Undici al 17

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In uscita il 29/2/2016 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine mrzo e inizio aprile 2016 ( ,99 euro)

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ALFREDO TOCCHI

UNDICI AL 17

LA FENOMENOLOGIA DI HUSSERL E LE NOTTI DI MILANO

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UNDICI AL 17 Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-958-6 Copertina: immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Febbraio 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


“And if you want to live high, live high And if you want to live low, live low 'Cause there's a million ways to go You know that there are” (“If You Want To Sing Out, Sing Out”, Cat Stevens)



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Il finto Jep Gambardella è entrato nella parte. Pantaloni rossi, camicia bianca e blazer, ordina il caffè e getta uno sguardo falsamente distratto alle due signore che dopo avere accompagnato i figli a scuola bevono un cappuccino sedute al tavolo. È già tardi, gli habitué delle otto sono in metropolitana, diretti ai luoghi di lavoro. Lui indugia, ozia, flaneur partenopeo a Milano, con l'aria di chi voleva essere Napoleone, ma non gli è capitata l'occasione. Seduto sullo sgabello davanti all'immancabile macchinetta (il suo posto preferito), Luigi, lo scrittore, osserva la sua flemma ostentata, la sua ricercatezza esagerata, la sicurezza di sé nonostante gli accadimenti della vita. Don Chisciotte che si ripete incessantemente “Io so chi sono io”, non lo sfiora il dubbio che la signora bionda lo reputi un idiota. A Luigi piace la signora bionda del quarto piano, stagionata ma ancora appetitosa, sorridente davanti all'amica precocemente invecchiata. La immagina attiva fin dal mattino presto: sveglia, doccia, figli a scuola, cappuccino, spesa, pulizie in casa, pranzo, cena e così via in un eterno ciclo sempre uguale, rassicurante per lei e la sua famiglia. Il peso del mondo è sulle sue spalle e la notte le tocca sopportare anche il peso del marito, imbranato ma scrupoloso. No, il finto Jep non è imbranato. Lui è uno sciupafemmine. Almeno ne è convinto e nella vita è questo che conta davvero.


Entra la portinaia. Era un luogo comune che le portinaie fossero pettegole, poi “L'eleganza del riccio” ci presentò una portinaia coltissima e riservata. Bene, questa del civico 17 è una normale, pettegola portinaia. Ignorante come una bestia, brutta come il peccato e (questo sì) con un alito pestilenziale come la sua collega letteraria. Cipolla cruda, questo è il segreto. Così, il suo arrivo al banco è un fuggi fuggi discreto ma rapido. Lei parla, parla sempre. Commenta tutto, dal programma di Antonella Clerici alle dichiarazioni di Matteo Renzi. Abbiamo voluto il suffragio universale? Ora il suo voto conta come quello di Mario Draghi. “I voti non si contano, si pesano.” Balle. Jep prende il Corriere e si siede al tavolo accanto a quello delle signore. Aquila appollaiata sulla vetta, cui nulla sfugge, Luigi lo vede fingere di leggere, alzando gli occhi un po’ troppo spesso verso la signora bionda, e prova tenerezza per quell’eterno bambino di quarant’anni, un tempo coccolato tra le sottane dalla mamma che gli ripeteva, incessantemente, fino a convincerlo: “Quanto sei bello”, coprendolo di baci. Chiaro che voglia tornare tra simili sottane, da una donna adulatrice che lo ami senza riserve. Luigi è onesto e va al cuore delle cose: capisce che forse la sua è invidia, rimpianto di qualcosa che non ha mai avuto. Lui non cerca tra le sottane ciò che cerca Jep, lui vuole rendere felici le donne, forse perché non ha mai visto felice sua madre. Se la ricorda come una donna bellissima e malinconica, con negli occhi verdi una sorta di presentimento di quello che sarebbe stato il suo Destino, compiutosi una sera d’estate in Costa Azzurra, quando Luigi aveva soltanto nove anni. Però, pensa Luigi: “Non siamo più bambini, i bambini sono a scuola a quest'ora mentre noi stiamo qui a trastullarci, passeggiare col cane, osservare il prossimo perché non ci è capitata l'occasione. Vorrei una vita operosa, una famiglia ordinata, retta da un ordine naturale e immutabile garan-


