In uscita il 29/1/2016 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2016 (4,99 euro)
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ELENA GENERO SANTORO
IL TESORO DENTRO
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IL TESORO DENTRO Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-950-0 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Gennaio 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell'individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell'internamento. Franco Basaglia, 1964
"In quei primi anni molta parte del lavoro consisteva nel parlare con i familiari o coi tutori per riuscire a cambiare lo statuto del malato, attorno al problema della restituzione dei diritti civili e delle possibilità economiche, di reddito. Questo sforzo era l'unico che ci permettesse di sottrarre l'esperienza delle persone alla totalizzazione psichiatrica. Gli internati dovevano essere riconosciuti come persone dotate di identità altra, che non si esauriva nel loro essere oggetti dell'istituzione e oggetti della psichiatria. Noi sostenevamo di non poterci neppure confrontare con loro, se prima non fosse stato loro restituito lo statuto di cittadini" da un'intervista a Franco Rotelli, 1978
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Prologo
Si strinse a lui e intrecciò le dita della mano con le sue. Lui la lasciò fare, senza dire una parola. Camminarono vicini per le poche centinaia di metri che li separavano dal negozio, nella notte fredda e nera dell’inverno piemontese. L’aria tagliente sferzava i loro visi. Il sonno ormai era scemato del tutto. La strada era deserta e silenziosa. Non un’auto, non un’anima in giro. Solo la luce dei lampioni, macchie chiare, sfocate nella foschia. Da quella notte la sua vita era cambiata. Più tardi si sarebbe fatta delle domande, per capire come aveva potuto concedere la sua fiducia incondizionata a una persona tanto immeritevole. Per lo meno, se quella faccenda si fosse dimostrata vera. E che dire del nuovo amico che le camminava di fianco? In poco tempo si era molto legata a lui. Averlo vicino era confortante. E se anche lui fosse stato un abbaglio? Non era quello il momento per pensare. Le riflessioni le avrebbe fatte in seguito. Ora doveva scoprire cosa significava il ritornello che aveva piantato in testa. Quando arrivarono nei pressi del locale intuirono subito che qualcosa non andava. La loro ricerca subì una improvvisa battuta d’arresto. La porta era aperta, l’allarme disattivato, nel silenzio innaturale di quella notte. Si scambiarono un’occhiata perplessa. Entrarono furtivi, timorosi di ciò che potevano trovare. Nessuno dei due aprì bocca, la tensione era palpabile. Nel negozio nulla si muoveva, così accesero la luce e si diressero dietro al bancone. Lì videro i corpi riversi di due persone in un bagno di sangue. Lei cacciò un urlo di terrore e nascose la faccia nel petto del suo amico, che la strinse più forte che poté.
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1.
27 dicembre ed era sopravvissuta. Natale era passato, era ormai dietro le spalle, se ne sarebbe riparlato non prima di un anno. Anna si rigirò nel letto, si coprì la testa col piumone e rimase a crogiolarsi ancora un po’ felice di doversi alzare, di doversi mettere in piedi e di tornare alla normalità. Indugiò solo per un attimo, il tempo di uscire da un torpore tutto sommato lieto e gradevole. Poi buttò giù le gambe, infilò le pantofole di pelo e mise a scaldare una brocca di caffè caldo, in stile americano. Aveva iniziato a bere quella brodaglia molti anni prima, perché piaceva a Francesco che all’epoca aveva studiato un anno a Boston. Dopo aveva continuato, forse per abitudine, forse per trattenere qualcosa di suo marito con sé, per immaginare che lui non se ne fosse mai andato, per sognare che lui fosse ancora lì tra quelle stanze, che potesse sbucare in pigiama dalla camera da letto, darle un bacio e bere un sorso di caffè pure lui. Anna sapeva che ciò non sarebbe potuto accadere eppure non avrebbe rinunciato a quel caffè perché se l’avesse fatto anche le ultime tracce di Francesco sarebbero state cancellate. Invece voleva illudersi ancora, credere che bastasse ripetere all’infinito i gesti compiuti insieme per impedire a Francesco di sparire dalle quattro mura in cui avevano abitato e dalla sua memoria. Al contrario, voleva che tutto restasse impregnato di lui, dei segni che lui aveva lasciato, delle vibrazioni con cui aveva accarezzato tutti i loro spazi. Anna aveva persino evitato accuratamente di far riparare il tavolo della cucina in legno di pino che lui aveva inavvertitamente graffiato con un coltello affettando il pane. In quei piccoli solchi tra le venature c’era Francesco, c’era il suo movimento, c’era la sua sbadataggine, c’era la sua vita. Comunque, era il 27 dicembre e lei era ancora viva. Le feste comandate, manna del commercio e del consumismo più bieco, avevano un effetto elettrizzante sulle famiglie con bambini e sulle coppie felici, ma erano uno dei momenti più duri per chi, come lei, si trovava per qualche motivo a essere solo. Eppure non sarebbe dovuta andare così, non era proprio nel programma. Nei piani c’era tutt’altro, c’era una felicità condivisa, c’era l’idea di una famiglia, di un paio di pargoli. C’erano amici con figli piccoli da frequentare, c’erano serate trascorse a guardare film tutti insieme. Insomma, il progetto era ben diverso, non prevedeva alcuna forma di solitudine. Non era proprio
7 contemplata. Invece le cose erano andate a modo loro e la colpa era solo del destino. E adesso Anna si trovava dall’altra parte, nel mucchio di quelli che non appartengono a nessuno, che non hanno qualcuno con cui condividere i momenti tristi e neppure quelli lieti. Così, inaspettatamente, da due anni a quella parte aveva iniziato a temere il Natale, festa che un tempo le piaceva persino. Quanti Natali avevano trascorso insieme lei e Francesco? Non se lo ricordava nemmeno. A pranzo a casa della suocera, dove contribuivano portando una pietanza e poi, per la maggior parte del tempo, se ne stavano seduti a fare gli sposini, rimpinzandosi il giusto. Oppure a casa della zia Rita, la sua seconda madre, a giocare a tombola. Tante volte Anna si era annoiata a Natale, prima. La tombola non la divertiva per niente e nemmeno la pinnacola. Aveva sempre pensato che il Natale fosse una festa deludente, che mille film alla televisione contribuissero a renderlo un evento sopravvalutato e che l’enorme aspettativa di cui era caricato fosse assurda. Alla fine, se tutto andava bene, era un giorno come un altro. Al limite, un momento di quiete in cui ci si concedeva di mangiare un po’ di più. Invece il Natale aveva anche un risvolto crudele, che fino a due anni prima ad Anna sfuggiva, ma che ora invece le era ben chiaro. Essendo la festa dell’esaltazione, il Natale accendeva l’euforia dei bambini, accresceva anche le liti tra i membri dei clan famigliari, ma amplificava oltremisura la solitudine di chi, come lei, non aveva più una famiglia. Perché nel giorno di Natale per chi era solo non c’era veramente nessuno, senza scampo. In tale frangente, chi non aveva degli affetti doveva inventarsi qualcos’altro, cosa assai difficile dato che persino i centri commerciali erano tutti chiusi. E nemmeno andare al cinema o a un museo da soli era una prospettiva allettante. Natale, nella sua testa, era una specie di spartiacque tra chi aveva un nucleo familiare e i single. Gli uni da una parte e gli altri dall’altra, senza possibilità di scambio. Non era scontato che gli altri fossero necessariamente felici, ma di certo Anna non lo era. Non poteva esserlo, perché lo era stata, prima, e ora conosceva la differenza, ora sapeva ciò a cui era costretta a rinunciare. In realtà Paoletta, la sua amica più cara, l’aveva pure invitata a pranzo a casa sua, ma lei aveva declinato l’offerta. Paoletta era stata tanto carina, come sempre, ma lei non ce la faceva proprio a vedere scorrazzare per tutto il giorno la sua meravigliosa bimba di due anni, bionda e bella come un angioletto. Una bambina perfetta, la gioia di mamma e papà, che però lei mal tollerava perché incarnava tutti i suoi sogni infranti. Anche Anna avrebbe desiderato una figlia, o un figlio. Il piano originale era quello: un bambino con Francesco. Ma poi la loro storia si era spezzata, la vita aveva preso un’altra direzione deviata, sbagliata. Adesso Anna aveva trentaquattro anni e non era genitore di nessuno. Tecnicamente sarebbe stata più che in tempo per rimediare. Però pensava che i figli dovevano farsi in due. Non avrebbe voluto essere una madre
