Si svegliò legata, Daniela Marras

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In uscita il 31/4/2018 (14, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2018 ( ,99 euro)

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DANIELA MARRAS

SI SVEGLIÃ’ LEGATA FINALISTA AL PREMIO 1 GIALLO X 1.000


ZeroUnoUndici Edizioni

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SI SVEGLIÒ LEGATA

Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-209-6 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Maggio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


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I

Si svegliò legata: un lenzuolo annodato strettamente le impediva di muovere le braccia che erano immobilizzate sotto il piccolo letto. Tentò di divincolarsi ma inutilmente, nonostante gli sforzi. Sentiva di dover andare in bagno, doveva proprio, e vagamente realizzò di urinare senza tuttavia bagnarsi: si rese conto di avere un catetere… Intravide una persona e percepì che stava rivolgendosi a lei, ma ricadde nell’oblio. Dopo un tempo indefinito, si ritrovò in una stanza diversa. Non era sola: c’era una ragazza rannicchiata vicino al suo letto con uno dei suoi asciugamani sulla testa. La guardò, ma non le rivolse la parola. Provò a muoversi e si rese conto, con sollievo, di non essere più legata. Le sue membra, però, erano pesanti e mettersi seduta risultò un’impresa difficile come se fosse stata un burattino inerte e senza fili. Dove si trovava? E perché?


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Si guardò intorno: la stanza era al piano terra, le finestre davano su un prato, sembrava facile poter uscire da lì, ma si accorse anche che una telecamera sul soffitto puntava sui letti. Chi la sorvegliava? La ragazza ai piedi del suo letto mugolava e si dondolava assente: era una bella ragazza, alta, con le gambe snelle in mostra, abbronzata ma apparentemente persa in un mondo tutto suo. Chi, cosa l’aveva ridotta così? Aveva un nome in testa, un nome che riaffiorava prepotente, ma non le diceva niente, non le apriva la mente. Era solo un’ossessione? Doveva esserlo… o doveva esserlo stato chi quel nome portava. Era un nome maschile. Era il nome di suo padre? Suo fratello? Suo marito? Suo figlio? Sicuramente aveva un padre, ma non riusciva a rammentare se avesse o non avesse avuto fratelli, marito e figli. Sentì un tramestio provenire dall’esterno, allungò il collo mentre la ragazza ai piedi del letto si coprì anche il viso con l’asciugamano. Un uomo e una donna con un camice azzurro pallido entrarono nella stanza con un carrello in metallo che conteneva parecchi bicchieri di plastica: ne diedero uno a lei


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e uno alla ragazza a cui avevano tolto l’asciugamano. Nel prendere il suo bicchiere, precisò che l’asciugamano era suo e l’uomo lo posò sul letto. Lei pensò che non l’avrebbe più usato se non avesse avuto la certezza di un intenso ammollo con Napisan. Doveva essere un tipo schizzinoso e realizzò che ricordava anche quel nome commerciale. Non poté approfondire perché la donna incitò lei e la ragazza a bere il contenuto dei bicchieri: all’apparenza sembrava acqua, ma il sapore era amarognolo e pungente. Si trattava di medicine? L’uomo e la donna erano infermieri? Si trovava in un ospedale? Vide che la ragazza, come lei, non oppose resistenza: perché erano così docili? Erano sedate? Drogate? I due se ne andarono: visto il numero di bicchieri, realizzò che là dentro non erano sole; dovevano esserci una ventina di persone, o anche più, a cui quei bicchieri erano destinati. Dopo un po’ di tempo, non molto le sembrò, sentì nuovamente tramestio: arrivarono lo stesso uomo e la stessa donna con un carrello con cui trasportavano cibo, capì dall’odore: il loro pasto. Vide che i due posarono tutto su due piccoli tavoli vicino alla finestra. La donna si avvicinò a lei e la aiutò ad alzarsi: con fatica si mosse e fece alcuni passi al rallentatore, rigida,


