Il tocco della sposa

Page 1

ANTEPRIMA Mystery Contatta l'autore su www.isalotti.serviziculturali.org Leggi a schermo intero

Condividi

Personalizza



Servizi Culturali è un'associazione di scrittori e lettori nata per diffondere il piacere della lettura, in particolare la narrativa italiana emergente ed esordiente. L'associazione, oltre a pubblicare le opere scritte dai propri soci autori, ha dato il via a numerosissime iniziative mirate al raggiungimento del proprio scopo sociale, cioè la diffusione del piacere per la lettura. Questa pagina, oltre a essere una specie di "mappa", le raggruppa per nome e per tipo. I link riportano ai siti dedicati alle rispettive iniziative.

per gli scrittori

Per pubblicare:

per i lettori

0111edizioni Pubblicare un libro Collana "Gli Inediti" Collana "Generazione

per tutti

La TV dei libri

Bookino il "Contastorie" Il Cassetto dei Sogni Parlando di libri a casa di Paolo TeleNarro

Per divertirsi

Eventi (in cittĂ ) Fan Club (i siti dei nostri autori) I Salotti

E" Collana "Guest Book" Per leggere gratis i nostri libri

I giochi a premi e i concorsi

Adottaunlibro EasyReader Gli Scambisti Gruppo di Lettura

Concorso Il Club dei Lettori La Banda del BookO

SpeedRead Il BookShop

Il Giralibro (book-shop)


DESCRIZIONE:

Leggi l' anteprima Leggi altro su questo libro nei B-File Scopri le nostre iniziative

Un paese di provincia che è finalmente diventato un Comune autonomo. Un giovane straniero che deve adempiere un’antica promessa. Un quadro da dipingere. Il fantasma di una sposa. Una torre medievale. Una grotta di montagna e delle strane pietre magiche... È questo lo scenario che fa da sfondo alle due storie che procedono parallelamente all'interno di questo romanzo. Nell’arco temporale di cinque giorni, Amore e Vita, sogno e realtà, si confonderanno irrimediabilmente fino a portare i protagonisti di quest’avventura a cambiare per sempre il corso delle loro esistenze. L'AUTORE: Nevio Manente è nato a Roma - città dove tuttora vive - nel 1974. Nella sua vita è stato molte cose: seminarista, imbianchino, studente fuori corso, webmaster, pellegrino lungo il Cammino di Santiago... Oggi è sposato, scrive e lavora. Il suo sito è raggiungibile all’indirizzo www.neviomanente.com

Titolo: Il tocco della sposa Editore: 0111edizioni Pagine: 128

Autore: Nevio Manente Collana: Selezione Prezzo: 13,00 euro

11,05 euro su www.ilclubdeilettori.com

Leggi questo libro e poi... - Scambialo gratuitamente con un altro oppure leggilo gratuitamente IN CATENA[leggi qui] - Votalo al concorso "Il Club dei Lettori" e partecipa all'estrazione di un PC Netbook [leggi qui] - Gioca con l'autore e con il membri della Banda del BookO (che si legge BUCO): rapisci un personaggio dal libro e chiedi un riscatto per liberarlo [leggi qui]



E' la nostra web tv, tutta dedicata ai libri. Se hai il video della tua presentazione, oppure un videotrailer del tuo libro, prima pubblicali su YouTube, poi comunicaci i link. Dopo aver valutato il materiale, lo inseriremo nel canale On-Demand di TeleNarro. Se hai in programma una presentazione del tuo libro nel Nord Italia e non hai la possibilità di girare il filmato, sappi che c'è la possibilità di accordarsi con Mario Magro per un suo intervento destinato allo scopo. Contatta Mario e accordati con lui.

PARLANDO DI LIBRI A CASA DI PAOLO ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro La trasmissione di Paolo

BOOKINO il CONTASTORIE

Federici dedicata ai libri. Ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro. E' possibile vedere le puntate già mandate in onda sul canale OnDemand

"Bookino il Contastorie" ti racconta un libro in una manciata di minuti. Poi, potrai proseguire la lettura online, su EasyReader. E se il libro ti piace, potrai richiederne una copia in omaggio con l'iniziativa Adottaunlibro. Clicca su Bookino...

VAI AL SITO

VAI AL SITO

IL CASSETTO DEI SOGNI A differenza di "Parlando di (prima trasmissione libri a casa di Paolo", questa prevista a FEBBRAIO 2010) trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice. VAI AL SITO

E' però possibile richiedere una puntata dedicata a un libro specifico, non compreso nell'elenco di quelli selezionati, accordandosi direttamente con il conduttore, Mario Magro.

Guarda LE NEWS DEL BOOK le nuove videonews su www.serviziculturali.org


Con EasyReader puoi dare un'occhiata ai nostri libri prima di acquistarli. Sono disponibili online in corpose anticipazioni (circa il 30% dell'intero volume), che ti consentiranno di scegliere solo i libri che preferisci, evitando di acquistare "a scatola chiusa". In più, con l'iniziativa Adottaunlibro, puoi richiedere in regalo il libro che sceglierai. VAI AL SITO

CONCORSO IL CLUB DEI LETTORI VAI AL SITO

Se hai letto un libro di un autore italiano (edito da qualunque casa editrice), votalo al concorso Il Club dei Lettori e partecipa all'estrazione di numerosi premi. La partecipazione al concorso è gratuita.

In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le Gioca con la Banda del Booko vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei (che si legge quali è richiesto un riscatto all'autore. BUCO) all'ANONIMA Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In SEQUESTRI VAI AL SITO

questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO. In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.


Nevio Manente

Il tocco della sposa

www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com

IL TOCCO DELLA SPOSA Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Nevio Manente ISBN 978-88-6307-268-6 In copertina: realizzazione grafica di Mariarosaria Barrea

Finito di stampare nel mese di Aprile 2010 da Digital Print Segrate - Milano


A Daniela



«Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Ap 21, 15



I libri che mi piacciono di piÚ sono quelli che almeno ogni tanto sono un po' da ridere. Leggo un sacco di classici, come Il ritorno dell'indigeno e via discorrendo, e mi piacciono, e leggo un sacco di libri di guerra e di gialli e via discorrendo, ma non è che mi lascino proprio senza fiato. Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira. Jerome D. Salinger da "Il giovane Holden" Edizioni Einaudi, 1961



9

Quando il ragazzo varcò la soglia del piccolo cimitero erano da poco passate le dieci e già un sole rovente e ostinato picchiava sul selciato, onde di calore si sollevavano dal suolo e un’atmosfera immota regnava su tutto. Era arrivato in anticipo, quel giorno, aveva camminato a lungo e senza concedersi un solo attimo di sosta, fin dalle prime luci dell’alba. La fatica del viaggio, ora, cominciava a farsi sentire, e i suoi piedi stanchi iniziavano a mal sopportare i pesanti stivali di cuoio nei quali erano costretti. Ma ormai era arrivato. Questo solo contava. Finalmente era arrivato. Sua madre gli aveva annotato su un foglietto il nome del paese e ci aveva disegnato sopra la piantina del cimitero, nel caso in cui si fosse perso. Il ragazzo ricercò quel pezzetto di carta nella tasca posteriore dei jeans, con la punta delle dita ne percepì la consistenza logora e, facendo attenzione a non strapparlo, lo tirò fuori e lo guardò ancora, per l'ennesima volta. Sorrise nel rivedere quel groviglio di linee disordinate, nel rileggere quegli appunti veloci e nervosi… Per un istante pensò anche di liberarsene, di gettarlo via: in fondo avrebbe saputo ritrovare quella tomba perfino a occhi chiusi. Ma poi gli mancò il coraggio e non lo fece: quel biglietto stropicciato lo aveva accompagnato per tutto il tempo, per troppo tempo, e quella scrittura familiare, adesso, rappresentava l’unica illusione di non essere solo. Così lo ripose nella tasca e riprese a camminare. Dunque, pensò il ragazzo. Di fronte alla chiesa del Risorto bisogna girare a destra… Sì, ci siamo. Poi proseguire dritto fino alla fine del vialetto e di lì ancora a destra… Benissimo.


10 Avanti ancora di qualche metro e… ed eccoci!, pensò emozionato. Ecco la cappella di famiglia! Dinanzi ai suoi occhi si ergeva una piccola costruzione di marmo sormontata da una grande croce bianca. Sul davanti un massiccio cancello di metallo ne presidiava l’ingresso. E, al di sopra di questo, una scritta di ottone annunciava: Famiglia Di Salvo. Il lungo viaggio era terminato. Lei era lì, sepolta in quell’angolo di mondo, tra l’odore del mare e il calore del sole. A quella vista il ragazzo lasciò cadere a terra la pesante sacca di tela scura che si portava in spalla, mentre con la mano sinistra continuava a stringere l’impugnatura di una grossa cartella rettangolare. Poi, nella sua testa, sentì scorrere le note di una musica dolcissima. Ecco, sì, qualcosa come “Ode to my family” dei Cranberries avrebbe potuto starci bene. Anzi, no, sarebbe stato perfetto. Quindi tirò un lungo respiro. Si fece coraggio. Ed entrò.