8 single, una madre per forza, ma non c’era un uomo nel suo orizzonte con cui sarebbe voluta stare, a parte Francesco. Dunque, niente marito, niente sogno di maternità. Il pacchetto della rinuncia forzosa era all inclusive. Dunque era il 27 dicembre e Anna era sopravvissuta. Si era svegliata la mattina di Natale col rimpianto di non essere un medico o una cameriera o comunque un operatore costretto a lavorare nel giorno di festa: sarebbe stato tutto più semplice. Al contrario, apparteneva alla categoria dei commercianti, anche se il suo commercio nell’ultimo anno era stato davvero minimo. Mannaggia a quando la zia Rita l’aveva coinvolta in quell’affare, la gestione di una libreria che vendeva anche tomi antichi e volumi di un certo pregio. Un negozio per clientela scelta che avrebbe dovuto consentire a estimatori e ricercatori di trovare l’introvabile e, al contempo, di trascorrere pomeriggi ameni all’insegna dello studio nella quiete più totale, sui tavoli che il locale metteva a disposizione per i fruitori. “Parole antiche” era il nome originario dell’attività commerciale della zia Rita che in anni precedenti era stata persino redditizia e proficua. Quel posto, in via San Massimo, era stato frequentato a lungo da universitari e collezionisti. Ma poi un po’ per la crisi che aveva scoraggiato la gente dall’investire nel superfluo, un po’ per l’avvento di internet che aveva facilitato la vita agli studiosi, l’afflusso di clienti era calato drasticamente. A quel punto la zia Rita aveva deciso di attrarre nuovi frequentatori aprendo, (previ noiosi corsi di formazione, autorizzazione dei vigili del fuoco, HACCP e iscrizione al REC), un angolo caffetteria all’interno dello stesso locale. Gli avventori avrebbero potuto dedicarsi alla lettura e scegliere il libro da acquistare sorseggiando caffè, tè o tisane. L’idea grandiosa della zia era di trasformare il suo locale in un caffè letterario, un raffinato punto di aggregazione, un ritrovo di eccellenza culturale nella Torino storica. Solo a investimento compiuto aveva compreso di aver trasformato quel posto in una specie di biblioteca, dove qualche studente trascorreva il pomeriggio a studiare in cambio di un misero caffè. Per cui, migliaia di euro investiti tra autorizzazioni e lavori di ristrutturazione e nonostante ciò gli acquirenti di libri antichi non erano aumentati. Peggio, erano diminuiti. Quello che era mancato alla zia era stato il tempo per organizzare delle iniziative: incontri, presentazioni, eventi. Inoltre, sebbene la posizione fosse giusta, vicino all’università, il locale non era ampio a sufficienza per ospitare chissà quante persone. A quel punto, però, la zia era improvvisamente morta. Tutto, adesso, era sulle spalle di Anna che, fino a quel momento, non era stata nello spirito di rinnovare nemmeno la sua vita, figuriamoci il locale. Comunque, il giorno di Natale Anna si era alzata tardi. Aveva lavorato fino alla sera del ventiquattro, o meglio, era rimasta in negozio finché aveva potuto, osservando dalla vetrina l’andirivieni in strada. Era un anno di crisi, quello, e la gente rinunciava ad acquistare persino i pensierini per amici e
9 parenti. Tuttavia c’era stato parecchio movimento, fuori. Qualcuno era anche entrato nel suo locale per un caffè rapido. Solo uno, un signore distinto e benestante, si era fermato per scegliere un paio di volumi da regalare. Così Anna aveva avuto tutto il tempo di fare gli auguri ad amici e parenti più o meno lontani tramite Facebook e Whatsapp. Il telefono non aveva fatto che squillare, anzi, era arrivata quasi un’invasione di saluti, commenti, richieste di ogni tipo, anche da parte di persone con cui lei aveva un rapporto a dir poco superficiale. Un riflesso virtuale di quello che avveniva fuori, nel mondo reale: affollamento, partecipazione, insomma: casino. Anna sapeva che tutto ciò sarebbe terminato entro l’ora di cena e così era stato. Il tempo di chiudere il negozio e la folla in strada si era diradata. Anche il telefono era diventato improvvisamente muto. Completati tutti i saluti agli amici presenti nella rubrica e terminate le varie operazioni di rito della vigilia, ognuno si era rifugiato nella propria abitazione e si era dedicato alla sua vera vita: al suo cenone, alla sua famiglia. Lei, al contrario, era rimasta sola. Persino Paoletta aveva smesso di whatsapparla. Se lo aspettava, ma era stata comunque dura. Gli alcolici non l’avevano mai attirata, ma in compenso gli ansiolitici l’avevano supportata in numerose occasioni. Anche quella sera aveva preso un sonnifero ed era andata a dormire, cercando pace almeno nei propri sogni e continuando a rimpiangere di non essere un’infermiera o una guardia notturna. Se fosse stata stanca per il lavoro intenso, almeno si sarebbe goduta un meritato riposo. Invece non aveva avuto un granché da fare nei giorni precedenti alle feste, salvo attendere che succedesse qualcosa. Non era accaduto niente. Se persino il negozio di intimo al di là della strada non aveva venduto un solo capo in più del minimo mensile, figuriamoci quanti tomi storici poteva piazzare lei. L’alternativa era chiudere, svendere l’attività a qualcun altro. Ma a chi? Chi avrebbe rilevato un posto come quello? E lei poi che avrebbe fatto? Quindi Anna non era stanca, non si era affannata abbastanza dietro al bancone, era solamente depressa e ansiosa. Guardava con angoscia alla successiva tornata di tasse, che la attendeva proprio dietro l’angolo e si domandava con quali soldi avrebbe potuto fare fronte alla spesa. A cosa serviva vivere così? Non c’era più uno scopo, per lei. Non c’era nessuno che la aspettava, a parte il fisco. Verso sera, il giorno di Natale, aveva meditato di tagliarsi le vene. La attirava l’idea di svuotarsi di tutto il sangue che aveva in circolo e con esso di tutto il malumore e il tormento che covava. L’allettava la visione di fare uscire da sé tutto il marcio e tutto il dolore. Aveva riempito una vasca di acqua bollente fino all’orlo. Ma invece di ammazzarsi ci si era buttata dentro, optando per un bagno rilassante. Era rimasta a mollo per un’ora buona. L’acqua calda le aveva sciolto i nodi della schiena e anche qualcuno di quel-
10 li che aveva nell’anima. Succedeva sempre, per fortuna. Il calore gradevole e consolatorio del bagno per contrastare il freddo fuori e il freddo dentro. Da quando Francesco se n’era andato non c’era giorno in cui Anna non avesse aperto i rubinetti per trascorrere qualche mezz’ora serale nella vasca. Le serviva per schiarirsi le idee, per rilassarsi e la aiutava a rappacificarsi con la realtà. Insomma, le era indispensabile per vedere le cose con un minimo di ottimismo. La vita poteva tradirla, ma la vasca colma di schiuma avvolgente e profumata le sarebbe sempre rimasta fedele. Insieme al vapore svaporava anche la sua rabbia. A Santo Stefano le cose erano parzialmente migliorate: Anna era uscita per fare un po’ di spesa. Le incombenze aiutano a sopravvivere. Paoletta le aveva telefonato e l’aveva invitata a cena a casa sua. E poi era arrivato il 27. Anna entrò in negozio rassegnandosi a trascorrere una nuova giornata in parziale solitudine. Però, per lo meno, non sarebbe rimasta chiusa nel suo alloggio e magari avrebbe letto un libro. Se fosse entrato qualcuno a prendere anche solo un caffè magari avrebbe scambiato quattro chiacchiere. Ma perché la zia Rita aveva trasformato “Parole antiche” in quel posto ibrido a metà tra un bar sguarnito e una biblioteca di libri vintage e non piuttosto in una libreria normale? La zia era un tipo eccentrico, aveva sempre delle idee originali, ma il senso degli affari non le apparteneva, anche se lei era convinta del contrario ed era pure fiduciosa che prima o poi le sue proposte avrebbero trovato un mercato. Si opponeva alla più banale regola del marketing: anziché esporre ciò che l’utenza richiedeva, la zia Rita si prefiggeva di rendere appetibili le cose che lei aveva voglia di offrire. Non sempre ci riusciva. E, tuttavia, l’equilibrio tra domanda e offerta non era in cima ai suoi pensieri. Ma del resto cosa si poteva pretendere da una donna del genere, vissuta in un’epoca in cui per certe mogli il lavoro era un lusso? La zia aveva aperto quel negozio per non rimanere in casa a fare la calza, visto che di figli non gliene erano arrivati. Il marito, il defunto zio Carlo, era un uomo d’affari che viaggiava spesso e lei doveva pure ammazzare il tempo in qualche modo. Aveva messo su quell’attività per puro sfizio e pazienza se non era redditizia, mica le serviva per campare. Eppure, inizialmente, un certo giro se l’era creato. Il tracollo era arrivato dopo. E poi c’era Amanda, quell’odiosa contabile che la zia Rita aveva assunto dieci anni prima e che campava grazie a “Parole antiche” e a pochi altri incarichi. Anna l’aveva ereditata insieme a tutto il resto. Amanda era strana, una zitella secca di circa quarant’anni che vestiva sempre di nero e indossava cappellini a dir poco bizzarri. La sua presenza era annunciata dalla nuvola di profumo che si portava appresso, una fragranza soffocante, incensata e irrespirabile mista al fumo. Infatti, qualunque cosa indossasse, non si separava mai da un borsellino a tracolla in cui teneva le sue sigarette. Amanda
11 svolgeva il suo lavoro senza infamia né lode, anzi, tutto sommato dignitosamente. In compenso aveva sempre una critica pronta e tante volte aveva fatto intendere che lei sì che avrebbe saputo come risollevare le sorti del negozio, ma poi, interrogata sui dettagli, se l’era cavata ogni volta con un discorso vago e nessuna delle sue fragili ipotesi era mai parsa fattibile. Anna la tollerava male perché non vedeva in lei un supporto, ma solo una presenza sgradevole. In certe occasioni Amanda era davvero ridicola, perché indossava abitini improponibili che la ingoffavano, ma si dava arie da femme fatale. La zia Rita le era realmente affezionata, ripeteva che in fondo la contabile era una creatura tenerissima e indifesa: viveva da sola e non aveva una famiglia, aveva avuto una vita complicata e meritava comprensione. Il ricordo della zia era l’unico motivo per cui Anna non la cacciava, tuttavia non riusciva a simpatizzare per Amanda. Della sua esistenza incasinata non voleva nemmeno sapere, le bastava la propria. Negozio a parte, Anna la teneva volutamente a distanza. L’unica cosa da cui non riusciva a sfuggire erano i discorsi intricati e volti ad autoesaltarsi con cui quella la ammorbava quando era in vena di chiacchierare. Fino alle dieci non si vide un’anima. Il cielo era plumbeo e per strada il viavai era ripreso a pieno regime, ma nessuno si fermava, nemmeno un passante per un caffè. C’erano bar molto più forniti di brioches e di alternative gastronomiche, in quella zona, e la gente, ovviamente, li preferiva al suo bancone semi-spoglio. Non c’era da stupirsi. Poi, alle dieci in punto, entrò un ragazzo che poteva avere la sua età o poco di più. Aveva i capelli di un biondo scuro, lisci, di lunghezza media, anzi, quasi lunghi, che gli incorniciavano il volto. I suoi occhi erano castani chiari con riflessi dorati. Aveva spalle larghe e braccia tornite, nonostante la figura complessivamente slanciata. Vestiva sobriamente, senza pretese. Indossava una maglia e un paio di jeans che mettevano in risalto i muscoli delle gambe. «Buongiorno» esordì. «Sto cercando qualche libro sulla storia di Torino. Mi serve per un articolo che sto scrivendo. Ha qualcosa per me?» Aveva un fisico da atleta e velleità da ricercatore. Parlava in italiano, ma aveva un accento duro, che sembrava tedesco. O qualcosa del genere.
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2.