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con le braccia protese in avanti. Vide che anche la ragazza si muoveva come lei. Le fecero sedere e servirono il pasto: brodaglia con verdure, prosciutto cotto e purè, un panino, una bottiglietta d’acqua, una banana. Piatti e posate erano di plastica: per ragioni igieniche o precauzionali? Le comuni posate, nelle loro mani, sarebbero potute diventare armi? Avrebbero potuto essere un pericolo? Viste le loro condizioni, le sembrava improbabile, comunque divorò tutto. Non ricordava il suo pasto precedente: non ricordava se avesse mangiato da sola, se lì in quel posto o se altrove e in altra compagnia. Non ricordava nemmeno da quanto fosse in quel posto, se vi avesse trascorso poco o molto tempo, persa come la ragazza. Anche lei aveva mangiato tutto tranne la banana. Ripassarono l’uomo e la donna col loro carrello e vi caricarono i piatti vuoti e le posate. Lasciarono la banana sul comodino accanto al letto della ragazza. Poi chiesero se dovessero andare in bagno e, vista la risposta negativa, le aiutarono a tornare a letto. Non dissero altro, non le chiamarono per nome e, come erano arrivati, così se ne erano andati col loro carrello. Il tempo non passava, forse si era assopita come la ragazza nell’altro letto, di cui sentiva il respiro regolare.


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Non doveva essere un ospedale perché negli ospedali c’è l’orario delle visite e nella loro stanza non era entrato più nessuno: perché non avevano parenti o amici che volessero vederle o perché non potevano ricevere visite di estranei? Fissò ancora la telecamera e si chiese chi le stesse osservando.

“Stanza ventuno?” “Tutto tranquillo, come nelle altre.” “Meno male! Non vedo l’ora che mi diano il cambio.” “Anch’io non ne posso più di questa palla. Non vedo l’ora di tornare a casa.” “Sala di controllo?” “Controllata! A breve avranno il cambio.” “Abbiamo cominciato la nuova sperimentazione?” “Sì, stamane, come d’accordo.” “Effetti collaterali?” “Minimi.” “Bene!

Non

finanziamenti!”

dobbiamo

demordere

o

perderemo

i


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Quel nome… quel nome… Doveva andare in bagno. Sarebbe stata in grado di alzarsi e muoversi? Il bagno non era poi lontano e decise di tentare. Mossa numero uno: portarsi dalla posizione supina alla posizione seduta. Ok, fatto! Anche se a fatica… Mossa numero due: dalla posizione seduta, alzarsi in posizione eretta. Ben più difficile! Ma, ok, ce l’aveva fatta! Mossa numero tre: camminare. Provò: un passo dopo l’altro. Si muoveva come un automa, ma si muoveva. Raggiunse il bagno. Missione compiuta a metà. L’altra metà fu leggermente più facile. La ragazza era ancora assopita. Vide dei giornali sul suo comodino e decise di allungare di qualche passo il percorso di rientro e prenderne uno per provare a leggere. Fece fatica, ma quando, rimessasi in posizione seduta sul suo letto, provò a leggere i titoli, si accorse di vedere tutto sfocato, anche le immagini. Forse si sarebbe riassopita… forse… Il tempo non passava, ma, essendo immersa in un pesante torpore, si chiese se non potesse far altro che lasciarlo scorrere, scorrere e scorrere… pazientemente. Si accorse di saperlo fare, lasciar scorrere il tempo… pazientemente: forse era l’effetto di ciò che le avevano fatto


