MARCO DODDIS
IN CUBO
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IN CUBO Copyright Š 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-448-2 In copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Luglio 2012 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
a papà e mamma, per tutto a Pups, per il suo sorriso alla nonna, perché sarebbe stata felice. E forse lo è.
Rivolgo un ringraziamento particolare a Gabriele Cavallaro. Il titolo di questo libro è una sua idea.
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IL CAMMELLO
Il pugno di Ivan fece tremare la panchina. Quella era la partita più importante del campionato: non si poteva perdere così. Un’ora di sofferenza, di sudore, di urla strozzate. Poi, all’ultimo minuto, l’arbitro con la faccia da cammello aveva deciso di fischiare un rigore a favore degli altri. Gol e tutti a casa. La finale sarebbe rimasta un miraggio. Ivan, uscito dopo mezz’ora per una botta alla caviglia, dimenticò in un amen il dolore al piede e scattò in campo con la reattività di una molla. Nonostante la trincea eretta dai compagni, riuscì a piazzare il naso di fronte a quello dell’odiato cammello e, per poco, non gli eruttò addosso tutta la sua rabbia. Servirono alcuni minuti per riportare il vulcano alla calma. Intanto, l’arbitro era sgattaiolato via, protetto dai giocatori della squadra avversaria. Zuffa. Sulla strada di casa, ripensò con lucida rassegnazione a quell’ennesima beffa. Ogni anno partecipava al torneo universitario di calcetto. E ogni anno, puntualmente, un arbitro incapace gli metteva i bastoni tra le ruote. Quello della stagione precedente, che aveva osato espellerlo per qualche parola di troppo, era stato costretto a rinchiudersi a chiave nello spogliatoio. Forse era arrivato il momento di arrendersi, di ritirare l’annuale tributo elargito al Cus per iscriversi al campionato. Cento euro, i soliti cento euro buttati. Come se non bastassero i soldi che già regalava all’università con le tasse. E meno male che pagavano mamma e papà.
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Stavano seduti davanti al televisore quando lui tornò quella sera. In Via delle Ortensie la scena era sempre la stessa, da anni: uno schermo puntato verso un divano, dove papà Antonio consumava la propria digestione; una sedia separata dalle compagne di tavolo, su cui mamma Pia transitava di tanto in tanto, prendendosi qualche pausa dalle faccende domestiche; un gatto bianco, Giondò, che vagabondava senza pace da una stanza all’altra. L’unica variabile, in casa, era l’aroma: frizzante di anticalcare al limone, se tutti già avevano finito di mangiare; stantio e speziato, se mancava all’appello qualcuno. In questo caso, il qualcuno non poteva che essere Ivan: sua madre, infatti, non usciva mai dopo il tramonto, mentre il padre si assentava dal pasto serale solo in tre occasioni nel corso dell’anno, per aggregarsi ai colleghi del dopolavoro ferroviario nei cenoni dei giorni di festa. Sentendo la serratura della porta, Pia interruppe la piegatura delle maglie appena stirate e corricchiò incontro al figlio. Ivan accettò a malincuore le smancerie materne, cercando di nascondere la sua lieve zoppia. Regalò alla donna un paio di caritatevoli monosillabi e si appollaiò davanti a un piatto di arrosto caldo ma un po’ rinsecchito. «Allora, come è andata la partita?», mormorò papà Antonio, senza staccare gli occhi dal suo film. «Abbiamo perso. Rigore all’ultimo. Aspetta un attimo... Ma’, togliti davanti!». Nel suo viavai tra cucina e stanza da pranzo, mamma Pia non si era resa conto di essere divenuta una sagoma troppo ingombrante. «Sempre davanti ti metti, eh Pia!». «Mi ero solo alzata per prendergli il pane, Anto’. Vabbe’, sai che ti dico? Prenditelo tu!». Visibilmente stizzita, la madre tornò a piegare maglie. «Ma poi che sarà mai ‘sto film? La polizia spara e quelli scappano. Capirai!». Nessuno dei due rispose. Il figlio si era lanciato sul suo arrosto; il padre, immerso nello schermo, si limitò ad aggiungere un «beh, almeno l’hai finita pure quest’anno
7 con ‘sto calcetto», per poi tornare a occuparsi del sacchetto di noci che teneva sulle ginocchia. In pochi minuti, Ivan spazzolò il piatto. Rimase ancora un po’ rannicchiato sulla sedia, rivedendo il cammello e il pallone che non voleva saperne di entrare in porta. Il dolore alla caviglia gli richiamava alla mente il momento dell’infortunio. Il dubbio era martellante: e se fosse rimasto in campo fino alla fine? Magari lui e i suoi avrebbero vinto. Non era un fenomeno del pallone, ma la sua grinta faceva spesso la differenza. Forse, il rigore decisivo non sarebbe stato così decisivo. Il cammello lo concedeva, ma loro erano già avanti di un paio di gol: scenario più che plausibile. D’altra parte, non avevano perso nemmeno una partita in quella stagione. E Ivan era sempre stato presente, lì nel mezzo, a mostrare i denti in faccia agli avversari di turno. Con troppo trasporto, a volte: sette ammonizioni in una decina di incontri parlavano chiaro. Calcioni, proteste, provocazioni, insulti. Alla faccia del fair play: non gli era mai interessato. Un altro che sembrava fregarsene, del fair play, era l’assassino. Il suo mitra non aveva pietà. Pure il compare ne cadeva vittima, ma l’aveva tradito e se lo meritava. L’assassino era un tizio sulla sessantina con un volto da attore e un lungo pergolato di denti marroni incastrato tra le labbra. A Ivan piacque subito, sin da quando, a otto anni, lo aveva visto per la prima volta. Dopo tanto tempo, ne conosceva a memoria la storia. E lo infastidiva sapere che sarebbe finito in malo modo, crivellato dai colpi di un poliziotto dalla faccia eterea. L’angioletto con l’immacolata divisa americana, il buon samaritano, avrebbe vinto sul demone dal sorriso nicotinico, per la gioia del Signor Lieto Fine. Viste le premesse, la graziosa modella anoressica del profumo non lo turbò più di tanto. Anzi, con l’inizio della pubblicità, tornò di nuovo al cammello. Questa volta, però, con molta meno lucidità. Sentiva, infatti, che i primi sintomi della stanchezza si stavano impadronendo dei suoi occhi. Mentre si ciondolava ritmicamente sulla sedia, Pia gli tolse il piatto vuoto da sotto il naso. Poi, iniziò a diffondere dalla
