Il sogno di Maria Kostlin, Federico Corberi

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In uscita il 31/1/2018 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio e inizio fbbraio 2018 ( ,99 euro)

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FEDERICO CORBERI

IL SOGNO DI MARIA KÖSTLIN (Con passione e disciplina)

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni

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IL SOGNO DI MARIA KÖSTLIN Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-168-6 Copertina: Opera di Silvia Pedrozzi liberamente ispirata ad una foto di Johannes Brahms scattata da Maria Köstlin Fellinger.

Prima edizione Gennaio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Come con arte va preparato, cosĂŹ con arte va bevuto. Abd el Kader



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I A riguardo di una caffettiera e di un quadro. Del viaggio di una carrozza fino a Mürzzuschlag e di quelli, molto più lontano, di Maria e Hans.

Un forte rumore proveniente dall’esterno la svegliò bruscamente da un sonno leggero. Rivolse lentamente lo sguardo intorno, rassicurandosi nel riepilogo di noti elementi: il comodino, il tappeto orientale davanti al canterano, l’abat-jour. Un’ultima goccia in ritardo, testimonianza del trascorso temporale, picchiò sul vetro della finestra per la quale filtrava il tenue chiarore del primo mattino. Maria si avvolse nello scialle, raggiungendo con pochi passi il davanzale. Trascorreva abitualmente molto tempo su quello stipite, ricevendo dentro sé il mondo di fuori. Là, sotto casa, due uomini erano intenti a scaricare un carro del suo contenuto. Quello più alto, in piedi sul pianale, inveiva a gran voce indicando una cassa frantumata al suolo. Lungo il marciapiede, numerosi altri colli simili giacevano allineati in ordine sommario sotto gli alberi del viale. Aprì la finestra. Per lo squarcio su un lato, da quella cassa molti fiori di ogni genere erano stati sparsi intorno, assieme a foglie e petali di tutti i colori. Erano gigli, gladioli, gerbere, rose e dalie, e anche gardenie profumate, carnose calle e fucsie, o ancora bianchi giacinti e grossi ibischi. L’uomo a terra, con enormi bicipiti, gesticolava animatamente agitando nell’aria in atteggiamento violento un mazzo di iris raccolto dal marciapiede, che poi scaraventò nuovamente al suolo, stizzito. Intanto l’altro, inteso a terminare il lavoro, aveva ripreso a sollevare i colli restanti, lan-


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ciandoli uno dopo l’altro al compagno sempre imprecando e sbracciandosi ancora. Un soffio di corrente, sollevando un mulinello di petali, interruppe la discussione mentre la fragranza intensa e zuccherina dei fiori recisi investiva la finestra. Maria si allontanò d’istinto, richiudendo le persiane come per proteggersi, raggiunta in quello dal rumore del carro che si allontanava. Poi la nebbia del primo mattino cancellò la scena. Indossata la vestaglia di seta, uscì dalla camera imboccando il corridoio tappezzato a parati. Cos’altro potevano contenere quelle casse, palleggiate con tanta facilità da quei due, se non la leggerezza dei fiori? E perché quella quantità? Superata la stanza da bagno, si arrestò improvvisamente davanti alla porta aperta dello studio di Richard, fissando lungamente l’interno dove una massiccia scrivania, sgombra ormai da molti anni da ogni documento o strumento di lavoro, troneggiava al centro, come l’aveva lasciata lui in quell’ultimo giorno. Rimase là immobile a lungo, come ricapitolando un’esistenza o cercando in sé una risorsa mancante. Infine si recò in cucina. In quell’ambiente la luce entrava sfacciata. Prendendone da una cesta, introdusse della legna nella stufa, con alcuni giri della leva macinò una dose di caffè, caricò il bollitore di Potsdam e accese il fornello a spirito con il fiammifero. Quella raffinata caffettiera di fattura francese, l’uovo russo come la chiamavano talvolta i suoi concittadini, aveva i due emicorpi, quello inferiore per la bollitura dell’acqua e l’altro destinato ad accogliere la bevanda, impreziositi dal rilievo di una lucertola, la cui perfetta figura metallica, divisa fra le due metà della macchina, era raccordata all’altezza della coda. L’orientamento verticale del corpo, con la testa puntuta dell’animale rivolta verso l’alto, sembrava indicare una falsa direzione all’acqua, la quale in quella disposizione avrebbe dovuto procedere, attraversando il filtro del caffè, risalendo dal basso verso l’alto, incurante della gravità. Essendo ciò im-


7 possibile, il tutto era sostenuto, libero di ruotare, a un perno. Più in basso, il piedistallo ospitava il piccolo bruciatore in un contorno di riproduzioni arboree placcate in nichel, rifugio per la lucertola. Secondo un antico rituale, Maria strinse la parte superiore della caffettiera fra le mani, intiepidendole. Al manifestarsi dell’inconfondibile gorgoglio, indicazione che l’apparecchio era in temperatura, capovolse il dispositivo e l’acqua bollente poté finalmente prendere la direzione indicata dal rettile, dalla coda alla testa, scendendo lentamente nell’emicorpo in basso percolando attraverso il filtro. Ella immobile osservava attentamente. Le sembrava di ravvedere, in quel congegno dal meccanismo calibrato e ineluttabile, nella disarmante semplicità di un processo così giusto e perfetto, una metafora. Quella rotazione del bollitore, insignificante al punto da poter essere agevolmente impressa dalle sue dita rese ormai così scarne dal tempo, quell’atto minimo, l’elementare inversione di una prospettiva, moltiplicava la sua anodina portata fino al risultato compiuto e immodificabile che quell’aroma pervadente testimoniava: il caffè era pronto. Non forse grazie alla gravità? A quella forza matrigna che era trasformata ora in opportunità da un piccolo gesto, il capovolgersi della caffettiera, lo scambio di una polarità? La nostra esistenza può essere a volte a tal punto cambiata da minimi episodi: la sua vita non ne era forse testimonianza? Ma non su questo ragionava. Non sull’accadimento dell’imponderabile, non avendo noi su questo alcun controllo sarebbe illusorio argomentarne, così pensava, ma dell’angolo che noi offriamo alla sua incidenza. Giacché una diversa inclinazione, una rotazione interna, può, spostando i punti di fuga, dirigerci lungo la linea degli eventi, cambiare prospettiva alle cose e con ciò anche il loro esito, modificandolo a nostra volontà. Era questo secondo lei il potere di un gesto minimo. Ciò in cui credeva fermamente, perché l’esistenza stessa di una così ampia arbitrarietà le pareva sconfiggere ogni negatività e