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bere o forse era una persona paziente o forse semplicemente non era abbastanza lucida per fare altro, per desiderare di fare altro. Aveva mai fatto altro? Ricordava che qualcuno le aveva detto che, in certe situazioni, si deve lasciar scorrere il fiume, lasciare che il fiume segua il suo corso senza opporsi alla corrente: la let it be philosophy. Quando e chi aveva detto quelle parole non riusciva a ricordare. Eppure doveva avere un passato, esperienze passate, se qualcosa ancora affiorava nel presente. E il suo presente, il suo hic et nunc, era stare in quel letto, in quella stanza insieme a un’altra persona che sembrava essere meno cosciente di quanto lo fosse lei. Ma aveva davvero avuto un passato, esperienze passate, non in quel letto e non in quella stanza? Cominciava a dubitarne, cominciava a credere di non aver ricordi di una vita al di fuori del luogo in cui si trovava (qualunque cosa esso fosse) ma sogni, desideri, stati d’animo passeggeri ed estemporanei frutto dell’attività del suo cervello. Sì, ma come aveva fatto a pensare al “Napisan”, al


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fiume che scorre e alla let it be philosophy, come faceva ad avere in mente quel nome…? Se non avesse avuto esperienze pregresse sensoriali, extracerebrali, non avrebbe potuto avere quei pensieri in testa, pensieri o comunque entità mentali, qualunque cosa esse fossero. Ma che si chiedesse queste cose testimoniava che lei non era solo cervello e non era solo corpo: lei aveva coscienza di essere una persona, di più… una persona con un vissuto, ecco, anche se al momento non riusciva a ricordare, anche se si trovava in quel posto chissà perché e per come. Non era un computer, non era un robot, non era un automa; era un essere umano di sesso femminile: questo le sembrava certo e assodato. Aveva un corpo organico, il suo hardware, e aveva una mente, un cuore, un’anima – forse – … il suo software. La ragazza si mosse nel suo letto: chissà che mari mentali stava attraversando, chissà se vagava coi pensieri come faceva lei, chissà se le avrebbe rivolto la parola, chissà se avrebbero potuto scambiarsi le loro esperienze. Si accorse che fuori si era fatto buio e si erano accese deboli luci nella stanza e luci più forti nel corridoio che riusciva a vedere perché la porta della stanza era spalancata.


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Come era accaduto prima del pranzo, sentì un tramestio provenire dall’esterno e un uomo e una donna con un camice azzurro pallido, diversi da quelli della mattina, entrarono nella stanza col loro carrello in metallo contenente i bicchieri di plastica: ne diedero uno a lei e si diressero verso la ragazza per dare il bicchiere semipieno anche a lei. Lei bevve quel liquido senza opporsi, ma la ragazza, forse perché era stata svegliata dal suo torpore, si agitò, dapprima muovendo solo le braccia, poi anche le gambe e tutto il corpo, come presa da convulsioni improvvise. I due non si persero d’animo e le praticarono un’iniezione di chissà cosa, dopo di che la legarono al letto con due cinghie di pelle che non aveva notato prima e le applicarono una flebo: sicuramente avrebbero fatto in modo che anche lei assumesse il liquido del bicchiere, anche se non per via orale. Non le rivolsero la parola come non dissero niente alla ragazza che ora giaceva immobilizzata nel letto. A breve, pensò, sarebbero tornati col suo pasto, così come era accaduto la mattina. Infatti dopo un breve intervallo arrivarono le stesse due persone col loro carrello. Posarono sul tavolino il vassoio destinato a lei: la donna le si avvicinò e le chiese se avesse bisogno di aiuto per alzarsi. Lei replicò


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che voleva provarci da sola e si raddrizzò: con movimenti lenti e legati riuscì a raggiungere il tavolino e, vedendo il suo pasto, le venne l’acquolina in bocca: semolino, carne e patate lesse, una mela, un panino e una bottiglietta d’acqua. Si rese conto d’avere fame. Mangiò il semolino e le patate, assaggiò la carne, lasciò il panino e addentò la mela: era succosa e “croccante”, il piatto migliore di quel pasto, forse perché era “nature”, non cucinata. Quando terminò, si recò in bagno perché voleva lavarsi i denti. Poi raggiunse il letto. Le luci erano troppo basse anche solo per tentare di leggere o guardare le immagini del giornale che aveva preso in prestito dalla sua compagna di stanza, che ora giaceva tranquilla, o meglio, sedata. Lei si mise seduta sul letto augurandosi di non perdersi nuovamente nei labirinti del suo cervello. Ritornò la donna col camice azzurro pallido. «Da domani si mangia in sala!» le annunciò. Lei non replicò, non avrebbe saputo che dire, in fondo le era stata comunicata una decisione, per non dire un ordine, già presa da altri e che lei non avrebbe potuto discutere.