8 cucina quelle essenze profumate che erano un po’ come i titoli di coda della sua giornata. Antonio, intanto, approfittava della pausa del film per tornare alla realtà del divano. La sua mano destra continuava a schiacciare i tasti del telecomando; la sinistra accarezzava il sacchetto di noci. Per qualche secondo, perse la scintilla dell’inseguimento e posò gli occhi senza troppa convinzione sul figlio appollaiato. Erano occhiate mute, senza profondità: le sue occhiate serali, prese in ostaggio dallo spettacolo che il televisore passava. Ivan non ci fece caso. Il cammello, l’assassino, il profumo dell’anticalcare al limone, il richiamo del sonno: già troppi stimoli gli affollavano il cervello per soffermarsi pure sulla faccia del padre. «Buonanotte!», sentenziò senza appello Pia. La voce della madre lo incoraggiò ad alzarsi e a prendere la via della camera da letto. Durante una breve sosta in bagno, fu raggiunto dalla distratta replica di Antonio, mischiata al fragore di un improvviso sparo nel buio: passata la pubblicità, il grande assassino aveva fatto la sua ultima vittima. Il prossimo morto sarebbe stato lui. «Abbassa ‘sto volume, ché voglio dormire!», gracchiò Pia, ormai avvolta da uno spesso strato di coperte. Come sempre, papà Antonio avrebbe agito in due fasi, con una metodicità tale da far pensare a un comportamento studiato. In realtà, non lo faceva apposta; erano riflessi condizionati. All’urlo della moglie, seguiva un immediato abbassamento del volume, condito da un paio di colpetti di tosse. Dopo meno di un minuto, i rumori del televisore tornavano a crescere, costantemente. Con cinque o sei clic decisi sul telecomando, si tornava al fracasso che aveva preceduto l’uscita di scena di Pia. Il copione si ripeteva inesorabile ogni sera. Preciso, scolpito. Ivan lo conosceva meglio della storia dell’assassino tabagista e dello sbirro yankee. Quando gli capitava, provava ad accompagnarlo a memoria e a riascoltare le giustificazioni delle due parti, quasi sempre presentate la mattina successiva. Anche queste seguivano una traccia ben consolidata. Botta: «Ma perché non lo tieni basso l’audio della televisione? Te lo devo dire ogni volta?». Risposta: «Ma io l’abbasso quando me lo chiedi, Pia».
9 Controbotta: «Sì, e poi lo rialzi subito. Io non capisco se mi prendi in giro o che altro». Controrisposta: «Ma che ci posso fare se non sento? Ho pure una certa età, io». Botta finale, sparata solo in giornate di particolare attrito: «Vabbe’ Anto’, sai che ti dico? Lasciamo stare, va’. Tanto non cambierai mai!». Da quell’ultima constatazione, cominciava la solita tregua fino a sera, favorita pure dalla separazione fisica dei due. Poi, Antonio e Pia sarebbero tornati al punto di partenza. Ora, se un occhio esterno poteva pure guardare con un certo divertimento queste scenette tra coniugi di mezza età, Ivan non riusciva più a sopportarle. Ogni mattina veniva svegliato dal fastidioso motivetto bitonale. I consueti ritornelli lo buttavano giù dal letto con regolarità, nonostante una porta chiusa e svariati metri cubi di distanza tra le sue orecchie e le bocche dei genitori. Non che gridassero, Antonio e Pia. Peggio: le loro voci, con quei toni argentini, grondavano gocce di risentimento che riuscivano a bagnare anche il letto di Ivan. Le prime parole a uscire dalla sua bocca nel nuovo giorno erano più o meno sempre le stesse. «Che due rompicoglioni!». Se le ripeteva da solo o le rivolgeva direttamente ai destinatari con la giusta enfasi – «Siete proprio due rompicoglioni!» – qualora Antonio e Pia prolungassero più del dovuto le proprie schermaglie. Insomma, anche lui ci teneva ad avere il suo nome sul copione. Entrava in scena la mattina, nella parte del figlio rozzo e maleducato, per nulla a suo agio sotto il tetto di mamma e papà. Il ruolo da recitare gli si addiceva, non aveva bisogno di sforzi di immedesimazione. Nessun problema. Un sospiro e si appoggiava sul letto, con un estemporaneo slancio di vitalità. Ripassava le battute da gridare, meditando, se necessario, un inasprimento dei toni. Quella sera, progettò di alzare il livello dello scontro verbale, anche se i due non avessero ecceduto. La mattina dopo, avrebbe sparato tuoni e fulmini. Tanto, ne era sicuro, le reazioni non sarebbero state diverse dal solito: occhi bassi e malcelata indifferenza, con la possibilità di sentire Pia mortificarsi timidamente. «Scusa se ti abbiamo svegliato!».
10 Mentre fissava a faccia in su la fila di poster che lo sovrastava, pensò che “rompicoglioni” era ormai inflazionato. Se non altro, andava guarnito, integrato, rinvigorito. “Che due rompicoglioni, cazzo!” era meglio. Ma anche “cazzo, siete davvero due rompicoglioni!” faceva il suo effetto. Un ulteriore miglioramento, poi, si sarebbe ottenuto con l’aggiunta di un “mi sono rotto di voi; io me ne vado da ‘sta casa di pazzi, se non la finite”. Scenografico ricatto con fuga del figlioletto. Intanto, mentre meditava, si accorse che Giondò lo aveva stranamente seguito. Si era posato accanto ai suoi piedi, rendendo insopportabile il calore già sprigionato dal piumone. Con una pedata, Ivan lo costrinse a trovarsi un’altra sistemazione. Il gatto gli lanciò un’occhiata indignata, senza riuscire a far tornare sui suoi passi l’odiato padroncino. «Ma che vuoi? – lo sfidò – Già è tanto che ti faccio stare qua dentro. Non mi rompere pure tu!». Anche Giondò ci si metteva. Decise di ignorarlo e di cedere al richiamo del sonno. I rumori della strada, oltre a quelli ovattati del televisore, sembravano dissolversi. Persino il dolore alla caviglia aveva smesso di molestarlo, rinviando al giorno seguente le ultime fitte. Una dormita avrebbe cancellato quella serataccia e spalancato il sipario per la sua entrata in scena mattutina. Nessun ghigno, nessuna concessione alle emozioni: si sarebbe presentato serio, incazzato, risoluto. Forse, avrebbe corso il rischio di forzare la propria interpretazione, tanto da perderci in credibilità. In quel caso, pazienza: l’importante era andare in scena, “piantare casino”, come adorava dire lui. Si voltò su un fianco, trovando senza sforzi la posizione più rilassata. Era già sulla porta del mondo dei sogni quando un brusco bip-bip lo fece sussultare. Come al solito, aveva dimenticato di spegnere il telefonino. O, almeno, di zittirlo. Nuovo messaggio da Erica: CIAO. TT BENE? ALLORA C 6 X USCIRE SABATO? FAMMI SAP. BACIO
11 Come nulla fosse, pigiò il tasto rosso del telefono, mandando pure lui a dormire. Poi, per farlo stare più comodo, lo ripose sul comodino con una parabolica manata. Giondò aveva trovato rifugio sopra la sedia della scrivania. Sembrava un gigantesco batuffolo di cotone, illuminato a stento dai rivoli di luce esterna evasi dalla tapparella. Durante la notte avrebbe forse tentato un ulteriore assalto al letto. In quel caso, un altro calcio non glielo avrebbe tolto nessuno. Nella bizzarra galleria di Ivan, proprio lui, il batuffolone, era l’ultimo personaggio. Sulla sinistra, si stagliavano Antonio e Pia; a destra, l’assassino e lo sbirro; in fondo, ecco proprio Giondò, in fuga a zampe levate verso l’altrove con una lama legata alla coda. Ivan camminava con affianco il cammello. Improvvisamente, si arrestò e lo guardò negli occhi. Avrebbe voluto fargli a pezzi quella giacchetta nera e verde, tutta fosforescente. Invece, non lo toccò nemmeno. Anzi, portando la bocca vicino al suo orecchio, gli chiese farfugliante: «E ora chi cazzo è sta Erica?». La voce si perse confusa nella stanza. Poi, più nulla. Silenzio totale fino al mattino.
