Il volo del nibbio, Marco Maria Capponi

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In uscita il 31/1/2018 (1 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio e inizio fbbraio 2018 ( ,99 euro)

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MARCO MARIA CAPPONI

IL VOLO DEL NIBBIO

ZeroUnoUndici Edizioni


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IL VOLO DEL NIBBIO Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-169-3 Copertina: Immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Gennaio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


La vita non è un riposo, è una cosa seria, impegnativa e responsabile in ogni suo aspetto. […] L’uomo qualunque non è appunto se stesso, è altri da sé, disposto a tutto pur di rinunciare a quella quiete [quiete rinunciataria dello spirito] che è terribile perdita, la perdita della umanità. Aldo Moro

In fondo, è così comodo essere minorenni! Se ho un libro che ragiona al posto mio, se ho un direttore spirituale che ha una coscienza anche per me, se ho un medico che stabilisce quale dieta io debba seguire, e così via, io, per quanto mi riguarda, non ho più bisogno di fare alcuno sforzo. […] Invece, per conseguire quell’illuminismo non occorre altro che la libertà; e precisamente, la più inoffensiva di tutte le forme che possono essere chiamate in tal modo, ossia: il far pubblico uso della propria ragione in ogni campo. Immanuel Kant



Ai nonni Maria, Franco, Luciano e Gabriella, che mi hanno fatto capire che nulla deve essere dato per scontato Ai genitori Giovanni e Cristiana, che mi hanno insegnato a ragionare con la mia testa A Nicoletta, che ha creduto in me



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MONDO DI CENERE – L’INCONTRO

La prima volta che la vide fu nella zona smilitarizzata che divideva come una cicatrice le due anime della Capitale. Era un’afosa domenica di luglio e il calore del sole si insinuava nella sua divisa mimetica con l’impeto di una condanna. Alzando lo sguardo da terra, vide quella steppa prolungarsi come un oceano per centinaia di metri, e in fondo, sulla linea dell’orizzonte, percepì i vaghi contorni della città degli Usurpatori. Nilats era a disagio: non era mai uscito in vita sua dai confini di Capitale Ovest, e sentì il forte impulso di girarsi e tornare indietro. Ma sapeva che non poteva farlo, perché dalla sua missione dipendeva la Lotta Ideologica del Partito. Quella mattina si era recato come di consueto all’Opera proletaria giovanile per l’appello, proprio nel momento in cui il Compagno Istruttore iniziava a leggere un proclama: «Compagni e Compagne, in nome della Rivoluzione proletaria, il Supremo», mise una mano stretta a pugno sul cuore, «ha incaricato l’Opera di una grande missione, che darà una svolta decisiva alla Lotta Ideologica del Partito contro gli Usurpatori». Nilats drizzò le orecchie, in fibrillazione. «Il Supremo» continuò il Compagno, «ha stabilito che cinque volontari si rechino questa mattina nell’area smilitarizzata e rimuovano le bombe collocate nei punti strategici M112, M113, M117 e N121. Il genio tattico del Supremo è certo che questa mossa sarà decisiva per l’ormai prossima vittoria del conflitto». Un boato aveva seguito le parole del Compagno, e tutti si erano messi in fila per porre il proprio nome nell’urna. Quando era stato estratto il suo cartellino, Nilats aveva sentito il cuore riempirsi di orgoglio, e aveva percepito negli altri Compagni meno fortunati un fremito d'invidia. A diciotto anni, era il più giovane della delegazione ed era certo che il Supremo sarebbe stato orgoglioso di lui. Ora che si trovava lì, però, iniziava a essere agitato: voleva tornare a casa, tra la sua gente, partecipare alla Parata delle Gioventù con gli altri Compagni della sua età. La sua disciplina non era ancora perfezionata: non riusciva a non provare paura, e sapeva perciò di essere vulnerabile. «Il Supremo ha ordinato la rimozione di quattro bombe» disse il


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Compagno più anziano, che stava per entrare nel Reggimento proletario di terra. «Io prendo la M112, tu la M113, tu la M117 e tu la N121». Non aveva indicato Nilats. «E io?» chiese. «Ci copri le spalle». Nilats era un po’ deluso, ma d’altronde il Sesto comandamento insegnava: “Obbedisci a chi ha un grado più alto di te; a parità di grado obbedisci al più anziano; così obbedisci al Supremo.” E così, mentre i Compagni si mobilitavano, Nilats imbracciò il fucile e iniziò a circoscrivere mentalmente un’area che avrebbe percorso a difesa degli artificieri. Stava cercando il modo migliore per tenere il più possibile alle sue spalle la città degli Usurpatori, quando la vide. Era seduta su una roccia, a fumare una sigaretta. Il fumo era severamente vietato dalla morale del Partito, e perciò la prima sensazione che provò fu un moto di disgusto. Accertandosi che lei non lo avesse visto, si fermò a guardarla per qualche istante. Era evidentemente una ragazza dell’Est. Lui non le aveva mai viste, se non le Sporche Madri dei manifesti della propaganda del Partito; ma quelle erano grasse, con i volti deformati e contratti dall’odio e i denti neri. Si era convinto che tutte dovessero essere come loro, ma lei evidentemente non lo era. Per un attimo pensò che fosse di Capitale Ovest come lui. Ma il suo volto era leggermente truccato: le Compagne non potevano in alcun modo fare uso di orpelli capitalistici. E poi stava fumando! Pensò che fosse una Traditrice della Lotta Ideologica, ma anche questo era improbabile: non si poteva disobbedire al Supremo, perché la sua Parola era talmente giusta e misericordiosa da non permettere mai che un Compagno fuggisse da essa. Se qualcuno deviava, veniva rieducato fino a essere ricondotto sulla retta via. No, non c’erano dubbi: doveva per forza essere una ragazza dell’Est. Maledisse se stesso per non essere di un anno più grande: la sua educazione ancora non gli permetteva di riconoscerle, e perciò non sapeva cosa aspettarsi da loro. Sicuramente a primo impatto era molto appariscente: aveva lunghi capelli dorati, gambe lunghe e abbronzate, un fisico agile sotto una minuscola canottiera che faceva intravedere le forme sinuose. Dalla sua posizione, Nilats non riusciva a vederle il colore degli occhi, ma li immaginò chiari. Quella ragazza, che aveva all’incirca la sua età, stava facendo scempio di qualsiasi norma di pudore. Una Compagna non avrebbe mai mostrato il suo corpo in quel modo, perché l’unica cosa che un Proletario doveva dimostrare era la sua fedeltà al Partito e al Supremo. Ecco perché quella che aveva davanti era un’Usurpatrice, e non avrebbe


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potuto, per la sua condotta immorale, venire in alcun modo rieducata dal Supremo: doveva essere eliminata. Le puntò il fucile alla testa, pronto a fare fuoco, quando ricordò che il genio tattico del Supremo aveva deciso che dopo la resa tutti gli Usurpatori sarebbero morti della morte più dolorosa. Non poteva dare a quella bestia che aveva davanti il privilegio di morire da soldato. La fissò ancora per un attimo, prima di gridare con quanto odio aveva in gola: «È in corso un’operazione militare ordinata dal Supremo in persona. Vattene o sarò costretto a ucciderti». Lei trasalì e alzò lo sguardo, incrociando quello di Nilats; non si era sbagliato, aveva dei bellissimi occhi del colore del mare. Lui esitò per un attimo, combattuto da emozioni contrastanti: non riusciva a provare odio verso una creatura così bella, ma aveva un impegno nei confronti del Supremo. Si disse che quelle dovevano essere le tentazioni di cui parlava la propaganda, quelle che cercavano di corrompere gli animi puri dei Compagni. La voce gli si incrinò quando ripeté: «Sei nel mezzo di una missione militare del Supremo. Devi andartene». Lei gli sorrise beffarda. «Siamo in area smilitarizzata. Se mi spari la Società Internazionale dichiara guerra al tuo Supremo e a tutta Capitale Ovest, e finirete tutti polverizzati in meno di un giorno». Quella storia della Società Internazionale era la più grande menzogna dell’Est per fingere di avere qualche alleato quando il Supremo l’avesse sconfitta. «Stai mentendo!» gridò Nilats. «Gioca a fare il soldato, dai. Ammazzami, se hai le palle. Tanto a me non importa un cazzo di vivere. Dai, sparami». Lei aveva un tono strafottente e canzonatorio mentre gli si parava davanti e fissava il suo fucile. «Ora stai esagerando!» urlò Nilats, al colmo della rabbia. «I miei Compagni saranno avvertiti di questo. Voi Usurpatori farete la fine delle mosche, e il Supremo avrà quello che Gli spetta di diritto». Lei gli si fece incontro, prese la canna del fucile e la puntò al suo petto. «Non aspetto altro che morire. Sono venuta qui di nascosto, perché sapevo che oggi ci sareste stati voi esaltati. Dai, sparami». Nilats la fissò negli occhi, sgomento. «Tu non puoi conoscere i piani del Supremo». Lei gli scoppiò a ridere in faccia. «Che ingenuo che sei, bambino soldato. La Società Internazionale ha deciso che voi foste qui oggi, e si è raccomandata con noi di non fare i pazzi da queste parti. Io