tito da una donna all'antica. Nostalgia, rimpianto di ciò che non è stato. Verrà presto il tempo dei bilanci e non sarò indulgente. Sono diventato uno scrittore che tira a campare convinto di avere talento, ma forse non ne ha. E Jep è diventato quell'uomo tanto bello da meritarsi baci, abbracci e gattò di patate che tanto gli piaceva. Quarant’anni e non siamo cresciuti. Quando moriremo, a ciascuno di noi il prete reciterà un requiem per un uomo inutile.” Arriva l’avvocato Casanova, l’altro inquilino del quarto piano. Vede al banco Pina, la portinaia, e va a sedersi il più lontano possibile da lei. Non si salutano da tre anni, da quando hanno litigato per il trasloco. L’avvocato aveva caricato due quadri sull’ascensore padronale e Pina gli aveva detto bruscamente di usare l’ascensore di servizio, aggiungendo: «Impari subito che in questa casa io faccio rispettare il regolamento di condominio, altrimenti vivremmo come i baluba.» Casanova dirige l’ufficio legale della Banca Popolare di Milano, si è trasferito al civico 17 dopo il divorzio. È una persona mite ed educata, ma permalosa: ha scaricato i quadri e non l’ha più salutata. Pina parla, dice che Matteo Renzi è un ragazzino, uno che non ha mai lavorato, un uomo che ha sempre trovato la pappa pronta. I leghisti sì che capiscono come gira il mondo: «Gli altri sono tutti ladri, attaccati al cadreghino. E noi povera gente mandiamo avanti l’Italia mentre loro rubano i nostri soldi.» Alza la voce, i due baristi si scambiano un’occhiata d’intesa, quasi a dire: “Diamole ragione, altrimenti sta qui tutta la mattina.” È settembre, c’è un sole pallido e sbiadito. I milanesi sono al lavoro. I ritardatari del bar Bones se ne vanno, in ordine sparso. L’avvocato Casanova va alla banca, dove lavorerà fino a tarda sera. Luigi sale in casa, al secondo piano (abita accanto a Jep), a scrivere il suo quarto romanzo, anche se gli ultimi due sono stati


rifiutati dal suo editore. Aveva giurato di smettere di scrivere, ma nessuno che abbia incominciato a scrivere smette di farlo. Pina torna alla guardiola. Le signore vanno a fare la spesa. Jep a passeggiare annoiato verso Corso Vercelli. I baristi puliscono il banco e apparecchiano i tavoli per il pranzo: al numero 13 c’è un call center dove lavorano novanta persone; il bar è una miniera d’oro e Salvo, il proprietario, ha una villa abusiva sulla spiaggia di Ispica, in Sicilia. Salvo è tarchiato, brevilineo, ossa enormi. Il naso schiacciato, rotto. Da anni fa pugilato e ogni tanto lo si vede con un occhio nero, un labbro tumefatto, un sopracciglio ricucito. Due sere a settimana sale sul ring per allenarsi. No, non si allena per vincere quegli incontri tra dilettanti, lui si allena per trovarsi pronto quando il Destino gli manderà il rapinatore. Sogna i titoli sui quotidiani: “Barista eroe aggredito, disarma a pugni il suo aggresore.” Per un attimo di incerta celebrità, prende cazzotti certi due sere a settimana! Il condominio al civico 17 è un’anonima costruzione di quattro piani degli anni sessanta. Anzi, ora i piani sono cinque, perché il geometra Bauscian ha costruito una specie di fungo sul lastrico solare, dove abita insieme a una ragazza romena. Gli altri condomini non lo possono vedere, li ha costretti a sopportare lavori di ristrutturazione eterni e ha ancora il coraggio di dire – a quei pochi che ancora gli rivolgono la parola - che il loro: «È un condominio di barboni – ha fatto bene Salvo a chiamare il suo bar Bones - l’unico appartamento bello è il mio.» Pina lo adora. Bauscian l’ha conquistata con mance faraoniche, regali di Natale e battute piccanti. A Pina piacciono gli uomini sfacciati e Bauscian, che tocca il culo alla romena davanti a tutti e si vanta di avere diciassette anni più di lei, ma di essere ancora capace di “farne due senza tirarlo fuori”, è il suo uomo ideale. Secondo lei: «Ha esercitato i suoi diritti. Ha comprato il sottotetto e costruito


l’appartamento, cosa doveva fare?» Gli altri (eccetto i Landolfi) sono una massa d’invidiosi, primo fra tutti quello spocchioso che abita sotto di lui, l’avvocato Casanova, che ha cercato di fermarlo facendogli causa. «Mai un saluto, mai una mancia, l’avucàt ‘l ta da nanca la pell d’un pioeucc.» Poco importa che metà dell’appartamento di Bauscian sia abusivo e condonato, perché se la legge lo consente, è giusto utilizzare il condono. Ora Casanova è alla sua scrivania, intento a redigere il contratto di outsourcing dei servizi di tramitazione. Luigi, sprofondato nella sua poltrona in pelle rossa, legge Danubio di Claudio Magris e sogna tempi e paesi lontani. Nella guardiola, Pina si guarda tranquilla le trasmissioni del mattino. Le signore riempiono i carrelli al supermercato e Jep entra in farmacia, con la scusa di comprare un collirio, per vedere se la nuova commessa è ancora lì. “Le nostre storie non interessano a nessuno”, così pensa Luigi, posando il libro per un attimo. “La gente vuole fantasy, massoneria deviata, diavoli, pornografia da quattro soldi o lacrime facili. Non sarò mai uno scrittore.” Capisce che ha ragione Claudio Magris quando dice che al giorno d’oggi non sono più possibili scoperte postume. Nell’epoca dei mass media e di internet, si è famosi subito o non lo si sarà mai più. Uno scrittore deve vendere in vita, essere un personaggio televisivo, riconoscibile, lasciare una traccia mentre vive o rassegnarsi al nulla. “Sì, è così. Dovrei scrivere la storia edificante di un’emigrante arrivata su un barcone dalla Libia e diventata soubrette televisiva, una donna capace di passare da Tripoli a Capalbio, moglie di un industriale o di un politico, magari. Oppure la storia di bambini malati di leucemia, cresciuti nei campi profughi, curati grazie alla bontà di una dottoressa italiana, una vera eroina. Sì, trame popolari che facciano piangere e indichino che la vita è bella, nonostante tutto, che il