«Storia di Torino? Che tipo di storia? Le interessava qualcosa inerente l’urbanistica o la sociologia? O la mera cronaca degli avvenimenti del passato?» Anna si sorprese a rispondere. Non si aspettava un cliente con esigenze complicate quel giorno. «Mah, mi interessa qualunque cosa, mi faccia vedere quello che ha… Tanto volevo analizzare la questione da molte sfaccettature per cui diciamo che, in prima battuta, mi va bene tutto. Però non mi dispiacerebbe fare un’analisi urbanistica della città e del suo sviluppo dal primo impianto romano.» «Ottimo.» Anna gli voltò le spalle e si addentrò tra gli scaffali. Non poté fare a meno di domandarsi se l’avventore avesse scambiato il suo locale per una biblioteca. Possibile. Magari nel posto da cui quell’uomo proveniva non vi era alcuna differenza tra le due cose. Tornò pochi minuti dopo con tre tomi: «Per ora c’è questo, però se è interessato all’acquisto», e sottolineò la parola acquisto, «di qualcosa di più specifico, posso tentare di procurarmelo. La avverto, non si tratta di testi di semplice e agevole lettura, comunque. Questo è un resoconto sul commercio a fine Ottocento, questo riguarda l’espansione urbanistica oltre Porta Susa e questo racconta la storia della Fiat all’inizio del ventesimo secolo. Insomma, sono tutti argomenti slegati tra di loro… Se deve fare un lavoro di ricerca di ampio respiro, forse le conviene andare in qualche biblioteca, all’Archivio Storico in via degli Stampatori o alla Biblioteca Nazionale in piazza Carlo Alberto… Insomma, lì avrebbe a disposizione tutti i libri del mondo e sarebbero assolutamente gratis. Gratis!» Ecco, l’aveva detto. Gratis. Al contrario, i suoi pochi volumi si pagavano. Meglio chiarire l’equivoco sul nascere che portarlo avanti a lungo. Meglio eliminare subito l’unico cliente nel raggio di miglia che illudersi di poter fare affari. Quello la guardò con aria spaesata, tanto che lei si chiese se avesse compreso ciò che gli aveva appena spiegato. «Non mi piacciono molto le biblioteche, non è lì che voglio rinchiudermi. Io voglio vivere questa città in tutti i suoi angoli! Questo posto per esempio», spiegò il tizio facendo un gesto ampio col braccio, «questo posto è torinese al cento per cento! Le volte a botte di questo soffitto, questo bancone, questi
13 scaffali! Sarebbe magnifico per me poter scrivere il mio articolo qua, respirando aria italiana, la stessa aria che respirano tutti gli italiani e i torinesi che frequentano questo locale, e mangiando lo stesso cibo che mangiano gli altri italiani!» Anna lo squadrò con crescente curiosità. La stava prendendo in giro? Eppure l’entusiasmo ingenuo di quel tipo le sembrava quasi genuino. A lei l’arredamento scelto dalla zia nell’ultima ristrutturazione, e che ora non poteva permettersi di cambiare, non piaceva. I tavolini, le sedie e il bancone dell’angolo caffetteria erano in stile moderno, chiari, lisci e lineari, in netto contrasto con la vetrina storica in pannelli di legno scuro e gli scaffali riservati ai libri. Una scelta di rottura con il passato che lei non aveva mai condiviso. Eppure la zia aveva pagato profumatamente un architetto arredatore per fargli sposare in maniera armoniosa mobili di tendenza e suppellettili restaurate. «Non si illuda, qui non si vede mai nessuno. Se nel 2015 non succede qualcosa, intendo dire qualcosa di stra-positivo che al momento non mi immagino neanche, sarò costretta a chiudere», lo seccò immediatamente. Quello restò lì imbambolato come se di nuovo non avesse capito. E forse davvero non aveva capito. Eppure l’italiano lo parlava bene, accento a parte. «Oh davvero? Che peccato sarebbe…» «Davvero. Comunque, si accomodi», aggiunse Anna, indicando un tavolino e una sedia. «Gradisce qualcosa da bere o da mangiare? Un cornetto e un cappuccino? O, data l’ora, attende il pranzo?» «Cornetto e cappuccino, grazie.» Anna allestì un piccolo vassoio mentre il suo cliente accendeva un pc portatile e si sistemava comodamente. Quando lei gli si avvicinò con la colazione lui si voltò verso di lei e le sorrise. I riflessi dorati dei suoi occhi si illuminarono: «Wow! Un cappuccino italiano! Un croissant italiano! Che meraviglia!» Anna stava per rispondergli: “Bella forza, siamo in Italia! Ovunque ti volti trovi facce italiane, cappuccini italiani, cornetti italiani e paesaggio italiano. E comunque fanno due euro e venti.” Ma si trattenne. Non volle stroncare l’entusiasmo di quel poveretto che pareva tanto onorato e inebriato all’idea di poter respirare aria italiana. Passarono le ore. L’uomo lavorò a lungo con concentrazione. Lesse alcuni paragrafi dei tomi che Anna gli aveva passato e si appuntò qualcosa sul computer. Continuò a scrivere senza più leggere, non smise nemmeno quando verso mezzogiorno Anna estrasse dalla borsa termica l’insalata che si era portata per il pranzo. A un certo punto piombò lì Amanda, con la sua solita scortesia, a portare una pila di carte. Fece pesare di aver trascorso l’intero Natale sul calcolo
14 delle tasse e come sempre insinuò di essere una lavoratrice sottopagata e sottostimata: con le sue competenze avrebbe potuto e dovuto aspirare a tutta un’altra gloria. Poi se ne andò sbattendo la porta. Per fortuna non imponeva mai la sua presenza a lungo, anche perché presto o tardi aveva la necessità di accendersi una sigaretta. Prima però lanciò una lunga occhiata di sbieco allo straniero, quindi sparì lasciando dietro di sé una nuvola di incenso e tabacco. Il cliente si limitò a squadrarla dalla testa ai piedi, ma non fece trapelare la sua opinione, se ne aveva una. Verso l’ora di chiusura però impacchettò le sue cose e si avvicinò alla cassa: «Sono stato a mio agio qua da lei, oggi. Se non le spiace torno anche domani. È un bar così accogliente», non era un bar e non era accogliente, pensò Anna, ma evitò di farglielo notare, «è silenzioso, ma non freddo. L’ideale per concentrarsi sulla scrittura. E poi è così italiano…» Arriecco. «Italiano come tutti gli altri locali nel circondario e oltre. Comunque domani è domenica e siamo chiusi. Riapriamo lunedì.» «Ah, giusto… A lunedì, allora…» Anna concesse un mezzo sorriso. «Ha trovato qualche libro di suo interesse?» «Oh, sì, sì, assolutamente! Tutto interessantissimo! Se me li tiene per lunedì, ci darò ancora un’occhiata.» Okay, non li aveva quasi letti. E di quel poco che aveva letto, ci doveva aver capito meno della metà. Lui non era lì per i suoi tomi e nemmeno per scrivere un fantomatico articolo. Era lì per vivere il suo sogno italiano, quale che fosse. Forse per tenere un diario di bordo. C’era una bella differenza. «Senta signorina…» «Anna. Mi chiami Anna, se non le spiace.» «Anna…», il giovane socchiuse gli occhi come per assaporare il suo nome. «Mi tieni i libri da parte per lunedì?» «Stai tranquillo… mi sfugge il tuo, di nome…» «Emil. Io sono Emil», disse lui con un sorriso che scopriva appena i denti bianchi e allineati. Si strinsero la mano. «Emil… stai sicuro. Qui nessuno te li ruba. E se qualcun altro fosse interessato all’acquisto, credimi, ti farei un cenno.» Gli affari andavano male a prescindere. Tanto valeva essere gentile con l’incolpevole forestiero. Lui le sorrise ancora, con uno sfavillio negli occhi. «Allora ci vediamo lunedì», aggiunse con un tono di voce basso e vagamente sensuale. Anna annuì e aggiunse: «Per quanto riguarda il cornetto e il cappuccino…»
15 «Ah! Giusto! Quanto fa?» «Due euro e… lascia perdere, offro io.» Sul volto di Emil si stampò un sorriso trionfale: «Ah, l’ospitalità italiana! Non ha veramente eguali! Ora però vado… Devo vivere Torino in tutta la sua intensità! Ho ancora mille cose da scoprire!»
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«Vedi, Anna, secondo me sbagli strategia…» commentò Paoletta spingendo il passeggino di Annalisa per i vicoli del parco giochi di piazza d’Armi. C’era il sole, non sembrava un inverno da nevicate, ma era ancora presto per dirlo. Però faceva un freddo becco. «Secondo me tu dovresti inventarti qualcosa di nuovo… Che ne dici di vendere anche dei gioielli? C’è una mia amica che crea della favolosa bigiotteria… Sai, ha il marito in cassa integrazione e cerca di tirare avanti come può. Oh, ma non devi pensare di farle la beneficenza, per carità… Lei è davvero brava, i suoi sono pezzi di pregio…» Paoletta era molto graziosa. Non tanto alta, magra, ma sinuosa. Portava i capelli corti, biondi, con un taglio alla moda. Aveva gli occhi castano-verdi. «Ci credo, Paola, ma capisci che se in quel mostro di negozio che la zia Rita ha creato ci metto anche la bigiotteria faccio un casino.» «Eh, ma chissene, scusa. Devi pure inventarti qualcosa di innovativo per non chiudere e per catturare l’attenzione. Che ne sai che poi magari l’idea non piace?» «Sono perplessa», commentò Anna stringendosi nelle spalle. «Qui non se ne esce.» «E allora perché non apri un angolo di book crossing?» «Book crossing? Ma che stai dicendo?» «Book crossing! Uno scaffale in cui baratti libri con i clienti! Tanto per attrarre del pubblico!» «Paola! Io i libri li vendo! Non posso regalarli, non posso fare book crossing nella mia libreria! Piuttosto, sto meditando di riconvertire l’offerta, prendere anche libri più moderni, non solo antichi. Una bella svecchiata potrebbe essere la soluzione anche se… sono parecchio scoraggiata. L’editoria va a rotoli, la gente ormai vuole solo gli ebook. Persino Fogola, libreria storica di Torino di piazza Carlo Felice, ha chiuso di recente. Cosa mi metto ad aprire io? Mi sembra una causa persa.» «Eppure non sarebbe male! Ti è mai venuto in mente di ampliare l’offerta per i bambini? Pensa che bello sarebbe un angolo in cui i piccoli possono visionare i libri, toccarli con mano. E magari, il sabato mattina, potresti organizzare degli eventi con la lettura di qualche fiaba, l’animazione, che ne dici? Tu fallo e non ti libererai mai più di me! Io e Annalisa saremmo sem-
17 pre lì da te! E ci porteremmo dietro un sacco di mamme dell’asilo, con tutti i loro bimbi. Non sarebbe fantastico?» Paoletta si infervorava come se la libreria fosse stata sua. Anna storse il naso scettica. «Non so…» «Eddai, convieni anche tu che tanto, per come sono ora, le cose non vanno bene per niente, no?» L’amica le si piantò davanti, fermando il passeggino. Prova. Aggiungi qualche nuova variabile. Non devi necessariamente fare chissà quali investimenti. Ci sono mille modi per dare a un locale delle chance di successo. Cercane uno anche tu. Potresti fare le unghie ai tuoi clienti, come in alcune catene americane. Oppure riempire il negozio di gatti e proporre la gatto-terapia.» Sulla faccia di Anna si stampò un sorriso scettico. Annalisa nel passeggino si ribellò al fermo: voleva essere spinta ancora. «Stai dicendo che se c’è crisi, se la gente ha smesso di leggere, se a nessuno interessano i miei cimeli storici, è colpa mia perché non mi impegno abbastanza?» «Sai cosa penso, Anna? Che in fondo tu non vuoi cambiare niente. Che vuoi andare a picco, tu, il tuo negozio, la tua vita, tutto. Che da quando Francesco se n’è andato tu sei come paralizzata. Sembra che tu non abbia più uno scopo! Ormai sono passati due anni, però. Non ce la faccio più a vederti così! Devi uscire da questo stato di impasse! Io ti voglio bene, Anna. Scusami se sono così schietta, ma lo faccio per te. Possibile che per te non ci sia qualcosa o qualcuno per cui impegnarti? È possibile, Anna?» Per tutta risposta Anna allungò il passo e piantò in asso la sua amica. Nelle sue orecchie risuonavano ancora gli strilli della piccola Annalisa.
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4.
Emil non si vide subito, il lunedì, tanto che Anna si convinse che non sarebbe mai arrivato. Ma poi lui fece finalmente la sua comparsa, con il pc sottobraccio, i capelli quasi lunghi arruffati e un principio di barba. Lei gli consegnò immediatamente i suoi tre tomi, augurandogli buon lavoro. Mentre lui spulciava, poi si distraeva, quindi riprendeva a scribacchiare qualcosa al pc, Anna, che lo osservava di sottecchi, ripensava alle parole di Paoletta. Un banchetto di bigiotteria? Dove diavolo avrebbe potuto metterlo? Avrebbe giovato per davvero all’immagine del suo negozio? D’altronde molte librerie moderne campavano di gadget più che di libri. Era risaputo. La Mondadori teneva riviste, giocattoli e tazze col nome, affinché fosse impossibile per un genitore intento a cercare un manuale di giardinaggio uscire senza acquistare qualcosa al figlio che si era portato appresso. C’erano persino dei peluche che si riscaldavano mettendoli nel microonde. Che c’entravano coi libri? Nulla, ma erano accattivanti, morbidi e colorati. E vendevano, come le penne con i pupazzi di Peppa Pig e altri ammennicoli di pseudo-cartoleria. Dunque, forse l’idea di ampliare la sezione bambini poteva essere un modo come un altro per fare utili. Ma Mondadori non era una libreria storica. E comunque Anna doveva decidersi a tenere qualche bestseller commerciale per attrarre clientela. La zia Rita si sarebbe rigirata nella tomba, ma lei doveva vivere. Magari in seguito, però… Era immersa nei suoi pensieri quando Emil le si avvicinò: «Avresti qualcosa da mangiare per il pranzo?» domandò. «O è meglio che vada in qualche bar qua vicino?» La domanda era legittima. Anna si ridestò dai suoi pensieri: «Questa è solo una caffetteria, tengo un paio di panini. Se vuoi qualcosa di più consistente, o di più… tipico, ti conviene cercarti qualcosa fuori e tornare qua più tardi.» Emil le si parò davanti con un sorriso sornione, intanto che si sedeva a cavalcioni su una delle sedie alte di fronte al bancone dell’angolo caffetteria: «E tu cosa mangi, invece?» La domanda era candidamente impudente, ma Anna non ci badò. «Io di solito mi porto un’insalata», spiegò senza nemmeno alzare la testa dalle tazzine che stava sistemando.