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dare un senso al proprio arco vitale. Così, su questo aveva costruito una disciplina di vita: nulla mai l’avrebbe sorpresa inerme perché, seppure la forza delle cose ci soverchi talvolta, va trovata in noi quella direzione asimmetrica e privilegiata, dall’alto al basso, dalla coda alla testa, secondo cui allinearsi per rimanere saldi. Versò il caffè nella tazza. Una schiuma fragrante e densa si formò in superficie. Col cucchiaino creò un gorgo scuro entro il quale affondare lo sguardo. Non doveva berne. Così aveva detto il dottore. Per via del cuore. Quest’ultimo da qualche tempo, parecchio tempo, batteva senza alcuna regolarità i propri colpi. Il medico le aveva mostrato con una certa enfasi il tracciato del galvanometro a corda. «Alloritmia» aveva concluso. Si trattava in effetti di un diagramma ben bizzarro: quattro cuspidi regolari ed equispaziate erano seguite da un lungo tratto piatto, poi una ripresa troppo veloce, come una scarica. Il luminare, poco interessato al suo tracciato, si era profuso nell’esaltazione di quell’avveniristica meraviglia, l’elettrocardiografo, illustrandole ogni minimo aspetto e potenzialità, lodandone la recente invenzione: «Meriterebbe il Nobel» pronunciò burbanzoso. Ella lo sentì parlare a lungo, spiegarle i dettagli della sua patologia, i rimedi e la dieta a suo consiglio. Definì in seguito una fitta lista di appuntamenti a scadenza ravvicinata per il controllo dell’evoluzione del disturbo, così diceva, eventuali correzioni nella cura e variazioni alimentari. «In ogni caso si astenga dal caffè» aveva concluso, ripetendo un concetto già espresso più volte. Maria ascoltò attentamente, come d’abitudine, prendendo anche qualche appunto sul taccuino. Non erano, si capisce, annotazioni dei consigli del dottore, di questi egli aveva già riempite alcune cartelle con una scrittura minuta e inelegante. Tantomeno le date delle prossime visite, così doviziosamente programmate dall’uomo: sapeva già di non volerlo mai più rivedere, non le pia-


9 ceva l’idea di tanta intimità fra il proprio cuore e un estraneo. Aveva semplicemente scritto: “Mai più caffè”. Scrutava la superficie della scodella, ove l’inseguimento fra due bollicine di schiuma era rappresentato. Con un movimento del cucchiaino aumentò la vorticosità del liquido, la più piccola fu raggiunta dall’altra e divorata. Ma a seguire una terza, più grande e minacciosa ancora, arrembava. Il ritmo asimmetrico del muscolo cardiaco cadenzò quattro soffici colpi, come un sordo tamburo, poi una pausa. È sufficiente portare il palmo della mano al costato per disporre del più preciso cardiogramma, concluse mite, pensando rispettosamente al dottore e al suo galvanometro a corda. Se lo avesse fatto ora avrebbe sentito, più che un battito, un frullare irregolare d’ali. Ma non le occorreva quel gesto, premersi il petto: quel palpito affannoso era ormai a lei connaturato a tal punto da esserle perfettamente evidente in ogni momento. Risuonava nella cassa dell’interiore, acquistando gravità, scurezza e spessore, come fa il suono dimesso della pelle quando è tesa attorno alla caldaia del timpano. Il cardiologo diceva che il disturbo era serio, potenzialmente fatale. Per via di quella stasi, di quel battito mancante. Ma l’estrema fatalità, la morte, non la preoccupava. Era anzi per lei un utile accidente, un salvacondotto contro l’eternità. Non è forse in relazione al proprio ristretto ambito la ragion d’essere di ogni presenza? La propria missione e il compimento? Volse nuovamente lo sguardo sulla superficie scura nella tazza, ove il corso naturale delle schiume si era compiuto: ogni piccola chiazza si era fusa in un’unica grande bolla, esito finale di una rigida gerarchia. Ma anche questa spiraleggiava lentamente, risucchiata da un inesorabile gorgo opaco. Sono queste le regole dell’eternità, pensò. In una dimensione senza fine ogni esistenza è destinata a confluire in altre individualità, progredendo verso condizioni superiori, all’unica realtà ultima. La terra, alla quale i nostri corpi si congiungeranno, parteciperà al collasso di un im-


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menso corpo cosmico morente. Al termine di una folle rincorsa i mondi si uniranno; l’universo, ridotto a un punto, perderà misura. Così ragionava e il battere del proprio cuore, quel ritmo incerto e diseguale, le appariva come una splendida cornice all’interno della quale, al riparo dall’infinito come un quadro nello spazio dell’intelaiatura, collocare protetta la propria vita. La superficie di una tela non è mai angusta. Quant’è il lavoro di spatola, quanti gli impasti di colore, i tratti di pennello e le prospettive, i colpi di luce? Quanti gli ingredienti immaginati dal pittore? Nel grande quadro alla parete davanti a lei la campagna non sembrava avere fine: seguivano le une alle altre le colline dello SchleswigHolstein, sotto l’immutabile cielo grigio i prati si succedevano ai prati. In quello spazio ristretto ogni minima natura, anche un esile filo d’erba, esprimeva, come le striature di un’iride, un proprio Aldilà. Percorreva con lo sguardo l’ampio dipinto che occupava quasi per intero il muro della cucina. Quei tocchi di colore erano un’espressione che solo una superficie limitata e un orizzonte ristretto potevano ospitare, come l’agrume nella sua buccia. Oltre la tela le linee di fuga si perdevano in una dimensione che smarriva, ma all’interno del quadro ogni cosa aveva la propria misura. Quella pulsazione irregolare del cuore non le indicava forse di trovarsi dal lato giusto rispetto alla cornice? Così Maria interrogava in quel giorno la propria architettura, come una rondine osserva una cattedrale. Sì, concluse la sua vita era saldamente collocata al centro del telaio. “Mai più caffè” aveva annotato sul taccuino. E da quel giorno aveva sempre rispettato la consegna. Perché così aveva scritto e, per modo d’essere, ella detestava l’indisciplina. Si fosse trattato solo dell’ammonimento del dottore, ”Si astenga dal caffè”, certamente avrebbe considerato la questione con maggiore elasticità. Ma era scritto di proprio pugno, escludendo così ogni possibilità di insubordinazione.


11 Socchiudendo le palpebre, aspirò profondamente l’aroma caldo della bevanda, poi si alzò per liberare la tavola. Sollevò tazzina e piattino come un unico oggetto e, senza spanderne il contenuto, li spostò a fianco del lavello. Serrando i due emicorpi del bollitore fra le mani, con una torsione misurata mise in rotazione contraria attorno alla filettatura le due metà della lucertola. Il tronco e la coda si scorporarono, poi si riallinearono quattro o cinque volte, separandosi definitivamente quando la caffettiera si aprì. Poté così sciacquare il filtro e porre il bollitore ad asciugare sulla grata per le stoviglie. Infine svuotò con diligenza la tazzina del suo contenuto intatto e, lavatala, ripose anch’essa vicino al resto. “Come saresti stato buono!” pensò con un sorriso vedendo scendere l’ultimo caffè nello scolo. *** Su Vienna, all’esterno, splendeva una giornata di primavera gialla di sole dopo la pioggia della nottata. Giocando con le tende, uno spezzone di luce disegnava i muri della stanza. Maria rivolse la fessura accecata degli occhi alla finestra accostandosi al davanzale guarnito di piante di rosmarino fiorite in celeste. Sotto gli alberi, un’ombra densa e buia avvolgeva le aiuole umide escludendole dall’epifania di fulgore che più sopra e altrove esaltava ogni cosa. Quel mondo diviso in due dal taglio chirurgico delle chiome verdi dei tigli riproponeva il ricordo di una tiepida estate di quaranta anni prima. Era il 1885 allora. In basso, nella frescura di quelle stesse folte ombre, cercava un momento di sollievo Hans Haus, il vetturiere, intento fino ad allora a stivare sulla berlina i bagagli per la villeggiatura. Sopra, tanti anni prima come ora, lei era affacciata alla medesima finestra, osservando i laboriosi preparativi per la partenza. Richard, anch’egli, sarebbe entrato poco dopo nel campo visivo della memoria, dirigendosi con quel suo passo rapido e affermativo verso la carrozza. Esibendo al mondo la propria schiena ritta e


