Luca Palumbo
IL PIANISTA NANO racconti
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IL PIANISTA NANO Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Luca Palumbo ISBN: 978-88-6307-298-3 In copertina: immagine Shutterstock.com
Finito di stampare nel mese di Giugno 2010 da Digital Print Segrate - Milano
A Irene, senza esitazione.
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IL PRATO IN MEZZO AL MARE
PRIMA PARTE La musica suonava alta e imperiosa, sovrastando trionfalmente i milioni di clacson che strombazzavano con ferocia nel traffico apocalittico della città. Le ariose e scozzesi chitarre dei Mogwai occupavano soavemente lo spazio del salotto, s'alzavano come maree e sfioravano il soffitto, poi si riabbassavano, dopo si rialzavano ancora. Carmelo nuotava estasiato in questo oceano di suoni elettrici, o almeno ci provava. Quando pareva essere assorbito dalle calde e calme note basse, schizzava impazzito dal sofà e cominciava a gironzolare per la stanza con ampie e nervose falcate. Teneva le mani giunte dietro il fondoschiena, poi se le portava al volto, infine se le sfregava. Borbottava freneticamente sottovoce, lanciava bizzarri gridolini, la faccia cambiava espressioni, saltellava di tanto in tanto. Evidentemente la musica non riusciva a calmarlo del tutto. Il suo cuore palpitava con veemenza e lo si poteva sentire nitidamente quando le chitarre scozzesi decidevano di dialogare con un armonico bisbiglio. Prendeva oggetti dai mobili: libri, giornali, souvenir, e li guardava col sangue agli occhi dopodiché li riponeva accuratamente dove li aveva presi, giocando di precisione. A tratti si portava una mano al petto e credeva di non poter respirare: boccheggiava, agitava l'altra mano, strabuzzava gli occhi. Carmelo, insegnante d'italiano alle scuole medie, era nevrotico ipocondriaco paranoico apprensivo a tratti ossessivo, ma tutto si vestiva di apparente tranquillità. Abbassò il volume della musica, sospirando profondamente; s'avvicinò al tavolo e prese una foto. Se la portò al petto, poi la baciò con delicatezza. Un nuovo sospiro. Si tranquillizzò per un po', un sorriso si sciolse sulle labbra e un vago senso di fanciullesca libertà lo invase in tutto il corpo. Si sentì beato. Tuttavia la dolce beatitudine durò soltanto qualche secondo; sprofondò in una caverna di tristezza, una tristezza comunque scossa da gesti frenetici. Si lamentò, pianse qualche schizofrenica lacrima, batté un piede a terra, poi si tuffò di nuovo sulla foto.
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Oh che visino delicato, che graziosa boccuccia, che occhi vispi e intelligenti, che testolina piena di brio! Io ti amo piccola mia e perdonami se ti ho rubato questa meravigliosa foto! Quando viene domani? Quante ore mancano? Quanto dovrò soffrire e smaniare ancora? Quanti tranquillanti dovrò buttar giù? Quante morti dovrò sfiorare? Carmelo portò la foto a una parete, come volesse attaccarla. La teneva appiccicata con le mani contro la parete mentre con lo sguardo cercava intorno a sé, forse dell'adesivo o delle puntine. Poi lasciò perdere, vinto da uno straziante pensiero. Ma no, ma che ho in mente di fare? Non posso farlo, non posso attaccarti alla parete e stare tutto il giorno a guardarti! Questa é anche la casa della mia compagna. Dove metterla ora? Cucita nella stoffa delle mie scarpe? Schiacciata sotto la notevole pila dei miei romanzi dell’ottocento? Persa nei milioni di pagine dei lavori più impegnativi di Dostoevskij? La scoprirebbe anche se la nascondessi in un angolo angusto della mia anima più recondita. | Carmelo riprese a camminare nervosamente per il salotto con la foto tra le mani. I suoi lunghi piedi s'abbattevano violentemente sul pavimento, il suo respiro s'affrettava. Sembrava che ora stesse pensando a qualcosa, forse a una soluzione. Forse devo confidarlo a qualcuno, non posso perdere del tutto la testa senza che nessuno lo sappia. D'improvviso si fermò e si grattò il mento. Rimase così per qualche lungo secondo. S'avvicinò al telefono. Lorenzo. Già, Lorenzo, colui che dovrebbe essere il mio migliore amico. Perché no? Carmelo alzò la cornetta e fece il numero di Lorenzo Spiattella, porno fotografo, suo grande amico da sempre. Cominciò a tremare. Si tastò il polso. “Sììì?” disse una voce alterata al di là della cornetta. “Ciao Lorenzo.” salutò Carmelo. “Non è possibile, non è umanamente possibile che mi chiami sempre quando sono al cesso. La tua è una maledetta congiura.” “Mi dispiace.” “Ora non mi uscirà nemmeno più un quarto di stronzo! Contento?” “Scusami.” “Cos'é successo, hai scoperto un'altra malattia immaginaria?” “Devo confidarti una cosa.” “Spero sia qualcosa di sensazionale, amico mio.” “Se ti dico questa cosa devi promettermi di non giudicarmi.”
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“Fotografo vagine squartate, cosa vuoi che giudichi? Avanti, parla.” Carmelo trattenne il fiato, chiuse gli occhi, si portò una mano al petto. “Mi sono innamorato di una mia alunna di tredici anni…Anita. Mi chiedo se ho perso la testa, cioè se ho perso il mio equilibrio. Sì, sento di essermi innamorato di lei.” Cinque secondi di silenzio. Carmelo sentì un sospiro paziente dell'amico. “Immagino sia la migliore alunna della scuola.” disse Lorenzo. “La migliore da quando insegno.” Carmelo sentì un sorriso dell'amico. “Scommetto che legge già Dostoevskij.” “Gogol'. E parla francese…come i francesi.” “Ma com'è potuto succedere?” “E' stata lei. Cioè, voglio dire che forse Anita é innamorata di me prima che io lo fossi di lei.” “Sguardi?” “Dovresti vederla quando mi guarda! Mi sento squagliare, svenire, ogni volta. Appoggia il mento sui pugni delle sue manine sul banco e mi guarda e mi ascolta come fossi Gesù Cristo.” “E tu in quei momenti ti senti Gesù Cristo.” “Quando la interrogo é praticamente un supplizio. Non facciamo altro che guardarci. Ho paura che qualcuno se ne accorga.” “Ti dice mai nulla che non riguardi la scuola?” “Sempre. Ogni volta che finisce la lezione mi s'avvicina e mi chiede qual è l’autore dell’ ottocento che preferisco e cosa mi piace fare oltre che insegnare e leggere classici.” “Fantastico. E tu, cosa le dici?” “Al principio balbetto e lei avverte la mia emozione e arrossisce, poi riacquisto il controllo e le parlo come fosse la mia amante da anni. Le parlo di Dostoevskij come se fosse un personaggio di un mio ipotetico romanzo, cioè lo invento, e lei ne resta estasiata. Poi però le parlo anche delle mie passeggiate solitarie sulle rive della ferrovia di tutti i ponti della città. Di questo lei ne è addirittura affascinata.” “E’ grave.” “E' così.” “Come ti senti?” “Sull'orlo di un collasso.” “Ovviamente.” “Il fatto è che non la trovo una cosa così assurda essermi innamorato di lei.”