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II

“Per quando è prevista la verifica?” “Tra un mese. Entro quindici giorni dobbiamo elaborare i dati per poi poter esporre i risultati ai nostri Finanziatori.” “Contano di commercializzare le capsule entro la fine dell’anno, in Africa dapprima, naturalmente!” “Stanza ventuno?” “Agitazione. Soggetto B ora sedato.” “E il soggetto A?” “È ancora in parziale stato di derealizzazione, forse anche di depersonalizzazione.” “È cosciente del perché si trovi qui?” “Ancora no, credo…” “Bene! Non dobbiamo commettere errori. Tenete tutto e tutti sotto controllo!”


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Si accorse che nella stanza era entrato qualcuno e si era seduto sul suo letto. Si spaventò nel vedere una donna dai capelli scarmigliati che si dondolava guardandola. Le disse: «Vattene!» ma la donna non si mosse e la apostrofò: «Tu sei cattiva!». Ebbe paura e premette il pulsante vicino al letto nella speranza che arrivasse qualcuno a portare via l’intrusa. Non arrivava nessuno e così premette ancora il pulsante e più a lungo. Arrivò un uomo, sembrava una guardia da com’era vestito. Le chiese sgarbatamente: «Perché avete suonato?» e lei rispose: «Per lei! Non se ne vuole andare…» La guardia non si scompose, replicò: «Se ne andrà», e si dileguò. Lei disse ancora all’intrusa: «Vattene!» e quella replicò ancora: «Tu sei cattiva!» Pronta a urlare o a premere nuovamente il pulsante, si bloccò perché la donna si alzò e si diresse verso la porta. Ma insomma, chi c’era là dentro? Erano matti? Prigionieri? Cavie? O semplicemente malati? Anche l’intrusa non le era sembrata molto in sé, benché i suoi movimenti le fossero sembrati più sciolti dei suoi e di quelli della ragazza.


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A cosa servivano le telecamere se nessuno si era premurato di accorrere nella sua stanza per vedere cosa succedeva? Erano persone libere di circolare là dentro? Là dentro dove? Come aveva detto l’inserviente l’indomani sarebbe dovuta uscire dalla camera per consumare i pasti. La ragazza dormiva legata nel suo letto. Lei non riusciva a prendere sonno. Probabilmente la visita dell’intrusa

l’aveva

scossa.

Suonò

nuovamente

il

campanello. Passò del tempo prima che arrivasse qualcuno. Questa volta arrivò una inserviente e le chiese perché avesse suonato. Le rispose che non riusciva ad addormentarsi. L’inserviente se ne andò senza dire niente e tornò con una siringa. Sarebbe riuscita a prendere sonno, ma l’indomani si sarebbe svegliata ancora più ottusa di quanto già non fosse, pensò l’inserviente, e le fece l’iniezione. L’indomani infatti si svegliò obnubilata e appesantita. Ciononostante riuscì, con passi lenti e andatura incerta, ad arrivare alla sala comune all’ora del pranzo. C’erano parecchi tavoli disposti a ferro di cavallo: gli “ospiti” di quel luogo erano già accomodati, maschi e femmine insieme, mentre gli inservienti erano al centro della stanza con i loro pasti da servire. Ci si alzava due per volta e si riceveva un