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ovviamente so disobbedire, a differenza tua». Nilats voleva soltanto tornarsene a casa e non vedere mai più quell’angelo malvagio. «Vai via! Smetti di mentire». Tolse la sicura dal fucile. «Vi facevo più coraggiosi, sai?» sputò lei, sprezzante. Poi fece un passo indietro e si tolse la canottiera. Nilats non era pronto a questo; improvvisamente, sentì qualcosa crescere nella zona inguinale. Era una sensazione piacevole, che gli era capitata soltanto atre due o tre volte nella vita. All’Opera proletaria giovanile gli avevano detto che succedeva quando il Supremo pensava proprio a te; era un momento di grande privilegio. Ma in quel momento, lui non stava pensando al Supremo, né alla Lotta Ideologica né al Partito né ai Compagni che stavano togliendo le bombe dalla steppa, ma soltanto a quelle forme splendide che gli stava mostrando la bella Usurpatrice bionda. «Allora?» chiese lei. Nilats non riuscì a rispondere. Lei sospirò. «Ti piace, soldato? Ce le hai delle sensazioni in quel corpo di legno?». Lui non riusciva a parlare, non riusciva a pensare, non riusciva neanche a muoversi. Voleva soltanto guardare quel corpo. Dopo un minuto che gli parve un’eternità, lei si staccò dal suo sguardo, rimise a posto il vestito e si accese un’altra sigaretta. «Sei proprio inutile. Inutile. Addio». Gli si avvicinò e stampò le labbra sulle sue. Nilats sentì il profumo della lavanda, e una sensazione di umidità nei pantaloni mimetici che nulla aveva a che vedere con il caldo torrido della steppa. Gli occhi di lei si riempirono di lacrime; si coprì il volto con le mani, si voltò e si dileguò rapida tra le rocce, in direzione Est. Sopraffatto da un improvviso mal di testa, Nilats stramazzò al suolo. Si risvegliò nell’infermeria dell’Opera; era ancora molto caldo, quindi non dovevano essere passate più di due ore dal suo malore. Davanti a lui, stava il Compagno Rieducatore, nella composta postura che contraddistingueva quelli del suo rango. Iniziò a parlare con tono fermo e deciso, senza tradire alcuna emozione. «Compagno Nilats, la tua condotta di oggi è stata di deprecabile spregio verso la Lotta Ideologica. Hai parlato con un Usurpatore. Hai trascurato i Compagni e la Missione. Sei stato corrotto nel corpo e nell’anima da sentimenti capitalistici e contrari alla rivoluzione proletaria del Partito. Hai mostrato una scarsa disciplina e hai disonorato il Supremo. Il Tribunale


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del Popolo ti ha giudicato colpevole di alto tradimento e condannato a morte per fucilazione. Ma il Supremo, dall’alto della Sua grazia, ha preferito tenerti in vita, affinché tu possa continuare a servirlo fedelmente, dopo un’opportuna rieducazione. Pertanto, sarai escluso per un mese dall’Opera proletaria giovanile, e sarai un Reietto. Tutte le onorificenze che hai conseguito finora ti verranno rimosse». Veloce come era venuto, e senza attendere alcuna reazione, girò i tacchi e se ne andò. Rimasto solo, Nilats iniziò a tremare per la vergogna. Non era insolito che un membro dell’Opera venisse condannato a morte dal Tribunale del Popolo e poi graziato dal Supremo, ma l’idea di diventare Reietto per un mese lo terrorizzava. I Compagni non lo avrebbero più salutato, sarebbe stato vittima delle ingiurie più crudeli, per trenta giorni lo avrebbero potuto seviziare come se fosse stato un sacco di juta. Chi era stato Reietto anche solo per una volta nella vita non avrebbe potuto fare carriera nei gradi alti dell’esercito, sarebbe stato sempre visto con disprezzo da tutti e, benché reintegrato, avrebbe suscitato per tutta la vita diffidenza. Gli avrebbero appuntato una “R” nera al petto e, nonostante tutte le medaglie che avesse conseguito nella carriera, quella sarebbe stata la macchia più vistosa. L’unico modo che aveva per reintegrarsi totalmente era compiere un’azione veramente eroica, che lo facesse entrare nelle grazie del Supremo. Voltò il capo verso il comodino alla sua destra: tutte le mostrine erano state rimosse, ed era stato messo al loro posto il medaglione di legno che avrebbe dovuto indossare uscendo dall’Infermeria. Lo aveva meritato, pensò: non aveva dato ascolto alla propaganda, e si era fatto ingannare da un’Usurpatrice malvagia. Avrebbe dovuto distogliere lo sguardo dal suo corpo, evitare di parlarle, rifuggire il suo contatto. Pensò al Supremo che, secondo la biografia ufficiale, aveva resistito alle tentazioni di quindici capitaliste completamente nude che avevano tentato di sedurlo. E lui non riusciva nemmeno e rifuggirne una! Non era stato un bravo Compagno, aveva davvero disonorato il Partito, e la punizione che gli si prospettava era la più giusta ed equa che il Supremo potesse infliggergli. D’altronde, il Supremo sapeva sempre cosa era giusto per un Proletario, e si faceva sempre guidare nelle sue scelte da equità e moderazione. Si fece forza e, indossato il medaglione, si alzò dalla branda, pronto ad affrontare il castigo. Essendo l’ora più calda del giorno, sperava che gli altri Compagni fossero in sala comune a riposare prima delle


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esercitazioni pomeridiane, e che non avrebbero badato granché a lui. Ma non fu fortunato: appena uscì dall’infermeria, si imbatté in un Compagno della sua età, che quella stessa mattina si era complimentato con lui quando era stato sorteggiato per la missione nella steppa. Lo fissò con odio, prima di gridare: «Reietto! Traditore! Bestia!». Poi gli sputò in faccia e lo colpì con due pugni allo sterno. Le sue parole raggiunsero gli altri in sala comune, e in dieci secondi fu circondato da Compagni inferociti. Quello che era con lui nella zona smilitarizzata, e gli aveva ordinato di coprirgli le spalle, prese la parola. «Questo maiale si divertiva con una cagna Usurpatrice mentre noi rischiavamo la vita per il Supremo». Boati e grugniti di spregio uscirono dalla folla, prima che i Compagni si accalcassero a picchiarlo. Nilats non provò nemmeno a difendersi; mentre sentiva le costole incrinarsi per le botte, gli occhi gli si riempirono di lacrime di vergogna. A un tratto, una voce imperiosa si erse nella calca. «Cosa succede qui?». Era il Compagno Istruttore. «È un Reietto». «È un cane». «Disonora il Supremo». Il Compagno Istruttore si fece spazio tra la folla e fissò i suoi profondi occhi verdi in quelli di Nilats. Aveva sempre avuto un forte rispetto verso di lui, perché era uno dei più volenterosi Proletari dell’Opera. Nilats sperò per un istante che potesse essere clemente verso di lui. Invece, il Compagno Istruttore sembrò non riconoscerlo quando ordinò: «Reietto, nella mia stanza». Gli altri ammutolirono; di solito i superiori non si prendevano mai la briga di infierire sui Reietti, ma alle volte, molto raramente in verità, li convocavano nel loro ufficio, dove compivano i cosiddetti Atti Biologici. Erano la peggiore tortura che si potesse desiderare, e di solito i Compagni la consideravano troppo dura anche per un Reietto. Nilats aveva conosciuto un solo altro Proletario che fosse uscito dall’Atto Biologico, e aveva provato una forte pena per lui. Mentre si alzava e, tutto dolorante, seguiva il Compagno Istruttore verso la sua costruzione, non sentì più alcun grido di scherno, né un insulto, né uno sputo. Il silenzio ovattato di tutta l’Opera, interrotto soltanto dai passi del Compagno tre metri davanti a lui, che sollevavano mulinelli di polvere, era più inquietante di una marcia verso il patibolo. E ancora una volta in quella giornata, sotto il sole che picchiava inclemente sul piazzale, Nilats ebbe paura.


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MONDO DI LUCE – L’INSOSTENIBILE ASSENZA DI STELLE

Nike rientrò in casa molto tardi quella sera. Era andata nella zona smilitarizzata per farla finita una volta per tutte, ma non ce l’aveva fatta. Non solo: aveva anche conosciuto quel maledetto soldato dell’Ovest, che non era riuscito a premere il grilletto del suo fucile. Le piaceva, quel soldato: era un fanatico come tutti gli altri, ma aveva una scintilla di titubanza negli occhi che lo rendeva quasi carino. I baffetti da latte, la voce ancora da ragazzino, la divisa mimetica troppo grande, il fucile che sembrava pesare un’enormità per le sue braccia esili; non riusciva a provare paura nei suoi confronti. Avrebbe voluto rivederlo. Era quasi contenta di non essere morta: chissà se lui sarebbe mai ritornato in quella steppa. Mentre questi pensieri le formicolavano nella testa, stava percorrendo il viale centrale del settimo livello di Edenia, o come si chiamava fino a qualche lustro prima, Capitale Est. Era il livello della città per gli impiegati e i piccoli commercianti, e il tenore di vita che vi si conduceva era abbastanza buono. A Edenia, ogni livello aveva le sue classi e il suo standard, ma una sola legge era comune a tutta la città: quella del Capitale. A ogni lavoratore il governo imponeva, dopo la giornata in ufficio, due ore di Consumo sfrenato, in cui bisognava acquistare quanti più beni possibile al solo scopo di ingigantire il vortice della spesa. Ogni livello era tappezzato di negozi, che pubblicizzavano i loro prodotti con led scintillanti; ogni via di Edenia riluceva a ogni ora del giorno e della notte dei bagliori delle insegne e degli slogan delle grandi multinazionali. Ogni prodotto aveva la sua marca, ogni evento il suo sponsor, ogni persona un nome che doveva avere, in un modo o nell’altro, il riferimento a qualche grande compagnia. A Edenia non si faceva mai notte: le luci dei maxischermi e dei cartelloni pubblicitari illuminavano a ogni ora le grandi via della


