’uomo fece una smorfia. «E per essere del tutto sincero non è che la cosa mi pesi molto. Non so se ha già parlato con la donna che abita sotto di me…» «La signora Cerricono? Sì, l’abbiamo sentita.» «Quindi capirà la mia reticenza a stabilire, come dire, rapporti più amichevoli con lei, ho paura che scambierebbe la mia disponibilità con qualcosa di più… intimo.» Zanelli guardò di sottecchi la Ferrari che si strinse nelle spalle come a dire “L’avevo detto io che faceva la posta agli uomini del palazzo”. «Ma torniamo al Grossi» riprese il Mensali. «Non so di preciso quando è venuto ad abitare qui, quando si è trasferito io non c’ero, ma direi che non sono trascorsi più di un paio di mesi dal suo arrivo. In quanto a fare la sua conoscenza purtroppo la devo deludere, l’ho visto solo una volta, ci siamo incontrati sulle scale mente io salivo e lui scendeva: un saluto reciproco e la cosa è finita lì.» «Poi non l’ha più visto?» chiese la Ferrari. Mensali scosse la testa, sconsolato. «Mi dispiace.» «Non si preoccupi», disse Zanelli alzandosi, «ci è stato d’aiuto, grazie.» Una volta fuori dall’appartamento il Commissario si rivolse alla Ferrari. «Andiamo a dare un’occhiata anche al piano di sopra, già che ci siamo.»


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Giunto davanti alla porta del Grossi notarono che il battente era socchiuso. Si scambiarono uno sguardo perplesso. «Cosa facciamo adesso?» chiese il Sovrintendente. «Non possiamo entrare, non abbiamo nessun motivo per farlo. So che per lei Commissario queste cose non…» Si precipitò dietro Zanelli che nel frattempo aveva socchiuso l’anta ed era entrato nell’abitazione. «… contano molto e quindi ed entriamo lo stesso» concluse la Ferrari con un sospiro di rassegnazione. Nell’ingresso dove si erano fermati c’era solo un piccolo specchio attaccato alla parete e un attaccapanni a muro di poco prezzo. Proseguendo nella visita si accorsero che le altre stanze che si affacciavano sul lungo corridoio non erano arredate molto di più, anzi, due erano completamente vuote e nella terza una branda, una cassa che fungeva da comodino e un armadio di plastica erano tutto quello che si poteva vedere. Anche la cucina non era messa meglio: oltre a un fornello, un forno a microonde, un piccolo frigorifero, un tavolo di formica, un paio di sedie e uno scaffale a vista, non c’era altro. Se la casa del Mensali che avevano visitato poco prima era arredata in modo minimalista, questa andava decisamente oltre: era praticamente vuota. «Si direbbe che il nostro amico conduca una vita piuttosto spartana, o che si sia sistemato qui solo temporaneamente» commentò Zanelli. «Andiamo, ci rimangono da controllare un paio di stanze.» Una, il bagno, non fece che confermare l’impressione di provvisorietà: un piccolo armadietto sopra il lavandino contenente pochi effetti personali: dentifricio, spazzolino, rasoio, crema da barba, nient’altro. Solo lo stretto necessario, in modo da poter sparire da un momento all’altro senza lasciare niente di importante dietro di sé. L’ultima stanza li lasciò a bocca aperta e non perché fosse ammobiliata in modo diverso, anche lì l’arredamento era ridotto all’osso e comprendeva solo una piccola scrivania sotto l’unica


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finestra e una poltroncina, ma per quello che videro sulle pareti: erano letteralmente tappezzate da fotografie, articoli di giornale, appunti, disegni, schemi. Avvicinandosi si accorsero che tutto quel materiale non era altro che una replica, con maggiori particolari e con ulteriori dettagli, di quanto avevano trovato nella borsa che il Grossi aveva lasciato in libreria. «È incredibile» mormorò Zanelli guardando l’immagine di un cadavere. «Questo tizio è proprio fissato.» «Commissario», lo chiamò la Ferrari che era rimasta dietro di lui, «guardi un po’ lassù, sul muro sopra la porta.» Zanelli si girò e alzò gli occhi su quanto gli indicava il Sovrintendente. Una scritta in grossi caratteri neri campeggiava minacciosa sopra lo stipite: TUTTO ACCADE A TUTTI PRIMA O POI, SE C’È ABBASTANZA TEMPO «E questa frase cosa vuol dire?» mormorò la Ferrari perplessa. «Non lo so, ma sono pronto a scommettere che non significa niente di buono» disse Zanelli mentre si chinava sulle carte sparse sulla scrivania. Anche lì vide fogli pieni di appunti che, a quanto appariva a una prima occhiata, si riferivano all’ossessione del Grossi, a quello che lui chiamava “l’Assassino Perfetto”. Accanto al tavolo, per terra, una pila di fascicoli di enigmistica, tutti completati e con tanto di firma del Grossi in fondo alle pagine a quanto notò il Commissario, controllandone qualcuno a caso. «E ti pareva che non fosse un patito di parole crociate e di indovinelli… non ci facciamo mancare proprio niente…» «Come dice?» «Niente Ferrari, parlavo da solo. Qui comunque mi sembra non ci sia niente di cui non fossimo già a conoscenza, c’è materiale più accurato e documentato certo, ma nulla che risponda alla domanda da un milione di euro: il nostro uomo è un visionario o ha veramente scoperto qualcosa?» Mentre parlava diede un’occhiata fuori dalla finestra: la tapparella era abbassata quasi del tutto, lasciando solo un piccolo spiraglio. Si