bene trionfa e anche quando non trionfa salva. Vita eterna. Eterno miraggio che tutto giustifica, persino la sofferenza. Questo se pensiamo ai lettori. Ma pensando ai critici, com’è possibile che si entusiasmino dei palpiti del cuore di Marco Rorazzi mentre l’umanità dolente si ammassa alle frontiere dell’Occidente? È moralmente accettabile nascondere la testa sotto la sabbia come struzzi, come novelli Zeno Cosini dedicare pagine al nostro vizio del fumo mentre il mondo in cui viviamo sta per conoscere gli orrori delle dittature, l’infamia delle persecuzioni razziali e la seconda guerra mondiale?” Al pensiero che non è uno scrittore chi non sia stato intervistato da Fabio Fazio, Luigi vacilla, si butta sul divano e lancia la palla da tennis a Kant, il suo Lakeland Terrier (can di razza T = Terrier: Can T, scritto Kant per rendere omaggio al filosofo). “Anche oggi non scriverò, lo sento. Scrivere per chi? Pubblicare di nuovo e vendere millecinquecento copie? Non ce la faccio, tutto è inutile, sono un alienato, non diventerò mai ciò che sono.” Ripensa a Jep e gli invidia la sua sicurezza di sé, la serenità nonostante l’inutilità della sua vita: “No, forse è un’immagine che mi sono fatto di lui. In fondo, non può essere così stupido.” Luigi è così, fragile, insicuro e ingenuamente fiducioso che gli altri gli somiglino. Ma gli altri non gli somigliano, non si tormentano, vivono come bottiglie di plastica che galleggiano sulle onde, senza sapere perché sono lì o dove vanno. Come Fernando Pessoa, si dice: “Convivere con gli altri è una tortura per me. E io ho gli altri dentro. Sebbene lontano da loro sono obbligato a conviverci. Pur solo, sono circondato dalla folla. Non ho dove fuggire, a meno di fuggire da me stesso.” (Nota: Bernardo Soares, Il libro dell’inquietudine). Jep è uscito dalla farmacia e si è trovato davanti una magnifica marocchina. Le ha sorriso e lei lo ha fissato sfrontatamente, senza abbassare gli occhi. Lui non ha perso l’attimo e le ha chiesto se


poteva offrirle un caffè. Ora sono seduti insieme e ridono raccontandosi stupidate. Tra poco lui le prenderà la mano, con indifferenza, come se niente fosse e la inviterà a cena al “Merluzzo felice”. Lei accetterà, perché le donne vogliono mangiare pesce e ridere e soprattutto perché dopo cena andrà da lui e domani si farà regalare un bel vestito: galleggiare è più facile per chi è leggero. L’avvocato Casanova ha appena litigato al telefono con la dottoressa Girotto, capo della Compliance della banca. Ogni volta, è la stessa storia: la Girotto si lamenta del contenuto dei contratti e Casanova le ripete che le trattative si fanno in due, l’outsourcer ha imposto condizioni non negoziabili e la direzione della banca le ha accettate, dopo avere consultato il responsabile del Risk Management. Esausto, Casanova posa il telefono e rimpiange i tempi felici, quando lavorava in uno studio legale importante e il suo unico compito era redigere ricorsi per decreti ingiuntivi. Poi, sua moglie l’aveva convinto ad accettare l’offerta della banca: «Così, con uno stipendio fisso, avremo la tranquillità economica per avere un bambino.» Ora la moglie sta con un commercialista, la figlia va al liceo e lui è rimasto solo. A cinquant’anni non può certo mettersi in proprio, la vita è volata via e lui sente soltanto il bisogno di arrivare alla pensione e andarsene, andarsene dovunque, anche in capo al mondo pur di vivere almeno un attimo prima di smettere di vivere. Ogni anno, i contratti diventano più lunghi, più complicati e più zeppi di clausole inutili imposte da Banca d’Italia o da normative italiane e comunitarie. Da ragazzo è stato un discreto velista. Forse, da vecchio si comprerà una barchetta e l’ormeggerà in qualche porto di un paese lontano, dove la vita sia semplice e non esistano la Compliance e il Risk Management. Sono i sogni, le illusioni che ci tengono vivi e il suo è un sogno alla buona, l’illusione di una persona seria che capisce di non potere aspirare a grandi cose, ma si accontenterebbe