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- Non è una cosa assurda, è una cosa...una cosa d'artisti, sì.” “Dici? Sono un artista?” “Non ancora, ma finalmente ora hai fatto qualcosa da grande artista.” “Qualcosa da grande artista? E che vuoi dire? Forse mi stai prendendo in giro.” “No, tutt'altro. Anch'io sarei capace di fare una cosa del genere, sai. Io sono un artista, un grande artista. L'immoralità è dei mediocri.” E rise. Carmelo si portò disperato una mano sulla fronte. Forse aveva sbagliato a chiamare Lorenzo. “Lorenzo?” Ma Lorenzo non rispose. Altri cinque secondi di silenzio che Carmelo trovò insopportabili. “Lorenzo?” chiamò ancora, quasi implorando. Carmelo sentiva l'amico sospirare pensieroso. “Forse stai pensando che me la voglia scopare?” “Non lo penso affatto, sono un porno fotografo, non un pervertito.” “Giuro che non c'ho mai pensato.” “Ti credo, sei un uomo irreprensibile.” “Cosa dovrei fare secondo te, ora?” Altro silenzio. Carmelo sentì che l'amico stava cercando la risposta. “Goderti per un po' questo colpo di genio.” rispose Lorenzo. “Ma non ce la faccio!” “Stronzate, la scuola è quasi finita, lei andrà alle superiori e non la vedrai più.” “E se non fosse così?” “Hai forse intenzione di sposarla?” “E Alice? O comunque colei che dovrei chiamare “la mia Alice”? Come la mettiamo?” “Semplice, non dirle un cazzo.” “Ma é la mia compagna e convivente! S'accorgerà del mio malessere, dovresti saperlo. Avrò una crisi, potrei perdere ancora di più la testa.” “Magari verrò a trovarti tra qualche giorno e sistemeremo tutto, d'accordo?” “Grazie amico. Ti ospiterò.” “Naturalmente. Sta' tranquillo. E non impazzire.” “Ce la metterò tutta.” “A presto, genio.” “ Sì, a presto.”
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Carmelo riattaccò. Ed attaccò a piangere istericamente, versando lacrime sulla foto di Anita. Alice rientrò alla solita ora, sbattendo la porta di casa, come al solito, e, come al solito, trascinò con sé il suo odore di vaniglia e un sorriso stanco e soddisfatto. Trovò Carmelo sprofondato nel sofà con le mani che s'aggrappavano disperatamente ai braccioli. Gli occhi guardavano impazziti la compagna. Stava tremando. Sembrava quasi sul punto di vomitare, di aprire la bocca e di gettare fuori pezzi di verità nascoste. Era in piena crisi di panico, volava sull'aereo delle sue paranoie fritte e rifritte e su grasse gocce d'ipocondria. S'afferrava ai braccioli del sofà con tutte le sue forze come se il suo aereo stesse tragicamente precipitando. Alice ci era abituata. Buttò la borsetta sul divano, portò le mani ai fianchi e guardò Carmelo, quasi divertita. “Quanti metri mancano? Hai confidato il tuo più grande segreto a qualche passeggero?” Gli parlava quasi sempre in questo modo, cercava di tirarlo su con l'arma dell'ironia e spesso aveva successo. Era stata lei a tirare fuori la storia dell'aereo che precipita, poco dopo le prime crisi. “Stavolta credo di morire sul serio.” disse Carmelo con un fil di voce arrochita. “Non c'è il mare sotto? Se c'è alzati e buttati dall'aereo. C'è un cane che rema una scialuppa che sta arrivando in tuo soccorso. Non lo vedi?” Alice si sedette sul divano, di fronte a Carmelo. S'accese una sigaretta. “No. Stavolta sotto di me vedo una spietata catena montuosa. Sto per sfracellarmi. Preferisco morire stando seduto.” Carmelo sudava. “Dai, schiodati da quella poltrona.” “No, non posso. Il comandante dice di restare seduti.” Alice rise di gusto. “Bene, ora c'è anche un comandante! Dai alzati che andiamo a cucinare qualcosa, su!” Alice s'alzò e s'avvicinò al compagno. Carmelo aprì la bocca in tutta la sua larghezza: “Nnnoooo! Non ora! Non ora! Porca puttana!” Alice sobbalzò, poi rimase di sasso a qualche centimetro da Carmelo. “Va' tu in cucina, ti prego. Voglio prima schiantarmi sulle Ande, poi tutto passa e ti raggiungo, eh?” Alice, senza fiatare e allibita, annuì scuotendo i riccioli neri, girò i tacchi e corse in cucina. Poi si perse nel terremoto del pentolame.