12
LA STRATEGIA DELLO SCORPIONE
Sopracciglia modellate. E quell’intruso? Lo specchio gli rivelava la presenza di un piccolo peletto nero pronto a prosperare dove non doveva. Approfittando delle tenebre, l’ardito era riuscito a piantarsi alla fine dell’arcata sinistra. E da lì lanciava la sua personale sfida alla simmetria. Davvero intollerabile la violazione della simmetria nelle sopracciglia. Con cadenza quasi giornaliera, Ivan scolpiva le sue mezze lune sopra gli occhi, cercando di renderle perfettamente combacianti. Il disegno andava rispettato e ogni infrazione punita: nel loro spessore, le curve dovevano risultare sfumate verso l’esterno, con bordi netti e definiti. Nessuna ricrescita al di fuori dei confini tracciati era accettata. Tra i nemici più sgraditi, spiccavano i peli affacciati sulla sommità del naso: quelli, oltre a minacciare l’armonia delle proporzioni, ordivano la costruzione di un ponte che avrebbe potuto collegare le due sponde. Non esisteva pietà per loro. La pinzetta di mamma Pia li estirpava con colpi decisi. Accennò un sorriso. Quella mattina aveva trascorso più tempo del solito con addosso i suoi profondi occhi verdi. Dopo la doccia, si era piazzato davanti allo specchio scrutando volto e torace con espressione ora incuriosita ora compiaciuta. Le labbra dal taglio infantile si inarcavano, rivelando l’ammirazione per la propria immagine. Neppure quel naso lievemente pronunciato lo scoraggiava, e la barba incolta, che di solito lo infastidiva, non conteneva i suoi accessi di narcisismo. Rasatura rimandata. Sparito dalla circolazione il pelo ribelle, la sua attenzione si spostò dalla faccia verso il collo, per poi balzare sul petto. Al di là di una graduale decolorazione della pelle, dovuta alle ultime lampade abbronzanti, fu
13 un foruncolo paonazzo a immobilizzarne lo sguardo. Lo aveva già visto crescere nei giorni precedenti: non era una scoperta nuova come il sopracciglio. Tuttavia, quel giorno, il brufolo si mostrò al massimo del suo rossore. Stava là, pronto a esplodere, proprio sulla testa dello scorpione, che pareva una specie di Polifemo. Disgustoso. Lo scorpione era il tatuaggio di Ivan, un bestione che strisciava giù dalla spalla destra fino all’altezza della bocca dello stomaco. Ai tempi della palestra, “sembrava che volasse”, come raccontava orgoglioso lui stesso quando ne ripercorreva la genesi. «Bello! Quando l’hai fatto?». «Più o meno tre anni fa. Figo, eh? Pensa che quando l’ho fatto stava più alto, sembrava che volasse … Beh sì, allora avevo anche dei pettorali un po’ più spessi!». Questo era più o meno il ritornello. Senza zittire le note vanesie, faceva di tutto per gonfiarsi di virilità. Con poche parole, aveva modo di raccontare la storia della palestra e quella del tatuaggio all’interlocutore di turno, placando la propria smania di autocelebrazione. Poco gli importava della reazione: l’altro poteva ridere, sfotterlo o essere realmente colpito. Intanto, lui aveva messo in mostra se stesso. L’esibizione di sé era ciò che più lo soddisfaceva. Adorava guardarsi allo specchio, studiarsi, talvolta anche parlarsi. Erano momenti di rilassamento e di sfogo, soprattutto perché non doveva sopportare la compagnia di nessuno. La mattina del sopracciglio e del brufolo, per esempio, era tra quelle che più lo ispiravano: si trovava solo, con il padre al lavoro e la madre rinchiusa in qualche supermercato del quartiere. Se voleva un amico, lo rimediava in fretta. Non doveva fare altro che sollevare gli occhi verso lo specchio del bagno e trovare l’unica persona sulla faccia della Terra che gli andasse a genio. L’unico confidente, l’unico affidabile ascoltatore. «Dobbiamo tornare in palestra, eh?», mormorò, contraendo i pettorali. Lo scorpione con l’occhio di pus si mosse minaccioso. Ivan appoggiò le mani sul lavandino, chinandosi un poco in avanti e sfiorando la faccia dell’altro. Si accese una sigaretta, la prima della giornata, la più saporita.