di un po’ di sole, qualche bella giornata di vento e molta tranquillità. Intanto, tranquilla, la signora bionda si prepara il pranzo. Il lento ripetersi dei giorni, la monotonia della sua vita di casalinga non le pesano: così è la vita, così deve essere. Ha amato suo marito, ora ama i suoi figli: le basta. Si è accorta di non amarlo più da molto tempo, quando ha incominciato a scorgere in lui un’apatia crescente, una stanchezza verso il mondo indice di vecchiaia precoce. Ora lui arriva a casa la sera, mangia in silenzio, guarda la televisione e va a letto presto, prima degli altri. Il sabato lavora, è antiquario come suo padre e suo nonno prima di lui. Ora che i figli sono cresciuti, passa la domenica sdraiato sul divano davanti alla televisione. Prima andavano al ristorante, fuori Milano, dovunque ci fosse un prato, uno svago per i bambini. Lei e lui non si parlano quasi più ed è questo il primo segnale di un amore che finisce. Ma l’affetto rimane, sono cresciuti insieme, non sanno immaginare una vita senza l’altro e questa mancanza di fantasia è l’ultimo, definitivo collante del loro matrimonio. Pina guarda Magalli e commenta ad alta voce, da sola. Fa un cenno di saluto al cugino della signora Bauscian («signora per modo dire: se mia nonna la gh’aveva i ball, ‘l gh’era ‘l me nonno!») che sale a trovarla e continua imperterrita a discutere con i suoi ascoltatori immaginari. Il cugino suona il campanello del quinto piano e Steluta, la romena, gli apre in tanga e reggiseno. Un istante più tardi fanno l’amore nel letto matrimoniale e lei, fumando la sigarettina di prammatica, gli racconta che quell’idiota di Bauscian si è davvero bevuto la palla del cugino. Luigi è depresso, chiama la sua amica Cristina e le racconta che si vuole suicidare. Lei gli risponde: «Anch’io», così Luigi, che forse scherzava – ma fino a un certo punto – deve convincerla che la vita è meravigliosa. La invita a cena in pizzeria e, prima di riat-


taccare, le sussurra: «Ti amo», anche se sa che il suo è un amore di serie B, un sentimento debole, un ripiego per sconfiggere la tristezza della solitudine. L’unico, vero, sentimento che prova è la pietà verso se stesso, scrittore di talento – o forse senza talento, ma cosa cambia? – incapace di dominare il suo Destino. Un giorno, forse, capirà che il Destino, qualunque esso sia, bisogna accettarlo, perché tanto non possiamo fare altro. Amare la vita non è proprio necessario, ma odiarla la rende intollerabile. Al terzo piano abitano la signora Cassola e il Professor Morselli. Lei è una vecchissima vedova, proprietaria degli appartamenti dove abitano Jep, Luigi e il Professor Morselli. Ha tre figlie e molti nipoti che vengono ogni tanto a trovarla, non esce quasi mai di casa. Una ragazza filippina, Loti, le fa le pulizie e la spesa, ma non dorme da lei. È praticamente sorda e spesso si addormenta con la televisione accesa. Luigi, che scrive di notte, si è fatto dare il suo numero di telefono, così, quando non ne può più del rumore, la chiama. Ha un telefono per sordi, con una suoneria spaventosa e una luce rossa che lampeggia a ogni squillo. Nella cornetta c’è un amplificatore. Così Luigi, che è tormentato dai rumori, è costretto ad ascoltare tutte le sue insulse, ripetitive, telefonate. Oltre alla televisione e alle telefonate della signora Cassola, Luigi sente i gemiti – a volte i grugniti – provenienti dalla camera da letto dell’appartamento a fianco, quello di Jep. Anche il vecchio Professor Morselli abita solo. Ogni tanto lo si incontra al supermercato, raramente in pizzeria. È molto riservato: detesta quell’impicciona della portinaia e vuole bene a Luigi. Luigi è il figlio che non ha mai avuto, un amico con cui scambiare quattro chiacchiere su Calvino, Hemingway o Kundera. In fondo, sono entrambi scapoli, più a loro agio tra i libri che nella vita. Al primo piano c’è un grande studio di psicoterapeuti. Vanno e vengono, sempre diversi. L’unica che è sempre stata lì è la dottoressa Pan-