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Carmelo parve rilassarsi: rifiatò profondamente, allentò la presa sui braccioli, smise di tremare. S'alzò dal sofà molto lentamente, prese la foto di Anita che era stata nascosta sotto il suo culo, e scappò in bagno. Lì vomitò. Porca miseria, che fare? Non ce la farò mai a nascondergli la storia di Anita e questa cazzarola di foto. La mia bocca parlerà senza che io lo voglia, lo so, lo so bene. Se non parlerà io morirò di crepacuore e se parlerà e dirà la verità lei morirà buttandosi dalla finestra. Uno di noi morirà, comunque. Carmelo sputò sullo specchio e uscì dal bagno. Cenò parlando il meno possibile dopodiché propose subito un film da vedere, imperdibile e da vedere senza fiatare. Dopo il film, e dopo un breve commento, lui fu il primo a mettersi a letto. Imbottito di sedativi, sguazzò quasi subito nell'oceano del sonno, non vide neanche Alice sdraiarsi al suo fianco. E la sognò. Lui le cantava i versi d'amore di un poeta cileno e lei lo ascoltava in estasi, con gli occhi chiusi e con un fiorellino azzurro tra le piccole labbra rosa. Erano distesi su un prato circondato dal mare. Terminate le poesie lui s'accostò di più a lei e le accarezzò una guancia. Lei mugolò. Lui pure. Il mare suonava carezze in lontananza e il prato era un'amaca che dondolava sotto i loro corpi leggeri. Lui sussurrò il nome di lei. Anita dormiva, ignara del suo sogno. Erano le sette e tre quarti e aspettava l'autobus alla fermata. Con lui c'erano tre donne che leggiucchiavano un quotidiano, nel senso che una teneva aperto il giornale, le altre due sbirciavano alle sue spalle, cercando di non farsi notare. Carmelo era talmente assorto nei suoi pensieri che non s'accorgeva delle tre donne e rischiava di dimenticarsi dell'autobus che attendeva. Se fosse passato in quel momento, lui non l'avrebbe visto. Vedeva solo i suoi pensieri. Pensava ad alcune parole che Lorenzo, il suo amico porno fotografo, gli aveva detto al telefono la sera prima: "finalmente ora hai fatto qualcosa da grande artista". Cos'è fare qualcosa da grande artista? Cos'è fare qualcosa di talentuoso? Cos'è fare una genialata? Ma sì, è arrivare quasi a spezzare il proprio equilibrio, e se si persevera nella genialata, nell'atto talentuoso, si finisce per reciderlo definitivamente, quell'equilibrio. E' questo che io sto facendo? Sto buttando in malora il mio trentennale equilibrio? Ci sto vicino? Pare di sì, perché mi sento di confondermi spesso. Bevo solo un po' il sabato sera, ma giusto un po', perché ho paura dei postumi della sbronza. Ho fumato soltanto uno spinello in vita mia e ho creduto di morire schiacciato dalle paranoie, quindi non fumo spinelli perché cre-
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do che poi potrei morire schiacciato dalle paranoie, e potrei ammattirmi. Non vado allo stadio e ai megaconcerti perché se c'è qualche tafferuglio la mia apparente ma importante eterna pacatezza potrebbe frantumarsi in mille pezzi, quindi potrei ammattirmi. Ho letto e leggo tuttora solo letteratura classica e con quella mi sono nutrito e mi nutro ancora adesso, rafforza il mio equilibrio. Una volta che lessi due pagine di Bukowski e due di Fante, mi misi a piangere, perché sentii di aver tradito il mio equilibrio. Ho scelto Alice, l'ho conosciuta col contagocce, mi sono innamorato di lei e la sposerò l'anno prossimo. Ho deciso così, e se non dovesse succedere, potrei impazzire. Ho paura di spezzare il sottile filo dell'equilibrio. Ho paura di diventare matto. Ed ora, invece? Faccio la genialata! Il colpo del grande artista! Mando tutto a cacare, equilibrio compreso, e m'innamoro di una mia alunna di tredici anni. E ora so, se perseverò in questa storia, che diventerò matto. Ho discrete possibilità. Il bello è che, in momenti come questo, non me ne frega proprio niente. O quasi. L'autobus arrivò fortunatamente nell'istante in cui Carmelo smise di pensare. Salì sul mezzo e tentò, a fatica, di incastonarsi nel mosaico di gente che andava a lavorare, o comunque che sembrava che andasse a lavorare. Carmelo stringeva forte i suoi libri di testo come uno scolaro, si guardava attorno ed ascoltava. Parlavano di tante cose, innumerevoli cose; gli argomenti erano parecchi, di tutti i tipi, anche di notevole interesse. Ma nessuno parlava di ciò che era nella testa di Carmelo, e Carmelo sorrise di questo, quasi trionfante. Lui pensava ad Anita, lui ora si sentiva un artista, aveva fatto qualcosa di non comune rispetto agli altri e pensava diversamente dagli altri. E gli si allargò il cuore, perché sicuramente anche Anita era nella sua predisposizione d’animo. Scoppiò quasi a ridere di gioia, avrebbe voluto urlare la sua storia in quell'autobus strapieno e puzzolente, avrebbe voluto dire a tutti che ora stava andando ad ammirare il piccolo volto amato e che avrebbe goduto dell’amore per due ore, quelle di lezione nella classe di Anita. Ad un tratto, repentinamente, tornò serio e grave in volto, il suo equilibrio lo rimproverò in pieno petto, e Carmelo crollò nello sgomento. Per un attimo si sentì osservato dagli altri passeggeri, credendo di stare sul punto di essere linciato. Entrò in classe, uno stanzone perennemente illuminato dal buio dal sapore di vecchio. Entrò con le gambe che gli tremavano e a capo chino.