14 In quei casi, assumeva pose non sue, prese a prestito dal ricordo di qualche attore dal fascino maledetto. Si fissò e sputò fuori una nuvola di fumo, con gli occhi socchiusi e con una mano intenta ad accarezzare la nuca rasata. «Allora Iv, fammi capire una cosa…». Seguì un’altra profonda boccata. «Cioè… io mi sono svegliato, sono andato a pisciare, ho fatto colazione e mi sono lavato. E ancora non ho sentito niente! Allora non si sono nascosti? Non c’è nessuno qua dentro!». L’analisi della mattinata lo turbava. Ma dove erano papà e mamma? Possibile che i loro schiamazzi non l’avessero svegliato? «Possibile che non hanno fatto casino? È un miracolo! Eh, Iv?». Tornò ritto e incrociò le braccia. Poi spalancò gli occhi. «O forse è il prodotto della nostra immaginazione? Tutto questo mondo, Iv, è il prodotto della nostra immaginazione?». Scandì la domanda, abbozzando un tono troppo plastificato per sembrare sincero e per ingannare l’altro. Che infatti non rispose, ma si limitò a ghignare. «Beato te che ridi! Qua c’è da piangere!». Continuò a inalare fumo, lasciando cadere i granelli di cenere nel lavandino. Il dirimpettaio faceva lo stesso. La recita lo divertiva, ma non era che un surrogato dell’altra recita, quella prevista la sera precedente: aveva conservato con cura le scorie di nervosismo, preservandole da un sonno profondo, e il fatto di non poterle scaricare addosso ai genitori quasi lo frustrava. Senza dubbio, Ivan pativa le incazzature spezzate. C’era in lui qualcosa di geometricamente scostante: i cattivi umori potevano rimanergli dentro per mesi, se non ne venivano tagliate subito le radici, anche in modi all’apparenza eccessivi. Quanto più la gente e le circostanze lo costringevano a covare e a rimuginare, tanto più le sue ineluttabili reazioni rischiavano di andare sopra le righe. Una testa calda? Guai a dirglielo. Un brutto carattere? «Sarà bello il tuo!», replicava. Conoscendolo, Pia non si stupì troppo del comportamento del figlio al telefono.
15 Aveva appena spento la sigaretta, quando i trilli ripetuti lo portarono fuori dal bagno per rispondere. «Ivan?». «Sì? Che c’è?», fece lui, con voce un po’ tediata e un po’ supponente. «Ma allora sei ancora a casa? Ho provato a chiamarti al cellulare, ma era spento». «E allora?». «Scusa, non dovevi andare a lezione stamattina? Non pensavo di trovarti a casa». «Non ci sono andato». «Bravo… Bravo… Continua così, mi raccomando. Con tutti i soldi… Vabbe’, lasciamo stare». Ben surriscaldato dal tono predicatorio della madre, ci mise un attimo a raccogliere tutti gli strali zuppi di veleno e a lanciarglieli addosso. «M’hai chiamato per questo? Eh?». Poi proseguì, lasciando rotolare le parole. «E se dormivo? Mi avresti svegliato. Come al solito… Tanto a voi non vi frega niente se fate casino la mattina. O sbaglio? No, ma dimmi che volevi. Volevi controllare se ero andato al cazzo di università. Come vedi, non ci sono andato al cazzo di università. Non avevo voglia». «Poi tanto gli esami non li fai», provò a interromperlo Pia. «Gli esami, gli esami… Che palle!». Il fatto di stare con il telefono in mano non gli impediva di gesticolare teatralmente. «Vabbe’, vabbe’, vabbe’, – tagliò corto la madre – T’ho chiamato solo per chiederti se hai bisogno di qualcosa, visto che sto facendo la spesa. Ma mi sa che non vuoi niente, vero?». «Vero!». «Ciao, allora», tranciò Pia, che interruppe la comunicazione senza attendere ulteriori repliche. Ivan rimase per un istante con l’orecchio attaccato a quel ritmico tu-tuu. Poi, sbatté giù forte il telefono e se ne tornò in bagno. Si sentì subito meglio. Certo, non era la scena che aveva preventivato, però poteva accontentarsi. Mancava solo una telefonata del padre, così non avrebbe fatto disparità. Ma quella, lo sapeva bene, non sarebbe arrivata. Papà Antonio sarebbe stato sfidato più tardi, anche se le possibilità di colpirlo erano pochissime.
16 Alla sera, di ritorno dal lavoro, l’uomo sprizzava abulia da tutti i pori. Non era afflitto solo da una mollezza fisica, dalla stanchezza per la giornata trascorsa nel bailamme di una stazione. C’era dell’altro: una sorta di mal di vivere, di progressiva perdita di interesse per tutto e tutti. Era come se, con il passare del tempo, si stesse chiudendo negli angusti confini del suo mondo e non avvertisse il bisogno di evaderne, almeno di tanto in tanto. Un fossile. Anni prima, quando Ivan era piccolo, il padre disponeva di molti antidoti contro la monotonia della propria esistenza: per sollevarsi il morale, gli bastava suonare una chitarra o vedere una partita della Juve allo stadio. Più di ogni altra cosa, adorava andare al cinema: diceva che fare l’attore era stato un suo sogno nel cassetto e raccontava sempre di aver recitato dei ruoli in un paio di film. Era successo da giovane, a Roma, l’anno dopo il servizio militare. Inoltre, gli piaceva passare i fine settimana al mare o in campagna, e non disdegnava nemmeno le cene fuori casa. A quelle, però, il figlio non veniva invitato. Mamma e papà in pizzeria con gli amici; lui a casa con una vecchia. Il ricordo di quel periodo, seppur sfocato, brillava ancora fervido negli occhi di Zuffa. In particolare, era la figura della vecchia tata a rappresentare un punto di riferimento importante: non aveva dimenticato quel personaggio burbero, circondato da una sgradevole aura cipollosa, alle cui attenzioni veniva spesso affidato. Doveva essere una lontana parente di zia Carla. La megera lo ingozzava con cibarie disgustose di sua preparazione. E invece di intrattenerlo con stupidi, ma graditi, giochetti infantili, lo piazzava davanti a un televisore su cui scorrevano le immagini di qualche sceneggiato messicano. Tutto ciò, mentre “mammina e paparino se la spassavano al ristorante”. Precoci amicizie con la rabbia. Dopo circa due decenni, Ivan non poteva capacitarsi di quanto fosse cambiata la famiglia. Soprattutto, non si spiegava come quell’uomo imbolsito, tutto lavoro e divano, potesse essere lo stesso padre.