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sedette sulla sedia e guardò attraverso l’apertura: quello che vide fu una fila di finestre del palazzo di fronte, tutte chiuse. «E adesso che facciamo?» chiese la donna. Zanelli si alzò e le sorrise. «Non molto, considerando che siamo entrati in casa sua senza essere stati invitati. Una cosa però la possiamo fare: fotografiamo tutto con i cellulari, almeno avremo qualcosa da controllare.» «Neanche questo credo sia legale, Commissario…» obiettò la Ferrari. «Lo so, maledizione, lo so! Male che vada cancelliamo tutto dalle memorie dei telefonini e buonanotte. Su, diamoci da fare, prima che l’inquilino si ricordi di aver lasciato aperto e ritorni.» Stavano per uscire in strada quando Zanelli si fermò davanti alla porta della Cerricono e suonò il campanello. «Cosa vuol fare Commissario, non mi pare il caso di…» protestò la Ferrari, ma lui la zittì con un cenno mentre il battente si schiudeva. «Ancora voi!» esclamò la donna lanciando un’occhiata impaurita alla Sovrintendente. «Cosa volete adesso?» «Un’ultima informazione signora. Sia gentile, le prometto che poi non la seccheremo più.» «E va bene, mi dica.» «Si ricorda il nome della ditta che ha effettuato il trasloco quando il sig. Grossi è venuto ad abitare qui?» «Di quale trasloco parla se…» sbottò la Ferrari sconcertata. «Sovrintendente!» la interruppe bruscamente Zanelli. «Mi lasci lavorare, anzi, per cortesia, mi aspetti fuori.» Innervosita e amareggiata dal tono rude del Commissario la Ferrari uscì senza aggiungere una parola. Aspettava da qualche minuto, passeggiando nervosamente e cercando di farsi sbollire la rabbia, quando Zanelli uscì dal portone e si diresse verso di lei. «Senta Commissario, io non…» «Si calmi Sovrintendente, innanzi tutto le chiedo scusa per il modo in cui l’ho trattata poco fa, ma era l’unica maniera per impedirle di parlare.»


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«Non capisco, perché non avrei dovuto parlare?» «Stava per dire che non ci può essere stato alcun trasloco, visto che la casa era vuota, è vero?» «Beh, più o meno, ma perché non…» Un sorriso le illuminò di colpo il viso. «Ho capito: voleva sapere se quella donna ne era al corrente. Mi scusi se non ci sono arrivata subito.» «Non importa, comunque sa cosa mi ha risposto? Che nel periodo in cui il Grossi si è stabilito lei non c’era, era in visita a sua sorella che vive a Salerno e quindi non ne sapeva niente di traslochi, ergo, non sa che l’appartamento è semivuoto. Ho il sospetto che il nostro uomo non abbia scelto a caso il momento in cui venire ad abitare qui. Non c’era nessuno che potesse controllare se portava i mobili e facesse strane domande vedendo che non ne arrivavano.» «Ma perché tutta questa segretezza, questi espedienti?» «Probabilmente ha affittato questo appartamento per usarlo solo come luogo di lavoro, o come casa sicura, e lo ha arredato con il minimo necessario per sopravvivere.» «Se ha ragione, Commissario questo vuol dire che da qualche parte ha un’altra casa, la sua vera casa.» «Esatto. Torniamo in Questura adesso, prima che ci diano per dispersi.» Osservò i due andare via discutendo, preoccupato al pensiero di quello che quasi certamente si stavano dicendo. Ma forse non tutto il male veniva per nuocere: le tracce che aveva involontariamente lasciato avrebbero sollevato ancora più domande di quelle che si erano già posti, facendoli sprofondare sempre di più nell’incertezza. E intanto lui sarebbe andato avanti. 17:30 Era preoccupato: il tempo era un fattore fondamentale… e cominciava a mancargli. Guardò le persone intorno a sé: come le disprezzava!