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Evitò di guardare i suoi alunni della terza A e, soprattutto, non tentò nemmeno di allungare la coda dell'occhio alla sua destra, appena dopo la soglia della porta, dove, nella prima fila di banchi, sedeva Anita. Sentì il tremore delle sue gambe insopportabile e fece un balzo per accasciarsi il prima possibile sulla sedia dietro la cattedra. Appena fu seduto avvinghiò con le mani i braccioli della sedia e rimase in apnea per diversi secondi. Stava di nuovo precipitando col suo aereo di paranoie e panico. Poi si rilassò e, distrattamente, aprì un libro di testo e lo sfogliò senza leggere. Lo fece per dieci lunghi minuti, contento che gli alunni non gli dessero retta, contento di sentire un continuo borbottìo, parolacce, rutti e persino scoregge. Finalmente si decise di alzare la testa, a girarla lentamente verso destra e, con trepidazione, a guardare Anita. Si sentì squagliare. Anch'ella lo guardava e probabilmente già da diverso tempo. Tuttavia lui non distolse lo sguardo. Il cuore cominciò a martellargli il petto, i polsi, la giugulare e le tempie. Doveva resistere, doveva aggrapparsi al filo del suo equilibrio, altrimenti sarebbe letteralmente ammattito, lì, dietro la cattedra, davanti ai suoi alunni, e tutto sarebbe finito. Lei abbassò lo sguardo e aprì il suo diario, sfogliando con grazia le pagine, quelle pagine che fino al giorno prima avevano racchiuso una foto, una sua istantanea. Chiuse il diario, guardò nuovamente Carmelo, appoggiò deliziosamente la testa bruna su un pugno e sorrise. Sapeva. E aveva voluto farglielo capire. E Carmelo capì. Sa! Lei sa! Sa che sono stato io! Sa che io le ho vergognosamente rubato quella bellissima foto! Sono stato ingloriosamente scoperto! Mi ha scoperto! Che umiliazione! Ma è contenta, glielo vedo in quegli occhi, è chiaro, è palese! E' felice che io stia le ore ad ammirarla in quella foto, ne prova addirittura piacere. Non dovrei affliggermi, no. L'equilibrio scricchiolò e Carmelo s'adoperò nel suo secondo colpo di genio. Respirò profondamente, s'alzò dalla sedia, si parò dinanzi alla cattedra, chiuse gli occhi, infilò elegantemente le mani in tasca, appoggiò il culo ai bordi della cattedra, sollevò la testa verso il soffitto ammuffito, incrociò i lunghi piedi, tossicchiò per attirare l'attenzione e partì, si perse e tornò dopo più di un'ora e mezza. S'era inventato una voce dolce e soave ed aveva recitato alla perfezione quarantatré poesie di un poeta cileno, sempre nella stessa posizione, isolandosi da ciò che era al di là della sua nuova voce e dei suoi occhi chiusi, immaginando il sogno della notte scorsa, il prato in mezzo al mare. Quando l'incantesimo svanì e lui riaprì gli occhi, vide tutti i suoi alunni accasciati sui banchi, sembravano cadaveri fatti secchi da un plotone d'esecuzione. Sentì il loro innocente ronfare. Tutti sonnecchiavano, tranne lei. Carmelo girò
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la testa alla sua destra e vide che Anita lo guardava rapita, con la testa appoggiata a un pugno, come quasi due ore prima. Sorrise. Sorrise anche Carmelo, stavolta intrepido, per almeno un minuto. Poi la campanella svegliò i ragazzi e l'aula, in meno di dieci secondi, si svuotò. Restò soltanto lei. Carmelo si voltò per mettere ordine tra i suoi libri di testo sulla cattedra quando sentì un inebriante odore che gli si avvicinava al collo. Sentì che gli ronzava qualcosa nella testa. Forse era ora d'impazzire, pensò. Si girò di scatto e si trovò il corpicino di lei a pochi centimetri dal suo. La sua piccola e misteriosa bellezza gli fulminò il cervello, gli carbonizzò i neuroni, l'odore dei suoi sensi si sprigionò dal suo corpo terrorizzato. Ecco, ora mi dirà della foto e io mi vergognerò a morte e impazzirò davanti a lei e lei si spaventerà e scapperà via e non tornerà più a scuola ed io impazzirò ancora di più oppure tornerò nella casa del mio equilibrio… “Stanotte l'ho sognata” disse una voce deliziosa di moderato tono. “Cos'hai sognato, scusa?” Carmelo, per un istante, ebbe la terrificante sensazione che potesse pisciarsi addosso da un momento all'altro per l'insostenibile emozione. Anita sorrise ancora. In realtà non smetteva quasi mai di sorridere. “Ma lei, professore, ho sognato lei.” Anche Carmelo provò a tornare a sorridere, ma gli venne fuori una smorfia assurda. “Me?” Non può essere, anch'io l'ho sognata stanotte. No, non può essere, è tutto finto, è tutta un'assurda commedia, una storia che non può esistere, una farsa, dolce, ma una farsa. “Eravamo sdraiati su un prato verdissimo circondato da un mare tutto blu intenso.” “Blu intenso…” Sono pazzo, è ufficiale, sono diventato decisamente e incontestabilmente pazzo e questa meravigliosa ragazzina non è altro che una visione, un delirio, un'immagine della mia follia. Da quando sono pazzo? E' passato già molto tempo? Come lo sono diventato? Qualcuno si sta prendendo cura di me? Sono chiuso in un istituto? Sono nel giardino a fare due passi e questa è l'ora del mio delirio? Le gambe di Carmelo si piegarono. Stavano cedendo, e forse tra non molto sarebbe crollato a terra, davanti a lei, miseramente. “Recitava le stesse poesie che ha recitato prima.”
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Carmelo si tirò su. Anita era serena e non pareva turbata dal panico che traspariva dalla fragile tranquillità del suo professore. “Sul serio?” “Sì. Il prato era piccolo ma bellissimo e si sentiva il mare come una musica e poi…” Anita si portò una manina al mento come per ricordare. Carmelo stava ormai per morire. “E poi?” chiese quasi senza voce. “E poi…poi niente, mi sono svegliata.” Carmelo allentò di colpo la tensione e mollò una scoreggia silente. “E' stato un bel sogno?” domandò timidamente, forse riacquistando un pizzico della sua vera tranquillità. “Sì, ma un prato in mezzo al mare aperto non è poi una cosa proprio bella.” “Perché?” “Perché significa che non abbiamo via di scampo, che siamo costretti a stare noi due da soli isolati da tutto e da tutti, circondati da un oceano, cioè dalla paura, perché non possiamo essere liberamente fra gli altri. Se qualcuno di noi due dovesse disperarsi non potrebbe fare altro che buttarsi in questo mare di paura. E quindi morire.” Carmelo sentì il vuoto sotto di sé e attorno a sé, la testa prese il volo verso una grassa nuvola nera, diventò cieco, non riuscì ad aggrapparsi a niente e cadde rovinosamente al suolo, urtando la ragazzina. Svenne. Finalmente. L'autobus era quasi vuoto e Carmelo sedeva abbattuto accanto a una donna robusta e sudaticcia. Era bianco quasi cadaverico e aveva mal di testa. I suoi colleghi gli avevano mollato troppi schiaffi per farlo rinvenire e gli avevano fatto troppe domande su quello che gli era accaduto, domande alle quali lui non aveva dato risposta. S'era deciso all'unanimità per un improvviso sbalzo di pressione, senza consultazioni competenti, anche perché Carmelo aveva energicamente rifiutato di farsi portare in ospedale o di far venire un medico a scuola. Anita aveva dato l'allarme; aveva raccontato che gli stava chiedendo lumi su una lezione e l'aveva visto crollare a terra come una pera, così, all'improvviso, senza segni premonitori. E' incredibile. Quella ragazzina deve essere una creatura sovrannaturale della mia perduta fantasia, non vi è altra spiegazione. E' venuta alla luce per rapirmi, per portarmi con sé nel suo misterioso pianeta della mia