17 Chissà perché, poi. Chissà da cosa era procurata quella perdita di vitalità che ne appiattiva l’umore. Ovviamente, questa condizione aveva smussato anche gli spigoli più tempestosi di Antonio, gli aspetti meno docili del suo carattere: tutto il suo spirito polemico, per esempio, era venuto a mancare, tanto da consegnare ai ricordi i lunghi e chiassosi battibecchi di cui l’uomo sapeva essere protagonista. Non che a Ivan mancassero le prediche rutilanti di papà; tuttavia, percepiva la loro assenza quasi come il venir meno di un cardine della sua infanzia e della sua adolescenza. Insomma, se aveva intrecciato un rapporto col padre, quello era stato costruito solo intorno a un consolidato gioco delle parti: lui, l’asfissiato, l’oppresso; Antonio, l’asfissiante, l’oppressore. Senza l’oppressore, il rapporto stesso si sgretolava. E la cosa non lo lasciava certo indifferente, facendogli rimpiangere il periodo in cui le sfide verbali certificavano almeno l’esistenza di una relazione tra padre e figlio. Ci aveva provato a ricreare situazioni da duello. Ma il vecchio pistolero non aveva abboccato all’amo. Se n’era rimasto seduto sul divano, il telecomando in mano, la sella appesa a un chiodo e la colt nella fondina. Ormai, preferiva guardare gli altri che li facevano, i duelli. Ormai, era diventato impossibile pure farlo incazzare. In realtà, a pensarci bene, una possibilità c’era. Piccola, ma esisteva. E su quella, Ivan avrebbe potuto puntare. Non dipendeva né da lui né dal padre, ma da mamma Pia: solo lei sapeva smuovere il marito dalla catatonia delle pantofole, a patto che si creasse una disputa, che ci fosse un colpevole contro cui fare blocco. In quei casi, se Pia tirava fuori gli artigli, trascinava dalla sua parte chiunque nell’ambiente domestico, anche Giondò. Sapeva sfoderare una grinta che ricordava quella di Antonio ai bei tempi. Quando le scenette mattutine sul televisore degeneravano, era sempre lei a esplodere l’ultima parola. E poi, si faceva talmente assillante, soffocante, assordante che si era costretti ad assecondarla, magari per sfinimento.
18 Se Pia si metteva d’impegno a sostenere una tesi o ad attizzare una diatriba, il marito, anche senza troppa convinzione, stava con lei. A patto che, naturalmente, non fosse lui il cattivo di turno. Il problema era il motivo del contendere. Non bastava che la moglie alzasse la voce: la sua accusa doveva suscitare l’interesse di Antonio, e la cosa non era semplice. Per mobilitare il grande capo, la questione doveva essere seria, scavare nella scorza della sua generale indifferenza. Ad esempio, se Pia recitava la litania dei ritardi notturni di Ivan, il pistolero non batteva ciglio. «È possibile che torni sempre così tardi quando esci la sera? Ma io mi chiedo se è possibile. Eh? Sempre a ballare te ne vai? Eh? Fino alle sei o alle sette? Eh?». Nonostante fosse presente agli interrogatori, Antonio se ne stava muto. O, al massimo, interveniva dalle retrovie con un «Pia, puoi parlare più piano, ché non sento niente?». Così facendo, la sgonfiava, le faceva mancare quella spalla con cui avrebbe affossato il figlio, costringendola a uscire di scena a testa bassa. «Va bene, non parlo più… Tanto a te che te ne frega? Basta che hai la televisione tu! Sai che ti dico? Ma lasciamo stare». Stop. Finiva tutto là. Di una solfa così, Ivan non aveva necessità. Era più o meno la stessa che si sorbiva ogni giorno: madre inutilmente in trincea e padre disertore. Risultato: con lui non parlava quasi mai. Insomma, affinché le cose cambiassero, era necessario sollevare la leva giusta. Quale fosse questa leva, la madre glielo aveva suggerito al telefono, senza volerlo: l’università. Era quello l’argomento buono per smuovere il padre, per destarlo dal torpore. Quando Pia caricava sull’università, Antonio diventava improvvisamente interessato. E se schiacciava a ripetizione il tasto economico, il marito poteva addirittura spegnere il televisore e alzarsi dal divano. Il denaro rimaneva uno dei pochi catalizzatori della sua attenzione. Le tasse per gli studi del figlio rappresentavano una martellante seccatura, soprattutto perché, a differenza di Pia, non lo aveva mai forzato più di tanto a starsene sui libri.
19 Da anni, aveva infatti intuito che «il ragazzo non è portato per studiare», che «non ha voglia», che «è inutile fargli perdere tempo e soldi». Per sua moglie, invece, «il ragazzo deve studiare, a calci, anche se non ha voglia». Punto e a capo. Negli ultimi tre anni e mezzo, però, da quando Ivan aveva iniziato l’università, anche l’intransigenza della donna si era a mano a mano ammorbidita. Non aveva del tutto smarrito la speranza di appendere alla parete la laurea del figlio; tuttavia, osservandone il magro rendimento, – in tutto sei esami sostenuti, di cui solo tre superati – faticava sempre più a portare avanti la propria battaglia. L’aspetto finanziario, poi, non le era certo indifferente, anche perché, quelli fatti per tasse e libri, parevano degli investimenti perduti. Gradualmente, si era spostata verso le tesi di Antonio, tanto che i due, negli ultimi tempi, si trovavano a predicare lo stesso sermone. Dunque, Ivan sapeva bene su cosa cementare l’alleanza tra papà e mamma. Non avrebbe dovuto far altro che buttare sul tavolo l’argomento “università”: Pia sarebbe partita subito a spada tratta e avrebbe trascinato pure Antonio, meno sanguigno e impietoso di lei, ma almeno partecipe, vispo e magari un po’ incazzato. Così, finalmente, avrebbe ottenuto il suo confronto con il padre. Poco importava se pacifico o bellicoso. Almeno era un confronto. Mirare a una situazione esplosiva pur di comunicare con qualcuno: per lui, un concetto normale. Il progetto era chiarito: la mancata tempesta del mattino era solo rinviata alla sera. Anche il tizio dello specchio avallò il ragionamento, e lo scorpione parve rincuorato di aver ritrovato il padrone attaccabrighe. Ivan lo fissò, provando un po’ di compassione per la sua testa vermiglia. Chissà se pensava davvero questo, lo scorpione. Se davvero lo riteneva un attaccabrighe, avrebbe dovuto incontrarlo ai tempi della scuola: in quel periodo, davvero, era sempre “in cerca di risse con tutti”. Altra epoca. Quello dello specchio fu d’accordo nel non dare troppo peso alla bestia. Guardando Zuffa mentre si rivestiva, gli offrì la sua completa approvazione. Poi, accorgendosi che stava per uscire dal bagno, non poté esimersi dal ricordargli un particolare importante.
20 Fece riferimento alla sera precedente, perché lui pareva essersene dimenticato. Il cellulare, il cammello, Erica. Ecco, appunto. «Ma ora si può sapere chi cazzo è sta Erica?».