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Tutte quelle facce anonime, dal sorriso insulso, con la testa piena di pensieri banali, ignari della sua presenza, inconsapevoli del fatto che la loro miserabile e inutile vita poteva essere troncata in qualsiasi istante. I suoi occhi si posarono su alcuni anziani turisti in visita al monumento: le donne, impegnate in un chiacchiericcio frivolo, sembravano oche starnazzanti, mentre gli uomini, silenziosi nella loro ottusità, si guardavano intorno con uno sguardo ebete. Il suo disprezzo aumentò e una improvvisa vampata di odio gli attraversò il corpo come una scossa elettrica, costringendolo a mettere le mani in tasca per evitare che qualcuno ne notasse il violento tremito. Cominciò a seguire il gruppo: aveva deciso. Nello stesso momento, in Questura, Gelsu si sedeva davanti alla scrivania di Zanelli. «Allora Commissario», cominciò l’Ispettore, «ecco qui quello che ho scoperto. A quanto mi ha detto lei l’ossessione del nostro uomo è iniziata con la morte della convivente, tale Daniela Pozzo, 39 anni, morte avvenuta nel settembre 2012, il 15. Partendo da lì ho cercato di scoprire qualcosa di più. E devo dire che sono stato fortunato perché, parlando con la Mobile di Milano, ci ho trovato un vecchio compagno di corso che si ricordava bene il fatto per aver partecipato alle indagini. Niente di particolare riguardo alla dinamica: la donna aveva ingerito una quantità di farmaci da ammazzare un cavallo e al momento della morte era sola in casa. Insomma sembrava il classico caso di suicidio. L’unica cosa che lasciava perplessi era la mancanza apparente di movente… fino a quando non si scoprì che pochi giorni prima c’era stato un litigio, piuttosto forte a sentire il mio amico che l’aveva a sua volta appreso dai vicini, con l’uomo con cui viveva…» «Il Grossi» lo interruppe Zanelli. «Esatto. Naturalmente fu interrogato, ma non emerse niente, tra l’altro al momento della morte non era in città. Disse che era fuori per lavoro, ma a sentire il collega probabilmente se ne era andato proprio in seguito alla litigata, forse per far sbollire le acque, o forse


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lei lo aveva cacciato di casa… questo non si è arrivati a saperlo. Si erano raccolte anche voci circa il fatto che la donna avesse un amante, ma non si venne a capo di niente: o erano solo dicerie oppure, se corrispondevano a verità, il tizio era sparito nel nulla.» «E da lì il Grossi…» «… Cominciò la sua crociata. Era passato sì e no un mese dalla morte della Pozzo quando si presentò in Questura per la prima volta esponendo la sua tesi. All’inizio lo ascoltarono, più per cortesia che per altro, ma poi diventò insistente e le sue visite si fecero frequenti, troppo a sentire il mio amico. L’ultima volta che andò da loro, all’ennesima spiegazione sul perché il caso fosse stato archiviato, diede in escandescenze. Fu allora che lo minacciarono di denuncia se si fosse ripresentato. Ma la cosa non finì lì: cominciò una campagna di stampa, allora lavorava ancora al giornale, su come secondo lui si erano svolti i fatti. Altre polemiche, discussioni, dispute con i parenti dei presunti “assassinati”, specialmente quando un paio di compagnie di assicurazione bloccarono il pagamento di polizze stipulate sulla vita nell’attesa di chiarimenti…» «E ti pareva che perdevano l’occasione!» ghignò Zanelli. «Già. Comunque smise anche con questi articoli, si licenziò, o più probabilmente lo cacciarono, e di lui, almeno a Milano, non si sentì più parlare.» «E come ha vissuto in questi anni?» «Aveva scritto un paio di libri che avevano riscosso un certo successo e che ancora adesso sono in circolazione quindi i diritti di autore non gli mancano, inoltre i suoi gli avevano lasciato una rendita, non consistente ma comunque sufficiente per vivere abbastanza bene. Fino a ora questo, per quanto riguarda il Grossi. Sto aspettando che mi mandino altre notizie. A proposito, questa è una sua fotografia, me la sono fatta mandare dall’archivio della motorizzazione.» «Ottima idea Gelsu» disse Zanelli prendendo l’istantanea. L’immagine non era delle migliori, come tutte le foto su un documento, ma la descrizione che gli avevano fatto corrispondeva abbastanza, tranne per il fatto che il dottor Cinetti aveva uno strano