11

Capitolo 1 MERCOLEDÌ MATTINA

La mattina del 21 marzo 2001, nella Scuola media statale Arturo Belli, venne indetta una riunione comunale straordinaria alla quale volle partecipare tutta la cittadinanza o, per lo meno, quasi tutta. Quella riunione avrebbe dovuto interessare soltanto i membri della giunta comunale, ma si sa come vanno queste cose: scegliere il nuovo nome da dare a un paese è una questione troppo importante perché se ne possa occupare solamente un ristretto numero di persone. E così tutti gli abitanti, fatta eccezione per pochi ragazzi e qualche vecchio stanco, si ritrovarono assiepati nella palestra della scuola media, nominata, seduta stante, aula magna del nascente municipio, anche se di magno bisogna riconoscerlo - aveva ben poco. Per l’occasione il curato, don Erminio, aveva gentilmente messo a disposizione la sala del cinema/teatro parrocchiale, certamente più consona e spaziosa; ma il sindaco, il dott. Ernesto Filiberto, si era sentito in dovere di rifiutare quell’offerta: si era convinto, infatti, che quell’evento dovesse essere un fatto del tutto laico e che quindi bisognasse realizzarlo all’interno di una struttura pubblica. Le persone erano ovunque: quelle che non riuscivano a stare dentro all’edificio trovavano posto tutt’intorno, senza perdere, per questo, una sola battuta degli accadimenti. «Ecco!,» diceva qualcuno sbirciando dalle finestre «il sindaco ha preso la parola!». «Ora è il curato a prendere la parola!» riferiva qualcun altro. Era opinione diffusa che il nuovo nome da dare a quel paese dovesse essere un nome capace di dar lustro a tutta la popolazione e tale da suscitare, negli animi di quanti lo sentissero, un senso di rispetto e onorabilità. «Deve essere un nome del quale poter andare fieri!» sottolineava continuamente il sindaco nel suo discorso di apertura. Un nome cristiano!, pensava tra sé il parroco dall'estremità opposta della sala.


12 Don Erminio non si sarebbe lasciato sfuggire quella riunione per nulla al mondo: aveva addirittura rimandato un battesimo, quella mattina. «Un giorno più o un giorno meno,» aveva sbrigativamente detto agli sconcertati genitori del nuovo nato «cosa volete che cambi?!». Il religioso, era risaputo, desiderava che la scelta in questione ricadesse su un nominativo di stampo cristiano. A suo dire esistevano solo due possibilità: San Sebastiano o Tor San Sebastiano. E delle due era indubbiamente quest'ultima la più adatta: Tor San Sebastiano, perché conteneva in sé un richiamo sia alla torre medievale che al loro santo patrono: elementi - questi - che, più di ogni altro, rappresentavano la realtà socio-culturale del loro territorio. Per perorare la sua causa don Erminio si era piazzato dall'altra parte della sala, in prossimità dell'uscita: in piedi, gambe larghe e braccia conserte, aveva ascoltato con attenzione tutto il discorso del sindaco: un discorso pieno di "progresso" e "futuro" e "realtà nuova" e "i nostri figli" e quant'altro il politico era stato capace di argomentare. Lui non aveva fatto una piega: fermo e impassibile si era sorbito ogni singola parola, tanto che i partecipanti avevano cominciato a preoccuparsi: nessuno mai lo aveva visto prestare tanta attenzione alla stessa persona per più di dieci minuti consecutivi. Appena il sindaco ebbe terminato di pronunciare il suo discorso, don Erminio inforcò gli occhialini dorati - quelli rotondi che amava e che usava esclusivamente per le messe solenni - e, pur sapendo che non avrebbe avuto nulla da leggere, se li sistemò con estrema accortezza, lentamente. A quel gesto tutti i presenti capirono e si voltarono verso di lui: era arrivato il suo turno. Lui, dapprima, se ne stette in silenzio per qualche istante, aspettando che tutti gli occhi fossero sulla sua persona. Poi prese a parlare con voce ferma e stentorea. «Cosa siamo noi?» chiese indagando col suo sguardo tra la folla. «Siamo forse delle bestie? Sapete cosa ci distingue dalle bestie o ve ne siete dimenticati? Vi siete dimenticati che noi tutti abbiamo un'anima?, che siamo esseri dotati di un'anima e che tutto - assolutamente tutto - dobbiamo al nostro Dio?! Possibile che ve ne siate già dimenticati?!». I più si guardarono imbarazzati. Non era ben chiaro dove volesse arrivare, ma una cosa era certa: non era contento di loro. «Il nome del nostro paese» continuò con veemenza il parroco «dovrà fare riferimento alla realtà culturale e spirituale della nostra popolazione e del nostro territorio! Chi o cosa» chiese ancora «potrebbe rappre-


13 sentarci più degnamente del nostro amato san Sebastiano - tutti ci protegga! - e della nostra antica torre medievale? Ditemelo voi? Chi o cosa?!». Sguardi di assenso iniziarono a diffondesi nella sala: di don Erminio, del resto, era risaputo l'alto potere di persuasione… Sì, perché don Erminio non era un prete come tutti gli altri, no. Don Erminio non era affatto un prete come noi tutti siamo abituati a immaginarcelo: don Erminio non aveva la pancia, non vestiva la tonaca e non amava le comodità. Al contrario: don Erminio era uno sportivo nato. Basti pensare che per qualunque tragitto ci fosse da percorrere, lui faceva sempre e soltanto uso della sua amata bicicletta, la Luisella, come la chiamava lui… Che poi, in un certo senso, era anche la sua unica donna. Qualunque distanza ci fosse da coprire, in qualunque stagione e in qualunque momento della giornata, c'era sempre la Luisella. Non gli serviva altro. Hai voglia a dirgli di comprarsi una macchina. Nossignore! Lui aveva la sua Luisella e non c'era modo di fargli cambiare idea. Tanto per fare qualche esempio: quando al vescovo si ruppe l'auto di rappresentanza, lui ebbe il coraggio di proporgli il ritorno in curia comodamente seduto sulla canna della sua bicicletta. E pure quella volta che in pieno inverno venne svegliato alle due di notte per portare l'estrema unzione a Giovanni Pasciotti detto "u stampella", e che abitava in campagna a ben tredici chilometri di distanza dal paese, beh, pure quella volta volle andarci in bicicletta. Non accettò neppure la proposta di Pasquale Puddu detto "u campanaru", che era una sorta di sacrestano e che gentilmente si era offerto di dargli un passaggio a bordo del suo trattore. «Campanaru,» gli aveva detto liquidandolo in due battute «torna a casa a dormire, ché tu e il tuo trattore siete troppo lenti per i miei gusti». Fuori, quella notte, imperversava una tormenta di neve che Dio solo lo sapeva, ma don Erminio non se ne preoccupò più di tanto: armato dei suoi guanti di cuoio e della sua sciarpa nera, inforcò la Luisella e si lanciò a perdifiato tagliando dritto per campi e sentieri. Si racconta che quella notte il religioso coprì l'intero tragitto in soli venticinque minuti: tredici chilometri in venticinque minuti, con una tormenta in corso e andando per campi. Un record! In seguito, in paese, in molti provarono a emulare quell’impresa, ma mai nessuno ci riuscì, neanche con le migliori condizioni climatiche. Quei venticinque minuti rimasero nella storia, e tutti - assolutamente


14 tutti! - sapevano che se c'era da morire bastava aspettare al massimo venticinque minuti, non uno di più: prima ancora del medico ti arrivava don Erminio a cavallo della sua bicicletta che, in quattro e quattr'otto, ti somministrava un'estrema unzione che più estrema non si poteva. Eh no, don Erminio non era affatto un prete come tutti gli altri: laureatosi in teologia col massimo dei voti, fin dai primi anni di sacerdozio aveva manifestato eccellenti doti da oratore. Le sue omelie riempivano le chiese e richiamavano gente perfino dai paesi più lontani. Lui aveva l'indiscussa capacità di saper cogliere le parole più adatte, di saper calibrare le pause, modulare i toni, riuscendo sempre ad arrivare dritto ai cuori delle persone. Ma possedeva pure un’altra caratteristica che lo rendeva unico: don Erminio era uno smanioso, ma uno smanioso nel senso letterale del termine. Soprattutto durante le prediche, le sue mani si animavano di vita propria, disegnando in aria traiettorie infinite, percorsi immaginari e impalpabili che terminavano sempre e comunque con un lento e ostentato segno di croce, suggello di ogni suo pensiero divinamente ispirato. I suoi segni di croce erano straordinari, lui li esibiva con una solennità e una pacatezza che non avevano eguali: te li faceva spuntare nel bel mezzo di un discorso o a un semplice intercalare, come quando diceva, subito dopo aver nominato san Sebastiano, "tutti ci protegga!". Ecco che lì, precisamente lì, ti ci piazzava un bel segno di croce in formato solenne. E ai poveri fedeli, intimoriti dalla possibilità di poter commettere un qualunque peccato anche solo inavvertitamente, non rimaneva altro da fare che ricambiare con un ulteriore segno di croce: lento e meditato, meglio ancora se accompagnato da cenni assertivi del capo a sottolinearne la sacrosanta verità. Ma torniamo alla nostra storia. «UN NOME CRISTIANO!» sentenziava nell'aula magna don Erminio strepitando a gran voce. Per il sindaco che aveva altre vedute, però, le cose non stavano in quei termini: il nome del loro paese doveva essere un nome di stampo laico capace di comunicare a quanti lo sentissero un senso di modernità e progresso. Ma, guardando tutte quelle facce rivolte in direzione del parroco, non gli ci volle molto a comprendere che la situazione gli stava sfuggendo di mano. Per un attimo il sindaco rimpianse la buonanima del vecchio don Ignazio, il loro precedente parroco. Quello sì che era un buon prete, pensò tra sé. Non come questo qui che è sempre pronto a dar battaglia…