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le spalle a squadra. Parzialmente schermato al suo sguardo dalle foglie degli alberi, lo intravide conversare brevemente con il postiglione. Lui sporse il capo verso il centro della strada, per poterla scorgere oltre le chiome; le indirizzò un largo sorriso accompagnato da un gesto di soddisfazione: tutto era ormai pronto. Quanto sole in quel volto! Raggiuntala nell’appartamento, scesero poco dopo la lunga scalinata assieme, con gli ultimi ingombranti pacchi nelle mani e la luce dentro, dirigendosi poi goffamente verso lo sportello della carrozza che Herr Haus teneva ben aperto per il loro ingresso: «Prego Signora.» «Salgo sopra con voi» annunciò Richard in risposta, rivolto al cocchiere. «Se a te non spiace, cara» continuò sussurrandole. «Il viaggio è lungo e il buon Hans è tutto solo lassù!» La aiutò ad accomodarsi sulla panca di velluto rosso. «Scenderò da te fra breve» aggiunse poi con tono complice. Sistemò all’interno gli ultimi colli e con un balzo agile si accomodò a cassetta ricavandosi una seduta a fianco del conducente. «Con questo tempo non ci si può rinchiudere là dentro!» Lo sguardo di Maria lo benedisse. Era una giornata perfetta per viaggiare. E nulla meglio di quell’aria scintillante avrebbe potuto accompagnare il loro arrivo fra le scure montagne di Mürzzuschlag. Schioccò la frusta. Alla prima rivoluzione delle ruote sull’acciottolato lei si girò nell’atteggiamento di un addio. Il palazzo signorile che ospitava la loro abitazione, cuore e sigillo delle loro vite, si allontanava sprofondando all’indietro, scomparendo infine come un attore amato dietro una quinta. Ogni particolare, gli architravi bugnati, il rilievo delle lesene, la sagoma stessa dell’edificio perdeva definizione dissolvendosi nella distanza. Rivolta indietro, attraverso l’oblò posteriore, ella vedeva quel mondo regredire inesorabilmente, accompagnato da una sensazione di sperdimento.


13 Il cocchio percorse il lungo viale alberato fiancheggiato dalle belle facciate imperiali dei palazzi, svoltò infine all’incrocio e nulla rimase alla vista di quei cari luoghi. Si rannicchiò nell’angolo della vettura stringendosi in un abbraccio, percorsa da un brivido. Quale storia lega così indissolubilmente una persona a una realtà da non poter essere bruscamente interrotta dallo svoltare di una curva? Dalla cassetta giungevano frammenti di conversazione impastati al rumore di ruote e zoccoli. Prestò attenzione. «Sarà un viaggio lungo!» dichiarava Richard. «Arriveremo nel tardo pomeriggio Herr Fellinger, considerando almeno una pausa per pranzo» gli fece eco il conducente. «Diamine, potete starne sicuro! La gasthaus di Frau Magdalena ci attende!» Maria, accovacciata in basso nell’abitacolo, spingeva la vista dal finestrino laterale all’esterno attraverso i raggi della grande ruota rossa che, girando a gran velocità davanti ai propri occhi, scomponevano e ricomponevano il paesaggio. Quest’ultimo, uscendo dalla città, lentamente si trasformava: sotto il drappo teso del cielo, gli ultimi agglomerati metropolitani lasciavano spazio a una campagna traforata di fattorie. La conversazione fra i due uomini intanto proseguiva. «Oh, certamente Signore, viaggiare è la mia passione… cosa volete che siano alcune ore in carrozza. Non mi preoccupano certamente. Anzi, sapete, dipendesse da me, continuerei fino a Belgrado o oltre, chissà, Sofia o Costantinopoli!» Un soffio di vento trasportò lontano il seguito del discorso, mentre la vettura percorreva la valle dello Schwechat risalendone il corso. Fra il mulinare scarlatto dei raggi, Maria vedeva le acque verdi di quel fiume smaterializzarsi in mille stille e più la berlina accelerava – in una nuvola di polvere era ormai lanciata a grande velocità – più rapido e cangiante era quel gioco. Non solo le acque, ma gli alberi, i campi e i sentieri nell’ocra, erano divisi dal movimento della ruota in minuscoli colpi di pennello dai quali,


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conoscendone le misteriose relazioni, poter trarre una storia. Tutti seguivano il corso del piccolo fiume, fin dove esso confluisce nel Danubio e poi nel grande letto, le acque unendosi ad altre acque albanesi e ucraine, svizzere e polacche: ogni particella era trasportata dalla corrente verso il mar Nero. Alcune procedevano mantenendosi ben all’interno del flusso, raggiungendo presto la foce con un percorso diretto, altre esploravano i mille anfratti delle rive, unendosi alle foglie avvizzite e al legname fradicio. Danzavano in mulinelli opponendosi alle correnti, risalendo brevi tratti per poi arrendersi esauste al corso naturale. Diverse storie e destini. Non è infatti il destino l’intera traiettoria piuttosto che il suo punto d’arrivo? «Avrete probabilmente udito del Grand Express d’Orient» interruppe questi pensieri la voce del cocchiere, nuovamente udibile. «Oh, beh, non mi sembra si tratti più di una novità, saranno ormai due anni che viaggia fin laggiù!» interloquì Richard pigramente. «Sì Monsieur, certamente, ma ora da Vienna è possibile seguire un nuovo percorso, interamente via terra, attraverso Belgrado e fino a Niš, così ho letto sul quotidiano.» L’altro tamburellò con le dita sul telaio in attesa di un seguito. «… e per Costantinopoli si prosegue sino a Plovdiv su una carrozza a traino animale, per poi risalire sul treno e…» Una smorfia asimmetrica sul volto di Fellinger lo costrinse a interrompersi. «Il punto, Signore, è il fascino sottile che ha per me il viaggiar per mare.» La maschera si addolcì in un’espressione interrogativa. «Come ricorderete, il tragitto originale comporta in alternativa la tratta dalla Bulgaria attraverso l’infido mar Nero su un instabile battello a vapore…» I cavalli pestarono la rena approssimandosi a un bivio, Haus tese le redini sulla sinistra. «Preferireste dunque quel sordido carro bestiame per Niš, Plovdiv e Dio solo sa dove alle lussuose imbarcazioni sulla rotta Varna-Costantinopoli? Quanto amore per il dolce cullare delle onde!» esclamò Fellinger disturbando la manovra col gesticolare delle braccia.