gloss, la direttrice, ipnoterapeuta. Su strada, naturalmente, c’è il bar Bones e, a fianco, il coiffeur Jean. In verità il suo nome è Giannino Frau e viene da Nuoro, ma ha fatto fortuna a Milano col nome d’arte di Jean, nonostante sia identico a Super Mario. E infatti tutto lo chiamano Super Mario Frau! Dopo Bauscian, Pina la portinaia ha un debole per Landolfi, il marito della signora bionda: «È un gran signore, sempre elegante e cortese. Taciturno certo, non dà confidenza a nessuno, ma non c’è giorno in tanti anni che non mi abbia fatto un cenno di saluto quando passa davanti alla guardiola.» Le piacciono le sue giacche di tweed (le stesse da sempre), i suoi cappotti inglesi, la sua vecchia Mercedes familiare. «E poi ha una così bella famiglia… Ho conosciuto anche il padre, si somigliavano come due gocce d’acqua. Anche lui antiquario, una tradizione da generazioni. Vecchi milanesi, si vede subito. Se mi fossi sposata, avrei scelto un uomo come lui. Certo, Bauscian è più simpatico. Ma quello è un birbante, uno a cui piacciono le donne, uno da una notte e via. Per un’avventura, Bauscian. Per il matrimonio, Landolfi.» Tutto questo, lo pensa ad alta voce, davanti alla televisione. Landolfi non immagina di avere una così fedele ammiratrice. Da dieci anni, il negozio va sempre peggio. A casa non dice mai nulla. Non vuole che moglie e figli si preoccupino. Ma ora è davvero in difficoltà: se tutto va bene, ha ancora soldi per quattro anni, poi sarà costretto a chiudere. Si è fatto fuori l’eredità di due generazioni, non gli resta che qualche mobile francese di valore. Non ha mai fatto altro che l’antiquario, sua moglie non ha mai lavorato: che fare? Ogni volta che passa davanti alla porta dello studio medico, è tentato di andare dalla dottoressa Pangloss: forse l’ipnosi gli farebbe bene, per un attimo si scorderebbe dei suoi problemi. Ma l’ipnosi costa e se davvero gli facesse bene, non sarebbe più capace di farne a meno. Resterebbe interi pomeriggi ipnotizzato,


dipendente dall’ipnosi come un drogato. Così pensa e accelera il passo. In negozio, da solo tutto il giorno, ascolta musica classica, spolvera i mobili, sfoglia distrattamente cataloghi d’asta, studia i vecchi libri tramandati da tre generazioni che ormai conosce a memoria. In poche parole, si annoia a morte e ha tutto il tempo per rendersi conto della spaventosa inutilità della sua vita. Certo, potrebbe consolarsi pensando alla famiglia. Una bella moglie bionda naturale, due ragazzi grandi (entrambi al liceo) e una madre che si è ritirata al lago dopo la morte del marito, ma lo chiama tutti i giorni per ripetergli sempre le stesse cose: «Le patate costano già il doppio.» (Nota: Elias Canetti, Auto da fé). Ossessionato dall’aumento del costo delle patate, dai vecchi clienti di suo padre e di suo nonno che lo pregano di ricomprarsi i loro mobili, dall’assenza di gusto dei giovani che i mobili li comprano all’Ikea, dalla spensieratezza di sua moglie che sembra vivere in una soap opera, Landolfi è ogni giorno più cupo, disilluso, consapevole dell’impossibilità di un miracolo. Si confida soltanto con Jean, quella volta al mese in cui si fa tagliare i capelli: ci tiene molto ai suoi capelli, avere bei capelli è importante per un antiquario o un direttore d’orchestra. Ma Jean si lamenta per abitudine, gli affari gli vanno bene. Per venti minuti inveisce contro «il fisco di questo paese di merda che ci succhia il sangue», ma sono anni che non emette uno scontrino e le tasse le paga per modo di dire, proprio come Salvo, che se non fosse per i ticket restaurant non le pagherebbe del tutto. La dottoressa Pangloss somiglia a Marlene Dietrich. Brillante psicoterapeuta in gioventù, a quarant’anni ha intuito che non era più capace di guarire nessuno. Curare sì, guarire no. I casi di transfert erano sempre più rari e i problemi dei pazienti erano sempre meno psichici e sempre più oggettivi. “Gli uomini moderni sono gettati in questo mondo come cani senza un osso”


(Nota: Jim Morrison), criceti impazziti in una gabbia senza ruota. Spinta da un sincero desiderio di aiutare e da un legittimo attaccamento al denaro, si è specializzata in ipnoterapia: «Se non posso guarirli, posso almeno garantirgli qualche attimo di oblio.» Il successo ha coronato il suo progetto e ora l’elenco dei pazienti fissi è tale da costringerla a rifiutarne di nuovi. Lesbica convinta, abita nel suo attico in centro con una sciampista brasiliana mulatta - giovanissima, bella, ma ingenua come una bambina - vittima del suo umorismo tagliente. Alle amiche ripete, con la sua voce roca: «Le brasiliane sono quelle che fanno sesso dopo avere guardato Ballando sotto le stelle.» Cuca, la brasiliana, non se la prende: tutto per lei è meglio della favela di San Paolo dov’è cresciuta coi sei fratelli maschi: lì di cazzi ne ha visti abbastanza per tutta una vita. Accanto al civico 17, naturalmente, ci sono migliaia di altri condominii, uno attaccato all’altro, che formano una città – Milano – che confina con cittadine che confinano con paesi che formano una nazione che confina con altre nazioni che tutte insieme fanno il giro completo di una sfera che gira sul suo asse, ma che gira anche intorno al sole in un sistema solare che è enorme ma piccolissimo se paragonato all’ipotetica grandezza di un tutto che forse è infinito. In tutti questi condominii vivono gli uomini moderni, così diversi da quelli primitivi, o semplicemente sfortunati, che vivono nelle capanne, nelle baracche o nei campi profughi e da quelli postmoderni che vivono nelle ville, sugli yacht o dove preferiscono, dato che i soldi consentono loro di sistemarsi dove meglio credono.