15 L'anziano sacerdote era scomparso improvvisamente e prematuramente sei anni prima, proprio quando la cancellata del recinto parrocchiale, in una calda sera d'estate, aveva pensato bene di cadergli addosso tranciandogli di netto la testa. Quella disgrazia fu una tragedia per tutto il paese e i funerali si protrassero per ben cinque giorni. Tuttavia non fu quello il male peggiore, no!, almeno stando al parere del sindaco: dovendo rimpiazzare il parroco, il vescovo della diocesi decise di passare la guida spirituale della loro comunità nelle mani dell’allora vice-parroco, don Erminio. E da quel giorno le cose cambiarono, e di brutto: tra l'amministrazione cittadina e quella religiosa si instaurò un clima di guerra fredda, il sindaco iniziò a perdere tutti i capelli e fare politica divenne un mestiere difficile. Ora quel prete era lì, che come sempre parlava e sparlava contro gli interessi del popolo. Il sindaco se lo guardò mentre arringava la folla, se lo squadrò da capo a piedi e si sentì percorrere la schiena da un brivido gelido: doveva intervenire, non c'era tempo da perdere! La battaglia non era ancora persa e lui avrebbe venduto cara la pelle… Trasportato da questi pensieri, il politico si alzò in piedi, si passò una mano tra i capelli sempre più radi, deglutì, si allentò il nodo della cravatta e, incurante del fatto che don Erminio stesse ancora parlando, disse: «Non possiamo chiamare il nostro paese con un nome come San Sebastiano!». A quelle parole tutti i presenti si voltarono nella sua direzione e i più, non volendo mancare di rispetto né a lui né al parroco, cominciarono ad altalenare le loro teste da una parte all'altra della sala: destra-sinistra, sinistra-destra; destra-sinistra, sinistra-destra. «Concittadini!» continuò a tuonare il sindaco sovrapponendosi a don Erminio. «Il nostro Comune, dopo infinite battaglie, è finalmente diventato un Comune autonomo: un Comune di se stesso!» precisò con orgoglio. «Ormai dobbiamo solo dargli un nome capace di imporsi all'attenzione del mondo e capace, altresì!, di conferirci il prestigio e l'autorevolezza che meritiamo…». Tutti gli occhi adesso erano puntati su di lui. «Concittadini,» proseguì pieno di fervore «io desidero il meglio per questo nostro amatissimo paese, e sono certo che anche san Sebastiano - tutti ci protegga (e giù con un segno di croce) -, anche lui lo desidera per tutti noi!».


16 Seguì un momento di silenzio durante il quale il sindaco, smarrito, si rese conto che, senza neanche volerlo, si era ridotto a emulare i gesti del suo rivale, di don Erminio, ma durò solo un momento. «Miei cari concittadini,» si riprese uscendo dall'impasse «una nuova e meravigliosa era si sta aprendo per tutti noi e per i nostri figli, ma è necessario che tutto ciò sia tale fin dal principio: ecco perché vi esorto a riflettere attentamente sulla scelta del nuovo nome da dare al nostro Comune; ecco perché vi esorto a scegliere un nome che sia capace di dare lustro alla nostra terra e alle nostre genti!». E urlando: «CHE SIA UN NOME DEGNO DEI NOSTRI FIGLI! CHE SIA UN NOME ALL'INSEGNA DEL PROGRESSO! E CHE SIA ALL'ALTEZZA DEL GRANDE FUTURO CHE NOI TUTTI CI ASPETTIAMO E CI MERITIAMO!». Questo disse il sindaco, e lo disse con le mani rivolte verso l'alto, con il viso imperlato di sudore e con le vene che gli si gonfiavano sul collo. Nel frattempo dai presenti non arrivava alcuna risposta: tutti tacevano, come sospesi in una bolla. Anche il parroco restava immobile, muto come un pesce, incapace di replicare di fronte a tanto fervore. Poi, timidamente, qualcuno iniziò a battere le mani, poi si aggiunse qualcun altro e poi qualcun altro ancora. E la bolla esplose: l'applauso lentamente prese forza, sempre di più, sempre più vigoroso, scoppiò, divenne pioggia battente, scrosciante, martellante e fu deciso: sarebbe stato un nome laico! Rinfrancato dalla vittoria, il sindaco si lasciò cadere su una sedia: si sentiva esausto. Certo, pensò tra sé, se ci fosse stato il vecchio parroco, tutto sarebbe stato molto più semplice… Ma ormai era fatta e il resto non contava. Dall'altra parte della sala, intanto, don Erminio non riusciva a credere a quello che era appena accaduto. Furioso per essere stato tradito dai suoi parrocchiani, si fece largo tra i presenti guadagnandosi l’uscita a grandi passi. Quindi, senza girarsi e senza dire altro, montò in sella alla sua bicicletta e si allontanò rapidamente, perdendosi tra le viuzze strette e sconnesse del paese. Sarebbe stato un nome laico.


17

Capitolo 2 SEMPRE MERCOLEDÌ MATTINA

Quella mattina splendeva un sole accecante e l'odore di primavera si diffondeva forte dalle campagne. Alcuni stormi di rondini disegnavano nel cielo i loro arabeschi e le cicale, le sole femmine della specie, avevano iniziato a frinire già dalle prime luci dell'alba: i maschi si sarebbero aggiunti più tardi, nelle ore più calde. A Giulia, come a tutti gli studenti delle medie, i professori avevano detto di non andare a scuola, quella mattina: lei non aveva capito bene il perché, ma sapere di non doverci andare le era stato più che sufficiente. E così, senza pensarci due volte, aveva inforcato la bicicletta, e insieme alle sue due compagne aveva puntato dritto verso il vecchio mulino abbandonato: lì sarebbero state tranquille e indisturbate, si sarebbero sdraiate sulle sponde del fiumiciattolo attiguo, e avrebbero passato il resto del tempo chiacchierando spensieratamente. Con il vento tra i capelli e il sole sulla pelle, le tre ragazze sfrecciavano veloci: venivano giù dalla discesa grande, quella che univa il loro paese con quello di Fariano al Monte, il loro precedente Comune di appartenenza, e un senso di profonda libertà le pervadeva. Giulia guidava il gruppo e procedeva in testa. Le sue due amiche, Barbara e Luisa, la seguivano stando leggermente arretrate. Per un po' fu la discesa a condurle, facendole avanzare rapidamente e senza sforzo. Ma non appena il pendio finì, dovettero ricominciare a pedalare, svoltando poco dopo la curva per potersi immettere su un sentiero tracciato nel bel mezzo di un fitto bosco. Qui proseguirono a piedi spingendo le biciclette a mano: il sentiero era troppo stretto e sconnesso per poter continuare su due ruote; si inoltrarono speditamente per circa dieci minuti, senza fare alcuna sosta. Poi, tutt'a un tratto, si ritrovarono all'aperto, in un grande spiazzo assolato. «Eccoci!» esclamò Giulia contenta. «Finalmente siamo arrivate». Sullo sfondo, immobile come in una fotografia, stava l'antico mulino ad acqua con la sua ruota gigante a lambire la superficie del torrente. E di lato, sulla destra, come fosse a guardia di tutto, troneggiava un'immensa


18 quercia secolare, imponente ed eterna come il tempo, che da quelle parti sembrava essersi fermato. «Capo, ci sono delle ragazzine!» disse Pietro. Il capo in questione si chiamava Marco: un adolescente tutto pelle e ossa, e con due occhi grandi, chiari e luminosi. Marco aveva solo sedici anni, ma già da quell'età si era guadagnato il titolo indiscusso di "capo". Certo, conquistarsi quell’appellativo e il rispetto che ne conseguiva non era stato facile, soprattutto a sedici anni, ma lui ce l'aveva fatta, dimostrando a tutti di possedere il coraggio e la stoffa necessari… Tanto per dirne una: Marco era stato capace di affrontare la discesa della morte con il suo motorino, senza morire e senza farsi nemmeno un graffio. La discesa della morte, per la cronaca, era un canale di scolo scavato dall’acqua nel terreno: era lunga circa centocinquanta metri e finiva direttamente contro il muro di cinta di una casa che non era mai stata completata. La particolarità di quella discesa stava nella pendenza, oltre che nel fatto di finire direttamente contro un muro: una pendenza così accentuata che risultava pressoché impossibile poterla fare anche solo a piedi. L'unico che aveva provato a emulare quell'impresa era stato Alessio, ma inutilmente: si era ritrovato gambe all'aria, con un gran mal di testa (fortunatamente aveva il casco), un polso fratturato e il telaio del motorino irrimediabilmente deformato. Alessio non aveva la stoffa per fare il capo. Ma non era tutto. Marco era stato capace anche di smontare e rimontare, da solo, il motore della sua vespa 50 special, ed era addirittura riuscito a trovare il modo per poter spiare le ragazze nello spogliatoio della scuola durante l'ora di educazione fisica: era sufficiente andare nella stanza degli attrezzi con la scusa di volerli riporre al termine della lezione; di lì, una volta dentro, bisognava arrampicarsi fin sopra la grata di aerazione e il gioco era fatto. Marco aveva leggermente deformato le sottili lamine della grata, quel tanto che bastava per poterci guardare attraverso, e, poiché quella grata metteva in comunicazione la stanza degli attrezzi con lo spogliatoio femminile, ecco che per i ragazzi del Liceo scientifico Marco Terenzio Varrone non era stato difficile scoprire che le più grandi e belle tette della scuola appartenevano a una biondina che non ti aspettavi della 3ª B: Elena Prisciglia. Tutti, fino a quel momento, avevano creduto che le più grandi e belle tette della scuola appartenessero a Francesca Miracchi, 3ª A: non a caso la stessa amava girare, per la gioia dei più, con scollature mozzafiato che ti rendeva dif-