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capitale, che era sempre addobbata a festa e brulicante di individui che, come macchine, applicavano senza sosta la Ferrea Legge del Consumo. Per questo motivo, era impossibile vedere le stelle in cielo. Una sola volta, durante un blackout, Nike aveva potuto scorgere quei puntini scintillanti nel firmamento, e se ne era subito innamorata. Da quel giorno, non le aveva mai più viste, e la loro insostenibile assenza le faceva odiare con tutto il cuore la sua città. Una sua compagna di classe la fermò lungo la strada. «Nike, non sai cosa mi è successo oggi durante le Due Ore di Consumo. Ai grandi magazzini P&S ho incontrato la modella della pubblicità del Fick’s». Lei la liquidò con un’alzata di spalle: non aveva idea di dove fossero i grandi magazzini P&S, e soprattutto non aveva la benché minima intenzione di informarsi su cosa fosse il Fick’s. «Sai cosa mi ha detto?» proseguì quella, tutta emozionata. «Cosa?» chiese Nike, riprendendo intanto a camminare verso casa sua. L’altra le si parò davanti. «Per diventare bella come me, devi mangiare molti Kicks della Dumont’s Cops. Capisci?». Nike la guardò di sbieco: «Suppongo che te lo abbia detto allo stand della Dumont’s Cops. Sbaglio?». Lei fece quasi un salto per l’eccitazione: «Ma è ovvio! Lei va sempre a fare la spesa lì. Ho già detto a mio padre di fare l’abbonamento annuale ai Kicks. Non vedo l’ora che arrivino». Nike scosse la testa: come si poteva essere così idioti da non capire che quella modella era stata pagata appositamente per fare la pubblicità a quella merda? Esisteva una Dumont’s Cops in ogni livello, e per ogni livello aveva un suo prodotto: Kicks, Scrinch, Munch e robe simili. Forse, al decimo livello era veramente qualcosa di buono e benefico per la salute, ma in tutti gli altri casi era un sottoprodotto fatto con gli scarti della lavorazione dei livelli precedenti. Non si sarebbe meravigliata se al primo livello, quello degli operai, la Dumont’s Cops avesse prodotto segatura in scatola, e l’avesse fatta pubblicizzare da una splendida modella in bikini. Se qualcuno si ammalava, tanto, la colpa non era mai della multinazionale: quella dava sempre le opportune precauzioni (scritte minuscole sul retro della confezione), e quindi era inattaccabile. Se c’era un problema, era sempre colpa del consumatore. Salutò l’altra e si avviò verso casa. Viveva in una palazzina di tredici piani costruita tra un fast food che reclamizzava “Come puoi vivere senza le patatine Marango?” e un pet shop che diceva “Y&Sons è


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l’abbigliamento giusto per il cane di classe” con la foto di un cagnolino vestito da nababbo, con il monocolo e il cappello a cilindro. Nike aveva sempre provato una gran pena per quel cagnolino. Non appena aprì il portone di casa, si ritrovò davanti la figura imponente del padre, ancora in giacca e cravatta, che le mollò un ceffone in viso. Dietro di lui, due agenti con i caschi gialli della Società Internazionale sembravano molto preoccupati. Nell’altra stanza, si sentiva il televisore a tutto volume, che dava una di quelle telenovelas che piacevano tanto a sua madre. «Disgraziata» la apostrofò il padre. «Non sai che pena che ci hai fatto avere per tutto il giorno. Questi signori», indicò i due agenti, «ti hanno vista vicino alla zona smilitarizzata. Ti rendi conto di che rischio hai corso? Se quelli di là ti avessero visto, magari ora saresti morta». Nike scrollò le spalle. Un agente, con aria bonaria, le disse: «Signorina, è molto rischioso andare da quelle parti. La prossima volta vai in centro a fare un po’di shopping con le amiche, è chiaro?». Le mise in mano una banconota da venti dollari. Suo padre ringraziò l’agente e la invitò a fare lo stesso. Poi le disse: «Ora vai da tua madre, che è stata così tanto in pena per te oggi. E poi vai in camera tua e vedi cosa ti ha comprato. Ha detto di averti fatto un regalo speciale». Mentre il padre parlava con gli agenti, entrò in salone. Sua madre era immobile sul divano, a mangiare patatine e gelato davanti alla televisione. Sembrava tutto fuorché preoccupata. Era grassa e sformata, passava tutte le sue giornate davanti a quell’apparecchio, con la luce spenta e le serrande abbassate. Quel salone era l’unico posto buio di tutta Edenia. Usciva soltanto per le Due Ore di Consumo, durante le quali acquistava tutto quello che aveva visto nelle pubblicità della sera prima. Nike la odiava con tutta se stessa. «Nike, tesoro» esordì urlando, per sovrastare il chiasso dell’apparecchio televisivo. «Non puoi abbassare il volume?» chiese la figlia, con quanto fiato aveva in gola. «Questa è una puntata fondamentale di “Segreti d’amore”. Oggi Christine scopre che Daniel è già stato sposato con la figlia del marito di quella che credeva fosse la sua migliore amica». Nike guardò per cinque secondi quell’obbrobrio, per scoprire che era l’esatta puntata del giorno prima. I canali della tv di stato mandavano in onda soltanto telenovelas scadenti: per ogni cinque minuti di film, ce ne


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erano dieci di pubblicità. Proprio quando Daniel stava per fare la sua fantastica rivelazione, partì uno spot su un dentifricio miracoloso che faceva brillare i denti alla luce della luna. «Che bello, tesoro» disse sua madre. «Domani te lo compro.» «Non saprei cosa farmene, mamma. Da noi non si vede mai la luna». Lei sembrò un attimo interdetta, prima di replicare: «Se non al lunario della Zero KK corporation. Sai che figurone farai con le tue amiche». «Le mie amiche lo avranno già tutte». Per la prima volta, la madre sembrò irritarsi. «E tu non lo avrai e sarai emarginata, perché fai sempre tutto di testa tua. Loro sono tutte così carine, con quegli abiti della Hickficth e gli smalti della GGV, e tu invece… ma guardati! Sembri una selvaggia. Come se non potessimo permettercelo. E poi…ohhhh». Sembrava aver appena visto un’apparizione di dollari. «Guarda guarda». Iniziò a fare versi eccitati. La pubblicità stava mostrando un pennello per staccionate che aveva tra i colori in dotazione anche il rosa e l’indaco. «Domani lo compro. Guarda che meraviglia». Nike rimase di sasso. «Ma mamma, noi non abbiamo una staccionata» protestò, allibita. «Non si sa mai, tesoro. Non si sa mai». E, come ipnotizzata, iniziò a provare lunghe pennellate nell’aria. Nike era davvero stufa: lanciò una maledizione e si diresse verso la sua stanza. Ad attenderla, sul letto, c’era la solita pila di abiti nuovi, ognuno più brutto dell’altro. La novità del giorno era un terrificante paio di occhiali con la montatura in plastica. «Mamma, io non porto occhiali» urlò verso il salone. «Erano troppo belli per non comprarli» gridò di rimando sua madre. «Dai, mettili. Facciamo finta che ti servano, ti prego». In preda a una furia cieca, li prese e li gettò dalla finestra. La filosofia di Edenia era semplice: quello che si compra lo si usa per un giorno, due, massimo una settimana, e poi si sostituisce. I prodotti sono scadenti e si rompono con facilità. I vestiti si stracciano dopo pochi giorni e si mandano con i carri ai livelli inferiori, che li rivendono come nuovi. Al primo livello, gli operai pagano nei negozi uno straccio logoro. Nike prendeva gli abiti che le comprava la madre e, senza nemmeno togliere l’etichetta, li spediva al livello inferiore. Tanto i suoi genitori compravano talmente tanta roba da dimenticarla dopo appena poche ore dall’acquisto.


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Dopo qualche minuto, in cui Nike si premurò di imballare tutti i nuovi prodotti senza neanche guardarli, la madre la chiamò di nuovo. «Nike, ti devo raccontare una cosa fantastica che mi è successa oggi». La ragazza le si parò davanti. Con un cenno della manona tozza, la madre la fece togliere dalla visuale del televisore. «Lo sai chi ho incontrato oggi da P&S?» chiese, con il tono di chi sta per fare una grande rivelazione. «Chi?» rispose Nike, intuendo già la risposta. La madre allargò la bocca in un sorriso, mostrando i denti ingialliti dal fumo. «La modella della pubblicità del Fick’s. E lo sai cosa mi ha detto?». «Forse che per diventare bella come lei bisogna mangiare tanti Kicks della Dumont’s Cops?». La donna sembrò interdetta per un istante; poi riprese immediatamente il suo buonumore. «E tu come lo sai? Ha detto proprio questo. E allora sai cosa ho fatto?». «Hai detto al papà di fare l’abbonamento». «Ma che brava la mia bambina. Sei contenta?». Provò ad alzarsi dal divano per darle un bacio, ma non ci riuscì. Nike si sporse e glielo diede sulla fronte, per pietà. In quel momento, la voce sullo schermo annunciò il telegiornale. Di solito, era una farsa colossale, che mostrava una notizia seria e dieci di moda e tendenze. La madre sbuffò. «Che noia. Vediamo cosa c’è sul milletrecento-ventiquattresimo canale». Prese il telecomando per cambiare, quando Nike la fermò bloccandole il polso. «Ferma un attimo, maledizione». Lei sbottò sorpresa. «Però, che modi!». Dopo aver annunciato tutti gli sponsor del giorno, lo speaker prese a parlare. «La grossa manovra di smilitarizzazione del settore H3 da parte delle milizie dell’Ovest ha avuto un esito inatteso. Come possiamo vedere da questi filmati di operatori della Società Internazionale, un giovane abitante di Capitale Ovest è stramazzato al suolo in circostanze sospette. Si teme che possa essere un avvelenamento aereo da parte dello stesso governo dell’Ovest, che vuole infangare con un pretesto il legittimo potere di Edenia. Comunque, si raccomanda alla cittadinanza cautela, e la si invita calorosamente a non visitare quelle zone. Il giovane svenuto è ora, secondo le fonti ufficiali del leader noto come “il Supremo”, tenuto in quarantena. Le autorità decideranno a breve