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perduta fantasia. Ed io la amo, perché la sogno, e lei mi sogna. Questo è amore, è un amore che non ho mai sentito. “Ma che bella bambina! E' sua figlia?” gli chiese improvvisamente la donna robusta e sudaticcia seduta accanto a lui. Era da molti minuti che lo vedeva assorto sulla fotografia di Anita. Carmelo alzò uno sguardo ebete verso di lei. “E' mia nipote, la mia unica nipote. E' all'estero, e mi manca moltissimo.” “Deve amarla proprio tanto.” Carmelo fissò ancora di più l'ebetismo del suo sguardo negli occhi perplessi della donna. “Eh sì, devo amarla proprio tanto.” Era sprofondato sul sofà, illuminato da una piccola lampada, stavolta non in preda al panico bensì ad una sorta di stato di totale ebetismo; lo sguardo irradiava i suoi morti raggi verso la porta di casa, le mani penzolavano senza segni di vita, respirava molto piano, come fosse un'occupazione che non lo interessasse affatto, che avrebbe potuto anche smettere di fare da un momento all'altro. Sentì una chiave insinuarsi febbrilmente nella serratura, sentì delle voci. La porta s'aprì. Vide un fascio di luce, vide Alice entrare e vide un tipo alto dai capelli ricci dietro di lei. “Eccolo lì, lo vedi? E' sempre seduto su quel cavolo di sofà. Lo vedessi mai in un posto diverso quando rientro!” disse allegra Alice all'uomo alle sue spalle. “Carmelo!” urlò Lorenzo dirigendosi verso l'amico con un balzo. Carmelo, forse felice, s'alzò e l'abbracciò con un certo calore. Alice li guardava intenerita. “Preparo subito un aperitivo?” chiese Alice avviandosi in cucina. “Perché no?” disse Carmelo afferrando un braccio dell'amico e trascinandolo con sé in un'altra stanza, lo studio. Anche quella sera nel salotto regnava la musica alta e Carmelo, prima di trascinare Lorenzo nello studio, aveva alzato ancora di più il volume. Si sedettero uno di fronte all'altro. “Sto perdendo l’equilibrio.” disse subito Carmelo. “Non ne hai motivo. Finirà tutto presto.” “E se invece non dovesse finire un cazzo di niente?” “Cosa vuoi dire? Vuoi forse restare innamorato a vita di una ragazzina? Te l'ho già detto: la scuola sta per finire e non vi rivedrete mai più.” Lorenzo parlava con calma, lavorandosi del tabacco in una cartina.
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“E se non ci dovessi arrivare alla fine della scuola?” Lorenzo stava per infilare il filtrino nella cartina ma rinunciò per guardare dritto negli occhi il suo amico. “Ti vuoi ammazzare?” “Potrei morire pazzo.” Lorenzo fece un gesto di stizza con la mano sinistra, mentre con la destra teneva la cartina col tabacco. “Mi dici perché cazzo sei così fissato con la storia della pazzia? Ti sei innamorato di una tua alunna tredicenne, embè? La tua vita non andrà certo a puttane. Niente sarà stravolto, è soltanto un avvenimento particolare della tua vita. Tutti abbiamo almeno un avvenimento particolare nella vita. Questo per te è il primo, bisogna riconoscerlo, ma che male fa? Non ti stravolgerà niente. Anzi, cerca di goderti questa cosa e prendila come un'esperienza artistica, in un certo senso di gran classe.” “Sì, e poi?” “E poi cosa? Hai paura che Alice venga a saperlo? Non lo saprà mai e certamente tu non dedito ad atti avventati e imprudenti.” “Ma non è solo questo che mi preoccupa, lo capisci?” Carmelo guardò Lorenzo con espressione implorante. Lorenzo lo guardò come un cane incuriosito e perplesso. “Che cazzo dovrei capire?” disse terminando di girare la sigaretta. “Che è il mio equilibrio che mi fa paura. Non è soltanto il timore che Alice o qualcun altro venga a sapere di questa storia che mi strapazza i nervi. Non è il timore di essere probabilmente accusato di pedofilia a torturarmi. Ma è pure, e soprattutto, la fottuta paura che il mio meraviglioso equilibrio mentale se ne vada a farsi fottere dopodiché addio a tutti, la follia mi mangerà vivo. Mi viene quasi da rabbrividire a pensare che io possa perdere il mio equilibrio, che possa perdere completamente la bussola, e tutto ciò che fino ad ora ho costruito lucidamente nella vita si sfascerà con una sola scoreggia.” Lorenzo s'accese la sigaretta e aspirò con evidente piacere la prima boccata. “Tu esageri. Esageri perché sei paranoico, ma fidati del tuo migliore amico: devi stare tranquillo e vivere questa cosa nella massima serenità e positività, come stessi bevendo dell'ottimo vino. Tutto si cancellerà da solo, rimarrà il buon sapore e nulla più, e di questo dovrai essere contento.” Carmelo scosse la testa. “Non puoi dirmi cose del genere, no no. Lo so bene che è una bella cosa ma…ma io non la reggo, capisci? Sta spezzando il mio equilibrio e
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io, nella mia situazione psichica, da sempre, non posso permettere che il mio equilibrio si sfracelli. Sento che innamorarmi di Anita è forse l'esperienza più inebriante della mia vita, ma tengo di più alla buona salute del mio equilibrio. Voglio morire con un cancro ai coglioni grande come una casa, ma non voglio morire mentecatto.” Lorenzo lo guardava alquanto sbigottito. “Me la sono sognata.” riprese Carmelo guardandosi le mani. “Eravamo distesi su un prato verde in mezzo al mare. Solo io e lei, delle poesie cilene e tutto questo mare intorno.” “Un bel sogno.” “L'ha fatto anche lei.” “Sul serio?” “Dice che non è poi così bello stare noi due da soli su un prato in mezzo al mare. E ha ragione. Non può funzionare, perché non è possibile restare a vita su un prato in mezzo al mare. Dopo un po' vai fuori di testa, ti alzi, corri e ti butti. E crepi, pazzo, in un mare di paura.” “Tu esageri, esasperi, come sempre.” Lorenzo sbuffò. Poi ci fu un lungo minuto di silenzio, in cui Carmelo continuava a guardarsi le mani, mentre Lorenzo guardava il suo amico fumando con gusto. Sembrava lo stesse studiando, che stesse cercando una soluzione. “Mi dici che cazzo posso fare io per te?” gli chiese. Carmelo finalmente lo guardò. “Niente di straordinario. Stammi solo un po' vicino, così se starò per diventare realmente pazzo, sarai il primo ad accorgersene e dovrai subito prendermi a cazzotti in faccia prima che sia troppo tardi. Se allora non avrò reagito, vattene senza fare nulla, perché avrò deciso di mia spontanea volontà di diventare pazzo.” “E per adesso?” “Complicità, voglio complicità e voglio che Alice non veda soltanto me in questa casa in questi giorni.” Lorenzo annuì col capo, poi s'alzò e abbracciò l'amico, ma Carmelo sentì che forse Lorenzo non aveva capito molto. Stava per dirgli: "io l'amo, ma ho paura", ma lasciò perdere. Lo so, capisco anche te mio caro Lorenzo, io esagero, porto tutto all'esasperazione, ma ho paura, c'è qualcosa che salta nella mia testa. Salta salta salta salta e mi sento la mente calpestata e sento sempre uno scricchiolìo, il mio equilibrio si sta spezzando e vedo che il prato in mezzo al mare si fa sempre più piccolo e lei urla disperata ma io, impazzito, continuo a leggere quelle stracazzo di poesie cilene.