19 ficile perfino guardarla negli occhi. Ma, con grande delusione di quanti non lo ritenevano possibile e grazie all'espediente della grata, si era poi dovuto constatare che quell'abbondanza di curve era in massima parte frutto della tecnologia tessile: come a dire che non solo i santi fanno miracoli, ma anche i reggiseno imbottiti. ... «Capo, ci sono delle ragazzine!» disse Pietro. Marco si girò, smettendo di trafficare tra chiavi e bulloni, afferrò uno straccio sudicio da sotto il sellino della sua vespa e si pulì le mani; in lontananza vide tre ragazzine che avanzavano verso di loro spingendo a mano le rispettive biciclette, e immediatamente individuò quella che delle tre doveva essere il capo: sembrava un piccolo diavolo, al posto degli occhi aveva due lampi verdi, e procedeva alla testa del gruppo stando immersa in una nuvola di capelli lunghi, ricci e rossi. E queste adesso che vogliono?, pensò tra sé. «Ciao!» lo salutò Giulia quando gli fu vicino. «Ciao» rispose lui senza troppo entusiasmo. «Non vi abbiamo mai visto da queste parti…» disse Giulia. «Neanche noi» replicò Marco. «Siete di qui?» chiese lei. «No» disse lui. «Ah, ecco perché…». «Già» concluse lui. Non si dissero altro. Marco le diede le spalle e riprese a lavorare sulla sua vespa gialla: aveva voglia di rimontare la marmitta e non gli andava proprio di fare nuove conoscenze, tanto meno con delle “ragazzine”. Anzi, sperava che quelle intruse se ne andassero al più presto: magari erano lì solo di passaggio… Ma non fu così. Un attimo dopo, Giulia disse: «Ragazze mettiamoci qui: è perfetto». E le tre compagne si sistemarono a pochi metri di distanza da loro, sotto l'ombra della grande quercia: misero giù le biciclette e si adagiarono sopra l'erba soffice del prato con tutta l'intenzione di passare il resto della mattina sotto quella piacevole frescura. Marco se le guardò scocciato: quello era il suo territorio e non aveva nessuna voglia di condividerlo con delle estranee. «Ve ne dovete andare» disse piazzandosi davanti a Giulia. «Qui ci siamo noi». «Non ci pensiamo proprio» rispose Giulia.


20 Barbara e Luisa si scambiarono un'occhiata: avevano capito che la loro presenza non era gradita e che la situazione si stava surriscaldando. Marco si avvicinò ancora di più a Giulia e la guardò dritto negli occhi. «Ho detto che ve ne dovete andare». «Non ci pensiamo proprio» ribadì Giulia. «C'è spazio per tutti». Basta! Bisognava passare ai fatti, non c’era altro da fare. Marco afferrò la sua vespa - che era sempre senza la marmitta -, la posizionò tra sé e le ragazze e la mise in moto: in meno di un minuto l’ambiente circostante fu invaso da un fumo denso e nero che rese l’aria irrespirabile. Giulia, rivolgendosi alle sue amiche, disse: «Qui non si può più stare: spostiamoci». E a Marco: «Tu sei un cretino!». *** Dopo circa mezz'ora il lavoro era finito e la marmitta era stata rimontata. «Fatto!» esclamò Marco con aria trionfante. «Ora dovrebbe andare» disse. «Vedrai, sarà una forza!». «Certo» concordò Pietro. E i due si prepararono a rimettere in moto la vespa. Giulia, che non era molto lontana e che non aveva perso una sola battuta di quel breve dialogo, avendo capito cosa stava per succedere, si rigirò a pancia sotto con le mani a sorreggersi il mento: era pronta a gustarsi la scena. Barbara e Luisa fecero lo stesso. Marco, accorgendosi di essere osservato, si impose di procedere con la massima calma: ne andava del suo onore. Per prima cosa appoggiò nuovamente la vespa sul suo cavalletto. Poi si assicurò che tutto fosse a posto: che i perni fossero stretti, che le fascette fossero serrate e che i registri del carburatore fossero regolati a dovere. In ultimo, sferrando un colpo secco sul pedale dell'avviamento, fece ripartire il motore. Tra ta ta ta ta… Tra ta ta ta… «Sì!» esultò. «Sì! Sì! Ce l'abbiamo fatta!». Ma la sua gioia non durò molto: poco dopo, infatti, il motore cambiò suono assumendo una cadenza ottusa e irregolare. Marco e Pietro, allora, provarono a ricontrollare le viti e i registri del carburatore, provarono a dare gas, ma nulla: il monocilindro non dava segni di ripresa. Al contrario: con un’esplosione improvvisa si spense definitivamente facendo volare via la marmitta a più di tre metri di distanza.


21 A quella vista, Giulia, Barbara e Luisa scoppiarono a ridere a crepapelle, contorcendosi e rigirandosi sull’erba; Marco sferrò un pugno rabbioso sulla sella; e Pietro si incamminò verso la marmitta, deciso a raccoglierla, solo che quando Marco lo vide fu troppo tardi, e lui era già lì che si fissava i palmi arrossati e che correva veloce verso il torrente. «No, no, non è niente» minimizzava Pietro immergendo le mani nell'acqua gelida. «No, non è niente» diceva. «Davvero, non è niente…». Preoccupati dall'accaduto, tutti gli altri gli si fecero intorno, e quando si resero conto di essere così vicini ci fu un momento di stallo che sembrò dilatare il tempo: erano lì, tutti e cinque lì, fermi e immobili, come sospesi su un filo; finché quel filo non si ruppe e li lasciò cadere nell’inevitabile… La prima a ridere fu Giulia: abbozzò un sorriso leggero e sornione che via via si faceva sempre più largo. Di riflesso la seguirono anche le sue due amiche, Barbara e Luisa. Presto ne furono tutti contagiati. *** In quella bella mattina di primavera i cinque ragazzi si ritrovarono felici, senza sapere d’esserlo. Marco, soprattutto, non poteva ancora immaginarlo, ma gli occhi di Giulia, quegli occhi verdi che adesso lo stavano guardando, dopo quella mattina non li avrebbe più dimenticati…


22

Capitolo 3 MERCOLEDÌ POMERIGGIO

- Com'è andata? - Nulla… - Che significa nulla? - Nulla vuol dire nulla… che vuoi che significhi?! *** Erano ormai quattro anni che la Teresina si prendeva cura di don Erminio e della sua parrocchia, fin da quando, a seguito della scarica di un fulmine, era diventata un'inconsolabile vedova. Da quel giorno don Erminio non si era più dovuto preoccupare della spesa, della cucina e delle pulizie, ma allo stesso tempo aveva dovuto imparare a convivere con il "perpetuismo", la malattia tipica di tutte le perpetue. Non c’era nulla che a quella donna non interessasse: quel paese con le sue vicissitudini rappresentava la sua telenovela vivente, la sua ossessione quotidiana, il suo personale reality show. Ed era per questo che non appena aveva visto rientrare in canonica don Erminio, prima ancora di salutarlo, si era affrettata a chiedergli: “Com’è andata?”. Don Erminio, però, non era dell'umore adatto per poter dare delle risposte: non amava dover ammettere le proprie sconfitte e non aveva nessuna voglia di parlare. La Teresina, allora, constatando la situazione, aveva deciso di non insistere e di passare direttamente al piano "b": gli avrebbe servito un abbondante piatto di fettuccine al ragù e poi, dopo averlo addolcito con un buon bicchiere di vino rosso, sarebbe tornata nuovamente alla carica. Come da copione, don Erminio spazzolò il piatto di pasta in quattro e quatt'otto. Subito dopo la Teresina riprese a fare domande. «Me lo dici, adesso, cos'è successo?!». «È successo che il nostro paese avrà un nome laico» le aveva risposto don Erminio con una voce triste. A quelle parole la Teresina non aggiunse altro: capì, e in silenzio continuò a servirgli il pranzo.


23 Neppure don Erminio aggiunse altro, e in silenzio continuò a spazzolare via tutto. «SignorI! SignoRI! SignooORIIIII!». Il sindaco gridava a gran voce tentando di disciplinare l'assemblea dall'alto di una sedia. Forse avrei dovuto organizzare la riunione all'interno della sala parrocchiale, pensò tra sé osservando quella folla vociante. Lì, per lo meno, avrei avuto un palco dal quale poter parlare… Riprovò. «SIGNORIIIIII! SIGNOOOOOOOORIIIIIIIIIIIII!». Stavolta l'urlo era stato davvero esagerato e aveva sortito l'effetto desiderato: erano rimasti tutti di sasso. Il sindaco scese dalla sedia. E che diamine!, mormorò soddisfatto. Finalmente un po' di silenzio… «Signori,» disse togliendosi la cravatta «dobbiamo scegliere un nuovo nome per questa nostra cittadina e dobbiamo farlo entro oggi: molti di noi per essere qui, qui a questa riunione,» specificò «hanno dovuto rinunciare a un'intera giornata di lavoro e non possono permettersi il lusso di rinunciarci anche domani. Dobbiamo giungere a una conclusione e dobbiamo farlo al più presto!». I presenti, richiamati all'ordine da quel breve discorso, fecero silenzio: il nome del loro paese andava deciso entro la fine di quella giornata, e bisognava iniziare a fare delle proposte senza perdere altro tempo, altrimenti si rischiava di non farcela. Ma quale?, quale nome avrebbe potuto rispondere meglio ai canoni di cui tanto si era discusso? Progresso. Onorabilità. Rispetto. Sguardi assenti vagolavano nell'aria: nessuno aveva la ben che minima idea di cosa suggerire. Naturalmente qualcuno avanzò il problema di come si sarebbero dovute svolgere le votazioni. Ma a questo pose rimedio il sindaco istituendo un metodo semplice ed efficace: avrebbero proceduto per alzata di mano, non era poi così difficile. Certo, per un paese che si protendeva verso un futuro fatto di sviluppo e tecnologia, magari ci sarebbe voluto qualcosa di più adatto… Ma per ora poteva andare. Restava comunque il problema di quale nome scegliere. Le menti, ottenebrate dalla fame - era già passata abbondantemente l'ora del pranzo - e dopo tanto discutere, sembravano ormai essersi svuotate di ogni più piccolo impulso cerebrale. Il vuoto.