19 Emil parve quasi deluso, ma poi domandò: «E perché non prepari insalate anche per i tuoi clienti?» «Perché questa è solo una caffetteria, non un vero e proprio bar… E poi meno clienti ci sono, meno roba è meglio tenere nel banco, perché altrimenti a fine giornata butto via tutto…» Anna si fermò un attimo. Alzò la testa e squadrò Emil da cima a fondo, come se lo stesse osservando per la prima volta. Quello straniero scanzonato sembrava venuto dalla luna e forse, proprio per quel motivo, poteva essere obiettivo. «Dimmi un po’, Emil. Dammi il tuo parere sincero. Secondo te avrebbe un senso ampliare questa caffetteria e renderla più fornita, trasformandola in un mini locale di ristorazione? Voglio dire, investire denaro, tempo, risorse per strutturarsi diversamente, potrebbe realmente portarmi più avventori?» Emil scrollò le spalle: «Secondo me sì! Come cliente io mangerei volentieri qualche piatto tipicamente italiano, per esempio le lasagne!» Anna scosse la testa: «Sì, però… Non posso rivoluzionare un’altra volta questo posto per una sola persona che pretende di assaporare italianità in ogni angolo dello Stivale…» «Oh, beh», il sorriso di Emil si spense. «E allora perché me lo hai chiesto?» «Perché volevo sapere cosa ne pensavi.» «Non sono un esperto di marketing, sinceramente. Però, visto che sono il tuo unico cliente, mi sembra, forse dovresti tenere conto anche del mio parere. Voi italiani non siete famosi per la vostra ospitalità? Il cliente non ha sempre ragione?» Anna lo guardò negli occhi. Ci era o ci faceva? Ci credeva veramente a quei luoghi comuni sugli italiani? Gli italiani ospitali, gli italiani che mangiano bene, anzi, dediti solo al cibo e alla buona cucina. Non si rendeva conto che i cosiddetti italiani erano un popolo ormai in crisi e che persino mangiare bene era diventato un lusso? Forse strutturare meglio la caffetteria a discapito della libreria avrebbe avuto un senso, però. Tanto ormai le autorizzazioni le aveva. Rifornire il bancone di torte per la colazione. Inventarsi un piccolo menù per il pranzo, qualcosa di semplice, per gli studenti squattrinati. Qualunque scelta però avrebbe avuto un costo e lei di soldi non ne aveva da buttare. «Emil…», Anna si legò il grembiule dietro la schiena. «Posso chiederti da dove vieni?» «Dalla Danimarca», sorrise lui. Ecco spiegato quell’accento tremendo. «E dove hai imparato così bene l’italiano?» «A Bologna, dove ho studiato per un anno, quindici anni fa. E adesso il mio italiano è parecchio arrugginito, devo dire.»
20 «No, affatto. Ti fai capire benissimo, usi anche dei termini appropriati», commentò Anna con ammirazione. «Io dubito che parlerei il danese altrettanto bene.» «Eh, ma voi italiani non siete molto predisposti per le lingue. Da queste parti tutte le volte che ho parlato in inglese, perché in italiano non riuscivo a esprimermi, nessuno mi ha capito. Ho provato col francese, visto che siamo a Torino, ma niente da fare. Col tedesco ho proprio evitato.» Anna sbatté le palpebre e posò automaticamente lo straccio che teneva in mano. «Scusa, quante lingue conosci?» «No, niente di che. Solo quelle che ti ho detto. E poi un po’ di svedese. Per noi nordici è normale. Siete voi, qui al sud dell’Europa, che rimanete chiusi nel vostro idioma. Tra gli italiani e gli spagnoli non so chi sia messo peggio. Ora, io vi capisco, perché il suono della vostra lingua è stupendo: dolce, musicale, sensuale. L’italiano è assolutamente sexy. Però un po’di inglese, cavoli… Da quindici anni a questa parte non è cambiato nulla. Da quando sono arrivato, un mese fa, avrò conosciuto una cinquantina di persone, di cui solo quattro masticavano l’inglese. Le altre quarantasei non ci capivano niente. Tu parli inglese?» «Poco. Nulla.» «Okay, quattro su cinquantuno.» «Bene, ma a questo punto sono curiosa: quindici anni fa eri a Bologna per studiare, ma adesso, cosa ti ha portato in Italia e per quanto tempo hai intenzione di restare? E perché proprio a Torino?» «Da Torino ero passato all’epoca e me n’ero innamorato. È un posto così interessante, così pieno di storia e di cultura… Adesso vorrei viverci. Almeno per un po’. È sempre stato il mio sogno.» «Sul serio?» Anna era sorpresa. «C’è qualcuno al mondo che ha come sogno nel cassetto quello di vivere a Torino?» «Come vedi sì!» rispose Emil, con un sorriso entusiasta negli occhi. «E perché proprio adesso? Perché ora?» L’espressione spensierata e felice di Emil sembrò smorzarsi: «Perché adesso in Danimarca non ho molto da fare, mentre qui posso condurre le mie ricerche. Ho una formazione storica che mi fa campare, a parte tutto.» Il pathos fu spezzato dall’ingresso di Amanda, che guardò tutti con aria torva per poi attaccare con le solite litanie sul suo lavoro sottostimato e sottopagato. Disse che aveva dovuto rivedere tutto un’altra volta, che non si poteva andare avanti così, che solo grazie al suo impegno quel posto non era ancora affondato. Fu in quell’istante che Emil ne approfittò per congedarsi e uscire per pranzare fuori.
21 Quando rientrò, Amanda se n’era andata. Lui si rimise a esaminare le sue scartoffie e non alzò più la testa. Al momento della chiusura fu Anna a domandargli se contava di ripresentarsi il giorno dopo. Lui fu vago: «Sì, credo di sì», ma non si dilungò in dettagli. Una volta a casa Anna si accasciò sul divano. Prese la cornice con la foto di Francesco e la osservò a lungo. Conosceva a memoria quei lineamenti fini, un po’ aristocratici, quei capelli castani e quegli occhi grigio-azzurri. Quel sorriso un po’ enigmatico, mai troppo allegro. Quante sere, negli ultimi due anni, aveva trascorso inebetita di fronte a quella fotografia, a sognare quello che doveva essere e non era stato? Anche quella poteva essere una di tali serate, da spendere accarezzando un vetro freddo con l’illusione di toccare realmente il viso del suo amato. Poteva. Invece, dopo aver baciato l’immagine di Francesco sulla fronte, Anna si alzò e si diresse verso la dispensa. Aprì l’anta. Farina, sugo, latte. Tirò fuori la carne tritata dal frigo. Si mise di buona lena e preparò una teglia di lasagne.
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5.
Torino è una città orribile. Non è sicura, non è confortevole. Ci abito da quindici anni e non riesco ad ambientarmi. Non riesco a socializzare con nessuno. Ognuno qui pensa ai fatti propri. Non è come a Sferracavallo dove siamo tutti una grande famiglia. Qui in Piemonte i vicini non mi aiuterebbero neppure se mi vedessero morire. Però spìano tutto quello che faccio. Si impicciano degli affari miei, lo so. Ma mai che qualcuno mi inviti a cena o da qualche parte. Vorrei fare amicizia con qualcuno, invece gli unici veri amici ce li ho vicino a Palermo. Loro sì che mi amano, sì che mi capiscono. Ci conosciamo da quando siamo nati. E quando vado giù, in vacanza, ritrovo il gruppo di amici e finalmente mi rilasso e mi diverto. Invece qua al nord è tutta un’altra musica. Io ci provo a organizzare delle cose, ma non ci riesco. Mi sono anche iscritta al ballo latino americano e poi al corso di yoga. Ed è stato lì che ho conosciuto Marisa, a yoga. Era così carina, così simpatica, che ho provato a esserle amica. Le ho chiesto il numero di telefono e lei me l’ha dato. Mi sembrava anche disponibile e gentile mentre me lo scriveva. Sorrideva assertiva. Le ho mandato tanti messaggi e le ho telefonato più di dieci volte per chiederle di uscire, di andare a fare shopping oppure dal parrucchiere, ma lei niente da fare, continuava ad accampare scuse, a dirmi che suo marito era fuori per lavoro e lei non poteva uscire perché aveva un figlio piccolo da accudire e pur di non incontrarmi non è nemmeno più venuta a yoga. Qui la gente è strana. Strana e odiosa. Si defila quando potrebbe fare qualcosa per te, senza alcuna solidarietà. Ma quando può farti del male, non vede l’ora. Non come a Palermo dove tutti mi vogliono bene. I vicini di casa, una coppia di vecchi antipatici, i coniugi Calderaro, mi stuzzicano in ogni modo. Se le inventano tutte. Secondo me stanno svegli persino di notte per studiarsi il modo di darmi fastidio. Per esempio, e questo è stato il caso più eclatante, sanno che odio i cani, che mi fanno realmente terrore. Beh, si sono comprati un cane. Una bestia grande e grossa, una vera belva che ringhia ogni volta che mi trovo sul pianerottolo. E lo fa apposta, perché sa che io ho paura. Ma poi ci sono anche altre cose. Un giorno li ho sentiti confabulare con la signora Rosa, del piano di sopra. Se ne stavano lì sul pianerottolo e tenevano anche fermo l’ascensore perché avevano aperto la porta, ma non andavano né su né giù. E anche quello
23 l’hanno fatto apposta, perché sapevano che arrivavo a quell’ora e volevano impedirmi di salire agevolmente. Un dispetto, dunque. Un dispetto bieco. Comunque, parlavano di me. Dicevano che la mia spazzatura puzzava più delle altre e che volevano farmela pagare. Li ho sentiti. Come possono affermare una cosa così assurda? Le hanno annusate tutte, le spazzature? Eppure dicevano proprio così e poi gli sguardi che mi hanno lanciato al mio arrivo mi hanno fatto spavento. Era chiaro, chiaro come il sole, che ce l’avevano con me, che volevano solo farmi del male. Allora mi sono messa a fissarli. Dritta, impettita, mi sono piazzata di fronte a loro e li ho guardati a lungo, immobile, senza retrocedere di un passo. Siccome li osservavo insistentemente, i vicini mi hanno chiesto se volevo qualcosa. Io però non li ho degnati di una risposta. Così loro, indispettiti, sono entrati in casa, portandosi dietro anche la signora Rosa. Devono capire che io non temo il loro atteggiamento e nemmeno i loro sgarbi ripugnanti. Io sono una persona chiara e trasparente, basta guardarmi in faccia per capire quello che ho in mente. Non mi serve parlare, io ho i pensieri stampati sulla fronte.
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6.