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concetto di capelli lunghi, forse perché lui era quasi calvo, pensò il Commissario. «Altro?» «Passando agli altri morti il discorso si fa piuttosto breve: niente.» «Come niente?» «Ho sentito tre Questure: per loro si tratta di incidenti o suicidi, punto e basta. Non c’è nulla che indichi il contrario. Solo nel caso di un uomo caduto da un ponte, a Genova, un testimone ha detto di averlo visto in compagnia di un tale pochi istanti prima che cadesse nel vuoto. Ma, poiché non ha saputo dire di più e, visto che poi si è scoperto che gli piaceva alzare il gomito, alla sua testimonianza non è stato dato molto peso. Per il resto ripeto: niente. Potremmo richiedere i fascicoli, ma bisognerebbe inoltrare una richiesta ufficiale e non credo che qualcuno ce la firmerà, o mi sbaglio?» «Penso proprio di no, almeno per ora. Hai fatto comunque un ottimo lavoro Gelsu.» «La Ferrari mi ha detto che avete trovato del materiale piuttosto inquietante nell’appartamento.» «Inquietante è la parola giusta, anche se non ci fa fare nessun passo avanti e non chiarisce ancora se si tratta di immaginazione o realtà.» «Bisognerebbe trovare il Grossi e farci una chiacchierata.» «Già, hai detto che vive dei proventi dei suoi libri?» «Anche.» «Bene. Vediamo allora di scoprire come e dove lo pagano: conti correnti, carta di credito, accrediti… tutto quello che riusciamo a trovare. Uno non può svanire nel nulla, qualche traccia la deve lasciare.» Gelsu fece per alzarsi. «E… Carlo…» L’Ispettore lo guardò preoccupato, raramente il Commissario lo chiamava per nome. «Mi raccomando, che la cosa resti tra noi, se lo vengono a sapere in alto ci prendono per matti.» «Non si preoccupi Commissario, sarò discreto.» Non appena Gelsu fu uscito, Zanelli si appoggiò allo schienale della


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poltrona, immerso in pensieri tutt’altro che piacevoli. Di colpo si scosse e afferrato il telefono, compose il numero del centralino. «Sono Zanelli, mi passate per favore la Stazione Carabinieri di Settebagni?» 21:00 Arrivato nel vicolo dove abitava, Zanelli vide che la libreria del Principe era aperta… “Strano” pensò, guardando l’orologio. Seguendo un impulso improvviso aprì la porta ed entrò nel negozio. Non c’erano clienti e il locale, silenzioso e soffuso della luce ambrata dei vecchi lampadari, incuteva soggezione quasi volesse mettere sull’avviso chiunque fosse entrato che quello non era un luogo dove cercare banalità o frivolezze, ma un posto dove parole, idee, pensieri, anche se lontani nel tempo e nello spazio, avevano ancora il peso che meritavano. Dirigendosi verso il fondo della stanza raggiunse il proprietario chino sulla vecchia scrivania che, alla luce di una lampada, era intento a spolverare accuratamente un libro con un pennello. «Buona sera Commissario» lo salutò questi, senza interrompere quello che stava facendo. «Buona sera Principe. Dovrebbe essere più prudente però, controllare chi entra, di questi tempi non si sa mai…» «Oh, ma io lo so sempre chi entra» gli rispose con un sorriso il vecchio, indicando con la testa un piccolo monitor posto di fianco allo scrittoio, seminascosto tra vecchie carte e antiche stampe. “Ecco, così imparo a stare zitto” pensò Zanelli. «Mi scusi un attimo e poi sono da lei» continuò il libraio. Finito di pulire il libro che aveva tra le mani, lo richiuse con cura e lo appoggiò su di un mobiletto. «Cosa la porta da queste parti?» «Veramente non…» cominciò a dire il Commissario, ma venne immediatamente interrotto dal suo ospite che si alzò di scatto dalla