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Andarono in cucina: gli aperitivi erano pronti, Alice era raggiante e la musica suonava alta e imperiosa, come ogni sera. L'aveva sognata anche la scorsa notte, e sempre in quel bellissimo prato verde in mezzo al mare, quel fiorellino azzurro tra le sue piccole labbra rosa. Lui le aveva recitato un sacco di poesie cilene, l'aveva accarezzata e poi s'era svegliato terrorizzato. Gli era sembrato che Anita gli avesse sussurrato in un orecchio, quasi ridacchiando: "su questo prato impazziremo, e tu morirai per ultimo, molto più pazzo di me." Ma non ne era convinto e ciò non lo rassicurò per niente. Se Carmelo avesse soltanto immaginato quella frase, allora significava che stava sulla strada che non desiderava affatto percorrere: quella dei primi sintomi della pazzia. Entrò in classe e cercò di dimenticare tutto. Spiegò macchinalmente la lezione nell'aula illuminata dal buio e si tuffò nella contemplazione del suo quadro preferito. Guardò Anita per due ore e la sognò su quel prato in mezzo al mare e provò dolore e fastidio perché desiderava sognarla diversamente, averla diversamente. Ogni tanto sentiva nitidamente uno scricchiolìo: era il suo equilibrio che dava chiari segni di cedimento. E allora si destò e le sorrise timidamente e, così gli parve, per la prima volta osò guardarle il piccolo petto che fioriva in pace. Lei gli offrì i suoi grandi occhi, ma stavolta con un'immensa vena di tristezza. Aveva visto nel volto di Carmelo il prato in mezzo al mare, e anche lei sentì forte il desiderio di sognarlo e di averlo diversamente. Le due ore terminarono e si ritrovarono soli, come sempre. Lui stavolta non fece finta di dare ordine ai suoi libri e lei gli si avvicinò, stringendo un libro al suo petto. Si guardavano con amara tenerezza. “L'ho sognata anche stanotte, sempre su un prato in mezzo al mare.” disse lei con voce flebile. “Anch'io, e stavolta ho sentito della tristezza. E anche della paura.” “Dipende da lei, professore.” “Cosa?” “Dovrà essere lei a decidere se vogliamo continuare a vederci su un prato in mezzo al mare e soffrire, oppure aprire del tutto gli occhi e la mente e tuffarci in qualcosa di realmente palpabile.” “Soffriremmo comunque.” “Sta a lei decidere se vogliamo soffrire nel sogno o nella realtà.” Carmelo abbassò il capo e guardò il pavimento. “Tu non hai ancora conosciuto la paura.” “Forse vuole dire che lei ha paura di me?” Carmelo rialzò il capo e la guardò di nuovo, con un mesto sorriso.
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“No, ho paura di me stesso, ho paura del mio equilibrio che sta per rompersi e io ho vissuto sempre su questo equilibrio e…” “Ha paura d'impazzire?” Carmelo smise di sorridere e la guardò con gravità. “Apparentemente non ho chiari segni di follia. So che qualcosa sta cambiando, che l'ipocondria non m'assilla più di tanto, che forse non sono più ossessivo e apprensivo. Ma tutto questo mi spaventa, perché non so dove sto andando e io non riesco più a vedere da qui a un metro e so che da un giorno all'altro la luce nella mia testa mi abbandonerà.” “Vuole mollare tutto?” gli domandò Anita malinconica. “Io…Io non so nemmeno se tutto questo scombussolamento è perché…perché…” Perché non riesco a dirlo? Perché non dirle che l'amo? E' il mio presunto equilibrio che mi rende così idiota? E questi pensieri stanno spezzando questo presunto equilibrio? Dovrei essere contento? Tutto potrebbe andare per il meglio, no? Perché avere sempre paura di ciò che non so a priori? Perché nascondermi sempre dietro a un albero e sbirciare da lontano? Perché non dirle che l'amo? “Credo di essere molto confuso.” disse, e si portò una mano tra i capelli. Lei gli accarezzò una guancia e lui, per sua grande sorpresa, le accarezzò quella manina sul suo viso. Era la prima volta che si toccavano. Poi, improvvisamente, Carmelo tolse bruscamente la mano di lei dalla sua faccia e si voltò di scatto verso la porta. Gli sembrò, con la coda dell'occhio, di aver visto un'ombra strisciare sul muro del corridoio che dall'aula si vedeva. Ma tutto durò pochissimi secondi e Carmelo tornò a guardare Anita, sperando che la sua manina tornasse sul suo viso. Ma come l'ebbe guardata capì che lei, coi suoi grandi occhi, lo stava salutando. Se ne andò, senza dire una parola, e Carmelo restò in classe da solo ancora una buona mezz'ora, a guardare il pavimento sporco e le sue scarpe slacciate, senza pensare a niente, o quasi. Poi prese i suoi libri e uscì da quell'aula eternamente buia. Nei corridoi intravide il preside. Questi si fermò, da lontano, e fissò Carmelo con un ghigno, fumando una sigaretta, con le mani in tasca. Carmelo lo guardò senza smettere di camminare, ed ebbe la sensazione che tutto andasse al rallentatore. Uscì dalla scuola. Si fermò. Guardò prima alla sua sinistra, che era la strada per tornare a casa, poi guardò a destra dove, nella poca luce della sua mente, lesse l'indicazione IL PRATO IN MEZZO AL MARE. Optò per la strada a destra. Udì distintamente l'ennesimo scricchiolìo nella sua mente.