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sulla sua sorte. Non è esclusa la…». Nike non riuscì a sentire il resto, perché era stato mandato sullo schermo lo spot di un monopattino che cantava marcette allegre. Le immagini erano incontrovertibili, però: quello svenuto era il giovane soldato che lei aveva baciato quella mattina stessa. Sua madre ricominciò a parlare. «Ah, se avessi avuto un maschietto, gli avrei comprato questo splendido monopattino. Pensa che bello, tu cammini e quello zum-pa-pa, zum-pa-pa». «Zitta, mamma! Sai stare zitta?» urlò Nike, con le lacrime agli occhi. Aveva paura che lo svenimento del soldato non fosse stato dovuto a un avvelenamento aereo, ma soltanto a lei. Ritornò subito all’ingresso. Il padre era ancora con gli agenti della Società Internazionale. «Agenti, vi prego» gridò. «Cosa si sa del ragazzo del telegiornale, quello dell’Ovest?». «Ragazzo?» chiese quello più giovane. «Quello che è svenuto» chiese Nike, implorante. «Ora basta» tuonò suo padre. «Hai stancato con questi modi. Chiedi scusa agli agenti e poi vai in piazza a comprare qualcosa con le tue amiche». Le rifilò cinquanta dollari. «Vi prego» pianse la ragazza. «Non voglio questi soldi. Voglio sapere cosa è successo al ragazzo. Vi prego». L’agente più anziano, quello con la faccia bonaria, le prese il volto tra le mani. «Non sappiamo nulla, signorina. E ora obbedisci a tuo padre: le tue amiche ti staranno aspettando». Il padre la prese di peso e la spinse fuori dal portone. Scese con rabbia le scale, con il volto rigato dalle lacrime. Stracciò i soldi di suo padre e, furente, uscì in strada. Un uomo vestito da gattino si avvicinò a lei, fingendo un miagolio. «Mi vuoi adottare, piccolina? Da “Y&Sons” potrai trovare me e tutti i miei amici coccolosi». Lo fece da parte con un calcio. Spaesata e confusa, senza una meta né qualcosa da fare, sapeva soltanto una cosa: doveva ritrovare il giovane soldato dell’Ovest. Innalzando una preghiera alle stelle che non poteva vedere, tornò nell’area smilitarizzata.


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MONDO DI CENERE – LA SCOPERTA

Ormai era stato rieducato. Giaceva sul letto della sua dimora, cercando di trovare una posizione che desse sollievo alle ossa rotte e ai muscoli pieni di lividi. Ma finalmente era felice: sentiva di essersi riappacificato con il Supremo, e credeva anche che sarebbe riuscito, prima o poi, a togliere per sempre la “R” dalla sua uniforme. Ora doveva ricominciare, ma l’esperienza vissuta sarebbe stata di grande educazione per la sua formazione: ora sapeva come trattare gli Usurpatori, e come sfuggire dalle loro seduzioni capitalistiche. Anzi, lo sapeva addirittura con un anno di anticipo rispetto ai Compagni coetanei, anche se a costo di un mese di pesanti ingiurie e vessazioni. Aveva soltanto un piccolo timore: non riusciva a togliersi dalla testa la bella Usurpatrice bionda. Non capiva perché il Partito fosse così restio a mostrare creature come lei nella propaganda: ma sicuramente, il genio tattico del Supremo aveva le sue buoni ragioni, che di certo sarebbero state le migliori per portare a compimento la Lotta Ideologica. In un paio di occasioni l’aveva sognata, e ne era rimasto particolarmente turbato. Provava un’attrazione verso di lei che avrebbe dovuto rimuovere: era come quelle ferite alle gengive che fanno malissimo se le si tocca, ma che la lingua non riesce a fare a meno di toccare. Anche se era contrario a qualsiasi dogma della sua rieducazione, voleva a tutti i costi rivederla, anche solo per un istante, da lontano. Aveva provato a confidare le sue ansie al padre: la dottrina del Partito insegnava che tutti i Proletari sono figli del Supremo e soltanto da Lui devono essere educati, ma anche i più severi Compagni Ispettori chiudevano un occhio di fronte ai rapporti tra padri biologici e figli. Almeno fino a venti anni, quando il Partito imponeva ai nuovi soldati la completa emancipazione. Da quel momento in poi, essi si dovevano rivolgere ai genitori biologici come a semplici Compagni, e dovevano avere con loro soltanto i rapporti di etichetta dettati dal Partito. L’unico vero Padre era il Supremo: qualsiasi affermazione contraria era


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passibile di accusa per alto tradimento e di fucilazione. Nonostante l’età del distacco si avvicinasse sempre più, Nilats aveva un ottimo rapporto con il padre: era un uomo molto anziano, temprato da anni e anni di appartenenza al Partito, da sempre in ottimi rapporti con il Supremo. In giro si diceva che era uno dei pochi reduci della Rivoluzione e delle prime grandi purghe, perché aveva sempre accantonato qualsiasi lotta per il potere riconoscendo tra i primi la superiorità e il genio tattico del Supremo. Era saggio e riflessivo, uno dei maggiori sostenitori della Lotta Ideologica; non aveva mai commesso errori, non aveva mai avuto troppa ambizione né era stato remissivo, non aveva mai preso una nota disciplinare né un declassamento. Stava per diventare Compagno Ideologo, ma alla fine il Supremo aveva preferito collocarlo come Compagno Propagandista: il suo ruolo era quello di far conoscere a tutti i Proletari l’ideologia del Partito. Lui trasformava la Parola del Supremo in parola di Popolo, affinché fosse accessibile a tutti. Era un ruolo molto delicato, eppure lo aveva svolto sempre senza particolari problemi. Quando Nilats gli chiese dell’Usurpatrice, rispose soltanto: «Segui la tua educazione e credi negli insegnamenti del Supremo. Presto la dimenticherai». Ne era riuscito molto rinfrancato. Negli ultimi giorni, suo padre era più pensieroso del solito: passava ore e ore davanti alla finestra della cucina, fissando nel vuoto, con la pipa rigorosamente spenta in una mano e un bicchiere di vodka nell’altra. La dottrina del Partito non voleva che si bevessero alcolici, ma agli alti funzionari era permesso questo vizio saltuario. Si presupponeva che la loro educazione fosse giunta a un punto tale che la morale non sarebbe più stata intaccata in nessun modo da qualche goccia di alcol. Parlava pochissimo, e sempre per citare qualche comandamento o qualche passo di propaganda. Sembrava che stesse aspettando qualcosa. Quel pomeriggio, mentre Nilats rifletteva sulla rieducazione, in attesa di recarsi all’Opera proletaria giovanile per l’adunata pomeridiana, suo padre lo chiamò in cucina. Era un giorno molto caldo, ma la finestra era stata lasciata chiusa. Sua madre stava cucinando delle lenticchie: o almeno in teoria, perché negli ultimi giorni stavano mangiando soltanto brodo in cui galleggiava, come un isolotto nell’oceano, qualche chicco di lenticchia. Il Quarto Piano Quinquennale per l’economia di guerra aveva razionato ancora la quantità di legumi. Ma il conflitto era sul punto di finire con una splendida vittoria, e quindi i sacrifici che il


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Supremo richiedeva erano soltanto provvisori. Nilats ne era certo. Suo padre lo fissò con uno sguardo malinconico, prima di dire soltanto: «Stanno arrivando» e ricominciare a fissare nel vuoto. Poi prese una chiave, quella del suo baule nascosto che gli aveva mostrato quando era piccolo, e gliela mise in mano, senza aggiungere una parola. Le lenticchie bollivano lente sui fornelli, il cui gas produceva l’unico rumore della casa. Sua madre stava piangendo. «Cosa…?» provò a chiedere Nilats. Suo padre lo interruppe: «È tardi: va’ all’adunata». Abbassando il capo, cominciò ad avviarsi verso il portone. In quel momento, si udì la sirena dei mezzi blindati dell’Armata del Popolo. Due auto si fermarono davanti alla loro casa; da lì uscirono quattro Compagni Esecutori. Il primo fissò i suoi occhi in quelli di Nilats, prima di dirgli: «Compagno, sta per iniziare l’adunata. Muoviti». Si affrettò a passo di marcia verso la sede dell’Opera. Senza mai voltarsi, sentì il Compagno Esecutore che arrestava i suoi genitori. «Compagno Propagandista; Compagna. Il Tribunale del Popolo vi ha riconosciuti colpevoli di cospirazione, alto tradimento, sabotaggio, coinvolgimento in attività illecita, connivenza con gli Usurpatori, depistaggio, tradimento alla Lotta Ideologica e attentato al Supremo. Siete stati condannati a morte. Il Supremo ha confermato la condanna. Ci dovete seguire nella Casa di Giustizia per scontare la vostra pena». Sentì suo padre che usciva dall’abitazione, seguito dalla madre. Non provarono nemmeno a protestare. Evidentemente si erano accorti del loro errore e sapevano che quella del Supremo era la decisione più giusta. Nilats, in un certo senso, fu orgoglioso di loro: stavano per pagare i loro errori nel modo in cui doveva farlo un vero Proletario. Nonostante il turbamento per la perdita, affrettò nuovamente il passo per non ritardare all’adunata. Quando tornò a casa, la sera, la trovò completamente a soqquadro. L’Armata del Popolo aveva cercato tracce di attività illecite, evidentemente senza trovarle. Al muro un Esecutore aveva scritto con lo spray rosso: “CASA PULITA”. Sui fornelli cuocevano ancora le lenticchie, che mandavano un terribile odore di bruciato. Nilats cercò qualcosa da mangiare in credenza, ma trovò soltanto del pane stantio. Quella razione misera doveva bastargli per una settimana intera: non poteva fare altro che digiunare. La casa era molto vuota ora che i suoi