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È l’ora di cena, Pina è appena tornata dal supermercato. Davanti all’ingresso, una zingara le ha detto: «Ciao.» Lei le ha risposto: «Ciao lo dici a tua sorella, zingara del menga.» Ora, sta preparando la sua insalata preferita, con tanta cipolla cruda, nella cucina appena dietro la guardiola. Luigi e Jep s’incontrano sul pianerottolo, uscendo verso i loro appuntamenti. Si danno del tu, ma non sono amici. Sono vicini di casa, cortesi uno con l’altro perché così si deve essere. Il professor Morselli torna dal supermercato tirandosi dietro un carrellino pieno di surgelati. Vive da solo da quarant’anni, ma non ha mai imparato a cucinare. Landolfi, l’antiquario, è ancora in metropolitana. L’avvocato Casanova è alla scrivania, al telefono con sua figlia: la chiama tutte le sere, è l’unico amore che gli resta. Lei ha sedici anni, sopporta a stento questo padre così abitudinario. Ha voglia di essere felice, insieme ai suoi amici, perché pensa che la vita degli adulti sia triste, monotona e vuole godersi i suoi anni migliori. Bauscian è appena tornato a casa e scherza con Steluta. Abbracciandola, le domanda: «Ti sono mancato?» «Molto, lo sai che ti amo.» «Cosa fai tutto il giorno senza di me?» «Mi annoio. Per fortuna oggi è venuto a trovarmi mio cugino.» La signora bionda gira il risotto ascoltando un vecchio cd di Lucio Battisti. “O mare nero, o mare nero, o mare ner… / tu eri


chiaro e trasparente come me.” A cena, si fa raccontare dai figli la loro giornata. Con loro, ha quel necessario rapporto basato sulla conversazione che non ha più con suo marito. I ragazzi sono allegri e le infondono gioia di vivere. Da loro trae la sua sicurezza, il suo equilibrio, l’energia per andare avanti verso una vecchiaia serena. Non importa se il marito si è spento, un giorno morirà e lei vivrà altri vent’anni nell’eterno ricordo dei primi tempi insieme, rimpiangendo una gioventù felice e banale. Lui ha esaurito le forze garantendo una casa, uno stipendio, quelle condizioni che anche se sembrano ininfluenti sono la base – non certo il tutto - per fondare una famiglia felice. In fondo, se la vita ha un senso, è soltanto nella sua prosecuzione, per motivi sui quali è inutile porsi domande. È una magnifica serata, anche se ora è quasi buio, e lei è felice. La signora Cassola ha già cenato e guarda il gioco dei pacchi. La cameriera filippina le dà da mangiare e poi se ne va a casa: mezz’ora di autobus fino a piazzale Corvetto e poi sarà dai suoi bambini. La dottoressa Pangloss è sotto la doccia: questa sera andrà al Conservatorio ad ascoltare Mahler, il suo preferito. Certo, pensa: “Cuca si annoierà: lei preferirebbe un concerto di Laura Pausini.” Salvo ha appena chiuso il bar e Jean è già in coda in autostrada, abita a Lainate. Il suo unico desiderio è di chiudere il negozio di Milano e aprirne uno vicino a casa: non sopporta più le ore trascorse nel traffico. Ma di parrucchieri, a Lainate, ce ne sono già troppi… Più tardi, davanti a una pizza, Luigi e Cristina si pongono le eterne domande di sempre: «Perché non siamo felici?» «La felicità è l’opposto dell’infelicità. Non c’è l’una senza l’altra. Nessuno è sempre felice o sempre infelice. Così è la vita.»


Mentre pronuncia queste parole, a Luigi viene in mente una frase di Elias Canetti: “Pazzi diventano quelli che pensano sempre e soltanto a se stessi.” Lui e Cristina non conoscono la gioia di vivere, sono esseri pesanti, riflessivi, problematici, che si abbracciano disperati, tirandosi sempre più a fondo, incapaci di galleggiare. “Vi giuro, signori, che aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia.” (Fëdor Dostoevskij, Memorie del sottosuolo). L’uno simile all’altra, un’unica personalità riflessa allo specchio. Si sente annegare, fissa il boccale di birra e ha paura di se stesso, o forse di Cristina, che è la stessa cosa. “No, questo non è un amore di serie B. È un gorgo che m’inghiotte, da cui devo fuggire.” Ha scambiato per amore l’unico, vero, sentimento che prova: la pietà. Ricorda le parole di Antoine de SaintExupéry “L’amore non è guardarci l'un l'altro, ma guardare insieme nella stessa direzione.” I suoi occhi e quelli di Cristina sono puntati verso il fondo. Ha paura per lei e per se stesso e reagisce come un vero uomo: ride. Cristina non capisce questo suo sorriso improvviso, ma ne è contagiata. Gli prende la mano e gliela accarezza: chi li vedesse in quest’istante penserebbe a una coppia felice. Forse avrebbe ragione, perché per un istante lo sono davvero. Se soltanto fossero capaci di spegnere il cervello, se sapessero guardare più in là del loro ombelico, si accorgerebbero che anche se è la fine di settembre è ancora estate, è una magnifica serata e loro sono in mezzo alla folla ma sono in due, che a volte – per chi è solo - è già un inizio di felicità. «Vuoi restare a dormire da me?» «No, grazie. Domani devo svegliarmi presto.» Domani, sempre domani. Dimenticandosi che “Esiste solo un'età nella quale la gente può essere felice, solamente un'epoca nella vita di ogni persona nella quale è possibile sognare e fare piani e avere abbastanza energia per realizzarli a dispetto di tutte le dif-