24 Ci voleva un'idea, una proposta, un qualcosa che liberasse tutti dallo stallo encefalico e che risolvesse la situazione. «Lumière!». Una voce si levò dal silenzio. «Lumière» ripeteva. «Lumière». Tutti si girarono a guardare. All'entrata della sala c'era un bel giovane, abbronzato, con gli occhi chiari e i capelli un po' lunghi e scuri sparati dal gel in tutte le direzioni possibili: era attraente e nell'espressione ricordava vagamente gli attori dei vecchi film di Hollywood, sicuri e fascinosi; avrà avuto, sì e no, venticinque, ventisei anni, e nessuno mai lo aveva visto da quelle parti. Il forestiero si fece strada portandosi al centro della sala, mentre i tacchi dei suoi stivali picchiavano duro contro le mattonelle del pavimento; aveva una sacca in spalla, chiusa all'estremità da una fune legata alla bell'e meglio, e nella mano sinistra, come fosse stata una valigetta, stringeva l'impugnatura di una grossa cartella rettangolare; chiudeva il quadro un curioso cagnetto grigio-marrone che lo accompagnava standogli di fianco: era piccolo e dal pelo ispido, e al collo aveva uno di quegli strani imbuti che di solito si vedono ai cani o ai gatti che hanno subìto un qualche intervento medico. «Lumière» disse il giovane gettando la sacca in terra e sedendocisi sopra. «Potreste chiamare il vostro paese Lumière». Tutti si guardarono. Lumière?! Ma che significa Lumière? Che razza di nome é? E soprattutto: ma chi é questo qui? Come si permette di entrare nella nostra aula magna e, come se nulla fosse, avanzare delle proposte su quale nome dare al NOSTRO paese? Ma chi si crede di essere?!, pensò giustamente qualcuno. Lo straniero non sembrava per niente intimidito: seduto sulla sua sacca scura, se ne stava beato a gustarsi le reazioni dei più alla sua proposta; addirittura un sorriso ostentato troneggiava sul suo volto. «Mi perdoni» gli disse il sindaco facendosi portavoce del sentimento generale. «Ma lei chi è?». «Vogliate scusarmi, sono un maleducato» fece il ragazzo con enfasi. «Permettete che mi presenti: io sono un artista, mi chiamo Gabriel García Sánchez e provengo dalla Spagna; però nelle mie vene scorre anche sangue italiano: mia nonna» disse alzandosi in piedi «si chiamava Amalia ed era siciliana. E questo,» concluse facendo un cenno verso il cane «questo è Paolo-Pepito, il mio compagno di viaggio». Tutti fissarono il cane, e il cane abbaiò. Lo spagnolo continuò.


25 «Sto andando in Sicilia a trovare una persona che non vedo più da molto tempo,» disse «e oggi mi trovavo a passare da queste parti. Mi ero fermato nella vostra cittadella per mangiare qualcosa, quando ho visto tutta questa gente riunita e mi sono incuriosito... Dapprincipio avevo pensato che si trattasse di una festa, ma poi ho capito che la vostra assemblea aveva un altro scopo, ben più importante. Spero che vorrete scusare la mia intrusione: non era mia intenzione disturbarvi… Però, ascoltando i vostri discorsi, non ho potuto fare a meno di proporvi il nome che potrebbe fare al caso vostro - sempre che la cosa possa interessarvi, s'intende». Un artista? Un artista spagnolo con nonna italiana!? 'Azz!, pensarono un po' tutti. «Un artista, è?! Mmm… Gabriele Garzià San...ché?!» ripeté il sindaco con una mano sotto il mento e un'espressione assorta, come a volerci capire qualcosa. Ma nulla, quel nome non gli diceva assolutamente nulla. Nel frattempo nella sala si era ristabilito un certo silenzio e tutti i presenti aspettavano che il primo cittadino si pronunciasse confermando o meno le parole di quel giovane: non a caso lo consideravano, insieme al curato, una delle poche persone istruite di tutta la cittadinanza. Il sindaco percepì subito la tensione di quell’attesa, e non volendo deludere il suo elettorato, si impose di dare una risposta: una qualunque risposta purché fosse credibile. «Ah, ma certo…» disse. «Gabriele Garzià Sanciéz! Ma come ho fatto a non ricordarlo prima?! Ma certo! Lei è il famoso artista spagnolo! Come no?!». In realtà il sindaco non ne aveva mai sentito parlare: le sue conoscenze in campo artistico erano pari a quelle di una scimmia nel campo dell'ingegneria aerospaziale. Ma la sua dichiarazione era stata così convincente, immediata e spontanea che nessuno - nessuno! - osò insinuare il ben che minimo dubbio. Lo straniero, rinfrancato da quelle parole di stima, si avvicinò al sindaco porgendogli la mano. «Piacere di conoscerla». «Il piacere è tutto mio!» rispose il sindaco ricambiando il saluto. «Siamo lieti di poter avere un artista del suo calibro nella nostra terra… Un artista così insigne» aggiunse tacendo ulteriormente la sua ignoranza. «Ed è con grande onore che le porgo il benvenuto a nome di tutta la cittadinanza. Sa, io sono il sindaco» sottolineò compiaciuto. «Gracias!» disse lo spagnolo.


26 «Non c'è di che» fece il politico. «La mano, la prego…» disse ancora lo spagnolo. Il sindaco, da quando gliela aveva stretta, non aveva più smesso di agitargliela: gliela mollò di colpo. Poi, consapevole dell'occasione che gli si prospettava, proseguì. «Signor Gabriele» disse. «Gabriel, Gabriel García» si affrettò a correggerlo quello. «Mi scusi» si giustificò il sindaco. «Ma sa, con gli accenti non sono mai stato forte...». Il giovane gli fece un sorriso. Il sindaco riprese. «Beh, signor Gabriel,» disse «vista la situazione mi permetta di invitarla ufficialmente alla nostra riunione: sono certo che la sua presenza non potrà che esserci d'aiuto». Lo spagnolo sorrise di nuovo. «Io e i miei concittadini» disse il sindaco «siamo di fronte a una scelta davvero difficile: dobbiamo dare un nuovo nome al nostro Comune: un nome che sia sinonimo di progresso e che sia auspicio di benessere e prosperità. Ma fino ad ora non abbiamo trovato nulla di interessante, nulla che sia stato capace di soddisfarci. Lei che ha girato il mondo, con la sua esperienza di artista, ci dica, la prego, cosa ci consiglierebbe?». «Eminenti signori,» esordì lo straniero facendosi serio «vi rinnovo la mia proposta di poco fa: un solo nome, a mio parere, risponde perfettamente ai requisiti che voi cercate, e questo nome è Lumière!». «Ci voglia scusare ancora,» lo interruppe il sindaco «ma lei avrà certamente capito che noi non abbiamo la sua padronanza delle lingue: per il momento siamo solo un piccolo paese di provincia… Ci spieghi: cosa significa Lumièr?». «Lumière…» ripeté lo straniero come trasognato. «Lumière è una parola francese che significa luce. La vostra» disse «potrebbe diventare la città della luce!». Lumière… Città della luce… Lumière… Città della luce… Lumière… Città della luce… Quel nome iniziò a girare tra i presenti diffondendosi come un sospiro leggero. Lumière… Peccato non averci pensato prima! Tutti si guardarono tra di loro: le bocche aperte per la meraviglia e lo stupore. Lumière era veramente un nome straordinario. Lumière!


27 Straordinario! Non c'erano altri aggettivi per poterlo definire. Era un nome che dava soddisfazione anche solo a pronunciarlo. Lumière! Lumière! Lumière! Altro che Fariano al Monte… Il primo ad applaudire, naturalmente, fu lo stesso sindaco: l'intervento di quel giovane era stato provvidenziale, e adesso, con tutta probabilità, se ne sarebbe potuto tornare a casa a gustarsi le deliziose pappardelle al cinghiale che sua moglie non mancava mai di preparargli ogni mercoledì sera. Poi si aggiunsero pure tutti gli altri, nessuno escluso, come ipnotizzati dalla squisita raffinatezza di quel nome. Non ci fu neanche bisogno dell'alzata di mano: la fame è fame! E quindi fu deciso, tanto velocemente quanto unanimemente: a furor di popolo e tra mani plaudenti, sarebbero stati la città della luce. Lumière!


28

Capitolo 4 GIOVEDÌ MATTINA

Marco, quella mattina, si sentì svegliare da una voce molto più familiare della sua solita stazione radiofonica: anziché ascoltare Linus su Radio DJ, udì sua madre che scuotendolo leggermente lo chiamava. «Dai, Marco, svegliati! Forza, che fai tardi a scuola…». E Linus? Che fine aveva fatto Linus? Marco ci pensò su. Poi comprese: doveva aver tacitato la radiosveglia senza neppure essersene accorto; di qui l'intervento di sua madre, non c'erano altre spiegazioni… Più assonnato che mai, allora, provò a dischiudere le palpebre, ma come da copione qualcuno aveva avuto la "brillante" idea di spalancare le ante della finestra, e adesso un sole caldo e accecante filtrava nella stanza tagliandola di netto: se avesse aperto gli occhi sarebbe diventato cieco, di questo ne era certo. Così li tenne chiusi e rimase ad aspettare. Durante quell'attesa gli tornarono alla mente le immagini di una ragazza con lunghi capelli rossi, con due occhi luminosi e un sorriso dolcissimo: probabilmente l'eco di un sogno, di un bel sogno. Sua madre, nel frattempo, continuava a chiamarlo dalla cucina. «Marcooooo… è tardi!». La prossima volta ne metto due di radiosveglie, pensò tra sé. Con uno sforzo di volontà saltò giù dal letto, riaprì gli occhi e guardò l'orologio che era sul comodino: le sette e venticinque. Cazzo. È tardi! Alle otto cominciavano le lezioni, e il professor Spallanzani - Guido Spallanzani, professore di matematica e fisica - non ammetteva ritardi, specialmente da parte di quegli studenti che doveva interrogare e che per di più aveva avvisato con una settimana di largo anticipo. Non c'era un minuto da perdere! Marco corse in bagno, si lavò la faccia cercando di cancellare le impronte del cuscino e rientrò in camera sua: il sorriso di quella ragazza, però, tornò a rioccupare i suoi pensieri. Giulia!