Per la prima volta dopo due anni, Anna aveva compiuto spontaneamente un gesto che non le serviva per la mera sopravvivenza: aveva cucinato una teglia di lasagne con l’intento di offrirne – gratuitamente e al di fuori della sua attività commerciale – un piatto a Emil. Il danese, così eccentrico, così solitario, aveva solleticato in lei qualcosa, come una specie di istinto di protezione. Le aveva detto di conoscere sì e no cinquanta persone in Italia e di non avere più legami con la Danimarca. Allora lei si era sentita in dovere di fare qualcosa di carino per farlo sentire a suo agio nel paese straniero in cui per qualche ragione aveva scelto di vivere. E ora attendeva, con una certa trepidazione, di vederlo entrare per mostrargli con un sorriso la sorpresa che aveva preparato per lui, convinta che avrebbe gradito. Per la prima volta dopo due anni la contentezza di qualcuno – di un uomo per giunta – le stava a cuore. Solo che Emil non si vide. Non comparve al mattino e nemmeno nel primo pomeriggio. Si era alzato quel giorno con un cerchio alla testa. La sera prima, proprio mentre Anna era indaffarata a impastare le lasagne, lui stava a “The 1870 Huntsman Pub” in corso Vittorio Emanuele a scolarsi un paio di birre e forse ne aveva mandata giù qualcuna di troppo. L’alcol lo reggeva bene, ma quella volta aveva un po’ esagerato. E ora, rigirandosi nel letto, pensava che avrebbe voluto essere come la maggior parte degli italiani: un bevitore moderato, da un bicchiere di vino a pasto. Gli piaceva quella concezione dell’alcol come di un piacere da degustare con parsimonia. Il sorso dall’aroma fruttato da assaporare in accompagnamento al buon cibo. Al nord invece importava solo riempirsi la pancia con interi boccali di birra, se andava bene, o di qualsiasi cosa fosse in grado di scaldare le membra e il cuore. In Italia, patria rilassata dello slow food e della pausa pranzo con pennichella, non era frequente incontrare degli ubriachi per strada. Poteva accadere, in alcuni contesti, ma di solito la gente sbronza non si faceva vedere in giro. Insomma, gli italiani avevano un approccio completamente differente e non era loro prassi farsi un bicchiere di scotch ogni volta che rincasavano. Questi erano i pensieri di Emil mentre tentava di mettersi in piedi quel dì. Ma quando osservò allo specchio il suo volto sfatto con la barba di un gior-
25 no e i capelli arruffati e quando intuì di avere anche l’alito pesante e la bocca impastata, decise che in quello stato non si sarebbe dato alla scrittura e neppure ai suoi studi: non era proprio giornata. Sarebbe stato più opportuno fare una bella passeggiata, snebbiarsi, schiarirsi le idee nell’aria fresca e frizzantina del mattino. Così fece una colazione abbondante a base di pane, burro e marmellata e scese giù fino al parco del Valentino. Alloggiava in un modesto bed and breakfast vicino a Largo Marconi, in attesa di trovare un appartamento adatto a lui. Camminò a lungo, solo, per scaricarsi i nervi. Rimpiangeva la sua bicicletta, che aveva lasciato lassù al nord. Temeva che non avrebbe saputo che farsene. Copenaghen era una città da ciclisti. Amsterdam, che ogni anno contendeva il primato a Copenaghen, era una città da ciclisti. La viabilità era strutturata ovunque e appositamente per i ciclisti. Torino era una città da automobilisti, non da ciclisti. Torino era la capitale italiana dell’automobile, c’era la Fiat e c’era una struttura di viali concepiti già dai Savoia che nei secoli non erano stati riconvertiti all’uso delle biciclette, bensì all’uso ancora più massivo delle auto. Le rare piste ciclabili erano monconi decontestualizzati che iniziavano e finivano nel nulla entro poche centinaia di metri, ma che tutti insieme non costituivano una rete o un percorso. Tuttavia qualche ciclista a Torino c’era pure e forse lui la bici avrebbe anche potuto portarla. Magari un’altra volta. Intanto camminava. C’erano giorni in cui Emil ringraziava di non dover rendere conto a nessuno delle sue azioni perché – se ne accorgeva lui stesso – era intrattabile. E quello era uno di quei giorni. Non riusciva a scrollarsi di dosso l’insofferenza che si portava appresso e nulla era in grado di placarlo. Talvolta avrebbe voluto mettersi a urlare, ma poi l’avrebbero preso per matto e quello era l’unico motivo per cui si tratteneva. Ma cosa poteva farci? C’erano dei momenti in cui tutto faceva troppo male, in cui lui avrebbe voluto chiudersi in una bolla ovattata e dormire, pur di lenire il dolore e non ricordare. Ma poiché non aveva ancora trovato un luogo del genere, e persino crogiolarsi nel letto dopo un po’ diventava un tormento, cercava un minimo sollievo camminando e macinando chilometri. Porta Nuova, via Roma, piazza San Carlo, piazza Castello. Via Po, piazza Vittorio, il ponte Vittorio, la Gran Madre. E poi su per via Villa della Regina fino al parco pubblico di Villa Genero. Stanchezza fisica per confondere i brutti pensieri e non permettere loro di avere la meglio. Sarebbe passato, prima o poi, quel periodo nero. Bastava solo vivere tranquilli, alla giornata, tentando di fare cose piacevoli. Non era il caso di imbottirsi di psicofarmaci e ansiolitici, come gli aveva consigliato il dottore in Danimarca. E neppure di esagerare con gli alcolici, non era quella la soluzione. Né tantomeno lasciarsi buttare giù dai problemi e dal pessimismo altrui. Persino il sesso occasionale – e aveva praticato anche quello – non lo aiutava un granché. Lifestyle italiano, quella doveva essere la
26 cura adatta a lui. Lifestyle italiano. Relax, buona cucina, tante chiacchiere amene e distrazione, senza turbamento. E magari la visita di qualche bel museo: niente come la bellezza sapeva rinfrancare lo spirito. Così quel pomeriggio avrebbe visitato il museo Egizio. Poi, chissà. Emil non aveva un piano preciso, anzi, la sola idea di idearne uno gli metteva angoscia. Voleva vivere improvvisando, senza il peso di una programmazione, senza l’ansia di doversi giustificare nel caso non se la fosse più sentita di affrontare i suoi impegni. La sua professione, la scrittura storica, in questo lo agevolava. Ma la sola prospettiva di darsi delle scadenze lo rendeva isterico. Quindi non stava scrivendo, ma in fondo non era così importante. Erano più rilevanti le persone con cui ora doveva interloquire. Non voleva compromettere i fragili rapporti che stava instaurando con la gente che aveva appena conosciuto. Non voleva imporre a nessuno il suo stato d’animo tetro, né tantomeno sentirsi soffocato da premure del tutto fuori luogo. Quindi quel giorno non avrebbe scritto né letto una sola riga e non sarebbe neppure andato da “Parole antiche”. Anna era così carina, flessuosa, mora, con quei capelli a carré, lunghi davanti che le incorniciavano il viso e corti sulla nuca, quegli occhi neri e i denti bianchissimi. Muoveva le mani in modo morbido, quando affettava il pane, quando batteva uno scontrino, quando gesticolava, pur in maniera contenuta, mentre parlava. Una vera italiana, al cento percento, come piacevano a lui. Adorabile. Decisamente sexy, con un sedere che… Ma aveva nello sguardo una velatura di tristezza in cui Emil non aveva proprio voglia di specchiarsi. Non quel giorno, per lo meno.
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7.
Se Emil si fosse presentato nel suo negozio nei giorni seguenti, Anna gli avrebbe chiesto quali erano i suoi programmi per Capodanno. E se lui non avesse avuto grossi impegni, magari lei lo avrebbe coinvolto nella festa a cui era stata invitata. Ma poiché di Emil non c’era traccia, Anna si presentò da sola a casa di Paoletta, in via San Donato, per una cena insieme con altri amici. Se Emil fosse mai stato presente alla cena di Paoletta, forse la sua solitudine avrebbe fatto il paio con quella di Anna. Ma poiché Emil chissà dov’era, l’estraniamento di Anna rimase singolo. Paola aveva bardato il salotto a festa: tovaglia rossa con le renne di Babbo Natale sul tavolo allungato, posate d’argento del servizio buono, piatti orlati d’argento – regalo di nozze –, vischio appeso qua e là, decorazioni dorate e luminose dell’Ikea alle pareti e copridivano di tela rossa. Per l’occasione erano state tirate fuori delle sedie dalla cantina ed eliminati o ammassati in camera da letto una serie di oggetti e suppellettili che ingombravano e toglievano spazio. Così il risultato era stato un salotto tutto sommato arioso, pronto ad accogliere più persone. Restava intonso solo il mobile a parete, quello dalle linee diritte e moderne che ospitava anche il grosso televisore, oltre che alcuni riquadri pieni di libri. In tutto gli adulti erano quattro coppie, compresa Paoletta e suo marito Marco. Poi c’era qualche bambino, infine c’era lei. E, per non farla sentire troppo sola, c’era anche Alberto. Alberto era un amico single invitato da Paola appositamente per Anna, in uno degli ennesimi tentativi di trovarle un nuovo possibile fidanzato. Tentativi che non erano mai andati a buon fine, perché Anna non era affatto interessata e la cosa si intuiva a un miglio di distanza. Probabilmente anche i presunti pretendenti non erano poi così coinvolti, perché si lasciavano scoraggiare sempre molto in fretta dall’atteggiamento poco aperto di Anna. Ma quella sera la storia era diversa. Paola si era impegnata per scegliere una persona che avesse tutti i sacri crismi e persino qualcosa in più. Intanto Alberto era di aspetto gradevole, con i capelli corti e castani, gli occhi azzurri, la mascella larga e il fisico longilineo. Inoltre conosceva tutte le difficoltà di Anna: Paola gliele aveva già anticipate. Ma soprattutto si presentava con una carta vincente: era un imprenditore, un esperto di mercato, poteva aiutare