ficoltà e ostacoli. Una sola età nella quale la gente s'incontra con la vita e vive appassionatamente e la sfrutta con tutta l'intensità senza né paura né colpa di sentire piacere. Fasi dorate nelle quali la gente può creare e ricreare la vita a sua propria immagine e somiglianza e vestirsi con tutti i colori e sperimentare tutti i sapori e concedersi a tutti gli amori senza né pregiudizio né pudore. Tempo di entusiasmo e coraggio nel quale tutta la sfida è un invito a lottare che la gente affronta con tutta la vocazione a tentare qualcosa di nuovo, di nuovo, e di nuovo, e quante volte sarà necessario. Questa età tanto fugace nella vita della gente si chiama presente e ha la durata dell'istante che passa.” (Mario Quintana). Così Luigi la riaccompagna a casa in moto e torna da Kant. Al Conservatorio, in mezzo a vecchie vedove raramente accompagnate da decrepiti amici superstiti o da nipoti zitelle, la dottoressa Pangloss ascolta l’adagietto della quinta sinfonia di Mahler ricordando il finale di Morte a Venezia. È assorta, concentrata. Pensa che quelle vecchie vedove sono le riserviste del mondo civile, l’ultimo avamposto di una civiltà occidentale che muore. Cuca le prende la mano e lei si volta. Gli occhi color nocciola chiaro della ragazza sono lucidi: è commossa. Anche su di lei, che non sa nulla del professor Gustav von Aschenbach, di Thomas Mann, di Dirk Bogarde e di Luchino Visconti, la magia della grande musica romantica ha operato il suo incantesimo. Più tardi, nell’elegante camera da letto con vista sulla chiesa barocca di Sant’Alessandro, si ameranno appassionatamente e si addormenteranno abbracciate. Jep, dopo un’ora di acrobazie con la sua marocchina, è in bagno, nudo davanti allo specchio. Sorride ed è felice, al pensiero che lei è ancora di là che lo aspetta. Si sente un uomo: quell’amplesso


resterà scolpito per sempre nella sua memoria. Avrebbe voluto filmarlo, per riguardarselo ogni tanto: che donna! Il signor Landolfi finge di dormire, pensando a quanto potrebbe ricavare dalla vendita della villetta al lago di sua madre. Sua moglie - la signora bionda – guarda un film d’amore alla televisione, con gli occhiali da vista che mette soltanto in casa per non coprire i suoi occhi verdi. Pina ascolta Ballarò, commentando ad alta voce tutti gli interventi dei politici. Al quinto piano Steluta mette i tappi nelle orecchie per non essere disturbata da Bauscian che, dopo la solita sveltina, già russa. L’avvocato Casanova è intento a guardare vecchi filmati della Coppa America su Sailing channel, il suo canale preferito, sorseggiando il terzo doppio whisky per rilassarsi dopo la giornata in banca. Vivere solo, in fondo, ha molti lati positivi: la sua ex moglie non voleva che bevesse. Pensando a lei, a letto col commercialista in quell’appartamento che ha pagato lui, finisce il whiskino e fa un sorriso beffardo. Verso mezzanotte, tutti dormono. Nessuno sospetta che un estraneo abbia trovato il portone del civico 17 aperto e stia gettando la sua unica coperta davanti alla porta delle cantine, preparandosi per l’ennesima notte lontano da casa.


3

Il professor Morselli soffre d’insonnia. Quando proprio capisce di non poter dormire, esce a fare una passeggiata. In queste sue sortite notturne, alle ore più strane, incontra le prostitute all’angolo del viale, gli spazzini che lavano la strada, bande di giovani ubriachi che prendono a calci le automobili per il gusto di fare qualcosa, barboni che dormono sulle panchine dei giardinetti accanto all’asilo, sulle quali il giorno dopo siederanno le mamme dei bambini. Non ha mai avuto paura. Milano di notte ha uno strano fascino, soprattutto quando i semafori lampeggiano nella nebbia. Non si spinge mai verso il centro. Preferisce andare verso la periferia. Anzi, per essere precisi, ama quello spazio dove la città sembra distendersi, quella zona che non è più centro ma non è ancora periferia, i quartieri non più signorili ma non ancora popolari. Ama il grigio, le sensazioni attenuate, rarefatte, la malinconia di una notte che termina umilmente con l’arrivo dei camion della nettezza urbana. È un solitario vero, un uomo che ha vissuto i suoi settant’anni con la leggerezza di una piuma, desideroso di starsene in un angolo d’ombra, al riparo dalla “dolorosa concitazione della vita.” Più di ogni altro, ama il verso di Edouard Levé: “Il gruppo mi opprime La solitudine mi possiede La folla mi spia.”