29 Ecco chi era. Non era stato un sogno, no: si trattava di Giulia, la ragazza conosciuta il giorno prima alla radura del vecchio mulino. Marco si impose di non pensarci: non aveva tempo per i ricordi; si infilò i jeans, si allacciò le Magnum, si riempì lo zaino dei libri necessari e si diresse verso la cucina. In cucina sua madre aveva già provveduto a preparargli un'abbondante colazione. Lui addentò una fetta di torta alle mele, mandò giù un sorso di caffellatte e uscì fuori a prendere la sua vespa. Ce la posso fare!, si ripeteva. Ce la posso fare! «Fai piano!» fece giusto in tempo a dirgli sua madre affacciandosi dal balcone. «E mettiti il casco!». Ma il consiglio fu vano: il casco era lì, sulla sedia di fianco al frigorifero, che inutilmente stazionava in bella mostra di sé. *** Ore 08:00, 14'' - La vespa bloccata sotto il portico della scuola e via verso il secondo piano: forse il puntualissimo professor Spallanzani non era ancora entrato in classe; forse la porta dell'aula non era ancora stata chiusa; e forse il solito capannello di studenti era ancora lì, che indolente stazionava lungo il corridoio aspettando che la campanella suonasse. Ore 08:00, 22'' - Primo piano. Fiatone. Devo iniziare a fumare, altrimenti non avrò più scuse… Ore 08:00, 26'' - Secondo piano. Atrio. Nessuno in vista. Brutto segno. Non è detta l'ultima parola: la 3ª C si trova proprio dietro l'angolo. Ore 08:00, 30'' - Secondo piano. Svoltato l'angolo. Nessuno. Porta chiusa. Bruttissimo segno. Occhei, il professore è dentro. Ma non sono poi così in ritardo… Marco bussò. Sentì la voce stentorea del matematico dirgli "avanti". Si fece coraggio ed entrò accennando una scusa. «Buongiorno professore, scusi il ritardo». «Bacchi, ben arrivato…» ironizzò Spallanzani. «La prego, si accomodi alla lavagna: stavamo giusto cercando un volontario». Marco si era appena seduto: a malincuore si rialzò, mentre occhi felici di essere scampati al supplizio lo accompagnarono nel calvario che portava dal suo banco alla cattedra. L'interrogazione durò solo pochi minuti e fu una disdetta totale. «Ma cos'ha, oggi, Bacchi?!» lo riprese spazientito il professore. «Lo so che lei non è mai stato un astro splendente della matematica, ma oggi


30 non vuol proprio ragionare?! Possibile che mi si perda sulle equazioni di primo grado? Bacchi?! Ma cos'ha? Cos'è?! È innamorato, forse?! Santiiddio, Bacchi, se ne torni al posto, e ringrazi il cielo che non le metto un impreparato!». Marco se ne tornò al posto. Era vero: in matematica non era mai stato un astro splendente, ma addirittura non azzeccarne una, non era da lui. È che si sentiva strano, come se una nebbia fitta gli avesse invaso il cervello e gli avesse annullato ogni capacità di reazione. Il suo amico Pietro, da dietro il banco, lo chiamò. «Ehi, Marco?!» gli disse. «Ma che t'è preso? Le abbiamo ripetute ieri quelle cazzate… Ti senti bene?». «Sì, sì, tutto occhei» rispose Marco vago. «È che non lo so: oggi non riesco a concentrarmi…». Dall'altro lato dell'aula, intanto, c'era Simona che come sempre gli rivolgeva sguardi ammiccanti ripieni di promesse consolatorie. Marco le allungò uno sguardo, più che altro lo allungò sulle sue gambe che si affacciavano provocanti da sotto la minigonna. Lei se ne accorse e le accavallò in un gesto sensuale e tipicamente femminile. Simona faceva danza classica da oltre dieci anni, e dire che il suo corpo era strepitoso era dir poco: aveva due gambe da infarto, lunghe e flessuose, un fondoschiena che per quanto era alto e sodo sembrava stare in piedi anche quando stava seduta, un punto vita da fare invidia a una vespa e due tette da record! Non era affatto male, Simona, no, per niente male. L'unico problema stava nella faccia: era così piena di acne che avresti potuto intingerci un biscotto e ritrovarlo farcito di crema. E i suoi occhi, poi, erano talmente strabici che avresti potuto scambiarli con quelli di una triglia in padella, senza per questo riuscire a scorgerne la differenza. Non a caso Simona veniva soprannominata Medusa: una delle leggendarie Gorgoni appartenenti alla mitologia greca e famosa per la sua capacità di pietrificare chiunque avesse avuto il coraggio di fissarla negli occhi. Il mito racconta che Medusa, prima della trasformazione in orrido mostro a opera di Minerva, fosse una donna di straordinaria bellezza. Beh, anche Simona, togliendo la testa, avrebbe potuto definirsi una donna di straordinaria bellezza: praticamente una dea. Ma ahimè, la testa c'era. Marco, in qualche occasione, ci aveva pure fatto un pensierino, e una volta ci era perfino uscito insieme. Ma in seguito non era più successo. Mai più. In quella circostanza i due si erano recati in un paese vicino, Casperino, dove un bel viale permetteva di gustare un buon gelato passeggiando


31 sotto il fresco degli alberi. Simona, quel giorno, si era messa un paio di occhiali scuri e si era stretta in un abito che lasciava poco spazio alla fantasia: roba da cardiopalma. Stava andando tutto per il verso giusto; quando lei, però, ebbe la malaugurata idea di togliersi gli occhiali, la situazione precipitò e non ci fu più nulla da fare. Marco non seppe più dove guardare! Per quanto fosse preparato allo strabismo, l'effetto venere, vissuto così da vicino, fu deleterio: non gli riusciva di capire quale dei due occhi lo stesse osservando, e ogni fantasia si dileguò come neve al sole. «Vogliamo andare?» le chiese imbarazzato. E lei: «Vuoi andare via adesso? Ne sei sicuro?». Lui ridiede un'occhiata a quei seni strizzati nel vestitino: non c'era spazio nemmeno per uno spillo; ridiede un'occhiata a quelle gambe lunghe, lisce e flessuose, e a quei fianchi sinuosi. Poi rivide quegli occhi. «Sì!» disse. «Andiamo». E senza altri indugi si incamminò verso la vespa. *** «Bacchi ma dove guarda?!». La voce del professore lo riportò alla realtà: la matematica, che offriva, sì, dei seni e dei coseni, ma molto, molto meno interessanti e attraenti. «Mi scusi prof, è che mi ero distratto…» si giustificò Marco scusandosi per la seconda volta. Il professore gli rivolse un'occhiataccia. Marco assunse un'espressione da bravo scolaro e si sforzò di interessarsi esclusivamente della trigonometria. Ma la sua capacità di concentrazione non durò a lungo, e ben presto i suoi pensieri ripresero a fluire in un'altra direzione: Giulia. Ragionandoci su, Marco cercò di capire perché si sentisse così attratto da quella ragazza e perché, malgrado quasi non la conoscesse, non vedesse l'ora di rivederla. Razionalmente parlando non c'era niente, in lei, che potesse attirarlo: Giulia era troppo piccola di età, aveva un caratteraccio insopportabile e non era neanche il suo tipo: il suo naso, per fare un esempio, era troppo pronunciato e la sua corporatura, troppo robusta. Eppure sentiva che qualcosa, in lei, lo attirava profondamente. Ma cosa? Marco provò a ragionarci ancora, ma non trovò una risposta. Al contrario, poco dopo si era convito che l'età, in fondo, non rappresentava un


32 problema, che quel naso era decisamente sexy e che quella corporatura nascondeva un fascino che non aveva eguali. *** «Bacchiiiiii!». Questa volta a richiamarlo era stato il professore di filosofia: seconda ora. «Bacchi, saprebbe ripetermi l'argomento di cui stiamo parlando?» gli domandò ironico il filosofo. «Veramente, io, professore…» tentennò Marco. «Bacchi,» lo interruppe il professore «se lei conosce la materia così bene da potersi permettere il lusso di non stare attento, è padronissimo di farlo. Ma se - in via del tutto ipotetica, s'intende - lei non dovesse avere la benché minima idea di che cosa sia la critica della ragion pura, allora mi faccia la cortesia di tornare tra noi comuni mortali e di prestare la massima attenzione alle mie lezioni! Ci siamo capiti?!». Marco fece un cenno di assenso con la testa e riassunse la sua posa da bravo scolaro diligente. Il professore se lo squadrò da capo a piedi. Poi, compiaciuto, tornò a cantilenare Kant. Ore 07:35 - Come ogni mattina di scuola, anche quella mattina Giulia si ritrovò sotto la volta dell'archetto ad aspettare che Barbara arrivasse: attendeva impaziente da oltre cinque minuti, e per passare il tempo aveva preso a picchiettare con la punta dei piedi sui sampietrini del selciato. L'archetto era ciò che rimaneva di un antico arco romano che molte epoche addietro aveva permesso l'accesso alla splendida villa di campagna del senatore Ettore Fonseca Pumplilio; adesso non era nient'altro che un vecchio rudere mezzo diroccato e di scarso valore storico che stancamente stazionava ai bordi della piazza del paese. Quando Barbara sopraggiunse, Giulia le vide in volto un'espressione molto preoccupata. «Che c'è?!» le chiese ancor prima di salutarla. «È che non sono riuscita a fare gli esercizi di matematica» confessò Barbara. «Nemmeno io» disse Giulia. «Ma io non ne ho fatto neppure uno!» insistette Barbara.