15 «Dite bene Signore, quanto amore… a patto di non trovarmici nel bel mezzo! Vi ho pur detto di come sia… sottile per me la fascinazione dell’andar in nave… E poi non ho mai parlato di carro bestiame», completò la svolta, «si tratta unicamente di traino animale. Non diversamente da questa carrozza la quale, vedete, garantisce un eccellente comodità di viaggio.» Sottolineò l’argomento sollevando uno stivale sul parapetto e sdraiando il corpo sullo schienale imbottito. «Quanto alle dotazioni di lusso e alle comodità di quel treno», alzò anche l’altra gamba, «non mi attirano poi granché… non almeno quanto la splendida avventura del viaggio. Costantinopoli, la porta dell’est! L’oriente, le sue fragranze, i suoni, i colori! Il frusciare suadente e misterioso delle sete sfarzose di Antiochia e Samarcanda; siamo fra uomini quassù», abbassò il tono di voce fino al sussurro, «parlo degli abiti delle donne, Signore, avete inteso? Verde, blu di Persia, le sfumature del paradiso. E i profumi inebrianti, una scia irresistibile di sandalo, incenso e ambra grigia, carezzevole come il canto delle sirene. Forse non riesco a esprimermi.» «Oh, a perfezione!» «Insomma, per tutto questo, per quel mondo seducente e sconosciuto, se necessario, sarei disposto persino al battello sul mar Nero.» I loro sguardi si incontrarono. «Certo… solo se strettamente necessario!» Fellinger rovistò nel borsello alla ricerca della pipa. «E, ditemi Hans, sapete anche di dover traghettare sul Danubio al confine Romeno, in una tratta dai gorghi letali?» Scrutava l’esito da sotto un sopracciglio sollevato. Haus esitava. «… E rapide pericolosissime?» aggiunse Richard. «Oh, beh… sentite, quand’anche i peggiori gorghi e le più alte rapide partorite dalla vostra assai laboriosa immaginazione dovessero trasformarsi in realtà…» riprese il conducente con recuperato ritmo, «quand’anche questo succedesse… ebbene, sappiate…» Una buca fece sobbalzare la berlina, i cavalli nitrirono.


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«Ebbene?» riprese Fellinger ricomponendosi dopo la scossa. «Ebbene sarei disposto a tutto!» concluse Haus frustando con eccessiva soddisfazione le bestie. L’altro accavallò le gambe inclinando la schiena lateralmente, in inesorabile attesa. «Ecco, persino… persino a chiedervi di trattenere la vostra fantasia così eccessivamente fervida, Signore!» Maria, distratta ormai da altri pensieri, non ascoltava più. Le voci degli uomini si perdevano nel mondo reale. Attraverso il finestrino vide i due ridere un’ultima volta e il marito dispensare robuste pacche sulla coscia di Herr Haus. Rivolta nuovamente a sé, ella attendeva il resoconto di quelle stille, quei frammenti di realtà che seguendo il corso liquido del fiume, per la Dobrugia e il verde delta, fra le Porte di Ferro e la strada di Kazan, dal mare vedeva ora tornare a lei dai mondi esterni, risalendo la corrente della propria immaginazione. Venivano per la Valacchia e il Banato, fra forti e torri di guardia. Lambivano la roccia di Babakaj, bianco faraglione fluviale al centro di enormi acque ove l’adultera, condannata dall’aǧa a un impossibile pentimento, legata a quel pezzo di roccia fra i tumulti della corrente e le grida dei rapaci, invocava su di sé la furia degli elementi. Perché sfibrate dal vento, marcite dalla pioggia, estenuate dal gelo, fossero fiaccate alfine le funi della propria prigionia ed ella potesse finalmente liberarsi. Questa leggenda danubiana, udita una volta, non aveva più potuto dimenticare. Lampeggino le saette, venga l’incendio! Per un anno o un secolo ella attenderà. Allora quei cordami cederanno. E quel giorno, nuovamente libera, fluttuerà verso l’Ungheria tra le braccia di lui, dell’amore. Tra un anno o un secolo. Ma mai vi sarà ripensamento nella passione, non tra un anno né tra un secolo. Invano attenderà l’aǧa la sua sposa presso l’harem sulla sponda serba, da lui laggiù ella mai più tornerà, non risale alla sorgente ciò che la corrente trascina a valle. Esposta agli sguardi, indicata dai naviganti, tesa per polsi e caviglie da quei legami alla roccia come un lichene, conti-


17 nuamente invocherà gli elementi quella donna. Per un anno, un secolo. Finché quelle corde saranno spezzate. Maria spinse il cuore lontano, quasi a raggiungere quei luoghi, ad abbracciare l’adultera. A dirle che avrebbe atteso lì con lei, per un anno o un secolo, come recitava la leggenda. Ma sporgendosi verso il finestrino riconobbe solo paesaggi noti, come colui che ritorna. Lontano, a meridione, il profilo scuro delle Alpi e dall’esterno frammenti di un discorso mai interrotto. «Questo intendo, Signore. Per natura, l’uomo è limitato nei confini del proprio essere. Siamo piccoli recipienti atti a contenere una certa quantità. Così vuole Iddio. Io ad esempio, vedete, sono addetto alle carrozze da quasi quarant’anni, a servizio della vostra famiglia. Nessuno meglio di me sa come e quando oliare gli assi di questa vettura, affinché ruotino sempre senza intoppi o resistenza; o come vada impermeabilizzata, con pece e grasso di foca (una mia ricetta esclusiva!) la capote all’arrivo dell’autunno. Come rinnovare la pittura quando screpola, nera la scocca, rosse le ruote. In questo è indubbio sono un vero esperto. Sentite come fila liscia la carrozza!» Accarezzò quasi i cavalli con la frusta, leggermente. «E non parliamo della guida! Mai ricevuto alcuna lamentela, in tutta modestia, Signore, nemmeno da parte vostra (avrete notato il controllo delle redini in occasione di quella buca poc’anzi…). Beh, insomma, mi va riconosciuto! Ecco, dunque, questo è il mio contenuto. Oh certo, è buono e onesto, così almeno mi sforzo che sia. Ma in questa quantità, nella mia brocca non entra nemmeno una goccia in più. «Come quel fiume, osservate? Preghiamo che l’autunno non sia troppo piovoso, perché versando altra acqua in quel letto esso strariperebbe. Ogni cosa ha il proprio argine, un colmo non superabile. E dunque Monsieur, l’addetto alle carrozze non può occuparsi delle cucine o del bestiame. Per questo occorrerebbe un’altra vita e un nuovo contenuto. E allora forse, in quel caso chissà, la cucina, forse il bestiame… con altra acqua certamente,