Rilegge spesso il capolavoro del grande scrittore suicida francese e conserva scolpite nella memoria le sue ultime parole: “La felicità mi precede La tristezza mi segue La morte mi aspetta.” Non ha paura della morte, anzi la corteggia. Forse è vero: dopo il lungo inseguimento della vita, raggiungeremo finalmente la pace. “La superiorità di un uomo che si è liberato dal desiderio di vivere è incredibilmente grande.” (Nota: Robert Musil, L’uomo senza qualità). Ha insegnato italiano e latino in una scuola cattolica, ma è rimasto agnostico. Al mondo, non ha più nessuno. Non è stato sempre così, naturalmente. Vede i parenti della sua padrona di casa andare e venire e capisce che, in fondo, lei è sola quanto lui. Si può essere soli in tanti modi: anche Luigi è solo. Il professor Morselli vorrebbe vederlo felice. Invece lui e Cristina continuano a quarant’anni a vivere come due adolescenti, senza figli, ciascuno a casa propria. È la decadenza della civiltà occidentale, tutto nasce, si sviluppa e muore, sostituito da qualcosa di più vitale che viene dopo, non necessariamente migliore. Perché e fino a quando non lo sapremo mai. Tornando a casa all’alba, trova Pina che porta fuori i sacchi della spazzatura, Non è la prima volta che s’incontrano così, mentre tutti dormono: «Buongiorno professore, lei non sa cos’è successo questa notte.» Lui non domanda, capisce che lei sta facendo una pausa a effetto. «Qualcuno ha dormito davanti alla porta delle cantine.» «Chi?» «Non lo so, ma ne sono sicura. Ho trovato dei fazzoletti di carta. E poi, c’è una puzza terribile.» «Sicuramente un barbone.»


«Sì, ormai non si è più sicuri neppure a casa propria. Viviamo proprio in un bel paese di merda. Siamo invasi da sti negher che vegnen coi barcùn e questi politici non fanno niente. Che se li prendano loro in casa tutti questi barboni. Ha ragione Salvini, bisogna uscire dall’Europa.» «Beh, magari potremmo telefonare all’Amministratore. Il portone non si chiude bene.» «Si chiude benissimo, basta tirarlo. Soltanto che questi inquilini sono così rammolliti che non si prendono neppure la briga di chiudere come si deve. Uomini senza più le palle, ecco cosa sono. Ci vorrebbe uno della Lega, uno con un masagatt bel dur.» Morselli sorride. Poi, per tagliar corto, dice: «Io vado a cercare di dormire un’oretta. Sa, l’insonnia…» «Io invece mi spacco la schiena con questi sacchi, sperando che nessuno controlli la differenziata: la romena di Bauscian butta tutto insieme, non c’è verso di farle capire che è vietato.» Poco lontano, Salvo sta parcheggiando il SUV: è sempre il primo ad arrivare al suo bar, apre lui ai due baristi. Naturalmente alle nove, quando Jep si pavoneggia al banco con la sua nuova conquista, tutti conoscono la storia del barbone. Pina l’ha raccontata dieci volte, anche se si accorge che a nessuno importa nulla. Quest’indifferenza le provoca una rabbia crescente: l’integrità territoriale del condominio è stata violata, e lei è l’ultima resistenza contro i barbari invasori. Bauscian non va mai al bar Bones. Passa l’avvocato Casanova e neppure la saluta, quel cafone. Landolfi dice buongiorno, ma scappa subito in negozio. Luigi gioca col cane e Jep ride con una mezza araba caricata chissà dove: “Mio Dio, dove andremo a finire?” Finalmente, quando torna dal supermercato la signora Landolfi, ha qualcuno con cui sfogarsi: «Ha saputo signora? Qualcuno ha dormito davanti alla porta delle cantine.»


«Davvero? L’ha trovato lei, Pina?» «No, ma ha lasciato tutto sporco e una puzza di stalla.» «Poveretto, avrà avuto freddo fuori.» «Poveretti noi, assediati da questi barboni che non rispettano più nemmeno la proprietà privata.» La signora Landolfi s’immagina un vecchio barbone infreddolito e già avrebbe voglia di portargli un piatto di minestra, una coperta pulita. Basta così poco per fare del bene al prossimo. Pina invece pensa che persino una signora per bene come la signora Landolfi si è rimbambita: “Andando avanti così, ce li ritroveremo nella nostra vasca da bagno. È uno schifo, un vero schifo.” Fine anteprima. Continua…


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