28 Anna a risolvere i problemi col suo negozio, dunque lei, per un motivo o per l’altro, sarebbe dovuta stare a sentirlo. Paoletta era così cara e sempre armata di ottime intenzioni, ma talvolta si circondava di amici scadenti e, per dirla tutta, anche abbastanza antipatici e supponenti. L’episodio spiacevole, che segnò la serata e i giorni a venire, accadde con Sonia, una donna con gli occhi azzurro ghiaccio, i capelli biondi (schiariti) dal taglio sofisticato e raccolto sulla nuca. Era la moglie di Riccardo, un collega di Marco, e con Anna non aveva nulla da spartire. Si dava un sacco di arie perché vestiva griffato, infatti la prima cosa che Anna le sentì dire fu: “… Questa borsa di Prada? È il regalo di Riccardo per Natale, deve essergli costata una fortuna, povero caro.” Parlava con voce impostata. Mentre ostentava i suoi averi tra i presenti gesticolava in modo misurato, quel tanto che bastava per mettere in risalto le unghie splendidamente laccate. Intanto indossava un abitino rosso e attillato come se stesse partecipando a chissà quale festa di gala. Invece era solo un’ospite a casa di amici che avevano cucinato tutto il pomeriggio per lei e che ora avrebbero gradito una mano per portare le pietanze in tavola. Nel frattempo, mentre Sonia esibiva la sua merce senza alcuna discrezione, suo figlio Manuel, una peste di sette anni, faceva il diavolo a quattro e infastidiva tutti gli altri bambini. Non risparmiava nessuno: stuzzicava persino Annalisa, che di anni ne aveva solo due ed era la più piccina. Sonia lo giustificava, spiegando che Manuel era così per la sua intelligenza superiore alla media, o meglio, era un bambino certamente iperattivo, ma questo per via della sua innata necessità di ricevere sempre degli stimoli nuovi e interessanti. Questo era il senso del discorso di Sonia e Anna si domandava che cosa ci volesse a rimettere in riga un bimbo di sette anni, spiegandogli il rispetto degli altri. Pure un marmocchio iper-intelligente aveva bisogno di limiti. Era tremendo per lei vedere Manuel vessare gli altri ragazzini, tra l’indifferenza di sua madre e il disagio degli altri adulti. Così si rivolse direttamente al piccolo sadico, per fargli notare, pur con pacatezza: «Ti piacerebbe se un bambino più grande ti prendesse in giro per qualche motivo?» Glielo disse accovacciandosi sui polpacci, con il proposito di abbassarsi al suo livello, guardandolo negli occhi. Manuel però non aveva intenzione di darle alcuna soddisfazione, né di reggere il suo sguardo, quindi si divincolò urlando: «Mammaaaa! Quella signora mi vuole sgridare!» e andandosi a nascondere tra le gambe di Sonia. Quest’ultima, seccata per essere stata interrotta nella sua conversazione che stava monopolizzando, lanciò ad Anna solo un’occhiata tagliente e una frase sdegnosa:
29 «Tu non hai figli, vero?» Non aggiunse: “Non ti impicciare di cose che non conosci affatto e non sono neppure di tua competenza”, e neppure “Lascia fare la madre a me”, perché non ce ne fu bisogno. Anna non replicò, non ci sarebbe stata discussione possibile. Batté la ritirata, chiedendosi se quella tizia avesse buttato lì la sua frase ineducata senza pensarci troppo, o se al contrario fosse conscia di quanto male poteva farle con una simile osservazione, dopo ciò che le era accaduto. “Tu non hai figli, vero?” era una domanda offensiva a prescindere, perché metteva su piani diversi i genitori da coloro che non lo erano, ma in quella circostanza suonava ancora più esecrabile. Cosa sapeva Sonia della sua vita? Quanto poteva averle raccontato Paola? Anna si allontanò con la sensazione amara che l’uscita di quella donna algida e poco empatica non fosse stata solo insensibile, ma proprio venata di crudeltà. Fu in quel contesto di prevaricazione che Alberto trovò terreno fertile per mettersi in luce agli occhi di Anna: «Su, dai, Sonia, non farla più grande di ciò che è. Anna mica te lo stava brutalizzando, il tuo figliolo. E poi, diciamolo, Manuel non è proprio un angioletto. La pazienza la fa scappare anche ai santi.» Sonia alzò il mento con indignazione e si rimise a parlare con Angela e Giampiero, un’altra coppia di amici. A quel punto Alberto si rivolse direttamente ad Anna: «Complimenti per il coraggio! Nessuno ha mai tentato di riprendere Manuel in modo così diretto.» «Ti sembra una cosa strana?» «Un po’. Sgridare un bambino alla presenza dei genitori è una dimostrazione di audacia, soprattutto se certi genitori sono leggermente permalosi…» aggiunse Alberto guardando Sonia di sottecchi. «La conosci bene, Sonia?» Alberto minimizzò: «No, non tanto. Fa parte del giro degli amici. Talvolta ci incontriamo in questo tipo di eventi. Ma adesso basta perdere tempo con lei. Ce lo prendiamo un aperitivo? Offre la casa!» «Credo che tra un minuto Paola aprirà le danze con gli antipasti», rispose Anna con un sorriso di gratitudine. «Allora ci sederemo tutti a tavola e…» «E sarà una cena stupenda, con una compagnia da favola», la incalzò Alberto. «Sperando che i marmocchi, al loro tavolino, non combinino troppi disastri!» Alberto sorrise ancora, per sdrammatizzare e per accattivarsi la sua simpatia. «Bene, Anna, raccontami qualcosa di te. Paola mi ha detto che hai un negozio di libri antichi», aggiunse versando il crodino in due bicchieri, «cosa estremamente affascinante.» «Ti avrà detto anche che non va molto bene, allora», commentò lei prima di
30 mandare giù un sorso di aperitivo, scostandosi una ciocca di capelli dalla fronte. «Sarò sincero: sì, mi ha detto anche questo», confessò Alberto, guardando Anna dritto negli occhi. «Ma se vuoi ne possiamo parlare: te l’ho chiesto a ragion veduta. Io sono un esperto di marketing, se credi posso tentare di darti una mano, di fare un piano di rilancio per la tua attività. In fondo perché arrendersi? Possiedi un locale storico di Torino. Perché buttarlo via? Però adesso raccontami qualcosa di te…» Si sedettero a tavola, uno accanto all’altra. Anna si aggiustò il tubino nero mentre lui le sistemava la sedia. Parlarono per tutta la serata isolandosi dal resto degli invitati, dalle palline di pane gettate dai bambini e dalle occhiate furtive di Sonia. L’anno nuovo arrivò in un attimo.
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Alberto fu molto gentile e cordiale, tanto che Anna, contrariamente a quanto faceva di solito, non si chiuse a riccio, non increspò le sue labbra piene, ma conversò con lui per ore. Lui la condusse su binari neutri, la fece parlare di cinema, di recitazione, le prospettò di portarla a vedere, nelle settimane a venire, un certo spettacolo al teatro Carignano di cui aveva sentito opinioni strepitose. Diede a intendere di conoscere di lei tutto quello che c’era da sapere e, proprio per quello, evitò con delicatezza di pestare tasti dolenti. Ascoltò con molta attenzione tutto ciò che lei gli disse e la interrogò sui suoi gusti in materia di cucina e sulle sue preferenze in fatto di vino. Parlò poco di sé. Usò tutto il suo tatto per conquistare la sua fiducia e solo verso la fine azzardò qualche commento sul negozio: «Lo so, il momento non è buono. Ma sono sicuro che con la giusta strategia potremmo, cioè, potresti rimettere l’attività perfettamente in quadro. Mi piacerebbe discuterne più dettagliatamente e con calma uno dei prossimi giorni davanti a una buona tazza di caffè caldo. Posso passare nella tua libreria? Così mi fai vedere anche il locale affinché io possa valutarlo…» Anna sorrise. In fondo, perché no? Cos’aveva da perdere? E poi lui era così pacato… l’aveva saputa mettere davvero a suo agio senza dare l’impressione di volerle saltare addosso al primo appuntamento. Altri uomini, appreso che lei era sola, non erano stati altrettanto signori. Alberto aveva l’atteggiamento di uno che sapeva aspettare. Qualunque cosa avesse voluto da lei in cambio, non l’avrebbe pretesa subito. Persino a mezzanotte, al momento del brindisi, quando avevano dovuto ricongiungersi agli altri per bere un sorso di moscato, lui le aveva dato un tenero bacio sulla guancia, più vicino all’orecchio che alla bocca. Un gesto affettuoso e meno invasivo di quanto Anna aveva temuto. Poi erano tornati sul divano, solo loro due, a scambiarsi altre impressioni sul mondo dell’entertainment, sugli eventi mondani. Alberto era un vero intrattenitore, conosceva un sacco di cose sull’industria di Hollywood (“Quello che vedi in tv è tutto costruito, anche i reality seguono dei copioni”) e sul mercato in generale. Sapeva raccontare aneddoti (“Dicono che Brad Pitt e Keira Knightley siano i divi più puzzolenti di Hollywood! Ma dei giornali di gossip non c’è mai da fidarsi”) e parlare di argomenti leggeri aggiungendo qualche riflessione interessante. Evidentemente era uno molto addentro la
32 realtà del lavoro (“Veramente pensi che Renzi con i suoi ottanta euro possa risollevare l’Italia? E chi ha la partita IVA pur lavorando alle dipendenze di qualcuno come fa?”), ma che al momento buono si divertiva parecchio (“Sestriere è uno dei posti che preferisco in assoluto per sciare. Peccato che quest’anno non ci sia neve…”). Da ragazzo, gli piaceva avventurarsi come speleologo tra le caverne nascoste e le rocce. Un uomo di mondo, insomma, con lo spirito avventuroso di Indiana Jones. Alle tre si offrì di riportarla a casa, facendole risparmiare i soldi del taxi. E non pretese di salire, anzi, si congedò con galanteria. Sotto le coperte Anna ripensò alla serata gradevole che aveva trascorso, sicuramente migliore di quanto avesse osato sperare. Anche l’episodio con Sonia si era ridotto a una sgradevole parentesi. Con Paoletta invece non si erano praticamente parlate, ma era sicura che l’amica non se la fosse presa affatto. Alberto era stato una piacevolissima sorpresa. Mentre Anna scivolava nel sonno, però, il suo pensiero disorganico che precedeva l’assopimento, inaspettatamente corse fin da Emil. Chissà cos’aveva fatto il danese quella notte e quando sarebbe andato a dormire. Chissà che sapore aveva avuto la sua solitudine quella sera. Chissà se sarebbe mai tornato da “Parole Antiche”.
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9.
Lui mi odia, io lo so. È per questo che mi manda loro. Lo so, li vedo. Sono sempre sotto casa mia, mi controllano di continuo. Io non posso mettere il naso fuori casa che li trovo. Di giorno, di notte, sempre. Non voglio che scoprano quanta paura ho, perché ne ho tanta, ma loro non devono capirlo, altrimenti è molto peggio. Vogliono spaventarmi, vogliono mandarmi avvertimenti, credo. Intimorirmi. Vogliono mandarmi un messaggio ben preciso: stai alla larga da lui. Ma io a lui non mi avvicinerei nemmeno morta. Non voglio più averci niente a che fare. Non sono io a cercarlo, è lui che cerca me, che si insinua nella mia vita, che verifica ogni mio movimento, che monitora tutto quello che faccio, che mi impedisce di essere felice. Lui sa tutto di me, mi spia, mi osserva, mi vieta di essere libera. Si mette sempre in mezzo alle mie faccende. Vuole avere il controllo totale su di me. Sa che se io volessi, lo inguaierei di brutto. Ma a me non importa nulla di lui. Non gli voglio fare niente, voglio solo che mi lasci tranquilla. Invece non lo fa, perché io ho lasciato il segno nella sua mente, io sono la sua ossessione e ora lui fa di tutto per essere la mia. Per questo ora loro sono sotto casa mia, stanno appostati fuori dalla mia finestra, mi farebbero del male se io glielo permettessi. Per questo stanotte non sono uscita. Sono rimasta a fissare le loro presenze silenziose nel buio per tutto il tempo. Pazienza se era Capodanno, pazienza se mi sarebbe piaciuto incontrare gente, fare un giro in centro, vedere la città. Sono una ragazza sola, devo fare i conti con tutto questo. Torino non è una città sicura, e loro sono qui per me, per giunta. Se almeno avessi un’amica, o un uomo con cui uscire, magari loro se ne starebbero alla larga. Ma lui non mi permette di avere degli affetti, lui mi minaccia, lui allontana da me ogni persona cara. Questa notte non passa mai e nemmeno un po’ di fumo ha su di me un potere calmante. Ho tenuto le luci spente fingendo di non essere in casa, ma tanto loro lo sanno che sono qui, chi voglio prendere in giro? Loro sono là fuori e attendono me. Adesso io sono sotto le coperte, attendo che torni il giorno e ho paura. Dovrei farmi almeno un’amica. Sono una bella persona, ho un tesoro dentro di me.
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10.