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vassoio con le varie ricche portate. Le posate erano sempre di plastica. Gli “ospiti” in apparenza più lucidi conversavano tra di loro. Lei aveva di fronte un giovane uomo che portava un pesante ciondolo al collo. Le chiese se voleva essere sua moglie mentre una giovane vicina le disse che quella notte aveva dormito al cimitero. Essere moglie di quel giovane? Dormire al cimitero? Benché obnubilata, si rese conto che si trattava di enunciati quantomeno bislacchi e che coloro che li avevano pronunciati navigavano in mari mentali personalissimi e lontani l’uno dall’altro e dalla realtà. “Realtà”! Questa parola le affiorò in testa, ma non riusciva a coglierne le implicazioni. Stavano vivendo in quel momento, a tavola, nella “realtà”? C’era un mondo reale in cui aveva senso dormire al cimitero? Sposarsi senza conoscersi? Cosa era la “realtà” per lei? Intanto poteva vedere dalla finestra: vedeva alberi e verde e altre costruzioni. Era quella la realtà? Le affiorò un pensiero “Un objet fait supposer qu’il y en a d’autres derrière lui”: non ricordava chi l’avesse detto, ma si rese conto che era espresso in lingua straniera e che lei riusciva a coglierne il senso e perciò si chiese: dietro gli alberi e le costruzioni ci sarà qualcos’altro, qualcosa che


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anche gli “altri”, gli “ospiti” e gli inservienti, riuscivano a percepire e consideravano “reale”? Pensava e nel frattempo tagliava, come si può tagliare con un coltello di plastica, la sua fettina di pollo. Almeno di questo poteva essere certa: erano lì, in quel posto, e mangiavano fettine di pollo! Che conquista! Ammesso che di conquista potesse trattarsi… Finito il pasto, fu concesso loro di uscire nel giardino e, a chi avesse voluto, anche di fumare. A lei non consegnarono le sigarette e nemmeno le chiese: sapeva che fumare non le era mai piaciuto. Mai? Era in quel momento in grado di affermare “mai”? In quell’hic et nunc sentiva di poterlo fare, sentiva di essere parte di un mondo dove le “cose” non stanno ferme e immobili e immutabili; le “cose” scorrono e passano e sono ora e poi non sono più: anche questo sapeva dentro di sé. Fuori c’era il sole: il sole, a differenza delle sigarette, le piaceva ed era così da sempre. Rientrarono poi nei loro alloggi, non prima che venisse loro propinata la trasparente bevanda amarognola e pungente.


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“Perché

ancora

le

gocce?

Non

devono

essere

commercializzate capsule?” “Il principio è lo stesso. Cambia solo la modalità di somministrazione. Le gocce vengono assunte più facilmente: ingoiare capsule può essere più difficoltoso, specie per loro.” “Ah, i nostri fortunati ospiti! Se sapessero!” “Fortunati? Se sapessero?” “Già, è per loro una fortuna essere stati selezionati per prendere parte al nostro programma!” “Il nostro?” “Ma sì! Il nostro! E di chi altri? Siamo noi i Controllori! Noi controlliamo loro senza essere, a nostra volta, controllati.” “Siamo però finanziati. E chi ci finanzia ha potere su di noi.” “Affatto! È vero il contrario. Senza di noi, il loro denaro sarebbe senza valore! Siamo noi, fornendo il prezioso corrispettivo, che diamo un valore al denaro stesso! E il nostro corrispettivo è di valore. E non solo valore economico e commerciale, ma anche sociale e umano. Questo è fuori discussione!” “Vero! Come sempre, hai ragione tu!”


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“Possiamo dire che la nuova sperimentazione ha avuto buon esito, quindi.” “Troppo presto per affermarlo. Dobbiamo aspettare le ultime verifiche.” “E la stanza ventuno? Come procede il nuovo arrivo?” “Si… ambienta. Ma anche lei si sta… conformando!”