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genitori biologici non c’erano più, ma lui non aveva paura: aveva il Supremo, che vegliava su di lui dal maestoso ritratto dell’ingresso. Si mise a sedere sotto di esso e, sereno, si addormentò. Lo risvegliò un rumore sul pavimento: la chiave di suo padre era caduta dalla tasca dei pantaloni. Con tutto quello che era successo quella sera, se ne era completamente dimenticato. Andò a prendere il baule, che era in soggiorno, dietro a un grosso armadio di legno che aveva una finta parete. I Compagni dell’Armata del Popolo non l’avevano trovata. O forse l’avevano trovata e non vi avevano visto nulla di compromettente. Altrimenti, non avrebbero mai scritto “CASA PULITA”. Nilats si chiese se il Supremo fosse a conoscenza di quel baule: sicuramente sì, visto che suo padre era uno dei suoi più stretti collaboratori. Quando lo aprì, trovò una pila di libri e registri e, in cima a essi, una lettera indirizzata a lui. La prese e iniziò a leggerla. Riga dopo riga, rimaneva sempre più allibito. Caro Nilats, quando leggerai queste righe, io sarò morto e la nostra casa sarà stata dichiarata pulita. Soltanto io e il Compagno Esecutore che mi arresterà siamo a conoscenza di questo baule, e lui ha garantito che non verrà toccato né sequestrato. In tutti questi registri sono raccolte le prove dell’impostura del Partito e del Supremo. Niente di tutto quello che ti viene insegnato è vero: fa tutto parte di un sistema destinato a durare per millenni, che ha per unico scopo il totale annullamento degli uomini. Il Supremo non esiste; il nostro paese è soltanto una fitta trama di individui tenuti insieme da una macchina burocratica tanto perfetta da risultare infallibile. Quello che ti insegnano a venerare è soltanto un sistema talmente ben congegnato da funzionare come un automatismo anche senza che nessuno lo metta in moto. In cima a esso c’è un Direttorio, che ha guidato la Rivoluzione e ora bada al fatto che l’apparato agisca in modo ineccepibile. Un tempo io stesso ne facevo parte, prima di scoprire che il nostro scopo non era l’uguaglianza umana, che ci eravamo prefissati inizialmente, ma soltanto la sua rovina. Nessun uomo è importante per il Partito: un giorno tutti, anche i più fanatici adepti, saranno divorati dal suo movimento incessante, e saranno sostituiti da altri destinati a loro volta a perire. L’unica cosa che conta è la macchina. Stanno creando una società che può esistere anche senza gli uomini, o meglio, con un loro ricambio continuo.


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Nessun Compagno sarà più importante. Il vero compimento della Lotta Ideologica è l’annullamento di ogni singolo e la distruzione di ogni suo pensiero. La situazione sta precipitando, ma ancora non è critica: qualcuno ha ancora uno spiraglio di coscienza autonoma; tu lo hai dimostrato, divenendo un Reietto per quella ragazza. La tua esitazione di quel momento è la nostra forza. Dobbiamo agire, prima che sia troppo tardi: queste prove vanno portate nell’area smilitarizzata e consegnate alla Società Internazionale. Solo così, forse, riusciremo a provocare la rovina del sistema. Tutto il male può essere purificato soltanto da una guerra, che distrugga l’apparato e ponga fine al Partito. La guerra del Supremo è soltanto una farsa per giustificare i razionamenti alimentari dovuti da una gestione dell’economia terrificante: la guerra reale sarà quella che la Società muoverà al Partito non appena verrà a conoscenza delle prove di questo baule. È fondamentale per la missione che io venga ucciso: sono sospettato da tempo, e il Direttorio sta cercando un modo per farmi fuori. Gli Esecutori agiranno in anticipo, denunciandomi al Tribunale del Popolo. Uscito di scena io, dovrai entrare in gioco tu: avrai la strada abbastanza sgombra, perché sei uno di loro e non ti temono. L’unico difetto del Partito è l’arroganza: credono di averti in pugno perché sei stato un Reietto e ti hanno rieducato come vogliono loro. La “R” in petto è il tuo lasciapassare, non la perdere per nulla al mondo. Con quella, sei insospettabile; ti credono già soggiogato. Devi portare le prove fuori da Capitale Ovest, ma per farlo non potrai contare su nessuno. Nemmeno sugli Esecutori: l’uomo che ha salvato il baule verrà ucciso pochi giorni dopo di me. Di lui non si avranno mai più tracce. Buona fortuna, Nilats. Era sconcertato. Non riusciva a credere una sola parola di quello che aveva letto. Provò ad aprire un registro: c’erano soltanto file e file di numeri. Ne aprì un altro: questo era più interessante. Sembrava un libro di storia, ma era ben diverso rispetto a quelli dell’Opera proletaria giovanile. In una foto venivano ritratti “i leader della Rivoluzione”: nessuno di essi era il Supremo. Un’altra immagine mostrava “la città di Capitale Ovest prima della Rivoluzione”: c’era già il ponte del Popolo, la più grande opera fatta costruire, in una sola notte, dal Supremo. Altre


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fotografie mostravano palesi incongruenze con quanto insegnato dalla dottrina ufficiale. Ma restava da disbrogliare il nodo più grande: come essere certi del fatto che quello non era un altro depistaggio da parte degli Usurpatori? D’altronde, era la parola del suo padre biologico, un comune Compagno Propagandista, contro l’infallibilità del Supremo. Nulla impediva a Nilats di supporre che suo padre fosse una spia dell’Est che voleva far cadere il Partito dall’interno per far vincere la guerra alla sua fazione. Serviva una prova incontrovertibile di quanto scritto ma, benché sfogliasse ormai da ore i registri, non riusciva a trovarla. Mancavano appena venti minuti alla sveglia per l’alzabandiera mattutino, e lui non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Ma doveva a tutti i costi scoprire se quanto gli aveva scritto suo padre era vero o meno. Alla fine, quando ormai era sul punto di demordere, un piccolo particolare di una foto riuscì finalmente a sbloccare la sua ricerca. Era su un articolo interno del quotidiano ufficiale del Partito del 14 agosto di tredici anni prima; lui era già nato. Infatti, era ritratta una foto dei Piccoli Proletari in cui lui stesso reggeva in mano la bandiera del Popolo. Dietro di loro, non c’era nulla, se non un grande albero. Ricordava benissimo quel giorno. Ora, in mezzo alla piazza sorgeva una gigantesca statua del Supremo, e l’albero non c’era più. Ma la dottrina ufficiale insegnava che quella statua era stata costruita il giorno stesso della vittoria nella Rivoluzione, con il lavoro di cento schiavi capitalisti presi tra le file degli Usurpatori. Nilats si chiese come avesse fatto a non pensarci prima. Improvvisamente, la nebbia si diradò dal suo cervello e tutti i tasselli cominciarono ad andare al loro posto. Si rese conto delle incredibili incongruenze del Partito, del fatto che nessuno avesse mai visto il Supremo dal vivo, della guerra che era sempre in corso ma per la quale non era mai partito un solo soldato. Anni e anni di indottrinamento caddero di fronte alla foto di quella statua che prima non c’era. Tutti i suoi Compagni di allora, al tempo dei Piccoli Proletari, sarebbero potuti giungere a quella conclusione. Qualsiasi abitante di Capitale Ovest, con un minimo di ragionamento e memoria, avrebbe potuto farlo. Ma nessuno lo avrebbe fatto se prima una lettera come quella di sua padre non avesse messo loro la pulce nell’orecchio: la loro educazione era troppo solida. Per la prima volta in vita sua, si sentì completamente libero. Ma mentre stava ragionando su come usufruire finalmente di questa


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libertà, suonò la sveglia dell’alzabandiera: in cinque minuti doveva essere alla sede dell’Opera. Iniziò a farsi prendere dal panico: come sarebbe riuscito a dissimulare la sua scoperta? Come avrebbe potuto ancora fingere di adorare il Supremo che, ormai era appurato, non esisteva? Cercò di concentrarsi: la prima cosa da fare era tentare di rientrare nella steppa smilitarizzata. D’ora in avanti, avrebbe dovuto iniziare a fare il doppio gioco.


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MONDO DI LUCE – L’INEVITABILE OBLIO DELLA STORIA

Da più di un mese ormai lo aspettava in quella steppa. Sempre sulla stessa roccia, sempre alla stessa ora di mattina. L’estate stava lasciando il posto alle prime brezze d’autunno; nel giro di un paio di settimane, sarebbe ricominciata la scuola e avrebbe perciò dovuto scombinare tutti i suoi orari. Sperava di riuscire a rivedere il soldato dell’Ovest il prima possibile; in cuor suo sapeva che lui non poteva aver dimenticato il loro incontro. Dopo quel servizio del giorno del suo svenimento, il telegiornale non aveva parlato più di avvelenamenti aerei: Nike sperava che quella storia si fosse risolta in un nulla di fatto, e il soldato non avesse subito conseguenze dolorose. Ma per accertarlo, doveva vederlo. Finché non ci fosse riuscita, avrebbe provato quel male fisico che le rendeva difficile anche il respiro e che la attanagliava ormai da giorni. Dopo che aveva giocato quel tiro mancino alla Società Internazionale, i posti di blocco alla frontiera da parte dei caschi gialli erano stati triplicati. Ma ancora non erano riusciti a scoprire il suo passaggio segreto, uno stretto sentiero attraverso gli alberi che spuntava dritto sulle rocce della steppa. Da quella posizione avrebbero potuto vederla soltanto in elicottero, ma lei aveva scoperto una piccola rientranza sotto una roccia dove nascondersi in caso di difficoltà. Lì era completamente al sicuro. In tutte quelle mattine soltanto in un’occasione degli uomini erano passati in quell’area smilitarizzata. Facevano parte di due delegazioni, una di Edenia e una di Capitale Ovest, ed erano accompagnati da un alto funzionario della Società Internazionale. Parlavano della rimozione di una lunga striscia di bombe nel settore G2. I toni erano freddi ma cordiali, e si vedeva che il mediatore aveva palesemente preso le parti dei dignitari di Edenia. Nike si nascose dietro la roccia e li ascoltò parlare. «Il Supremo non vuole che si costruisca nella zona» disse il delegato