33 «Allora siamo in due…» ironizzò Giulia. Barbara si grattò la testa. «Che dici? Li copiamo dalla Camionista?». «No» disse Giulia. «Da quell'arpia mai!». La Camionista - al secolo Lucia Cortesi - era, ovviamente, la secchiona della classe e, altrettanto ovviamente, come tutte le secchione, era anche piuttosto acida e bruttina: il suo nomignolo le era stato affibbiato da Giulia in virtù dei suoi modi tutt'altro che femminili. E tra le due non correva buon sangue. Le due compagne si incamminarono per la via procedendo di buon passo, e dopo venti minuti si ritrovarono di fronte a un edificio che sembrava tutto fuorché una scuola: peccato che su una parete di quell'edificio ci fosse una targa con su scritto a caratteri cubitali "Scuola media statale Arturo Belli". Quella mattina si respirava un'aria frizzante nell'istituto: come a macchia d'olio si era diffusa la notizia che un giovane straniero di passaggio aveva ideato il nuovo nome del loro paese. Le voci più accreditate lo descrivevano come un ragazzo bellissimo e affascinante, e che al momento era ospitato nella casa del sindaco in attesa di ripartire per chissà quali mete. Il fermento era palpabile. Non appena Giulia e Barbara misero piede in classe, vennero raggiunte dalla loro amica, Luisa. La nuova arrivata si premette gli occhiali alla radice del naso, come d'abitudine, e tutta festante le salutò. «Ciao ragazze, avete sentito la novità? Il nostro paese si chiamerà Lumière! Sembra che questo nome è stato scelto grazie al suggerimento di un giovane straniero… Fico no!?». «Non so,» disse Giulia «non mi sembra tanto fico. Me lo accennava ieri sera mio padre: dice che significa "città della luce" o qualcosa del genere. Ma non so, e poi non me ne importa niente: tanto quando sarò grande me ne andrò via e mi metterò a girare il mondo anch’io, proprio come lo straniero». Barbara e Luisa si guardarono interdette: non conoscevano le fantasie giramondiste di Giulia. A ogni modo decisero di non darle troppo credito e di preoccuparsi dei problemi più contingenti: visto che neanche Luisa era riuscita a risolvere uno solo degli esercizi lasciati per casa, bisognava trovare subito qualcuno da cui poterli ricopiare. Barbara disse: «Ecco la Camionista. Che facciamo?, le chiediamo i compiti?». «No, io non glieli chiedo» fece Giulia. «La Camionista mi sta troppo antipatica con quell'aria da sotuttoio... Non. la. sopporto».


34 Aveva questo modo di parlare, Giulia, che talvolta, per dare più enfasi al discorso, tendeva a scandire le parole sottolineandole una a una. Rimaneva un'unica possibilità: il Fissa. Il Fissa - al secolo Pasquale Belloccio - aveva ricevuto quel soprannome in ragione della sua particolare propensione a fissarsi sulle persone e soprattutto sulle ragazze. Quando lo conobbero, in prima media, dapprincipio tutti pensarono di avere a che fare con una sorta di maniaco: mentre tu gli parlavi e lui sembrava starti ad ascoltare, eccolo che lì, di punto in bianco, si azzittiva e incominciava a fissarti. Era una cosa da non credere! Tu eri lì che gli parlavi e lui lì che ti fissava: muto come un pesce e con due occhi grandi e sgranati che non si distoglievano nemmeno a ficcarci dentro un dito. Il tutto - tutta la fissazione - durava solitamente non più di due, tre minuti. E quando capitava non c'era nient'altro da fare che farla passare, così, naturalmente, come naturalmente gli era venuta. Ora il Fissa era lì, dall'altra parte dell'aula, che con la sua posa curva e il suo sguardo torvo se ne stava a rimuginare sui suoi appunti. Quello era giorno di interrogazione e la Guidotti - la loro professoressa di matematica, la più temuta dell'istituto, la zitella incallita, colei che esigeva di essere chiamata "signorina professoressa" e che da tutti veniva soprannominata "l'Iradiddio" - beh, la Guidotti non perdonava. Mai. Giulia decise di prendere l'iniziativa: il Fissa per lei aveva sempre avuto un debole, e a lei, lui, stava simpatico. Così si avvicinò al suo banco e lo salutò. «Ciao» gli disse. «Ciao Giulia!» rispose il Fissa felice di vedersela accanto. «Senti Pasquale,» riprese Giulia un po' esitante «non è che hai fatto gli esercizi di matematica? Noi ci abbiamo provato tutto il giorno, ma non c'è stato verso…». In realtà la domanda era retorica: tutti conoscevano la passione del Fissa per la matematica. «Certo che li ho fatti!» disse lui. «Ecco, prendili pure» disse porgendole il quaderno. Giulia gli dette uno sguardo e comprese immediatamente che il Fissa non aveva solamente il problema delle sue ormai note fissazioni, no; ne aveva pure un altro, minore, ma comunque evidente: scriveva da cani, praticamente geroglifici.


35 «Senti Pasquale,» gli disse ancora «ma qui non ci si capisce niente... Non è che me li detteresti?». «Ma certo» la rassicurò lui. «Siediti» le disse. Barbara, nel frattempo, stando di sentinella sulla porta dell’aula, monitorava i movimenti della sala professori. Gli esercizi da fare erano sette, Giulia, finora, ne aveva trascritti tre, e tutto sembrava andare per il meglio. Ma fu a questo punto che accadde l’irreparabile. Noooo… Proprio adesso! Sì, il Fissa si era bloccato come un semaforo guasto fermo sul rosso. Hai voglia a schioccargli le dita davanti agli occhi: niente fa fare, il meccanismo si era inceppato. Le sue "assenze", come venivano definite in gergo tecnico, erano tanto momentanee quanto imprevedibili. E il bello era che poi il malcapitato non se ne ricordava minimamente. Giulia tornò al suo posto e passò gli unici tre esercizi alle sue compagne. Un attimo dopo si sentì la voce stridula della Camionista dare il "ritti!": l'Iradiddio stava facendo il suo ingresso in aula. L'unico a non alzarsi fu il Fissa: era ancora assente. «Seduti» disse secca la signorina professoressa Guidotti. Non rimaneva che sperare nella Divina Provvidenza. «Buongiorno a tutti» salutò la Guidotti. «Oggi interroghiamo». In verità nessuno mai aveva ben capito perché i professori nel dire "oggi interroghiamo" lo dicessero sempre al plurale: come se a condurre l'interrogazione fossero in più di uno; solo con la Guidotti questi dubbi non erano mai sorti: con lei, a interrogare, era realmente come se ci fossero non una, ma anche due o tre professoresse contemporaneamente. Il gelo piombò sulla classe. «Dunque» riprese la professoressa passando in rassegna l'elenco dei presenti. «Vengano alla lavagna Cordeschi e Ranieri». La chiamata arrivò come il morso di un serpente: spietato, freddo e inaspettato. Giulia (Cordeschi) e Luisa (Ranieri) si guardarono atterrite: l'angelo della morte, e pure quello della sfiga, stavano volteggiando sopra le loro teste. «Prego, accomodatevi» le invitò con un falso sorriso la Guidotti. Le due malcapitate si alzarono e si avviarono verso il patibolo. «Avevamo degli esercizi da correggere, no?» si informò la professoressa con un tono ironico. «Sì» risposero timidamente le due amiche.


36 «Bene,» disse la professoressa «allora cominciamo col primo. Prego Cordeschi, alla lavagna». Giulia si avvicinò alla lavagna e si mise a ricopiare pari pari dal suo quaderno. Le andò bene: la Guidotti le fece fare solo i primi tre esercizi, le domandò qualche regola su questo o quel teorema e la rispedì al posto. Sei più. San Fissa l'aveva salvata. I problemi arrivarono quando venne il turno di Luisa: le rimanevano da fare gli ultimi quattro esercizi e lei, per sua sfortuna, non ne possedeva neppure uno. «Allora Ranieri, cosa aspetta? Le vogliamo correggere o no queste espressioni?!» ringhiò la professoressa. Luisa rimase interdetta: non sapeva cosa dire o fare e le veniva da piangere. Disperata, rivolse uno sguardo alla classe, ma la Guidotti era peggio di un falco: nessun suggerimento sarebbe potuto arrivarle. Era spacciata. «Ranieri mi porti il quaderno» ordinò la professoressa. Luisa glielo appoggiò sulla cattedra. «Bene, bene» disse la Guidotti. «Vedo che ha fatto solo i primi tre esercizi: se ne vada pure al posto» concluse restituendole il quaderno. «Tre, Ranieri: lei oggi si è presa un bel tre». Luisa si riprese il quaderno, si spinse gli occhiali alla radice del naso e se ne ritornò al posto; mentre si sedeva sentì le lacrime salirle agli occhi, ma si impose di non piangere: con orgoglio alzò la testa e continuò a seguire la lezione. La prof, non paga del risultato ottenuto, chiamò alla lavagna altre due vittime: un cinque meno meno e un altro "bel" quattro: era evidente che nella sua considerazione i voti più belli erano quelli che andavano dal quattro in giù… Poi, grazie al cielo, la campanella suonò, e tutti, finalmente, poterono tirare un sospiro di sollievo: gli angeli, almeno per quel giorno, avevano smesso di svolazzare.