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e speriamo una brocca più capiente. Non avendo certo la vostra cultura, Signore, il recipiente risulta modesto. Pur, sappiate, mi sforzo di sfruttarne al meglio la capienza. Con lo studio, la conoscenza, e in questo devo ringraziarvi Herr Dr. Fellinger per la possibilità datami di consultare le opere della vostra biblioteca, e con l’esercizio spirituale. Così spostiamo il confine. Spingerlo all’estremo limite, questo tentativo non è forse un dovere per ognuno? Secondo la propria natura, certamente: giunge a un segno il cocchiere, andranno assai oltre ben altre menti e intelletti! Ma io penso per ognuno e in ogni momento, non importa quanto lontano sia, esiste un orizzonte, una frontiera. Vedete quel vostro cavallo come schiuma e nitrisce? Quando ci si trova a ridosso del limite, al colmo della capacità… ecco, se posso permettermi, voi avete mai avvertito questa sensazione?» L’altro provò a organizzare una risposta. «Oh, scusate Signore, temo di avervi paragonato a uno dei vostri ronzini… Vedete», riprese mortificato, «voi siete assai più giovane di me e ciò che cerco di esprimervi è forse prerogativa di una certa età. La percezione intendo di un recipiente pieno, cui nulla potrà più essere aggiunto.» «Hans», lo interruppe Richard, «voi mi sorprendete! È da un po’ che vi ascolto, e vada per il resto ma ora, dopo queste parole, non posso più tacere!» «Perdonate il paragone, Signore, non avrei dovuto.» «Non questo Hans, vi è concessa l’irriverenza, parlo piuttosto del discorso fatto. Confessatelo, non è farina del vostro sacco!» «Intendete acqua della mia brocca, Signore?» Fellinger annuì con un brontolio seccato. «Oh, Signore, non lo nego.» «Lo sapevo!» proruppe Richard stringendo il pugno della destra in segno di soddisfazione. «Altre fonti riempiono la brocca di cui parlate! Le vostre parole denotano in voi un’educazione non comune. E, perdonatemi», abbassò per un attimo il tono, «addirittu-


19 ra insospettabile. Un vetturiere di tale formazione», il tono tornò squillante, «è un elemento di distinzione per noi Fellinger che difficilmente altri in tutta Vienna potranno vantare! Un simile cocchiere!» «Signore, troppe lusinghe, mi confondete.» Fellinger prese una seduta più confortevole. «Dunque si diceva di quel cavallo.» «Sissignore.» «Smettetela di fissare me! Quel cavallo!» Richard indicò avanti. «Oh!… Scusate. Ecco dunque il discorso. Riprendiamo. Quella bestia, quindi, osservatela: per la sete si tufferebbe nel fiume laggiù per berne tutta l’acqua, se solo glielo concedessi. Ma questo non gli è dato, giacché un cavallo da cocchio può solo correre. Questo farà per sempre, un galoppo al limite delle proprie risorse, schiumando sul freno. Muovendosi al confine della capacità come una goccia sul menisco dell’acqua in una brocca così piena che un’altra non vi entrerebbe. Mi seguite Herr Fellinger? In questa condizione potrà condurci per chissà quante altre miglia e strade, da Vienna alle Alpi e dalle Alpi a Vienna ancora. Pur non farà mai più di questo. Null’altro. Perché niente e nessuno può mai eccedere il segno che è tracciato. Un numero finito di elementi non può combinarsi infinite volte, questo ho letto negli scritti dei filosofi, che per me significa che un cavallo non vola.» Fellinger mimò uno scappellamento: «Altra acqua ancora, continuate pure, scoprirò quelle fonti!» «E in conclusione Monsieur, mi avete rivolto una domanda, eccomi giunto al punto. A questo mio desiderio di lontananza, di viaggio e di avventura. A tentare di spiegarvi perché con l’espresso d’oriente raggiungerei Costantinopoli proseguendo poi, con l’aiuto del Signore, anche oltre, fino in Persia o in India, chissà come. Anche per nave, sicuro! Perché se il menisco dell’interiore è al colmo, esiste una dimensione enorme ove tracimare. Ma è fuori da noi. Oltre la poca acqua delle nostre piccole anime scorrono fiumi immensi, tributari di altri ancor maggio-


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ri. Vi sono monti e pianure mai udite, genti e culture, esistenze di uomini e donne. Tutto questo vive fuori da noi, molto lontano. E io, Signore, laggiù voglio andare!» In quell’istante dei suoni secchi e ripetuti provennero dall’abitacolo. Giratisi, i due uomini videro Maria bussare concitatamente sul vetro dell’oblò, pronunciando qualcosa che i rumori del mezzo rendevano inudibile. Fermarono bruscamente il traino. «Il quadro!» la donna indicava un grande collo di forma piatta sul retro della vettura. Le brune zolle dei campi, stupefatte dopo l’aratura, si stendevano sulle colline intorno a perdita d’occhio. «Ebbene?» «È mal fissato, si è mosso!» Richard stesso, sceso con un balzo dalla cassetta, si incaricò di verificare. Portatosi sul retro della carrozza saggiò il tiraggio delle cinghie e la stabilità del carico. «Sembra perfettamente in posizione» concluse. «Ti dico che si muoveva!» Egli ripeté scrupolosamente il controllo. «È strettamente legato, ho verificato, non è possibile.» Ma questo non bastò a tranquillizzarla. Sciolse quindi alcuni legami enfatizzando il gesto e liberando, oltre al dipinto, anche un grosso baule. «Signore, faccio io» provò Haus. «Niente affatto Hans, voi lo avete già caricato una volta questo quadro e abbiamo visto come è andata a finire!» Quindi ricollocò la tela legata saldamente alla berlina, fissandovi platealmente davanti la cassa. «Quella corda…» indicò perplesso Haus. «Che riprovi a muoversi!» lo zittì Richard con uno sguardo agrodolce rivolto a nessuno e a tutto il mondo. Maria, tranquillizzata più da quell’espressione che dalla soluzione adottata, lo ricompensò col più argentino dei sorrisi. «Andiamo allora!» disse lui salendo nell’abitacolo. «Buon Hans, voi mi perdonerete se proseguo all’interno con la Signora. Ma, ve ne prego, avvertiteci di


21 scendere a Mürzzuschlag prima di proseguire per Costantinopoli!» I coniugi si accomodarono nella vettura, l’uno di fronte all’altra. La carrozza riprese il proprio viaggio, dapprima lentamente, poi accelerando. L’uomo accavallò le gambe ed estrasse dal borsello una scatola con del tabacco e una pipa. Sistemò ogni cosa in buon ordine sul piano portaoggetti a lato del sedile, apparecchiando quel piccolo tavolo con un fazzoletto su cui pose tutto l’occorrente per il fumatore: nettapipe, fiammiferi, un utensile. Poco più in là: pipa e tabacco. Maria, profittando di queste operazioni che il traballio della vettura rendeva incerte, lo osservava curiosa. Studiava i piccoli movimenti delle mani, gli atteggiamenti. Scrutava l’aggrottarsi della fronte, lo stringersi degli occhi. Era un esercizio, un semplice gioco che faceva talvolta: scoprire un elemento, un dettaglio nuovo in sembianze così familiari da rendere l’intento quasi impossibile. Un’altra piega della bocca, la luce scomposta diversamente fra i capelli; nuove vie e tessiture. Questo faceva, ma senza farsi scorgere. Poiché uno sguardo disvelato attraversa una gran porta da altri socchiusa, senza potersi così addentrare per quei piccoli percorsi nascosti le cui tortuose diramazioni conducono altrove. Ruotando l’ottone del coperchio, Richard aprì la scatola del tabacco diffondendone l’aroma asprigno intorno. Lo mescolò brevemente con la mano per uniformarne il carattere, infine ne sistemò una presa nel braciere della pipa, aggrinzendo leggermente i lineamenti nell’impegno che ciò comportava. «Cosa c’è?» chiese senza alzare gli occhi, poiché lo svolgersi dell’azione non gli era nuovo. “Nulla” pensò lei senza pronunciarlo, abbassando la vista senza dispiacersi di essere scoperta. «Nulla» ripeté lui ad alta voce il pensiero di lei, lanciandole un’occhiata compiaciuta per l’interessamento e indirizzando subito poi lo sguardo a controllare nuovamente la pipa.