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dell’Ovest. «Voi propagandate una guerra che non esiste» rispose quello di Edenia. «Qui va costruito un ipermercato, con la parte rivolta d Est destinata a grandi marche, e quella a Ovest ai vostri prodotti». Sputò le ultime parole con disprezzo. «Non insistete: gli accordi prevedono che l’area rimanga smilitarizzata e deserta». «Vedete» l’uomo della Società Internazionale si rivolse a quelli dell’Ovest, «dovete mostrare una qualche apertura verso il mondo. Non potete ricevere le sovvenzioni che state chiedendo se non accondiscendete a qualche compromesso. Voi avete quella spada di Damocle dei diritti umani». «Noi non vi facciamo storie su quelli. Abbiamo tutti i requisiti per iniziare una missione di pace» replicò un grasso ambasciatore di Edenia. «Una missione di pace» ricordò quello della Società, in modo tutt’altro che pacifico. «Intanto rimuoviamo le bombe» sbuffò il Compagno dell’Ovest, iniziando a spulciare termini tecnici e procrastinando la decisione sull’ipermercato. Nike era disgustata. Alla faccia dei diritti umani; tutti sapevano che nel mare dell’Ovest c’era l’oro nero. Ormai da tempo la Società voleva il pretesto per una guerra, ma uno dei Grandi Stati Operatori poneva il suo veto. Servivano delle prove incontrovertibili che facessero saltare all’aria anche le sue resistenze. Ma la cosa che nell’immediato preoccupava di più la ragazza era l’ipermercato: con quello, la steppa si sarebbe popolata di consumatori impazziti, e lei non avrebbe più avuto il suo spazio di serenità. E, cosa non meno importante, non avrebbe mai più rivisto il giovane soldato. Quando rientrò a casa, nel pomeriggio, ebbe una terribile sorpresa. Nel soggiorno la stava aspettando un conoscente, che aveva all’incirca la sua stessa età, e le faceva la corte da tempo. Le sorrise mostrando i denti brillanti di chi usava quegli squallidi dentifrici che li fanno risplendere al chiarore della luna. Vestiva con i migliori abiti che il settimo livello potesse offrire, aveva un paio di orecchini e medaglioni d’oro e uno squallido orologio con le rifiniture in platino che dava tutta


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l’aria di essere sul punto di autodistruggersi. Sua madre gli aveva offerto un piattino colmo di Kicks della Dumont’s Cops. Erano già fuori moda, ma ne avevano una tale fornitura in casa che erano costretti a propinarli a qualcuno per finirli. «Nike, amore» esordì sua madre, «hai visto che sorpresa? Purtroppo gli ho dovuto dare questi squallidi dolcetti. Se tuo padre fosse più diligente ora potrebbe assaggiare il Gordon’s UAU della Brothers Jellinek Corporation». Si rivolse allo spasimante, con un gesto plateale. «Che spettacolo! Lo mangia ogni sera la Daphne di “Tanto amore caldo”: e infatti hai visto che fisico? Lo ha detto l’altro giorno all’ultima puntata di “Passioni & Segreti”». Lui era entusiasta. «Che spettacolo quell’episodio! Secondo lei è stata giusta la nomination?». Sua madre emise uno squittio acuto. «Giusto un corno! Doveva essere eliminato il genero di Mariette di “Passioni tristi”. Ma hai visto che incapace? Non è nemmeno riuscito a baciare la ragazza di cui è innamorato da sempre». Lui stava per rispondere, quando Nike perse la pazienza. «Basta! Si può sapere cosa ci fai lui in casa nostra?» urlò in faccia alla madre, ignorandolo completamente. «Signorinella» rispose brusca lei, «questo bravo giovanotto, onesto e ben educato, a differenza tua, si è offerto di accompagnarti alle Due Ore di Consumo. E paga tutto lui». Poi gli sorrise con aria complice. «Portala al Mega Center della Daniella’s Beauty SpA: c’è quel fantastico rossetto alla ciliegia della Madame Labinia che le starebbe a meraviglia su questo visino pallido». «Senz’altro, signora» rispose lui, accondiscendente. «E poi le potrei anche comprare un paio di occhiali di Magdalene Gomez & Sons. Sono il massimo per la donna di classe, sa? E poi…». Nike lo interruppe di nuovo. «Ti ringrazio, ma sono molto stanca», e si avviò verso camera sua. Dopo pochi istanti, sentì la porta aprirsi, ed entrò sua madre barcollando per il troppo peso. Si lasciò cadere sul letto, a pochi passi da lei, e, accantonando per un istante il suo tono da sguattera euforica, le disse: «Nike, ti prego, non fare così. Sono dieci giorni ormai che salti le Due ore di Consumo. Dobbiamo spendere noi tutta la tua quota. A tuo padre stanno iniziando a fare problemi al lavoro, perché dicono che non ti ha saputo insegnare la Ferrea Legge del Consumo». Le accarezzò


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una guancia. «E poi ho paura per te: un bel ragazzo ti fa la corte, e tu neanche lo guardi. Se rimani da sola, chi baderà a te? Tu sei una bella ragazza, e lo sai che senza un marito con la testa sulle spalle quelle come te finiscono sulla strada a fare le prostitute. Ti prego, fammi questo regalo. Io te ne faccio tanti». Fissò la madre negli occhi, e vide che si stavano riempiendo le lacrime. Non poteva essere così crudele nei suoi confronti. «E va bene, ci vado. Ma…». Non la fece neanche finire. «Comprati una bella sciarpina di pizzo da Henry’s. Mi raccomando: stasera ti voglio splendida per la cena». Allibita, Nike la vide uscire dalla stanza e la maledisse sottovoce: ecco a cosa le servivano le sue squallide telenovelas. Quel pomeriggio fu uno dei più brutti della sua vita. Il suo corteggiatore era una persona noiosa ed egocentrica, che quando non parlava di sé commentava qualche reality o qualche prodotto delle grandi multinazionali. Ogni tanto si fermava a salutare degli amici, che non si facevano grandi problemi a esprimere commenti poco educati su di lei. «Complimenti, vecchio mio», «Stasera si balla!», «Usa i profilattici della Majestic: sembra di fare senza». Lui se ne usciva da queste conversazioni tutto orgoglioso, e gonfiando il petto come un piccione le diceva: «Vedi? Mi ti invidiano tutti». In un paio di occasioni provò a baciarla, ma lei si fece da parte disgustata. Deluso, provò a coinvolgerla in qualche discussione relativa a programmi televisivi. «Che ne pensi dell’ultima trovata di “Amore solitario”?». «Non l’ho mai visto». Ma lui non demordeva. «Ti piace il nuovo presentatore di “Astri nascenti”?». «Non so di cosa tu stia parlando». «Credi che il nuovo orario di “A cena con il mio amore” permetterà ai concorrenti di baciarsi sotto le stelle?». «Da noi non si vedono le stelle. E tra l’altro i baci di quel programma sono finti: loro sono attori». Scoraggiato ma non domo, tentò un altro genere di approccio. «Cosa ti compro?». Lei rispose a mezza bocca: «Non voglio niente». «Dai, ti prego. Pago io».


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«Allora compra quello che vuoi tu». Non aveva niente in comune con lui. Quello era il marito ideale per sua madre, non certo per lei: ma d’altronde, a Edenia era impossibile trovare qualcosa di meglio. Tutti erano così superficiali e pieni di sé. Lei voleva il soldato dell’Ovest e lui soltanto. Immaginò cosa stesse facendo in quel momento: magari era a un’adunata, o si stava esercitando con il fucile, o magari stava imparando a memoria interi passi della propaganda. Quella sera avrebbe visto le stelle dalla finestra della sua stanza e poi sarebbe andato a dormire. Non sarebbe stato svegliato dai clacson, né dalle luci a led, né dai suoni delle vetrine: avrebbe riposato in un silenzio ovattato, e magari l’avrebbe sognata. Certamente lei avrebbe sognato lui: ormai da decine di notti non faceva altro. Era l’unico momento bello di tutta la giornata. Chissà se si sarebbero mai rivisti; o se lei sarebbe stata costretta a sposare un gradasso come quello che camminava al suo fianco in quel momento, a guardare la televisione satellitare e a ingrassare mangiando Kicks della Dumont’s Cops sul divano di casa, aspettando le Due Ore di Consumo. E se anche si fossero rivisti, cosa avrebbero potuto fare insieme? Lui era dell’Ovest, lei dell’Est: quei duecento metri di steppa che li separavano erano come lo spazio che c’è tra due pianeti, tra il giorno e la notte. Un mondo di cenere e un mondo di luce. Due rette parallele che non si sarebbero mai incontrate. Immersa nei suoi pensieri, non si era accorta di essere giunta di fronte a un negozio molto diverso dagli altri: era tra una palazzina sponsorizzata da “Lemon Drink Baraja’s” e un negozio di giocattoli “Toys World” della Bombastic Application, ma a differenza loro non aveva nessuna pubblicità sulla facciata. Nessuna luce sfavillante, nessuna vetrina appariscente, nessuna mascotte allegra: soltanto un’insegna di legno con su scritto: “ANTICA LIBRERIA”. «Voglio entrare qui dentro» disse al suo spasimante. Lui la guardò sconcertato. «In questo tugurio? Dai, non scherzare». Lei non stava affatto scherzando. «Voglio vedere questa antica libreria.» Il ragazzo sembrò improvvisamente perdere la pazienza. «E allora sei cosa ti dico? Vacci da sola. Sei carina, ma decisamente sfigata: ti ho offerto per tutto il pomeriggio i migliori vestiti, i migliori smalti, le più belle scarpe e tu vuoi comprare un libro? Ma impara a stare al mondo: guardati, hai un abito di cento secoli fa e un trucco che neanche mia