Restò in dormiveglia per quasi l’intero pomeriggio. La sua compagna di stanza era stata slegata, ma non si era mossa dal letto. A lei non avevano somministrato la bevanda, ma le avevano praticato un’iniezione. Arrivò l’ora del pasto serale: anche stavolta riuscì ad andare nella sala comune reggendosi da sola sulle sue gambe. Stessa disposizione dei tavoli e stesse facce, a parte gli inservienti che erano diversi. Aveva vicino le stesse persone del pranzo: il giovane uomo e la giovane donna. Parlavano tra di loro quando arrivò lei. Le rivolsero la parola nuovamente. Lui le chiese ancora di diventare sua moglie mentre lei le disse che era brutta. Si rese conto che non era un pensiero a lei estraneo e le venne in mente: “niente di nuovo sotto il sole”! Qualcun altro le aveva rivolto simili complimenti?! Non lontano da lei sedeva


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anche la donna scarmigliata che si era seduta sul suo letto: le rivolse la parola per ripeterle: «Sei cattiva!» Brutta e cattiva! Lei quasi arrivò a sorridere dentro di sé: le sembrava una conquista percepire il senso di quelle parole. Sì, perché si rese conto che, pur avendo nel suo mondo un’accezione negativa, non erano state pronunciate con malevolenza, ma quasi come mantra di una personalissima litania. Finito il pasto, furono invitati a non rientrare subito nei loro alloggi, ma a fermarsi e socializzare. Dovevano restare uniti, dissero loro, restare uniti e formare una squadra. Non dissero che tipo di squadra e lei, sì, si muoveva come loro, ma non era sicura di voler essere parte di una squadra, perciò visto che era acceso un televisore e che c’erano due persone lì sedute, si avvicinò a loro e fece per sedersi. Dapprima una delle due persone le disse: «Vai via!» ma poi, essendosi lei seduta ugualmente, la ignorò del tutto. Quello che stavano guardando era una sorta di documentario che mostrava amplessi variegati di diversi animali della savana. Non si azzardò a provare a cambiare canale: non sapeva se fosse possibile e consentito e non voleva provocare chissà quali reazioni nelle due persone che guardavano il programma.


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Lei, però, ebbe persino un guizzo di quasi gioia. Apparentemente immotivata, ma gioia intima: sapeva cosa era un televisore, sapeva che trasmetteva programmi su mondi altri, sapeva cosa fossero gli animali e cosa fosse la savana! E sapeva che, a differenza di quanto sostenuto da uno dei due spettatori, quelli dentro la televisione non si rivolgevano a loro personalmente, non stavano inviando loro messaggi in codice. Non c’erano orologi in quel posto, come non c’erano specchi, e perciò non avrebbe saputo dire quanto tempo rimase lì seduta davanti al televisore. Restò fino alla fine del programma, quando ormai tutti sembravano stanchi di socializzare per formare una squadra. E così fu loro consentito di far ritorno nelle loro stanze. La ragazza era sveglia: la guardò, ma non accennò nessun movimento e non dette segno di riconoscerla. Lei sentiva di aver fatto delle… conquiste, così le apparivano, ma poi arrivarono gli inservienti con la solita bevanda. Si chiese ancora cosa facesse lì, cosa le veniva somministrato, da chi e perché. Riuscì però a prendere sonno quasi subito, non prima che quel nome, prepotente, riaffiorasse dalle zone recondite del suo cervello. Quel nome…