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La strada tagliava dritta un bosco di betulle le cui foglie bianche il vento pareva voler portare via. Lei e lui, pensò Maria guardando all’esterno, erano come due di quelle foglie strappate dall’albero. Che un soffio sposta nella medesima direzione, risalendo il tronco fin dove esso si divide in rami e il semplice si articola in molteplice. Più lontano si fossero spinti, più larga sarebbe stata la chioma e vaste le fronde, ampia e complessa la propria complice natura. Un percorso limitato dai confini di quell’albero, dentro di sé, ma senza limiti davanti a sé. Un odore acre di fosforo bianco invase l’abitacolo, mentre la testa infuocata di un fiammifero si appoggiava delicatamente sul tabacco. Fellinger aspirò ripetutamente dal bocchino, finché la pipa non prese a bruciare regolarmente. «Apro il finestrino» disse sentendo Maria tossire.


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II Di un concerto in un freddo inverno viennese e dell’arrivo di Maria, Richard e Hans a Mürzzuschlag.

Un forte vociare proveniva dalla strada. Spostata la pianta del rosmarino, Maria aprì la finestra, sporgendosi e dirigendo lo sguardo in entrambe le direzioni. Avvertiva chiaramente i toni gravi e vellutati degli uomini, la stretta e concitata conversazione delle donne, lo squillo argentino dei bambini eccitati. Ma non vedeva nulla e nessuno: quelle voci, forti e persistenti, non provenivano da lì. Traversò l’abitazione, portandosi nella sala del pianoforte, nell’altra ala, alla finestra affacciata verso Hainburger straße. Là sotto un buon numero di persone, famiglie principalmente, si trovavano o giungevano ora alla spicciolata nel viale provenendo un po’ da ovunque. Era la primavera del 1925, non vedeva così tanta gente per le strade di Vienna dal giorno in cui era finita la grande guerra, qualche anno prima. Gli uomini vestivano con la discreta eleganza sportiva dei giorni di festa, giacca e pantalone di linea morbida in tweed scuro e una cravatta, senza soprabito in quella giornata solatia. Le donne, i toni del beige negli ampi cappelli e le gonne strette, tenevano per mano i bambini, taluni dei quali recavano una pianta, altri un semplice ramoscello fiorito. Una sensazione di attesa era nell’aria, che era permeata dall’odore pungente dei fiori. A un lato della strada un uomo, alto e segaligno in uno sdrucito abito da lavoro scuro si sforzava di sistemare delle transenne lungo la via, per impedire l’accesso a quella moltitudine. «Andatevene! Via! Non è il momento!» stre-


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pitava sudato facendosi largo con modi rapidi fra le persone trasportando le paratie. «Fuori, fuori!» urlava una volta circoscritta una parte del viale insolitamente ingombro da carri, carrozze e persino alcuni esemplari di automobile. «È più tardi, lasciateci lavorare!» Vi erano anche, ammassate in quella zona, molte casse di legno, non diverse da quelle che Maria, qualche ora prima, aveva visto scaricare nella luce incerta dell’alba. Allargando le lunghe braccia l’uomo sospingeva fuori dalle transenne le persone, fra le recriminazioni generali. «Via! Lontano!» Ma, per quanto egli si sforzasse di liberare quella zona, strillando, sbracciandosi e urtando in malo modo giovani e anziani senza riguardo, nuove persone comparivano, come per un dispettoso sortilegio, laddove egli aveva appena sgomberato. Una cassa squarciata giaceva sul marciapiede. Ecco dunque perché quell’uomo le era familiare! ragionò lei riconoscendo fra quella moltitudine di colli ammassati quello che la mattina aveva visto cadere al suolo. Poco oltre, alle spalle della zona recintata, qualcun altro urlava sovrastando il vociare del popolo. Aggirando il pianoforte, raggiunse la finestra a fianco. In piedi sopra una carrozza un secondo uomo, le cui fattezze ella subito riconobbe, arringava la folla. «Signore e signori, siate i benvenuti alla parata dei fiori!» diceva scarmigliato indicando in direzione della zona transennata. «Giovani e vecchi, belli o brutti, andate tutti!» e sospingeva idealmente con un gesto delle braccia muscolose le persone verso la zona che il compare, girando intorno affannosamente, tentava inutilmente di evacuare. Altra gente, affluendo dalle vie laterali, continuava nel frattempo ad arrivare aumentando la confusione e il disordine. Alcuni cani, condotti al guinzaglio, avvertendo la generale eccitazione, guairono e abbaiarono, e altri fecero loro eco. Un bimbo, liberatosi


25 con uno strattone dalla presa materna, fuggì nascondendosi al riparo della folla fra le urla dei genitori. Stanca di tutto quel frastuono Maria si ritirò dalla finestra. «Signore e signori…» udì ancora mentre serrava i vetri, tirando anche le spesse tende di broccato nel tentativo di respingere all’esterno quel mondo chiassoso. Un evento straordinario e spettacolare, questo era ormai chiaro, doveva accadere quel giorno per le strade di Vienna. Una assoluta novità probabilmente, qualcosa di grande ed entusiasmante di cui ella non aveva alcuna conoscenza e alla cui esistenza, in verità, non era interessata. Era infatti ormai da tempo esaurito in lei lo stimolo a condividere pienamente ciò che accadeva oltre quei vetri che, trasparenti alle suggestioni, come nei quadri impediscono il contatto con la tela. Vi erano tanti fiori là fuori, ma solo di quelli sul proprio davanzale ella voleva curarsi. Si allontanò dalla finestra per avvicinarsi al pianoforte sul cui leggio era una pagina. Uno spazio ingiallito delimitato da bordi incerti, percorso dai minuti segni di una calligrafia sicura. “Vierte Symphonie” recitava l’intestazione al centro del foglio. “Johannes Brahms, op.98” più sulla destra. Sotto, al capo dei righi musicali, le indicazioni degli strumenti: Flöten, Oboen, Klarinetten, Fagott, Hörner, Trompeten, Pauken. Più in basso, l’accollatura degli archi: Violinen, Bratsche Viola, Cellos, Bass. Teneva quel manoscritto stretto al petto, nel ricordo di quel lontano Gennaio del 1886, qualche mese dopo il loro ritorno dalle vacanze estive a Mürzzuschlag. Nell’atmosfera surriscaldata dell’auditorium, fra lo scalpiccio disordinato delle calzature tirate a lucido e il frusciare degli abiti inamidati, il freddo inverno oltre le vetrate sembrava una finta raffigurazione. Una neve lenta cadeva imbiancando i viali e i platani di Resselpark mentre alcuni passanti, avvolti in pesanti soprabiti dai baveri alzati e nelle pellicce, si affrettavano schiamazzando al riparo degli ombrelli. Una carrozza aveva percorso la strada senza far rumore, scomparendo infine con una svolta nel bianco come non fosse mai esistita.