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sorella in terza elementare». Le puntò un dito in faccia. «E lo sai cosa ti dico, signorina? Che un giorno ti pentirai di avermi scaricato così.». Detto questo, si voltò e se ne andò, furente. Forse un giorno Nike si sarebbe pentita sul serio: lui sarebbe diventato un impiegato di settimo livello, avrebbe avuto sempre giacca e cravatta e magari dei buoni amici nella Società Internazionale. Ma ora lei voleva soltanto entrare in quella libreria. Appena varcò la soglia, percepì immediatamente quella tranquillità che riusciva a provare soltanto nella zona smilitarizzata. Il locale era piccolo e buio, colmo di scaffali pieni zeppi di libri. Dietro il bancone, con sguardo malinconico, sedeva un vecchio curvo, con una trama di profonde rughe disegnata sul volto. «Sei la prima a entrare oggi» disse, con voce roca. Nike gli andò davanti. «Come mai? È un posto così bello questo». «Qui» disse allargando le braccia con aria sconsolata, «sei nel passato remoto. Quale fascino può suscitare ancora un libro antico in un mondo dove ogni novità scade dopo due giorni dalla sua nascita? Qui dentro il tempo si è fermato, ma gli uomini hanno troppa fretta per accorgersene». «Ma lei è ancora qui» cercò di sollevarlo Nike. Una lacrima gli scese lungo il volto, facendosi largo nel labirinto di solchi arcani. «Io ho la fortuna di essere conteso tra due grandi multinazionali. Questo terreno edificabile è molto prezioso: non appena il Tribunale decide, la libreria sarà demolita. E ho la sfortuna di essere così vecchio da vedere quanto questa città sia cambiata». Le fece cenno di avvicinarsi a lui, poi prese da sotto il banco una cartina ingiallita e la indicò con un dito tremante. «Vedi? Noi siamo qui. A fianco a me un tempo c’erano un macellaio e un droghiere. Ah, ma tu forse non sai neanche cosa sono. Qui davanti c’erano delle belle casette color pastello, e ogni giorno una dolce ragazza cantava la sua melodia spazzando la strada: Amooo-re, amoo-re mio, tornerò da teee. Quella creatura dalla voce splendida è stato il mio primo grande amore. Poi sono arrivati gli imprenditori; e poi i costruttori, e gli sponsor, e poi ancora i grandi investitori e i banchieri. La case color pastello sono state distrutte. La dolce ragazza è scomparsa». La voce gli si incrinò per la commozione. Poi le sorrise. «Tu sei uguale a lei, lo sai? Ti prego, canta qualcosa per me». Nike esitò. «Io conosco soltanto le canzoncine delle pubblicità. In tutta


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Edenia non si sente altro». «Forse tu puoi rendere bella anche una canzoncina della pubblicità». Provò a canticchiare qualche parola della ninna nanna di uno spot di carrozzine: «Questo è il tuo sogno/piccolo mio/con la tua mamma/e il tuo papà…». Il vecchio chiuse gli occhi e si lasciò cullare dalla sua voce. «Ah, splendida! Splendida. Sei bravissima. Come lei». Nike gli sorrise, e continuò a cantare. Dopo qualche minuto di silenzio estatico, il vecchio si riscosse. «Voglio farti un regalo». Lei provò a protestare. «Posso pagare». «Non voglio che tu lo faccia. Tra pochi giorni questa libreria non ci sarà più. Io verrò spedito in qualche ospizio del primo livello, e lì consumerò i miei ultimi giorni. Ma ti voglio lasciare il mio avere più caro: un libro di Storia». Si alzò, ed estrasse dall’armadio alle sue spalle un vecchio tomo impolverato, che recava la scritta “LA GRANDE STORIA DEL MONDO”. Glielo porse affinché lo sfogliasse. Nike era affascinata: c’erano foto e disegni di epoche antiche, che non credeva neanche immaginabili. «Perché mi sta regalando proprio questo?» chiese al vecchio. Lui inforcò un paio di occhiali da lettura e li pose sul naso aquilino, quasi in bilico. «Questa è la vera Storia: non quella che ti insegnano a scuola, che è la storia rivista e corretta del capitale e della sua forza. Da qui puoi scoprire davvero il mondo in cui vivi, ed essere più potente di tutta questa società corrotta. È terribile quanto i governi di oggi vogliano manipolare la Storia. Se riescono ad accelerare il suo inevitabile oblio, possono rendere gli uomini un gregge di pecore obbedienti. Per questo è indispensabile che tu la conosca, che sappia perché sei quello che sei, che sia in grado di chiederti sempre il perché di quanto sta accadendo. Non devi avere paura del passato, perché soltanto se saprai leggerlo potrai essere padrona di te stessa e del tuo futuro». Nike rimase a bocca aperta, mentre fissava le pagine, meravigliata. «Non so come ringraziarla, davvero». Il vecchio strabuzzò gli occhi, cercando di reprimere le lacrime. «Facendo tesoro di quello che ti ho detto». Lei lo guardò sorridendo, e poi si diresse verso l’uscita, stringendo al petto quello straordinario regalo. Se ne tornò a casa con un solo desiderio: quello di poter condividere il libro con il giovane soldato dell’Ovest.


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MONDO DI CENERE – IL PASSAGGIO

Entrare nell’area smilitarizzata era praticamente impossibile senza un permesso. Ogni passaggio era controllato giorno e notte dalle Guardie Proletarie armate; a nord, nell’unico punto di accesso lasciato libero, era stato collocato un alto muro coperto dal filo spinato. Nilats perlustrava ogni giorno la frontiera, cercando un passaggio verso la steppa; ma poteva farlo soltanto di notte, prima dell’alzabandiera, tra l’altro violando il coprifuoco; e senza illuminazione, era molto difficile trovare qualche sentiero non battuto o lasciato colpevolmente incustodito. Nel resto della giornata conduceva la sua vita abituale fatta di adunate, indottrinamento e attività corporative, cercando di mantenere un atteggiamento di fanatica adesione alla Lotta Ideologica e di amore cieco nei confronti del Supremo. Per non rischiare che il baule con le prove fosse scoperto da qualcuno, lo aveva nascosto in un buco che aveva scavato dietro il ritratto del Supremo: nessun Compagno poteva toccare una sua icona senza un particolare permesso scritto firmato da lui in persona, ed era molto improbabile che tale permesso venisse accordato per una casa dichiarata sicura. Nel frattempo cercava di iscriversi a qualche missione che si sarebbe svolta nell’area smilitarizzata, come un’altra rimozione di bombe, ma dopo l’esperienza precedente sembrava che i Compagni Esecutori non volessero più affidare tali compiti all’Opera proletaria giovanile. Stremato dalla stanchezza dettata dall’insonnia e dall’impotenza nel riuscire a progredire nel suo compito, si sentiva particolarmente scoraggiato. Un giorno di metà settembre, stava rientrando a casa dall’Opera in anticipo rispetto al solito: era un evento molto raro che un Compagno non partecipasse all’adunata serale, ma lui aveva lamentato motivi di salute. Aveva detto al Compagno Istruttore di sentirsi molto fiacco e di temere di aver preso una brutta febbre. Pur storcendo il naso, quello gli aveva accordato il congedo per quella serata, raccomandandosi però che fosse la prima e ultima volta e costringendolo a presentarsi, la


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mattina dopo, cinque minuti prima dell’alzabandiera, in segno di rispetto verso il Supremo che non sarebbe stato certo felice della sua condotta. In realtà, Nilats voleva mettere un po’ di ordine nelle carte di suo padre, cercando di organizzare i plichi in modo da poterli trasportare in relativa sicurezza e nel numero minore possibile di viaggi. Comunque, aveva calcolato che, ottimisticamente parlando, una volta scoperto il passaggio avrebbe dovuto compiere almeno trenta avanti e indietro prima di condurre tutta la documentazione nell’area. Senza contare che lì avrebbe avuto bisogno di un complice che badasse alle prove evitando che si contaminassero o fossero scoperte dai soldati dell’Ovest. In cuor suo sperava di poter rincontrare la bella Usurpatrice bionda; non riusciva a togliersela dalla testa, e le era immensamente grato perché solo grazie a lei aveva la “R” al petto che ora gli dava tanta libertà di movimento. Pensò a come sarebbe stato bello poterla abbracciare: la sua pelle sembrava così morbida da poterlo avvolgere con la dolcezza di una carezza. Ricordò il suo sorriso: le Compagne non sorridevano mai, avevano sempre lo sguardo austero dei soldati e gli occhi torvi degli assassini. In lei invece tutto emanava bellezza: gli occhi chiari, la bocca piccola con le belle labbra rosso pallido che facevano contrasto con i denti bianchissimi, gli zigomi rotondi e un po’ all’insù. Si chiese perché volesse che lui le togliesse la vita: non era giusto, era perfettamente illogico. Qualcuno doveva averle sicuramente provocato del male: ma chiunque fosse stato, un giorno se la sarebbe vista con lui. Mentre affrettava il passo verso casa, vide una serie di auto blindate dell’Armata del Popolo che si fermavano davanti a una fila di palazzine. Ne uscirono tre Compagni Esecutori, che alzarono i megafoni. «Il Supremo» esordì con voce piatta il più anziano dei tre, «ha stabilito, dall’alto del Suo genio tattico, che la guerra non può essere vinta se prima non si porta a termine la Rivoluzione. Pertanto, ha ordinato che tutti gli abitanti dei complessi CM432, CM433, CM434, essendo legati ad attività commerciali e quindi capitalistiche, si sottopongano a interrogatorio presso il Tribunale del Popolo per accertare il loro concorso in tradimento alla Lotta Ideologica». Nel giro di pochi minuti, i tre edifici si svuotarono: uomini, donne, anziani, bambini, seguirono remissivi i tre Compagni Esecutori. Nilats sapeva bene cosa avrebbe comportato il loro interrogatorio: non sarebbero mai