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SILVANO
Un nuovo messaggio. Appena riportato in vita, il telefonino accolse così il suo proprietario. Nuovo messaggio da Manu: OH… MA DORMI? VIENI IN FACOLTÀ… CI SIAMO TUTTI STAMATTINA. FAMMI SAP. DAI… ORA MI VESTO E ARRIVO Manuele era stato assai più convincente della madre. In una manciata di minuti, Ivan si catapultò in strada e montò nella sua Punto blu. Il cielo su Torino era insolitamente terso quella mattina. Merito di un venticello intermittente che aveva fuso il piombo delle nuvole. L’aria non era nemmeno molto pungente. Anticipo di primavera. Sfrecciando tra due file di alberi spogli, Zuffa osservava il lungo viale davanti a sé, distratto dalla radio e da una sgradevole melodia orientale. Ripensava ai momenti trascorsi in bagno, a cazzeggiare di fronte allo specchio. Ripensava all’enigma, non ancora risolto, di Erica. Gliel’aveva ricordato anche il suo sosia, ma il messaggio di Manuele aveva portato tutto il resto in secondo piano. Chi era, dunque, questa Erica, che lo aveva tormentato prima in sogno e poi da sveglio? Ivan continuava a lanciare occhiate interrogative al cellulare multicolore. «Non rispondere. Fregatene!», pareva suggerire quello dal suo letto sul cruscotto.
22 Forse gli avrebbe dato retta. Ma almeno voleva diffondere un po’ di chiarore nella memoria. Per concentrarsi, spense anche la radio. La musichetta orientale lo indispettiva. All’inizio, nulla. Solo i binari del tram che scivolavano sotto le ruote. Poi, dopo qualche passaggio a vuoto, la mente riuscì finalmente a venir fuori dal labirinto. Era successo al Fisix, due o tre settimane prima. La stessa sera in cui aveva litigato con Elisa. Ubriaco fradicio. Ecco, sì. Questa Erica era un’amica di Manuele. Era stata lei a rivolgergli la parola, mentre lui se ne stava seduto in un angolo. Di cosa avevano parlato? Si rese conto di osare un po’ troppo con il suo cervello. Quello, proprio, non avrebbe saputo raccontarglielo. L’unica luce spargeva un vivido bagliore rosso. Il rosso sgargiante di un paio di tacchi a spillo e di un rossetto morbido e sensuale. Si stupì della sua capacità di ricordare le labbra, ma non il volto che stava intorno. Doveva essere proprio conciato male quella notte. Probabilmente, i due si erano parlati a lungo, tanto da decidere di rivedersi, magari di uscire insieme un sabato sera. Uno scambio dei numeri di telefono e stop, era finita lì. Anche perché lei non si era più fatta viva. Non uno squillo, non un messaggio. Eppure, di giorni ne erano passati. E tanti, a giudicare dall’annebbiamento. Certo, se il resto fosse stato all’altezza della bocca… Un bel colpo. Altrimenti? Pazienza. In fondo, il contatto lo aveva ristabilito lei: dunque, l’interesse per Ivan esisteva. Lui, dal canto suo, non si sarebbe certo tirato indietro. Anzi, avrebbe puntato sul fatto di tenere in pugno il manico del coltello, di poter scegliere se concedersi o mandarla in bianco. Opzione, quest’ultima, che raramente prendeva in considerazione. “A meno che non sia proprio un mostro schifoso”. Il telefonino non sembrò rallegrarsi per la decisione dell’uomo al volante. CIAO. IO TT BENE… TU? È UN PO’ DI GIORNI CHE TI PENSO. MI PIACEREBBE USCIRE. TI VA BENE VENERDÌ? SABATO NN POSSO. MAGARI SI VA A FARE L’APERITIVO. SMACK
23 Gli occhi furbetti ballavano il loro valzer metropolitano. Un passo sulla strada, un passo sulla tastiera del cellulare, tenendo al guinzaglio il pollice destro. La replica giunse immediata, quasi che Erica si tenesse pronta a rispondere sin dalla sera precedente. Come preventivato, si trattò di un SÌ, NON C’È PROBLEMA. A PRESTO. Figurarsi. Ivan, che intanto aveva parcheggiato la Punto, lesse lo scarno comunicato mentre era già in cammino verso l’università. Non seppe trattenere una risata sonora, parodicamente malvagia. Poi iniziò a far roteare a tempo le chiavi della macchina nella mano sinistra, accompagnando così il suo passo claudicante. La caviglia gli dava ancora un po’ di fastidio. Solo quando fu in vista di Palazzo Nuovo, fermò il volteggio e mise in tasca mano e chiavi. Fu un riflesso condizionato: la sua attenzione, da Erica e la sua bocca disponibile, fu costretta a virare bruscamente verso ciò che si trovò davanti. Sul più alto dei gradoni erano ammassati dei fiori. Si avvicinò incuriosito. C’erano gladioli, garofani, calle e una rosa mezza appassita. Un pezzo di carta liso, legato alla ringhiera, recava scritto: NON TI DIMENTICHEREMO Seguivano alcune firme incomprensibili. Chi era morto? Ivan pensò subito a uno studente. D’altra parte, i gradoni erano sempre stati il più naturale ricovero della popolazione universitaria. Prima delle lezioni, dopo gli esami o quando capitava, gruppi di ragazzi sostavano su quei grossi scaloni di pietra, che formavano una specie di ferro di cavallo a ridosso dell’ingresso del palazzone. Un palazzone squadrato, vecchio, plumbeo, che la gente chiamava Nuovo. Ci voleva coraggio. Sui gradoni si sedevano tutti: il secchione occhialuto, per rivedere gli appunti studiati; il perditempo vitellone, per trascorrere il suo pomeriggio tra una sigaretta e un tentativo di rimorchio; il portaborse ansioso, per scambiare quattro chiacchiere telefoniche con il suo dinosauro cattedratico; le sirenette in cerca di compagnia, con i loro tranci di pizza
24 aristocraticamente mordicchiati; la cricca di sballati, con sigarette dall’aroma giamaicano; il pusher maghrebino, in attesa del prossimo cliente facile. Questa era la fauna di Palazzo Nuovo, un’umanità varia che forse solo l’estate consentiva di apprezzare appieno. Ai primi caldi di giugno, infatti, le varie razze uscivano tutte insieme allo scoperto, componendo un mosaico di suoni e colori unico per Torino. Lo spazio antistante il palazzone di metallo diveniva così una spiaggia: la Playa, per molti dei suoi frequentatori. Non c’erano mare, pedalò e fanciulle in bikini. Ai coatti del cemento urbano bastavano i ghiaccioli, le partite a pallone sull’asfalto e la fantasia di credersi altrove. Una volta – Ivan lo rammentava, poiché era accaduto alla sua prima estate alla Playa – si era vista addirittura una sedia a sdraio con l’ombrellone. Nei paraggi di Palazzo Nuovo, tutti conoscevano gli affezionati dei gradoni. Lo studente morto doveva essere uno di questi: non si sarebbero spiegati altrimenti il ricordo pubblico, i fiori, il bigliettino. In ogni caso, si trattava di una scena insolita. Ivan lanciò meccanicamente un fiotto di saliva a terra. Poi, riprese il cammino interrotto, voltandosi di tanto in tanto verso i fiori. Il gigante di metallo gli si presentò davanti in tutta la sua imponenza, ma lo ignorò. Manuele e gli altri erano più avanti, nell’edificio delle aule studio. Con una smorfia di insofferenza, esibì il suo tesserino universitario alla donna dai capelli di cartapesta sistemata all’ingresso. Quella non disse una parola, limitandosi a uno stanco cenno affermativo con la testa. Era troppo concentrata nella risoluzione di un minuscolo cruciverba per controllare da vicino la tessera. Per quanto la riguardava, l’avventore avrebbe potuto presentare anche la patente o il bancomat. Gli intrusi avevano vita facile. Superato l’inutile mezzobusto, Ivan si diresse nel seminterrato. Era certo di trovare gli amici là, raccolti attorno al tavolino della sala ristoro. Gli schiamazzi lo accolsero in anticipo. «Ma che culo che hai!». «Bravo Manu, hai proprio ragione!». «Ma vaffanculo… cioè… ho in mano un full servito e questo fa poker! Ma basta, io me ne vado a casa».