Erano le sei del mattino quando Emil andò a dormire. Porca miseria, era sceso giù dalla Danimarca in cerca di climi caldi, chi avrebbe mai immaginato che a Torino il 31 dicembre sarebbe stato così freddo?! Era uscito dal suo bed and breakfast verso le undici di sera e si era messo a camminare dritto filato fino in piazza San Carlo, dov’era in corso uno spettacolo di musica dal vivo, condotto da un tal Paolo Belli che lui non aveva mai sentito nominare. Il palco era montato nel lato sud della piazza, le chiese gemelle di Santa Cristina e San Carlo con le loro facciate ottocentesche facevano da scenografia. Emil si addentrò nella calca, cercando di avvicinarsi al palco. Intorno a lui giovani e meno giovani seguivano il concerto infreddoliti. L’entusiasmo in giro era meno di quello che lui si era aspettato. In compenso il troppo baccano degli altoparlanti lo assordava e gli dava fastidio. Qualcuno beveva per riscaldarsi. Dopo la mezzanotte, dopo il momento di falsa euforia con il conto alla rovescia e l’apertura dello spumante, intorno a lui esplosero alcuni petardi per opera di due ragazzini scemi (ma i botti non erano stati vietati dal comune di Torino?). Comunque Emil fece un salto per lo spavento quando gli parve che gliene scoppiasse uno sotto i piedi. Lui, un ragazzone nordico prestante, doveva fare i conti con il cardiopalmo a causa di un paio di dementi. Ma non era colpa solo di quei piccoli idioti: Emil alla loro età aveva fatto pure di peggio. Il problema era che continuava ad avere i nervi scossi. A quel punto decise di allontanarsi perché anche per lui era arrivato il momento di bere qualcosa. Ma dove andare? Quali erano i locali aperti? Chiese informazioni a un gruppo di ragazzi di età compresa tra i venticinque e i trent’anni e quelli gli risposero che c’era un posto al Valentino, una discoteca, e che stavano andando proprio lì. Anzi, se voleva, poteva aggregarsi a loro che avevano la macchina. Emil non se lo fece ripetere e divenne parte della combriccola, anche se nessuno dei ragazzi si mostrò veramente interessato a lui. Nessuno gli chiese nemmeno chi fosse e da dove veniva. Una volta là bevvero, ballarono e si sballarano per diverse ore. Risero anche come pazzi, per delle sciocchezze, per delle battute buttate lì per caso, nel trambusto del locale, nel sudore della ressa, tra una birra e un cocktail. Emil si lasciò stordire da tutto quello che poteva distrarlo da se stesso. Cercava evasione e la trovò per una buona parte della notte. Voleva estraniarsi e
35 c’era riuscito. Tornò in sé quando una ragazza, una pantera borchiata con la metà dei suoi anni – chissà se era maggiorenne – gli si avvicinò con intento esplicito. Ridendo gli passò una sciarpa intorno al collo come per catturarlo. Eppure per qualche ragione lui non aveva voglia di avventure. La mezza sbornia di quella sera si era trasformata in una sbronza triste. Non aveva voglia di sesso occasionale, non era nemmeno in forze per farlo e sapeva che, in quelle condizioni, alla fine di tutto si sarebbe sentito ancora più vuoto. Così si defilò. Si allontanò dal gruppo di amici momentanei che lo avevano accompagnato fin lì e uscì dal locale, certo che nessuno si sarebbe accorto della sua assenza così come nessuno aveva in fondo fatto caso nemmeno alla sua presenza. Non chiese passaggi. I ragazzi erano già mezzi ubriachi nel viaggio d’andata, al ritorno non poteva che essere ancora peggio. Rimase seduto per terra al freddo, sull’erba umida del parco per un po’, finché non gli sembrò di essere lucido abbastanza per camminare senza il rischio di farsi investire. Menomale che l’alcol l’aveva sempre retto bene. Poi si mise in marcia. Il gelo lo svegliò del tutto. Emil non era contento di sé: per stare meglio avrebbe dovuto avere uno stile di vita più sano. Invece alla soglia dei trentasette anni si stava comportando come un ragazzino irresponsabile alla ricerca dello sballo. Non era quello il modo in cui aveva deciso di campare. Trascorrere il Capodanno in una discoteca alla stregua di un adolescente! Lui ambiva a vivere regolarmente secondo il salutare lifestyle italiano, invece fino a quel momento aveva assorbito solo il peggio. E quando stava al nord, oltretutto, entro mezzanotte era sempre a casa. Le giornate finivano prima lassù. Cena mai dopo le sette. Coprifuoco a mezzanotte. Le notti insonni se le faceva tutte tra le sue quattro mura, intento a scrivere con una brocca di caffè lungo e caldo, oppure a bere birra con gli amici, a seconda della circostanza. Sicuramente non vagabondava in giro come un disadattato. Non certo così. Durante la sua prima volta in Italia, a Bologna, quindici anni prima, era andata meglio, si era integrato subito con i suoi coetanei. Per carità, a vent’anni era tutto più semplice, non erano ancora accaduti gli eventi che lo avevano segnato e poi lui era inserito in un contesto di studio. Comunque, in verità, a Bologna erano tutti più ospitali, tutti molto più cortesi, e si mangiava persino meglio. Invece lì a Torino ognuno si faceva i fatti suoi, di ciò che lui combinava tutto il giorno non importava nulla a nessuno. L’essenziale era che non facesse troppo casino. Da un canto, meglio così. La riservatezza piemontese poteva non essere un male. E poi era solo come un cane, non conosceva anima viva, cosa poteva pretendere? Forse avrebbe dovuto trovarsi qualche attività sociale, frequentare una palestra, un corso di italiano, ma non ne aveva voglia, in realtà. Non era ancora pronto. E pensare che aveva optato per Torino per amore. Lei si chiamava Lucia, era bionda con i capelli ricci e l’aveva conosciuta durante il suo periodo bolognese. Lucia era di Torino e lì lo aveva condotto una volta, in visita. Ma
36 poi lui era tornato in Danimarca (lo sapevano entrambi che quella era una storia a termine) e i rapporti si erano allentati. Lui le aveva promesso che se mai fosse tornato in Italia, sarebbe stato a Torino, il luogo della loro intensa passione. Alla fine si erano proprio persi di vista, ma senza rancori, ed Emil serbava ancora un tenero ricordo di quei riccioli biondi e di quell’amore giovanile. Per lui Torino era la dolce alcova che aveva cullato alcuni dei suoi momenti più belli. Quello era il vero motivo per cui aveva deciso di vivere proprio lì. Il paradosso era che a Lucia non ci pensava neanche più, ma la città lo aveva stregato. In fondo era un posto magico, dicevano. Peccato però che Emil avesse un altro umore adesso e che la città non gli paresse più così ospitale. Eppure doveva tentare, doveva resistere. Ne era convinto: vivere lì lo avrebbe salvato, prima o poi. Bastava mettercisi di impegno. Chissà Sylvia che diavolo stava facendo in quel momento. Al diavolo Sylvia, non ci doveva più pensare. Era ora di cercarsi un alloggio e di riprendere a scrivere seriamente, di tornare nel bar-libreria di quella incantevole Anna dalle labbra di ciliegia e dall’inconsapevole bellezza fuori dal comune. Perché la sua vita era uno sfacelo, ma sapeva ancora riconoscere una donna bella e interessante, per fortuna. Doveva solo lasciar passare quell’inutile Capodanno già mezzo sprecato tra buoni propositi e alcol. Emil si richiuse la porta del bed and breakfast alle spalle e, ancora infreddolito, si lasciò ricadere sul letto. Un Capodanno di merda. Ma l’anno a venire, ne era convinto, sarebbe stato migliore.
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11.
Sylvia si alzò dopo mezzogiorno ed era ancora assonnata. Quando accendeva l’abat-jour, per qualche minuto riusciva a tenere aperto solo uno dei suoi occhi chiari e fotosensibili, ma le bastava. E poi doveva ancora smaltire i due scotch di troppo che si era bevuta. Afferrò il suo smartphone e controllò le notifiche di Capodanno. Aveva postato i selfie che si era scattata con gli amici per tutta la notte e lei, con quell’abitino blu di velluto attillato, modestia a parte, stava benissimo. Stava benissimo e lo sapeva, per questo l’aveva indossato in quell’occasione mondana, una festa cittadina a cui partecipavano molte persone, ma mai tante quante i suoi amici di Facebook (cinquemila). E siccome era giusto che tutti potessero vederla al top, aveva postato le foto più riuscite: quella che esaltava la lunghezza della sua coscia, quella che metteva in risalto l’acconciatura. Pazienza se gli altri comparivano con facce stravolte e smorfie assurde, anzi, meglio. La sua bellezza risaltava ancora di più. I suoi denti bianchi perfetti, i suoi capelli biondi e soffici. Tutti quanti avrebbero potuto ammirare, anche se solo in foto, quella sua mise così riuscita. Infatti i like non avevano tardato ad arrivare, già alle quattro del mattino ce n’erano ventidue e adesso era stata raggiunta la quota di trentuno. Solo nove in più ma del resto era comprensibile: al mattino di Capodanno molti dormivano, quindi Sylvia poteva perdonare e attendere di toccare la cinquantina entro la fine della giornata. Chissà se Emil aveva visto quegli scatti. Sicuramente li aveva visti anche se si guardava bene dal mettere un like, dal chiamarla o dal farsi vivo in alcun modo. Chissà se era stato colto dalla nostalgia. Perché in fondo Sylvia adorava collezionare assensi in rete, ma quando metteva il suo viso e il suo corpo (sempre pudicamente ed elegantemente vestito) a disposizione del web lo faceva indirizzandosi intimamente a qualcuno. In quel caso, quel qualcuno era Emil. Voleva dirgli: “Guarda cosa ti stai perdendo” e “La mia vita va avanti lo stesso”, anche se non era del tutto vero. Sylvia fece il giro delle caselle di posta elettronica e trovò solo spam, così chiuse momentaneamente il telefono e decise di buttare giù i piedi da sotto il piumone. Lasciò finalmente il suo letto di legno di betulla e zampettò sulla moquette senza indossare ciabatte. Si diresse in bagno e si osservò i capelli. Oddio che orrore, la sua acconciatura elaborata della sera prima era tutta disfatta e irriconoscibile. Non si sarebbe certo scattata un selfie in quelle
38 condizioni, che diamine. Non era un tipo da selfie alla toilette, lei, anzi, non aveva mai compreso la psicologia di chi si immortalava discinto e malconcio con una parete piastrellata e un water alle spalle. Lei attendeva di essere perfettamente in tiro e di avere uno sfondo per lo meno decente dietro di sé. Non era ossessionata dal numero delle pubblicazioni. Piuttosto postava un numero minore di foto, ma quelle poche dovevano essere degne e farle buona propaganda. Sylvia si lavò la faccia con un detergente per pelli delicate, si abbassò le mutandine e sedette sul water, ma poi ci ripensò, si alzò e andò a riprendere il cellulare. Nel frattempo erano comparsi ancora un paio di like per le foto del suo Capodanno. Bene. Ma adesso le interessavano le notizie del giorno. Voleva qualcosa di arguto da condividere con un commento, affinché i suoi cinquemila amici si accorgessero della sua intelligenza. Trovò due articoli, uno del Politiken e l’altro del Copenhagen Post (nessuno dei quali firmato da Emil) e ne scelse uno a caso. Non voleva dare ai suoi amici l’idea di essere una spammer. Un solo post di politica per quel giorno di festa era più che sufficiente. Stava ancora sul water quando ricevette un messaggio. “Ciao bella, hai passato un buon Capodanno? Ho visto le foto!” Era Casper, un tipo che aveva conosciuto online solo poco tempo prima. Le aveva chiesto amicizia senza un motivo e quindi il motivo era più che chiaro. Avevano chattato per un po’ e Sylvia gli aveva concesso la sua presenza virtuale. D’altronde, perché non essere gentile e simpatica con lui? Tanto probabilmente non si sarebbero mai incontrati dal vivo. “Hey, Casper! Sì, una festa spettacolare! E tu?” In fondo anche lui sembrava carino a sufficienza, altrimenti lei non gli avrebbe mai dato corda. Agli scorfani squallidi, a quelli troppo palesemente assatanati, o peggio a quelli volgari, nemmeno rispondeva. Con gli altri, con quelli più graziosi e fondamentalmente innocui, si intratteneva volentieri, seppure solo per chiacchierare, per ammazzare il tempo e per il gusto di flirtare. Difficilmente sarebbe andata oltre. Non ci si vedeva a combinare alcunché con uno di loro, perché non ne era innamorata e nemmeno molto attratta. A lei piaceva solo scambiare opinioni sperando che qualcuno apprezzasse le sue e divertirsi e fare quattro risate a tempo perso. Era un’estroversa, una che parlava con tutti senza uno scopo in particolare, se non quello di allargare il numero dei suoi amici. Emil spesso l’aveva sfottuta, ripetendole che la sua spigliatezza e la sua espansività erano un’eredità tutta italiana, un lascito della nonna materna friulana che aveva girato il mondo prima di stabilirsi nel Nord Europa. Per questo lui se n’era innamorato. Ma poi la sua esuberanza gli era diventata stretta. Si era sentito privato delle attenzioni che lei riservava agli altri. Sylvia comunque non era tipo da sesso occasionale e nemmeno da webcam
39 erotica. Ma questo Emil non lo aveva mai capito, quella testa dura, quel gelosone. Adesso chissà dov’era, chissà se era veramente volato fino in Italia pur di mettere mille chilometri di distanza con lei. Quel testardo, quell’incosciente. Sylvia si morse un’unghia dalla rabbia. Mille like sulla sua pagina Facebook, mille spasimanti in chat non compensavano il vuoto che lui le aveva lasciato, lui che era l’unico con cui lei sarebbe davvero voluta stare. Quel cocciuto, quell’orgoglioso. Quando si sarebbe deciso a tornare? Perché sarebbe tornato da lei, prima o poi, vero? Sylvia non poteva credere che non avrebbe più camminato con lui per il mercato alimentare di Torvehallerne, dove acquistavano alimenti biologici. E quando lui la accompagnava a Ravnborggade a scegliere oggetti vintage? E le loro passeggiate ai giardini di Tivoli? Le venne in mente il loro primo appuntamento, all’Arken Museum e l’estate di due anni prima, in cui erano stati molte volte ai canali balneabili, la grande spiaggia di Copenaghen. Erano giovani, erano biondi e si sorridevano guardandosi negli occhi. Bastava un raggio di sole per renderli allegri. C’era stato un tempo in cui tra loro vi era spensieratezza. Dopo erano accadute un sacco di cose brutte, era cambiato tutto, ma Sylvia non riusciva a credere che quel periodo di leggerezza e serenità fosse definitivamente concluso.