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Il mattino seguente, dopo essersi fatta la doccia e sistemata senza avere uno specchio davanti, ma guardandosi, per quanto possibile, riflessa nei vetri della finestra, si recò nella sala comune per la colazione. Lei beveva il tè, che in quel posto era di un giallo paglierino pallido. Anche questa volta fu chiesta in moglie e fu apostrofata come brutta, cattiva e, per giunta, spettinata! Finita la colazione, dopo il solito bicchierino di plastica, tutti loro furono invitati a seguire gli inservienti al piano di sopra, nella sala di attività motoria. E così, una ventina di persone lente e fiacche nei movimenti si mise in moto, quasi in fila per due, dietro agli inservienti: che squadra, pensò! Si rendeva conto che “loro” si muovevano in modo differente dagli inservienti e dall’istruttore che si trovarono davanti al piano di sopra: né gli inservienti né l’istruttore, però, davano segno di farci caso. Sembravano del tutto indifferenti e distaccati. Lei trovò l’attività motoria pesante e difficile. E così sembrava per tutti loro. Al termine, furono di nuovo scortati nella sala comune, per socializzare ancora.


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Durante il pranzo notò che c’era una persona nuova: si trattava di un giovane che aveva l’aria spaurita e che la fissava da lontano. Dopo il pasto, le si avvicinò e le prese la mano che sfiorò con le labbra, chinandosi leggermente con atteggiamento elegante. Lei non seppe che fare, ma lui, silenzioso come si era avvicinato, si allontanò. Trascorsero così parecchi giorni, o almeno a lei sembrarono parecchi. Tutti monotoni e ripetitivi. Giornate di routine, in cui per tre volte al giorno bevevano dai bicchieri di plastica, si nutrivano, uscivano all’aperto, stavano nella sala comune o nella sala di educazione motoria. Giorni in cui, quando volgevano al termine e venivano spente le luci nelle camere, riaffiorava prepotente come sempre quel nome… Quel nome… Per tre volte, eccezionalmente, li condussero anche in una sala di educazione “artistica”: poterono imbrattare fogli a piacimento. Lei lo trovò un passatempo piacevole e quasi liberatorio: quasi, perché continuavano a stare lì dentro, rinchiusi, isolati, soli. Sì, lei si sentiva sola pur essendo in mezzo agli altri e immaginava che dovesse essere così per tutti gli “ospiti”. Un giorno, dopo la colazione, fu condotta da un inserviente in uno studiolo. Lì c’erano un bell’uomo e una bella donna


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in camice bianco. Pensò si trattasse di medici, ma le si presentarono come “i sostenitori”. Le dissero che le avrebbero fatto domande che facevano a tutti lì dentro e che l’avrebbero appunto “sostenuta” nel suo soggiorno. La prima cosa che le chiesero era se sapeva perché si trovasse lì. Lei rispose che non lo sapeva. Le chiesero quindi se sapeva che posto fosse quello in cui si trovava. E anche in questo caso, rispose che non lo sapeva. Le chiesero altresì se ricordava cosa facesse e che vita conducesse prima di trovarsi lì. Lei non ricordava. I sostenitori sembravano soddisfatti. Poi le chiesero a cosa pensasse, se avesse confusione o disorientamento in testa. Lei rispose che il disorientamento era passato, che non ricordava la sua vita precedente – che era sicura di aver vissuto – ma che, giorno dopo giorno, anche se non continuativamente, si sentiva “calata nella realtà”. Così si espresse lei.


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I sostenitori non dettero segni di particolare interesse né di approvazione, come lei si aspettava. Non dettero nemmeno segni di disappunto o malcontento, questo no, ma lei comunque rimase un tantino delusa, contenta com’era dentro di sé per quelli che considerava i suoi progressi. La congedarono poco dopo dicendo che ci sarebbero stati altri incontri.

“Hai visto il rapporto dei sostenitori sul soggetto A stanza ventuno?” “Sì, l’ho visto ma non credo sia preoccupante.” “Come no?! Credo dovremmo stare all’erta! In questa fase non dovrebbe sentirsi ‘calata nella realtà’!” “Non credo sia la nostra realtà. Sarà il suo mondo, così come è per gli altri ospiti.” “Non deve arrivare al risveglio!” )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO: In occasione del suo 10° anniversario, la 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio "1 Giallo x 1.000" per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2018) http://www.0111edizioni.com/

Al vincitore verrĂ assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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