25 Una scomposta risata corale incorniciò il momento. Manuele fu l’unico a non prendervi parte, sbattendo sul tavolo i pugni e alzandosi di scatto. Aveva perso pochi euro, ma pareva seriamente incollerito. Solo l’arrivo di Ivan fece ricomparire il sorriso sul suo volto. Venne colto alle spalle, mentre giocherellava con la macchinetta del caffè,. «E poi sono io che porto sfiga», improvvisò Zuffa, con tono complice. «Ehilà! – rispose l’altro voltandosi di scatto – Ma lascia perdere, guarda. Full, avevo. Full servito. E Luca? Mi va a fare poker… ». «Poker di Kappa!», completò Luca. La sua battuta beffarda venne corredata da una teoria di ghigni, a cui fecero seguito alcuni «Ciao Ivan. Tuttapposto?». «Sì, sì. Tuttocchei. Certo che l’avete proprio trovato un pollo, eh? Se c’ero io… Altro che storie». «Ma gioca, dai! Che ci vuole? Ci facciamo un altro po’ di mani». «No, niente… Lasciatelo stare!», intervenne bruscamente Manuele, che quasi rischiò di risputare il caffè pronto per essere ingurgitato. «Oh, non ti agitare, Manu. Poi ti va per traverso e ti strozzi!», scherzò ancora Luca, lieto di suscitare l’ilarità collettiva. «Ma sta’ zitto, va’! Lui adesso viene a fumare con me, ché gli devo parlare». «Veramente, io sono venuto qua pure per giocare», sorrise Ivan. «Vabbe’, se vuoi giochi dopo. Andiamo un po’ a fumare ora, ok? Te ne offro una io, dai». Manuele gli sventolò il pacchetto azzurrino davanti al naso. Seconda sigaretta della giornata. Si rallegrò del suo modesto consumo nicotinico. Da qualche tempo, si era messo in testa di smettere di fumare: prendere coscienza che, fino a quel momento della mattinata, ne aveva consumata una soltanto, lo galvanizzò. Peraltro, sapeva bene che rinunciare del tutto al tabacco sarebbe stata un’impresa improba. Almeno in tempi brevi, era sufficiente abbassare il più possibile la soglia abituale delle venti sigarette quotidiane. Come al solito, l’autocompiacimento doveva essere comunicato agli altri: i complimenti se li doveva rivolgere a voce alta, in presenza di
26 qualcuno, un qualsiasi amplificatore per le proprie soddisfazioni personali. In quel caso, tentò di servirsi dell’amico, masticando a bocca aperta l’orgoglio per la sua resistenza al pacchetto. Tuttavia, Manuele non si prestò a stare al gioco, dirottando le parole su un altro argomento. «Vabbe’, – tagliò corto – ho capito che sei bravo e che smetti quando vuoi. Però comunque ti fai le canne…». Non replicò, limitandosi a sbuffare un nembo grigiastro a faccia in su. «Comunque, a parte questo, – proseguì Manu – volevo dirti che ti ho iscritto al concorso». Un po’ infreddolito, Ivan tirò su la cerniera del giubbotto e si sistemò la sciarpa. Pareva di nuovo intenzionato a non proferire parola; in realtà, stava solo attendendo di accumulare un buon volume di fumo nei polmoni, per poi sputarlo fuori scenograficamente. Fatto ciò, deglutì e si rivolse con aria inquisitoria a Manuele. «Che cazzo hai fatto, scusa?». «Dai… Il concorso… Quello del Fisix. Te l’avevo detto, no?», si giustificò Manuele, tenendo lo sguardo dritto sulle proprie scarpe. Conosceva il rischio: doveva evitare che la mano di Ivan lo afferrasse nei successivi trenta secondi. Era quello, più o meno, il tempo di reazione medio dell’impulsività di Zuffa. Trenta secondi, mezzo minuto. Poi, avrebbe potuto spiegargli con calma. Ivan rimase di gesso, l’espressione immutata. Spruzzò dalla bocca un grumo di saliva, che si adagiò a pochi centimetri dai piedi di Manu. Poi, senza muovere le cornee, lanciò quanto rimaneva della sigaretta nello stagnetto appena creato. «Non pensavo che l’avresti fatto. Almeno potevi chiedermi prima, no?». Il tono era calmo. Di una calma inquietante, adamantina. Ma calmo. Manuele attendeva almeno un insulto, uno strillo, nonostante fosse certo che l’amico non si sarebbe lamentato per l’iniziativa in sé. Il problema, in questo caso, era un altro: Ivan odiava che si facesse qualsiasi cosa a sua insaputa, specie se lo riguardava. Sin dai tempi della scuola media, quando lo aveva conosciuto tra i banchi della Prima B, Manuele aveva imparato a non agire senza coinvolgerlo.