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Davanti al Wiener Musikverein un assembramento vociante di persone era accalcata per l’acquisto degli ultimi biglietti, o in attesa di qualche conoscente. Era la prima esecuzione della Sinfonia a Vienna. Nel foyer una maschera annunciò l’inizio imminente del concerto e in pigra marcia quella folla si diresse bisbigliando verso la platea. Lei e Richard al braccio precedevano tutti. Talmente grande era stata l’attesa di quel momento! Finalmente, dopo averla ascoltata così tante volte suonata al pianoforte da Johannes, avrebbe udito la Sinfonia affidata all’intera orchestra come voleva Brahms! Eppure, ora che il tempo era arrivato, la suggestione del concerto e il suo gran frastuono sembravano giungere a lei attenuati e deformi come in un’apnea, giacché ogni fatto concreto in quei giorni altro non era che un dettaglio escluso dalla messa a fuoco della propria coscienza. La quale, prigioniera di un’ossessione, sopraffatta come in un sogno ricorrente, era tormentata dal ricordo di quegli eventi così indissolubilmente legati a quel manoscritto. Del terribile incendio avvenuto l’estate precedente a Mürzzuschlag, le cui fiamme, minacciando quella musica e la sua vita stessa, non le parevano ancora spente. Non le sembrava nemmeno di avanzare, sul lungo tappeto rosso: come nell’ottica concava di una lente, quell’incedere non pareva il loro. Mentre le file di poltrone in platea cadenzavano i loro passi susseguendosi di lato ritmicamente, mentre il grande lampadario centrale si allontanava rimpicciolendosi dietro di loro, il palco, i drappeggi e gli stucchi, come per un segreto contrappunto le si facevano incontro silenziosamente e le mille canne del grande organo sul fondo si preparavano ad avvolgerla, come rami animati di un albero sempre più vicino. L’intero rettangolo della sala alle loro spalle era invaso dalle persone, mentre altro pubblico, traversando le alte porte sormontate dai timpani, entrava cicaleggiando nelle balconate. Quegli strumenti archi, legni e corni, secondo la declaratoria dello spartito


27 nelle sue mani si approssimavano a lei con l’intera orchestra a ogni suo passo. Contornandola progressivamente fino a quando, essendosi lei e Richard accomodati sul velluto rosso delle poltroncine di prima fila, non ne furono completamente avvolti, come fossero nella cavea. Sotto gli ampli cassettoni dorati del soffitto alcuni lampadari si spensero e, alzatosi, il konzertmeister intonò un La cui fece eco l’orchestra intera, dapprima piano, poi sempre più forte. Investita dall’imponente omofonia Maria sollevò lo sguardo a osservare la sala occupata in ogni luogo, fin sopra e oltre il palco degli strumentisti, mentre l’accordatura collassava in mille suoni isolati come un monolito frantumato. Solamente in un punto, nel palco a destra del proscenio, dietro ai violoncelli e ai contrabbassi, il rosso vivo di un posto ancor vuoto risaltava sul ritmo monotono e serrato degli abiti scuri del pubblico come il colpo mancato di un timpano in una rullata. Qualcuno in ritardo, pensò, un semplice contrattempo. Ma quel posto vuoto le parve una premonizione avversa. A un cenno del primo violino ogni strumento tacque, mentre la luce gradualmente scemava e il brusio del pubblico si trasformava in applauso all’ingresso del direttore. In quei vuoti momenti precedenti l’inizio, Maria si rivolse al manoscritto che teneva spiegato in grembo, a quelle due prime note che, tracciate da Brahms come d’istinto, discendevano legate sino a una pausa. A esse si affidò, come tenendosi alla presa sicura di Johannes, in quei momenti in cui la propria anima scossa sembrava volerle sfuggire. Non avrebbe potuto dire quale fu l’attimo in cui dal niente sgorgarono quei suoni. Piano e dolce com’era indicato. Quasi che l’attesa muta che li precedeva non fosse mai finita. Né sapeva come, plasmata dal nulla, quell’emozione senza inizio fu sparsa nell’aria dalle corde dei violini. Note che esistevano già prima, sottese nel precedente silenzio come lo sono i colori nella luce


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bianca. Musica svelata come una nuova vita dalle mani della levatrice. Erano quegli stessi suoni che, accennati al pianoforte, aveva udito provenire dalla casa di villeggiatura di Johannes in quel caldo tardo pomeriggio di sei mesi prima? Erano quelle le note che ora, accompagnate dall’arpeggio di violoncelli e viole e riflesse nell’imitazione dei fiati, si riproponevano continuamente cadenzate come un respiro o un battito del cuore? Quando su Wiener straße, al loro arrivo a Mürzzuschlag l’estate precedente, quella musica al pianoforte, non più vaga e lontana, divenne chiaramente distinguibile, lei e Richard pur così stanchi dopo il lungo viaggio si sporsero all’unisono dal finestrino della carrozza. «Herr Brahms ci ha preceduti fra queste montagne!» esclamò rivolto loro Hans Haus dal posto di guida sovrastando il suono degli zoccoli, indicando risolutamente gli archi bordati in giallo di un’abitazione signorile dalla quale proveniva quel suonare. Allentò le briglie ai cavalli stremati. Subito rattenuto, un saluto indirizzato alle spesse persiane di quella casa sfuggì incontrollato dalla mano di Maria. «Composizione da camera, Frau Dr. Fellinger» sentenziò rivolto a lei Haus con un’espressione enigmatica, quasi canzonatoria. Maria non capiva. «Si riferisce, mia cara», si inserì Richard ricambiando il conducente con uno sguardo di riprovazione, «all’abitudine di Herr Brahms a rimanere ore e ore chiuso in quella stanza al lavoro sulle proprie composizioni, apparentemente senza gradire la minima interferenza da parte di alcuno o alcunché.» «Apparentemente» echeggiò Haus incrociando nuovamente lo sguardo con quello arcigno di Fellinger. «Oh… sciocchezze» tagliò corto Maria. «Semplicemente non si è accorto di noi…»


29 Scemando lentamente, i suoni del pianoforte si spensero mentre il cocchio transitava oltre. «Era informato del nostro arrivo?» chiese a Richard. «Semplicemente…» continuava in sottofondo Herr Haus riprendendo frasi già udite. «Avevo inviato una missiva forse un mese fa, senza poter essere preciso sulla data» le rispose il marito. «Semplicemente pare a volte non accorgersi della presenza di nessuno…» terminò il discorso iniziato l’uomo a cassetta. In breve la carrozza si fermò davanti a un’abitazione che, nella tarda luce del giorno, si stagliava sullo sfondo biondo dei monti di Semmering. Era la casa dei Fellinger. Sceso con un mezzo balzo, Haus armeggiò qualche attimo con la serratura del cancello lamentandosi per il dolore alla schiena; infine, risalito, condusse la berlina nel cortile interno ove rimase posteggiata. «I bagagli» disse Maria dirigendosi verso il retro della vettura. «Solo l’indispensabile per la notte, ora siamo tutti troppo stanchi. Domani io e il buon Hans scaricheremo da bravi fratelli tutto quanto» disse Fellinger puntando lo sguardo sul cocchiere e dando una sonora manata alla cassa polverosa caricata dietro. «Ma, Richard, domani è martedì, il giorno libero di Herr Haus, non puoi chiedergli questo!» Maria si affrettò a seguirlo lungo il portico che conduceva alle scale. «Specialmente dopo che oggi ha condotto la carrozza per così tante ore sotto quel sole! Lasciamolo libero di andare, povero Signor Haus, a zonzo o a bighellonare come meglio crede!» Il fischio di una locomotiva risuonando nell’aria si inserì per un momento nel discorso, spegnendosi subito dopo seguito da uno sferragliare metallico. «Pensavo», disse traendone spunto Fellinger con tono ambiguo, «che si potrebbe venire con la ferrovia l’anno prossimo, chissà!» Una lampo di eccitazione si manifestò nello sguardo di Haus: «Oh, Signore, col treno, dite sul serio?»