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SECONDA PARTE “Allora? Sono giorni che non parli, che dici sì e no quattro frasi inutili ed esci. Dove cazzo vai, eh? Perché non mi porti con te? Alice è preoccupata e mi chiede che cazzo ti succede ma io non so darle una risposta e mi trovo in difficoltà. Perché mi hai fatto venire, eh? A che cazzo ti servo? Cosa ti passa per la testa? Perché non me lo dici? Sei ancora innamorato di quella ragazzina? Boh, che cazzo ne so? Stai davvero impazzendo? Boh, che cazzo ne so? In pochi giorni ti sei trasformato. Ma in che cosa? Boh, che cazzo ne so? Amico, mi fa piacere vedere che non sei più cotto dalle tue paranoie e che non sei più irritabile e nervoso, ma la cosa mi puzza come la merda. Stai lì seduto su quel cazzo di sofà e pare che vivi in un altro mondo. Cos'è: l'amore? la pazzia? Boh, che cazzo ne so?” Lorenzo parlava passeggiando agitato per il vasto salotto. Fumava in continuazione, gesticolava freneticamente come al solito, di tanto in tanto sorseggiava un bicchiere di vino che prendeva dal tavolino di vetro posto in un angolo. Carmelo stava seduto sul suo sofà e non rispondeva, nemmeno si degnava di guardare negli occhi il suo amico. Però pensava. E pensava che s'era amaramente pentito di aver parlato a Lorenzo della sua storia e d'averlo invitato a casa. Lo infastidiva vederlo tutto il giorno girare per la casa a fumare e bere vino. Lo infastidiva vedere Alice tornare la sera dal lavoro e prenderlo sempre in giro per il fatto che stesse sempre seduto su "quel cavolo-cazzo di sofà". Improvvisamente Carmelo s'alzò dalla poltrona e, continuando a non guardare il suo amico, s'avviò alla porta d'ingresso. “E ora dove cazzo stai andando?” gli domandò sbigottito Lorenzo. “Sono cazzacci miei.” gli rispose calmo Carmelo. “Eh no! Stavolta vengo con te!” “Provaci e t'impicco al lampadario.” Aprì la porta e uscì. Lorenzo non lo seguì. I tre giorni che seguirono dopo l'ultima amara e tenera chiacchierata con Anita furono sostanzialmente giorni piatti nei fatti. Carmelo parlava sempre di meno, evitava di buon grado di stare a casa a lungo, andava a letto presto, dava macchinalmente le sue lezioni, senza troppa passione e, una volta uscito dalla scuola, dopo aver incrociato lo sguardo strano del preside, prendeva sempre la strada a destra e s'avviava verso IL PRATO IN MEZZO AL MARE. Ma dov'era questo posto? Carmelo camminava per la città, per lo più a testa bassa, senza badare alle mi-
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gliaia di animali della città che lo spintonavano, ai clacson che lo insultavano sulle strisce pedonali, agli urlacci dei venditori ambulanti che lo invitavano a comprare pesce marcio, agli strattoni degli accattoni che gli chiedevano spiccioli per dare un morso alla fame, ai pianti dei mocciosi già barboni che lo imploravano di aiutarli in qualche modo, anche farsi rapire. Camminava per sei sette ore di fila. Non faceva nulla: non si fermava a mangiare, a prendere un caffè, a comprare un giornale e leggerlo su una panchina di un parco, a guardare le vetrine, ad ammirare le belle donne che cominciavano a svestirsi per la bella stagione. Niente di niente. Camminava e basta. Anzi: camminava e sognava. E vedeva nella sua mente: il prato in mezzo al mare, il suono carezzevole delle acque e loro due sull'amaca del prato che dondolava dolcemente. Le solite poesie cilene, il solito fiorellino tra le labbrucce rosa, la solita carezza, i soliti mugolii. E poi tanta paura, guardarsi attorno, vedere quell'oceano blu infinito e tuffarsi nell'angoscia, lei che gli sussurrava: "impazzirai, impazziremo" e lui che, confuso, non reagiva e sentiva sempre uno scricchiolìo e si rannicchiava su se stesso, aspettando che il suo equilibrio si spezzasse del tutto, definitivamente. Ma probabilmente, tornando d'improvviso alla realtà, quando cominciava a sentire la stanchezza per l'interminabile passeggiata, quell'equilibrio l'aveva già abbandonato da tempo e che forse era già pazzo e che la pazzia era proprio questa: camminare all'infinito senza meta, non sentire nulla e vedere sempre lo stesso film messo in onda dalla sua mente delirante. Era il quarto giorno consecutivo che Anita non si presentava a scuola. Carmelo entrò in classe, si mise comodo dietro la sua cattedra e guardò triste e rassegnato verso il banco vuoto. Non c'era. S'era ammalata? No, forse non s'era ammalata. Forse aveva avuto paura di tutta quella storia, forse era stata addirittura scoperta dai genitori ed era stata ritirata dalla scuola. E perché allora i suoi genitori non s'erano ancora presentati da lui e non l'avevano preso a calci tra le cosce e poi denunciato per pedofilia? Ma no, non era quello. Forse aveva chiesto lei stessa ai suoi genitori di cambiare scuola. La delusione. Già, la delusione. E perché no? Il professore mi ama, ma continua a volermi sognare su un prato in mezzo al mare, senza rendersi conto che quel prato in mezzo al mare non è altro che il luogo della sua pazzia. Che delusione! Ma sì, forse era tutto questo. O forse no. Che ne poteva sapere lui? Si sentiva innamorato? Pareva di sì, sentiva forte la mancanza di quella ragazzina deliziosa e già troppo cresciuta. Ne soffriva? Questo non lo sapeva. Se ne soffriva, per lui era sicuramente un modo del tutto nuovo per sentire la sofferen-
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za. Si sentiva impazzito? Forse. Le sue paranoie e ipocondrie passate non l’assalivano e forse questo, per lui, era segno di follia, di un equilibrio che ormai non c'era più. Prima si sentiva un uomo al sicuro con tutte le sue paranoie e ipocondrie, ora invece si sentiva come sguarnito, senza scudo, a mente pericolosamente scoperta. Sentiva che non sapeva dove stava andando. Ne aveva paura? Sì, ma, anche in questo caso, in un modo del tutto nuovo. Un suo alunno gli stava ripetendo, balbettando, la lezione del giorno prima quando, improvvisamente, Carmelo lo fermò con un gesto della mano, s'alzo e, senza dire nulla, uscì dall'aula. Camminò per i corridoi a passo lento e capì che anche in quello era cambiato. In passato camminava sempre a grandi falcate, a tratti correva. Ora si stava avviando verso l'ufficio del preside blandamente. Perché farlo poi? Cosa gliene fregava? Forse nulla, forse voleva soltanto dire due parole senza importanza a quell'uomo che da giorni lo fissava da lontano con un ghigno, fumando e tenendo le mani in tasca. Entrò in ufficio senza bussare. Il preside, un sessantenne tinto ben curato nell'aspetto, stava seduto a gambe accavallate dietro la sua scrivania, con la sua immancabile sigaretta e la sua espressione beata di uomo compiacente. Sorrise. “La prego, si sieda.” disse il preside indicando con la sigaretta una sedia di fronte a lui. “Non voglio sedermi.” disse Carmelo accostandosi a una finestra. Anche quell'ufficio, come tutte le aule di quella scuola, era inspiegabilmente chiazzato dalla penombra e nulla più. “Qualcosa non va?” domandò il preside. Carmelo non lo guardava. Guardava fuori: le macchine e il trambusto a lui indifferente. “Voglio essere licenziato, cacciato via.” “E perché mai?” Il preside continuava a sorridere. La sorpresa non faceva parte delle sue abitudini. “Mi sono innamorato di una mia alunna.” “Lo so. L'ho vista l'altro giorno che si lasciava accarezzare da quella ragazzina deliziosa.” “Lo ha detto ai suoi genitori?” “No.” “Perché non ha detto nulla? Perché non mi ha convocato in ufficio e non mi ha fatto un solenne cazziatone e non m'ha sbattuto fuori?” “Eeehhh, non esageriamo! Non è così grave.”