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più ritornati in quelle case. Era in corso una nuova, grande epurazione. Dai documenti di suo padre aveva scoperto che le grandi purghe del regime colpivano persone completamente casuali, che nulla o quasi avevano a che fare con i loro presunti reati. Il Direttorio aveva la sua forza nel terrore. Ogni Compagno poteva essere arbitrariamente scelto come vittima o come carnefice. Oggi gli Esecutori arrestavano quegli innocenti; magari, domani sarebbero stati arrestati loro per qualcosa che non avevano mai compiuto. Solo distruggendosi continuamente il Partito poteva riformarsi ed essere immortale: era un circolo vizioso eterno e spaventoso. Nessuno di quei Compagni arrestati aveva paura: tutti salirono sugli automezzi consapevoli delle proprie colpe e quasi sollevati di togliere un simile fardello al Supremo. «Confessi il tuo coinvolgimento in attività capitalistiche?» chiese un Esecutore a un vecchio rachitico, che vendeva la frutta al mercato. L’uomo lo fissò con uno sguardo quasi ipnotizzato. «Il Supremo mi conosce molto meglio di quanto io conosca me stesso. Se il Supremo dice che io ho peccato, allora io ho peccato. Ho tradito la Lotta Ideologica e ho collaborato con il capitalismo. Merito di essere ucciso. Solo così potremo vincere la guerra». Nilats era sbalordito: come poteva quell’anziano confessare così a cuor leggero dei crimini che non aveva mai commesso? Ma d’altronde, pensò, lui stesso si era auto incolpato di una serie di reati che non aveva compiuto, nella steppa. E aveva subito la sua pena di Reietto per una colpa che gli era stata imputata arbitrariamente. Fu percorso da un brivido: il Partito riusciva ad annullare l’individuo a tal punto da fargli dire e addirittura pensare soltanto quello che il Partito voleva che lui dicesse o pensasse. Stavano azzerando l’uomo: bisognava in qualche modo correre ai ripari. Un Compagno Esecutore lo fissò, prima di chiudere la portiera dell’automezzo, e gli disse: «Compagno, non dovresti essere all’adunata?». Nilats si sentì gelare il sangue nelle vene. «Ho un permesso per malattia». «I malati non si fermano a guardare gli arresti in strada. Sbrigati ad andare a casa, prima che cambi idea e ti venga a fare una perquisizione». I veicoli ripartirono, alzando nuvole di polvere


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sull’asfalto. Nilats scosse il capo: di solito gli Esecutori non minacciavano, agivano. A quel giovane Compagno rimanevano ben poche ore di vita, forse le stesse della povera gente che trasportava. Ogni anno, nei primi giorni di ottobre, si iniziavano i preparativi per la Grande Marcia della Rivoluzione: era un evento gigantesco, con tutto l’esercito che sfilava di fronte al Palazzo del Popolo in piazza e ogni reparto che mostrava le sue abilità militari davanti alla finestra dietro la quale, secondo la propaganda, il Supremo osservava l’intera scena. All’Opera proletaria giovanile era stato assegnato il compito di rimuovere le erbacce alla frontiera: era un lavoro totalmente inutile che non sarebbe stato notato da nessuno, perché la parata si sarebbe svolta in centro, ma tutti i Compagni si impegnavano come se dalla loro fatica fosse dipeso il successo della Lotta Ideologica. Nilats era felice dell’onere imposto alla sua unità, perché finalmente avrebbe potuto analizzare la frontiera alla luce del giorno. Mentre sradicava erbacce ripetendo a memoria passi della propaganda, cercava di scorgere qualche sentiero che gli avrebbe permesso di giungere nell’area smilitarizzata. Ogni tanto, alzava gli occhi verso l’orizzonte: vedeva la lunga steppa che si estendeva sempre uguale a se stessa per centinaia di metri, prima di lasciare il posto alle costruzioni di Capitale Est. Si chiese cosa stesse facendo in quell’istante la bella Usurpatrice bionda, ma lui non aveva idea di cosa facessero gli Usurpatori nella loro vita. La propaganda diceva che per tutto il giorno sprecavano il loro capitale in alcol, gioco d’azzardo e donne. Per un istante, temette che lei potesse essere costretta a prostituirsi: perché altrimenti avrebbe voluto uccidersi? Ma, in effetti, era improbabile che tutte le donne di Capitale Est fossero prostitute e tutti gli uomini ubriaconi: era sicuramente un’altra estremizzazione del Partito. «Compagno» lo redarguì il Compagno Istruttore, «non stai lavorando con la giusta lena. Non ci stai mettendo il dovuto impegno». Nilats si scusò e iniziò a strappare erbacce a un ritmo forsennato, ripetendo la propaganda fino a non avere più fiato nei polmoni. A un tratto, un punto della frontiera attirò la sua attenzione: si trovava immediatamente dietro a una torretta di guardia, ma era protetto da un grande albero. Non c’erano fortificazioni, ma soltanto uno strapiombo che finiva dritto in una sterpaglia. Cercò di guardare più lontano: un


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piccolo bosco si estendeva per circa cinquanta metri, prima di lasciare il posto all’area smilitarizzata. Se fosse riuscito a entrare nello strapiombo, forse avrebbe potuto crearsi un passaggio verso la steppa. Lanciò un’occhiata alla torretta di guardia: era molto vicina, ma i soldati erano sempre rivolti dall’altra parte. Non l’avrebbero certamente visto, men che meno a notte fonda. Doveva soltanto accertarsi della sicurezza dello strapiombo, ma l’unico modo per farlo era buttarsi e sperare. Si fece coraggio, chiuse per un istante gli occhi per concentrarsi e, dopo aver inspirato profondamente, si lasciò cadere. Sentì i rovi graffiargli le braccia, le gambe e il volto mentre rotolava giù per la collinetta; poi, con un tonfo, cadde in un prato morbido. Non poteva vedere neanche il cielo, protetto come era dalla vegetazione. Si nascose dietro un cespuglio e attese qualche reazione dall’alto. Silenzio. Nessuno sembrava averlo visto. Poi sentì un paio di voci confuse; si sporse a guardare e vide che un Compagno dell’Opera lo stava cercando in cima allo strapiombo insieme al Compagno Istruttore. I loro sguardi vagavano per la discesa, ma non sembravano vederlo. Ce l’aveva fatta. Quando i due iniziarono a chiamarlo, però, fu costretto a riemergere. «Compagni» esordì, fingendosi confuso, «sono scivolato: ho preso una brutta botta in testa». Si sporsero per aiutarlo a risalire. «Grazie, ma faccio da me». Nilats voleva accertarsi di poter riuscire a tornare in cima da solo. Fu un po’impegnativo, ma ci riuscì. «Tutto a posto, Compagno?» chiese il Compagno Istruttore. «Nessun problema» affermò sicuro Nilats, prima di riprendere a sradicare erbacce con vigore. C’era un solo pericolo, pensava Nilats quella sera, mentre si avviava con una torcia verso lo strapiombo: come avrebbe fatto a giustificare i tagli e le escoriazioni con i quali sarebbe giunto all’alzabandiera la mattina? Per il giorno successivo non aveva problemi, perché il Compagno Istruttore lo aveva visto cadere con i suoi occhi, ma in seguito un’eccessiva presenza di ferite sul suo corpo avrebbe destato dei sospetti. Ritornò nel punto che aveva scoperto quella mattina: vi aveva posto un sasso per ritrovarlo con facilità. Si accertò che nessuna guardia stesse guardando in quella direzione e si avviò di nuovo verso il


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basso. Ora sapeva cosa aspettarsi, e perciò alla fioca luce della torcia riuscì a evitare i rovi più grossi. Giunse sul prato con un piccolo salto e poi si nascose dietro un arbusto, in attesa; nessuno sembrava essersi accorto della sua presenza. Lanciò un’occhiata all’orologio di suo padre, che aveva riposto nella tasca della divisa: aveva due ore da quel momento. Se avesse impiegato troppo tempo, il sole sarebbe sorto, creandogli non pochi problemi per il ritorno a casa. Ma finché agiva con il favore dell’oscurità, non correva rischi. Tolse dalla cinta il coltello dei Piccoli Proletari e iniziò a farsi strada tra la sterpaglia, contrassegnando di tanto in tanto qualche tronco con la vernice rossa. Dopo circa trenta metri ebbe una brutta sorpresa: davanti a lui c’era una staccionata di filo spinato elettrificato. Era alta più o meno come lui: non avrebbe avuto alcuna possibilità di saltarla. Non c’erano alternative, doveva per forza arrampicarsi su un albero e da lì gettarsi dall’altra parte; ma così sarebbe stato per qualche istante visibile dalla torretta. Aspettò che il fascio di luce passasse in quel punto di bosco e poi si arrampicò, agile. Fu fortunato: un ramo robusto gli permise di nascondersi quasi immediatamente dietro il tronco, ridiventando invisibile da Capitale Ovest. Si lanciò al di là del filo spinato. Cadde male, battendo un ginocchio su una roccia, ma riuscì a non fare troppo rumore. Zoppicando, continuò a farsi strada nel bosco, che stava diventando via via sempre più rado. Infine, dopo circa venticinque minuti, giunse con un sospiro di sollievo nell’area smilitarizzata. La riconosceva perfettamente dall’altra volta; mosse qualche passo verso i luoghi dove erano posizionate le bombe, per orientarsi. Ora poteva anche essere visto: le guardie avrebbero creduto che fosse qualche Usurpatore ubriaco. Nonostante l’iniziale titubanza, sapeva benissimo dove andare. Con il cuore in gola, si diresse verso la roccia della bella Usurpatrice bionda. Per qualche strana ragione era certo di trovarla lì, a fumare sigarette, nell’esatta posizione del loro primo incontro. Rimase inevitabilmente deluso. Sulla roccia non c’era nessuno. Sicuramente, non c’era mai stato nessuno da quel giorno. Si avvicinò per perlustrare la zona da vicino e rimase senza fiato. La steppa era cosparsa di mozziconi di sigarette, tutti uguali. Non potevano essere che suoi.


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Ormai non c’erano dubbi: dopo il loro primo incontro, era stata lì quasi tutti i giorni. Non poteva lasciarsi sfuggire una simile occasione, doveva a tutti i costi rivederla. Ma come avrebbe potuto farle capire chi era? E soprattutto, era certo che lei volesse rivederlo? Prese i mozziconi e li dispose a formare un’unica scritta, semplicissima: “SONO IO”. Era certo che lei avrebbe capito, ogni parola in più sarebbe stata superflua. Lanciò un’occhiata all’orologio: era ora di rientrare. Si avviò di nuovo verso il passaggio, pregando le stelle di poter ritornare ancora una volta in quella steppa. Le prove di suo padre dovevano essere messe al sicuro, ma quella non era la sua unica motivazione. ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD


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