37

Capitolo 5 SEMPRE GIOVEDÌ MATTINA

Si respirava aria di novità quella mattina in casa del sindaco. Marianne, la figlia, per l'occasione si era chiusa in bagno da quasi un'ora: aveva bisogno di darsi giusto una "sistematina", come diceva lei; il giovane straniero e il suo cane dormivano ancora nella stanza al pianterreno, quella riservata agli ospiti; e la moglie, la signora Mariagrazia Chiappetti, da tutti conosciuta come la "signora Vadi", si prodigava nel riordinare e pulire tutti gli angoli della casa, anche i più nascosti, tra un gran sbattere di materassi e cuscini e coperte e quant'altro fosse stata in grado di affacciare fuori da ogni finestra o balcone. «Devono prendere aria» la si sentiva borbottare mentre svolgeva le faccende domestiche. «Devono prendere aria, altrimenti gli icari ci sommergono. E io non li sopporto gli icari!». Per inciso sia detto che di "acari", nella casa in questione, non ce n'erano più neanche a cercarli col microscopio: gli ultimi avevano abbandonato il campo in seguito all'intervento di una ditta specializzata in disinfestazioni, la Ecodisinfest, la quale, dopo aver effettuato un sopralluogo che aveva accertato la massiccia presenza del temutissimo dermatophagoides pteronyssinus (il comune acaro della polvere), aveva ritenuto di dover adottare la cosiddetta linea dura e di dover applicare, cioè, il programma di bonifica più drastico e violento che si fosse mai visto sulla faccia della terra: il Totalitarius! Il "valente" personale della Ecodisinfest aveva garantito che tutto si sarebbe risolto nell'arco di 72 ore: solo 72 ore per potersi sbarazzare definitivamente del terribile dermatophagoides pteronyssinus. E la signora Mariagrazia non se l'era fatto ripetere due volte: senza pensarci troppo aveva staccato l'assegno di pagamento anticipato, e piena di entusiasmo aveva autorizzato l'operazione. Il loro appartamento, in pratica, venne prima evacuato, incartato e sigillato come una caramella, e poi riempito con un gas speciale che li avrebbe finalmente liberati dalla presenza dei fastidiosissimi parassiti. Tuttavia qualcosa andò storto, e l'operazione si rivelò più lunga e problematica del previsto…


38 Quando "scartarono" la casa, infatti, se ne sprigionò un odore di pesticida così forte da rendere difficile perfino passeggiare nella strada sottostante. Ma non fu quello l'unico inconveniente, né il peggiore: in fondo, che per qualche tempo potesse permanere un cattivo odore di antiparassitario, era una cosa che si sapeva, che era già stata messa in conto... Quello che nessuno si sarebbe proprio aspettato fu l'altro odore, ben più fetido e macabro, quello della carcassa del loro gatto, Castagna, che accidentalmente doveva essere rimasto intrappolato all'interno dell'appartamento poco prima della bonifica. Il povero animale, stando ai graffi che aveva lasciato su ogni arredo e su ogni mobile disponibile, nel corso di quella prigionia doveva aver sofferto le pene dell'inferno, e probabilmente doveva aver anche tentato di farsi un’ultima bevuta attingendo all’unica fonte d’acqua reperibile: quella che ristagnava nel gabinetto. Quando la signora Mariagrazia se lo ritrovò morto stecchito nella tazza del bagno, si mise a strillare e a sbraitare come un'ossessa: le sue urla si udirono fin sopra la piazza di San Sebastiano, e buona parte degli abitanti del paese riuscirono a vivere in diretta audio l'intera sfortunata vicenda. Suo marito, temendo che le pigliasse un colpo e volendo scongiurare il peggio - tra l'altro sua moglie soffriva pure di cuore -, per farla calmare dovette arrivare a prometterle che: 1° - avrebbe fatto portare via da tutto lo stabile, e non solo dal loro appartamento, l'intero mobilio, per poterlo ripulire e disinfettare nel modo più idoneo e appropriato possibile; 2° - avrebbe fatto lucidare tutti i pavimenti e imbiancare da cima a fondo ogni singola parete; 3° - avrebbe fatto gettare via tutti i materassi, i cuscini e le tende, sostituendoli con altri nuovi di fabbrica; 4° - avrebbe fatto cambiare la tazza del bagno; 5° - avrebbe dato una degna sepoltura a Castagna. Bisogna riconoscere che il povero sindaco dovette sborsare una cifra non indifferente per poter far fronte a tutti gli impegni presi. Ma alla fine, grazie a Dio, la situazione sembrò normalizzarsi: la signora Mariagrazia - o signora Vadi, che dir si voglia - riprese le sue abitudini, felice di poter vivere in un appartamento più sterilizzato di una sala operatoria; l'immenso vuoto lasciato da Castagna venne immediatamente colmato dall'adozione di un nuovo gatto, Macchia; e tutto, ma proprio tutto, si sistemò, facendo sì che la vita potesse ricominciare a scorrere serena e gioiosa così come era sempre stato. Amen.


39 *** La signora Vadi, dunque, era lì quella mattina: era lì che si ostinava con solerzia di intenti a pulire, sollevando e sbattendo e riordinando, e, soprattutto, riposizionando ogni oggetto sul suo specifico centrino. Sì, perché in quella casa nulla poteva permettersi il lusso di poggiare direttamente su una superficie nuda: per ogni cosa esisteva un centrino appositamente ricamato. C'erano centrini da mettere sotto le foto, centrini per la televisione, centrini per le abat-jour, centrini da soprammobile, centrini puramente ornamentali e, addirittura, centrini per i fornelli del gas! Insomma, c'erano centrini per ogni dove, e ognuno col suo posto perfettamente individuato, con la sua esatta collocazione. Come sempre le pulizie si protrassero fino alle ore nove, perché alle nove e trenta - cascasse il mondo! - la signora Vadi procedeva all'apertura dell'attività che rappresentava la sua più grande passione (dopo la famiglia, si capisce): "Da Mariagrazia Profumi e Belletti", un negozio in via Sant'Eustachio, nei pressi della piazza. Centralissimo. Il signor sindaco, invece, (il dott. Ernesto Filiberto, stimato farmacista), contrariamente alle sue abitudini, quella mattina era uscito di casa già da diverse ore: aveva deciso di iniziare la propria giornata lavorativa alzandosi prima del previsto; in fin dei conti perfezionare le pratiche relative all'ufficializzazione del nuovo nome da dare al loro paese, non era una cosa semplice, né da farsi in poco tempo. L'infaticabile primo cittadino, quindi, si era recato in municipio con ben due ore di anticipo: peccato, però, che non avesse le chiavi dell'ufficio e che il portiere comunale, proprio quel giorno, non fosse animato dal suo stesso fervore. L'unica persona che quella mattina non sembrava degnarsi di nulla, era il giovane forestiero, che assieme al suo cane continuava a dormire indisturbato nel piccolo monolocale che il sindaco gli aveva “gentilmente” messo a disposizione la sera precedente… Le cose erano andate pressappoco in questo modo: quando, al termine della riunione che aveva deciso il nuovo nome del loro Comune, si era saputo che lo spagnolo non disponeva di un ricovero dove poter passare la notte, i più avevano cercato di procurargliene uno. «Potremmo domandare al parroco» aveva azzardato qualcuno. «In canonica ci dovrà pur essere un posto». Ma la proposta venne subito bocciata: don Erminio non avrebbe mai dato ospitalità alla persona che si era resa colpevole della scelta di un nome come Lumière.


40 Ma allora che fare?! Da quelle parti non c’era nemmeno una pensione presso la quale poterlo indirizzare… Per un po’ nessuno parlò: il problema sembrava destinato a rimanere senza soluzione. Ma poi, all’improvviso, ebbero tutti la stessa idea. Ma certo! Il sindaco! Come non averci pensato prima?! Era il sindaco la persona più adatta per potergli dare ospitalità: era lui che ne conosceva la fama di artista, era lui che lo aveva accreditato come tale, e non era forse lui che possedeva un monolocale per gli ospiti al piano terra della sua bella casa? Animati da quel pensiero, tutti i presenti avevano cominciato a guardarlo. E lui, avendo intuito la situazione, non si era lasciato cogliere impreparato: prima ancora che qualcuno potesse chiederglielo, si era offerto di ospitare lo straniero. E poco dopo si era ritrovato a suonare alla porta di casa, accompagnato sia da Gabriel che da Pepito. «Ma caro!?» lo aveva salutato sua moglie. «Ma come mai così tardi?!». «Perdonami, amore» si era giustificato lui schioccandole due baci sulle guance. «Devi scusarmi, ma quella riunione, oggi, non voleva più finire. Se siamo arrivati a una conclusione lo dobbiamo solo all'intervento di questo bravo ragazzo. Lui» aveva detto indicandoglielo «è Gabriele (Gabriel, pensò l'altro rassegnato), e si tratterrà qui con noi per qualche giorno. È un artista spagnolo, sai? E come ti ho già detto è stato determinante nella scelta del nuovo nome da dare al nostro Comune: pensa che si chiamerà Lumièr! Non è straordinario?!». «Sì, sì…» aveva detto sua moglie senza troppo entusiasmo: la politica, d'altronde, non le era mai interessata. «Finalmente una bella faccia nuova da queste parti!» aveva detto. E nel dirlo aveva abbracciato il nuovo arrivato imprigionandolo tra le sue possenti braccia da massaia. Poi fu la volta di Marianne, la figlia del sindaco. Quando Gabriel, quella sera, la conobbe, nonostante lei si fosse presentata in tuta da ginnastica, non poté che essere d’accordo con l’unisono parere degli abitanti di quel posto: quella era davvero una gran bella ragazza! ...CONTINUA...


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.