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poltrona. «Perdoni la mia mancanza di creanza, ma questi ultimi giorni sono stati un po’… come dire… intensi. Posso offrirle qualcosa? Ha già cenato?» «Qualcosa ho buttato giù.» «Allora forse gradirebbe un po’ di Porto. Ho del Graham’s invecchiato trent’anni che è una delizia, va bene?» Prima che Zanelli potesse dire una parola l’uomo si era alzato ed era uscito dalla stanza. Stava cercando di sistemarsi meglio sulla poltrona quando il Principe rientrò nella stanza reggendo un vassoio d’argento sul quale facevano bella mostra due bicchieri di cristallo finemente intagliati, pieni di un liquido ambrato. «Ecco fatto» disse poggiando il vassoio sulla scrivania. Alzando il bicchiere in un brindisi Cetraro Corti sbirciò il Commissario. «Allora, come dicevo poco fa: come mai qui?» Zanelli fissò il calice che aveva in mano. «Se devo essere sincero non lo so nemmeno io… stavo andando a casa quando ho visto che la libreria era aperta e sono entrato. Ma ripeto, se dovessi dirle il perché…» Il Principe lo guardò corrugando la fronte, poi improvvisamente gli sorrise. «È questa storia che la preoccupa, vero? Non sa se sia il frutto di vaneggiamenti o se ci sia un fondo di verità.» «Già» annuì Zanelli. «Non ci sono prove, niente che faccia pensare a un piano omicida però…» «Se la cosa fosse vera cosa si potrebbe fare?» continuò per lui Cetraro Corti. «È questo che le dà da pensare, vero? E anche a me, se devo essere sincero.» «Ero andato a cercare il Grossi», esclamò Zanelli, «per saperne di più, ma purtroppo non sono riuscito a trovarlo, e la cosa non mi piace.» «A proposito del nostro uomo, quando lei è entrato avevo da poco finito di guardare la registrazione di quello che è successo quel


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giorno in negozio e stavo riflettendo.» «Lei ha la registrazione?» «Certo, la vuol vedere?» Al cenno di assenso del Commissario, il Principe accese il portatile e dopo qualche secondo cominciarono ad apparire delle immagini. Zanelli osservò l’interno del negozio: vide quattro persone entrare e poi gironzolare fra gli scaffali. «Eccolo!» esclamò Zanelli indicando il Grossi che, la famosa borsa stretta nel pugno, faceva il suo ingresso nel negozio, dove erano già presenti quattro persone. Lo sguardo gli cadde sull’orario che scorreva in basso a destra del piccolo schermo: 17:32. Continuando a osservare la scena videro il Grossi aggirarsi per la stanza e fermarsi ogni tanto a osservare distrattamente un volume per poi proseguire nel suo girovagare senza apparente significato. «Non mi sembra che stia cercando un libro in particolare» disse Zanelli. «Questo non vuol dire, Commissario, a volte succede che un cliente non sappia neanche lui cosa voglia.» «Sarà come dice… ma a me dà l’impressione di aspettare qualcosa… o qualcuno.» «Ecco, guardi adesso…» lo interruppe Cetraro Corti. «È il momento in cui si sente male!» Videro l’uomo, fermo davanti a uno scaffale, irrigidirsi improvvisamente mentre allungava un mano verso una mensola. Lo osservarono addossarsi al mobile, sporgere la testa appena quel tanto che bastava per sbirciare in una direzione e poi guardarsi intorno freneticamente. Un istante dopo l’uomo si accasciò al suolo, trascinando nella sua caduta diversi libri. Erano le 17:39. Tre clienti si avvicinarono al caduto, cercando in qualche modo di aiutarlo. «Il resto non è interessante» concluse il Principe. «Solo tanta confusione… cosa c’è?» Zanelli era rimasto con lo sguardo fisso sul piccolo schermo. «Non ha notato niente?» chiese con uno strano tono di voce.


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«La sua agitazione? Certo è strana, come se avesse visto qualcosa che lo ha spaventato…» «E oltre a quella?» Il Principe guardò perplesso il Commissario. «Non…» «Torni indietro con la registrazione, fino al momento in cui il Grossi cade… ecco, fermo! Cosa vede?» Cetraro Corti avvicinò il viso al portatile e fissò l’immagine, poi si tirò indietro e scosse il capo. «Non riesco a…» «Mandi avanti lentamente e stia attento al braccio destro del Grossi, quello che tiene la borsa.» La scena che avevano visto a velocità normale ora si svolgeva rallentata, dando l’assurda impressione che le persone inquadrate si muovessero sott’acqua. A un certo punto, il Principe si irrigidì, fermò la registrazione, la mandò indietro di qualche istante e la riesaminò, poi guardò stupito Zanelli, che gli strizzò l’occhio. «L’ha notato adesso?» chiese quest’ultimo. «La borsa… non è finita per caso sotto lo scaffale…» «No» concluse per lui il Commissario. «Ce l’ha spinta.» «Voleva nasconderla, ma perché?» «Io avrei un’altra domanda, che forse può spiegare il suo comportamento.» «Cioè?» Cetraro Corti era perplesso. «Cosa, o chi, ha visto da spaventarsi tanto da farsi quasi venire un infarto?» )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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