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«Il viaggio risulterebbe molto più leggero…» proseguì l’altro reprimendo uno sbadiglio con la mano. «Oh, certo», mormorò in contrappunto Haus come vedendo la scena, «niente pacchi da legare strettamente alla carrozza, né polvere da masticare a cassetta sotto il sole a picco, tutto risulterebbe molto più leggero certamente. E specialmente per me, per la mia povera schiena!» «Una comoda carrozza per noi due soli, linda e fresca, cosa ne pensi cara, non sarebbe meraviglioso?» terminò Richard escludendo l’altro dalla conversazione. Maria annuì disattenta mentre con una mano sollevava il lembo del vestito nel salire le scale. «Ma… Signore, vorrebbe dire che questa vettura indicò la berlina non è mantenuta sufficientemente pulita dal sottoscritto?» Haus arrancava preoccupato sugli scalini. «… E come sarebbe a dire soli?» «A che scopo venire qui a Mürzzuschlag con cocchio e cavalli», continuò noncurante Fellinger rivolgendosi idilliaco a Maria, «se questo adorabile paesino è raggiunto da un comodo convoglio?» «Scusate, Monsieur», si intromise Haus frapponendo senza reverenza il volto fra i due, «ma, tornando a quanto detto, avete nominato la carrozza poc’anzi e i cavalli. Che, in quanto traino, sono certamente importanti, ma quella vettura», disse voltandosi a indicare nel cortile, «senza la guida sicura e le cure di un cocchiere (l’eccellente pulizia che vi pratico ad esempio!) non condurrebbe nessuno in alcun luogo!» «Dunque?» «E quindi, Signore, mi stupisce di non aver percepito menzione ad altri al di là dei ronzini. Alla mia persona ad esempio!» L’altro si grattò con insistenza la mascella ruvida per la ricrescita della barba. «Oh, buon Hans», rispose dopo un po’ fingendo sorpresa, «non che volessi attribuirvi rango di cavallo (quantunque voi abbiate fatto questo a me stamane nel mezzo delle vostre fantasie


31 d’oriente), ma questo paese è così piccolo da potersi percorrere tutto a piedi senza fatica. Non serve una carrozza qui, e quale sarebbe l’utilità di un cocchiere in assenza di una carrozza? … Non potete che essere d’accordo con me!» concluse affrettatamente approfittando della scarsa prontezza di Haus. «Ebbene Signore sappiate che il treno non prevede fermate chez Frau Magdalena!» tentò un’estrema reazione quest’ultimo mimando il gesto del mangiare e colorendo grottescamente il francesismo. Fellinger rimase qualche tempo in silenzio, come riflettendo. «Dev’essere», rispose infine in tono serio massaggiandosi l’addome, «uno dei motivi per cui, come ho già detto, il viaggio in treno risulterebbe molto più leggero di quello odierno.» Giunta per prima al termine delle scale, Maria, impacciata per via dei pacchi, tentava di aprire la porta del soggiorno. «Andiamo, smettetela coi vostri battibecchi voi due e datemi piuttosto una mano!» Di slancio Haus salì gli ultimi gradini e si precipitò da lei, prendendole dalle mani il necessaire e aiutandola ad aprire. «Madame, dite qualcosa voi», le sussurrò agitato quasi all’orecchio. «Persuadetelo a portarmi su quel treno! Spiegate a Herr Dr. Fellinger che i miei servigi non si limitano alla sola guida. Non ho forse saputo rendermi utile, in tutti questi anni, in molte altre mansioni?» Entrarono nel soggiorno. Maria, esausta, si accasciò sul divano con i pacchi in grembo. «E… quali sarebbero questi servigi?» sentì domandare dal marito. Haus, lasciò cadere il necessaire sulla poltrona allargando le braccia. «Oh, smettetela vi ho detto!» implorò lei. «Beh… Signore… ad esempio… ecco, non saprei…» Fellinger, sollevando i pantaloni da sopra il ginocchio, fece per accomodarsi sulla poltrona dietro di sé. «Ecco, ad esempio trasportare qualche piccolo pacco come ora il bauletto di Madame sul quale state per sedervi Si-gno-re.»


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Richard si rialzò di scatto fingendo indifferenza; cominciò poi a camminare in circolo per la stanza con le mani dietro la schiena, attorno al tavolo. «In tutta franchezza, Signor Haus, qui a Mürzzuschlag la vita di tutti i giorni scorre in tale semplicità che, in verità, una volta sistemati i bagagli non sentiamo bisogno di servigi da parte di alcuno.» «Nella vita di tutti i giorni…» ripeté in cantilena l’altro come se cominciasse a capire qualcosa. Poi aprì le finestre: «Una volta sistemati i bagagli…» L’aria fresca della sera entrò nella stanza con la fragranza dei tigli e degli abeti. «Certamente. La bottega del fornaio è a pochi passi, il macellaio poco oltre, c’è un falegname, e così per ogni necessità. Una volta sistemati i bagagli, si intende.» «Richard!» lo interruppe minacciosa Maria puntando le mani sui fianchi. «Oh, non preoccupatevi Frau Fellinger», chiosò mite Haus. «Ho ben capito l’antifona! Non servono altre parole: un cocchiere deve saper ben comprendere! Dico quindi che è un mio specifico desiderio aiutare il dottore a scaricare la berlina domani, giorno libero o meno. Chissà come la ritroverei altrimenti, troppo lavoro vi ho dedicato, sapeste, è come se fosse mia. Una cassa sfuggita di mano, una corda slegata troppo bruscamente, conoscete i modi di Herr Fellinger mi pare, non sia mai un danno alla capotta o peggio ancora, chissà cosa potrebbe succedere!» Si affacciò alla finestra girando il capo da un lato, rivolgendo l’orecchio agli ultimi rumori della ferrovia. «Avrò tempo a sufficienza per riposarmi Madame. Per bighellonare, come dite voi. E, Monsieur, riguardo a quel treno?» Richard fece trascorrere qualche momento. «Consideratela cosa fatta, Hans, siamo intesi noi due. Ma trattenete la vostra immaginazione, vi prego, è solamente la ferrovia austriaca meridionale, non supera Trieste. Sempre che, cedendo alle vostre passioni marinaresche e al richiamo delle tempeste, da lì non vogliate imbarcarvi!» FINE ANTEPRIMA. Continua... F


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