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“Non m'interessa se il fatto sia grave oppure no, m'interessa il mio equilibrio. Si sta spezzando e voglio che lei gli dia il colpo di grazia liquidandomi con disprezzo. Faccia il suo dovere.” Il preside buttò la cicca per terra e la calpestò con strafottenza. “Lei è innegabilmente un tipo stravagante professore, ma mi lasci dire che non è l'unico ad aver fatto una cosa tanto eccezionale.” Carmelo si voltò a guardarlo. I suoi occhi erano interrogativi. Il preside scoppiò in una posata risata. “Anch'io molti anni fa, in questa stessa scuola, mi sono perso in una situazione del genere, così perversa.” “La mia non è perversione.” disse secco Carmelo. “D'accordo, non è perversione, e forse effettivamente non lo è. M'invaghii di un'alunna, anch'ella tredicenne, bellissima e molto intelligente, a tratti estremamente maliziosa. La guardavo tutto il tempo che duravano le mie lezioni, le parlavo, lei mi parlava e scoprii che la mia personalità, in qualche modo, l’affascinava. Incominciai ad invitarla a casa tutte le domeniche, quando mia moglie e i miei figli andavano a trovare certi parenti con cui io avevo pessimi rapporti. Non facevamo nulla, mi rendevo conto che non potevo e che forse non volevo affatto che facessimo qualcosa. Mi limitavo ad ammirarla, perché stava venendo su veramente una gran fanciulla. Ma non le nascondo che una volta che lei andava via, io mi dirigevo in bagno e mi davo da fare di fantasia. Non mi guardi così, professore! Sono fantasie di tutti e tutti noi non ne parliamo perché abbiamo paura della vergogna e dell'immoralità e dell'accusa e del linciaggio. La perversione è nutrimento vitale e la nascondiamo, forse anche per segreta gelosia.” “Le ripeto che la mia non è perversione e poi non m'interessa la sua storia.” lo interruppe acido Carmelo. “E cosa le interessa?” “Il mio equilibrio. Non so se tenermelo stretto o lasciarlo andare via, per sempre.” Il preside sospirò. “Mio caro professore, l'equilibrio non esiste, è una nostra inconscia creazione e se questa se ne va via è perché lo vogliamo noi e noi, esseri deboli e suggestionabili, ne proviamo terrore e…” “Lei non ha mai fatto niente con la sua alunna perché ha avuto paura di spezzare il suo equilibrio. Non lo neghi.” “Io non ho avuto paura che il mio equilibrio, per conto suo, si spezzasse. Ho soltanto voluto che non si spezzasse, tutto qui. Siamo esseri fra-
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gili, in tutti gli angoli del nostro corpo e in tutti gli angoli di ciò che ci nascondiamo dentro.” “Non è vero. Lei ha avuto paura d'impazzire, ha scoperto di non sapere dove andare. Lei sognava sempre di un prato in mezzo al mare e una misteriosa e silenziosa angoscia l'assaliva e...” Carmelo si fermò, tornando a guardare il traffico dalla finestra. Il preside non smetteva di sorridere, senza trasparire alcun turbamento per le parole di Carmelo. “Stia tranquillo, professore, le accadrà ciò che accade a tutti coloro che hanno un'esperienza del genere. Capisco il suo smarrimento, la sua confusione, ma mi stia a sentire: si goda questo delizioso atto stravagante della sua vita, stia a guardare la sua ragazzina tutto il tempo che vuole, lei non è imprudente. Lavori di fantasia, si diverta a fare l'innamorato e, perché no, si lasci andare alla masturbazione che, tutto sommato, è un effettivo atto creativo naturale. Infine vedrà che tutto passerà, anche perché non avrà certo intenzione di portare avanti la storia seriamente, vero?” Carmelo si voltò di nuovo verso il preside, stavolta di scatto, bruscamente. “Non la vedrò mai più! Anita non c'è più! Non viene più a scuola! Non tornerà mai più! L'ho delusa! Sono un idiota! E lei deve licenziarmi, ora! Deve punirmi!” “E va bene, la licenzio, la punisco, la sbatto fuori di qui. Lei non potrà più lavorare in questo posto a causa di comportamenti anti etici. Lei non insegnerà più in questo istituto. Probabilmente non insegnerà più in nessun altro istituto. Si ritiri a vita privata e rifletta.” “Bene, benissimo. Ora mi sento decisamente più sollevato. Addio.” disse Carmelo. S'avviò verso la porta. “E ora dove va?” gli chiese il preside pacatamente. “In un prato in mezzo al mare. Lei mi sta aspettando.” Uscì dall'ufficio. “Non l'aspetterà mai più!” disse il preside alzando la voce. “Vaffanculo vecchio porco di merda!” urlò Carmelo. Carmelo uscì dalla scuola, senza nemmeno tornare nella sua classe a riprendere i suoi libri di testo. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...