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12.
La prima a presentarsi al locale fu Amanda. Aveva un’aria distrutta, completamente sfatta e Anna si domandò cosa potesse aver combinato la notte di Capodanno per ridursi così. Non le era bastato un intero giorno di riposo per riprendersi e ora le stava davanti, tentennante e incerta, con occhiaie profonde e l’espressione di chi aveva accantonato, almeno momentaneamente, la sua sicumera. Raccogliendo le forze residue, Amanda le rivolse un sorriso mieloso come mai aveva fatto, e le disse, toccandole una ciocca di capelli: «Ciao, bella, com’è andato il Capodanno?» Anna socchiuse le labbra per la sorpresa. L’invasione del suo spazio e l’eccesso di confidenza la infastidirono. Quando mai Amanda era così gentile? E come si permetteva di metterle le mani addosso? Ma, soprattutto, cosa poteva aver visto quella notte per essere tanto diversa dal solito? Anna, dal canto suo, aveva trascorso un Capodanno di riposo. Dopo la bella serata con Alberto si era concessa una giornata di relax senza troppi pensieri. Si era alzata a mezzogiorno senza il consueto senso di angoscia. Era vero, si trattava di un giorno di festa, ma sarebbe volato via in fretta. E anche per il lavoro era meno ansiosa del solito: Alberto le aveva dato delle speranze. Insomma quel giorno, per la prima volta dopo tanto tempo, c’erano delle possibilità che forse aveva senso esplorare e quindi Anna era insolitamente ottimista. Nel pomeriggio Anna si era unita a Paoletta e Marco che portavano Annalisa al cinema a vedere Paddington. Lì Paoletta l’aveva osservata con curiosità, voleva sapere se le sue impressioni erano giuste: «Ho visto che ieri con Alberto avete parlato parecchio…» Indagò finché Anna, rossa in viso, non ammise: «Okay, avevi ragione tu, valeva la pena conoscerlo. Lo dico principalmente per il mio negozio…» Solo a quel punto, gongolando, Paoletta aveva sospeso l’interrogatorio: «Certo, certo… Per il negozio… ora però entriamo perché Marco ci sta aspettando dentro con i biglietti in mano.» Verso sera, era arrivato anche un messaggio di Alberto su Whatsapp: “Hai trascorso una bella giornata? Ti sei riposata? Allora passo in libreria domani, okay?” Insomma, l’inizio dell’anno nuovo faceva presagire bene.
41 Invece ora di fronte a lei c’era Amanda, che non accennava a scostarsi e che attendeva una risposta, mentre continuava a sorriderle sbattendo le palpebre. «Tutto bene, grazie. E tu, invece? Come hai passato vigilia e festa?» Di colpo Amanda si rabbuiò, le tolse le mani di dosso e raggomitolò su se stessa: «Mah, sì, tutto bene» aggiunse, bofonchiando imbronciata. Anna la guardò senza capire. Per dirla tutta, raramente comprendeva le reazioni della sua contabile. Emil si era svegliato presto quel mattino, dopo non essere quasi uscito dal letto per quasi ventiquattro ore, con una breve interruzione verso le otto di sera per andare in bagno, addentare un panino e bere un bicchiere d’acqua. Ma ora, sobrio e pieno di buoni propositi, voleva fare le cose per bene. Lifestyle italiano. Studio, lettura, scrittura e immersione completa nella città. Alzandosi aveva praticato un po’ di esercizio fisico, tanto per tenere tonici gli addominali, dopodiché si era concesso una doccia, si era sbarbato e infine vestito al meglio delle sue possibilità, con una camicia e un paio di jeans puliti, gli ultimi. Il resto della biancheria l’avrebbe portato tutto nella lavanderia a gettoni. Ce n’era una in via San Massimo, proprio di strada per “Parole antiche”, e menomale, visto che a Torino i posti di quel genere si contavano sulle dita di due mani. Dunque, rinnovamento della lingerie e dello spirito. Fece colazione nel bed and breakfast, ma si tenne leggero e poi, con un borsone sotto braccio, si mise in cammino. Si fermò solo in edicola per prendere un giornale di annunci con l’intento di trovare un bilocale arredato da affittare e lo spulciò tutto, annotandosi qualche indirizzo. Alberto infilò guardingo la testa nel negozio come per verificare di essere nel posto giusto. Quando incrociò lo sguardo di Anna, messa alle strette dall’invadenza di Amanda, sorrise. Anna, con sollievo, fece lo stesso. «Ciao!» Alberto la salutò con calore, guardandosi intorno con ammirazione. «Dunque è questo il posto? Cavoli, un negozio storico di assoluto pregio. Merita veramente di essere salvato e rivalutato! Lasciami pensare a qualcosa, poi facciamo un piano…» «Gradisci un caffè, Alberto? Una brioche?» Quando Emil entrò, col suo borsone pieno di vestiti puliti, stazzonati e secchi per l’asciugatura automatica, e un sorriso ebete stampato sulla faccia, Alberto se ne stava beatamente appollaiato al bancone del bar. Emil rimase interdetto per un attimo. Chi era quel bellimbusto che si agitava, allargava le braccia e guardava il soffitto mentre parlava ad alta voce come se fosse il padrone di casa? Un elemento di disturbo che proprio non ci voleva nel percorso di relax e instaurazione di nuovi rapporti che Emil aveva programmato per se stesso. Quanto aveva intenzione di fermarsi, quel tipo? Anna lo stava pure a sentire e sembrava persino molto presa. Però, a onor di cronaca,
42 quando Emil entrò, lei alzò gli occhi e gli sorrise apertamente, come se fosse realmente felice di vederlo. Lui le fece un cenno di saluto e si diresse silenzioso al suo tavolino. Alberto gli lanciò giusto un’occhiata indagatrice, mentre Anna gli si avvicinò per chiedergli se gradiva qualcosa. «Magari tra un poco», disse Emil, per avere la possibilità di colloquiare con lei con più calma. Sperò che il tizio al bancone se ne andasse in fretta, cosa che in effetti fece. Fu allora che Anna tornò da lui, gli si sedette accanto, portandosi una ciocca di capelli lisci dietro le orecchie con un movimento inavvertitamente sensuale e gli chiese: «Allora, come va?» Pareva davvero di buon umore ed Emil si domandò con una punta di stizza se ciò dipendesse dal bellimbusto al bancone e dalle sue ciance. «Bene», sorrise lui. «Hai trascorso un buon Capodanno?» «Ho cazzeggiato un po’ in giro. Cazzeggiato, è così che dite, vero?» «Sì!» Anna rise. «Chissà perché le parolacce voi stranieri le imparate tutte subito.» Emil notò che lei si comportava con familiarità e lo trattava quasi come se lui le fosse mancato. O almeno così gli parve. «Dici? Conoscenza della lingua completa!» commentò lui ridendo a sua volta. Poi aggiunse: «Mi sembri molto allegra! Ti è accaduto qualcosa di bello?» «Sì, in verità sì. Hai visto il ragazzo che era qua quando sei arrivato? È un esperto di marketing e si è proposto di aiutarmi a rilanciare il locale! Sai che ti dicevo che quasi quasi volevo chiudere? Beh, secondo Alberto non è il caso. Che dirti, mi ha dato speranza e quindi sono felice!» «Ah, un piano di rilancio», ripeté Emil domandandosi in cambio di che cosa quell’Alberto offrisse un tale impegno. «E quali sarebbero le sue proposte?» «Mah, ha detto che ci deve pensare, ma in linea generale gli sembra che la soluzione migliore sia quella di puntare sui libri antichi, tralasciando il bar.» «Ah…» Emil gemette perplesso. Lui non era un esperto di marketing, ma se avesse dovuto decidere, avrebbe fatto esattamente l’opposto. «Mi spiace per il bar.» «Oh, beh, qualche taglio va fatto, per forza di cose.» «Per forza di cose…» Emil fu tentato di dire ciò che realmente pensava. Per non farlo, svicolò. «Volevo andare a vedere il museo del cinema alla Mole Antonelliana, uno di questi giorni. Ci sei mai stata? È interessante?» Anna gli sorrise ancora: «La verità? Non ci ho mai messo piede. Succede sempre così, quando si vi-
43 ve vicino a un’attrazione turistica non la si sfrutta.» «Se ti chiedessi di accompagnarmi, ti farebbe piacere? Potresti colmare la lacuna e…» Lei sembrò spaesata, ma solo per un secondo, come se non si aspettasse tale proposta. Poi però si illuminò come se la cosa le andasse davvero a genio. «Okay, sarebbe carino… Magari sabato pomeriggio, che qui è chiuso… O la domenica mattina…» In quel momento Amanda uscì torva dal retrobottega e se ne andò sbattendo la porta, con una sigaretta in mano. Nessuno ci fece caso. FINE ANTEPRIMA Continua...