27 Zuffa voleva occupare il centro della scena, essere il padrone del proprio destino, sempre e comunque. Detestava che altri mettessero il naso nelle sue faccende, anche a fin di bene. Era addirittura il concetto di sorpresa a irritarlo, tanto che, non di rado, pure un regalo poteva procurargli fastidio. E indurlo a sfoderare l’atavica arroganza. C’era poco da fare: era così, era sempre stato così. Prendere o lasciare. Molti l’avevano lasciato, Manu se l’era tenuto. Quella mattina, aveva anche messo in conto una piccola lite. Che non esplose mai. Ivan, infatti, si limitò a redarguirlo. Abbozzò persino un mezzo sorriso, dopo lo sguardo di ghisa. «Però, magari, la prossima volta… Cioè, poi, non lo so… ‘Sta cosa non è che mi convince tanto». «Ma come no? – prese coraggio Manuele, constatando lo scampato pericolo – Alla fine, sei tu che dici sempre che vuoi ballare, che ti piace ballare e cose del genere». «Sì, che c’entra? Quello sì… Però c’è pure la storia dei volantini», si schermì Ivan. «E allora? Mica ti vergogni? Ma poi è un gioco – tagliò corto l’amico – Non è detto che vinci. Anche se, secondo me… ». Ormai del tutto tranquillo, Manu si sbilanciò, poggiando una mano sulla spalla dell’altro e ammiccando vistosamente. «Che hai fatto? Hai messo delle foto strane?», chiese Ivan. «Ma va’! Quelle del mare, te l’avevo detto. Poi, ho recuperato qualcosa dalle serate vecchie. Ti ricordi quando era venuto Maselli?» «Hai messo pure le foto con quel coglione?». «Vabbe’, solo un paio. Però… Iv… là sei proprio un figo! Cioè, io ti voterei di corsa. E infatti l’ho fatto!». «Ah, mi hai votato?». «Per forza!» «E posso votarmi anch’io?». «E certo! E poi sto spargendo la voce in giro, anche su Facebook. Cioè, ti faccio vincere io». Manu continuava a molleggiare tra una gamba e l’altra, scrutando le reazioni dell’amico. Non gli sembrava eccitato quanto lui. «Ma non fare ‘sta faccia, dai! Scusa, che problema c’è?». «Tu dici che vinco?», ribaltò la domanda Ivan.
28 «Mah, io dico di sì… Con tutta la gente che conosci là in mezzo. Diciamo che hai più possibilità di uno qualunque. Senza contare tutte le tipe che ti sei fatto: quelle ti votano di sicuro!», sogghignò ancora Manuele. «E quell’altro mi pagherebbe?». «Ma chi? Pichetti?». «Sì». «Ma allora non hai capito una minchia! Se vinci, lavori per un anno al Fisix. Chiaro? Niente cazzate. E comunque…». «Comunque?». «Non lo so… Lascia stare i soldi… Tu devi pensare a questa cosa come un’opportunità». «Io non lascio stare proprio niente. A me i soldi mi interessano». «E allora ti pagherà. Come fa con me. Punto. Senti, te lo devo far conoscere». Manuele si prese una pausa per accendere un’altra sigaretta. Poi riattaccò, bloccando per un istante il molleggiamento per ricondurre sulla vita dei jeans un po’ larghi. «Quello ha un sacco di ganci, con un sacco di gente… Se lo conosci, quello ti fa fare strada, fidati!». «Io non capisco tutto questo interessamento tuo. Guarda che non ti do niente in cambio». «Nemmeno un po’ di fumo?», grugnì con un sorriso Manuele. «Col cazzo! Vai dai tuoi amichetti. Magari, loro ti vendono pure la bonza», soggiunse Ivan, accennando pure lui una mezza risata. «Ma smettila, coglione! Te l’ho detto che quest’anno ti avrei fatto un regalo di compleanno figo, un po’ diverso dal solito. Sono in ritardo, ma ne è valsa la pena, dai…». «Vabbe’, vabbe’. Però, appena arrivo a casa, le vado proprio a vedere ‘ste foto». «Vai, vai! Tanto saranno solo sei o sette, non di più». Manuele posizionò la sigaretta mezza fumata tra indice e pollice e, con un colpetto ben assestato, la fece decollare. I due rientrarono, lanciarono uno sguardo d’intesa alla donna del cruciverba e si avviarono di nuovo verso la bisca sotterranea. «Te li potresti anche levare ‘sti occhiali qua dentro», stuzzicò Ivan. «Sono belli però, vero? Sono un po’ così… da dandy!», fece Manuele, molleggiando anche le braccia, ma accogliendo l’invito.
29 «Ma che dandy…». «Oh, a me piacciono». Si fermarono davanti alla macchinetta del caffè, indecisi su cosa scegliere. Fu allora che Manuele, come trasalendo, comunicò a Ivan la morte di Silvano. Zuffa faticò a collegare il discorso sugli occhiali a questa notizia. Non comprese subito a chi si riferisse l’amico. Fu necessario qualche istante, giusto il tempo di sintonizzarsi con una mente tanto imprevedibile. Silvano era morto, dunque. Il Silvano col cane pidocchioso, il Silvano sbronzo a tutte le ore, il Silvano dall’età indefinibile – qualcuno diceva che avesse addirittura cinquant’anni – con quell’enorme cactus di capelli incollato sulla testa. Ivan gli aveva parlato sì e no tre volte. Eppure, per un momento, rimase raggelato. Fu solo un istante, una minuscola lacrima nel mare della sua spensieratezza. Che subito scivolò via. Si consolò. In fondo chi era questo Silvano? Un vagabondo, uno spostato, uno che non valeva nulla, che non aveva nessuno al mondo, tranne quei quattro stracci e un bastardo peloso divorato dalle zecche. Era stato ritrovato sotto una panchina, ai Giardini Reali. Secondo il racconto di Manuele, con la siringa ficcata nel braccio e il cane a fargli la guardia. Insomma, una morte brutta, come lo era stata la vita. Insignificante. Ciononostante, la gente di Palazzo Nuovo si era ricordata di lui. I fiori sui gradoni e la lettera con le firme parlavano di un uomo che non era stato tanto insignificante. Era stato una presenza costante nei dintorni, ma Ivan lo aveva sempre considerato in maniera particolare, quasi come parte dell’arredo urbano: un palo della luce, una panchina, un cestino dei rifiuti, una di quelle cose di cui nessuno percepisce la mancanza se vengono eliminate. Invece, quella cosa veniva trattata come un personaggio, come un mito plebeo degno dei più alti onori. Anche senza lapide, senza un eroe da celebrare, gli universitari avevano espresso il loro cordoglio. Una nullità era riuscita a lasciare un segno, senza compiere nessuna impresa particolare: proprio questo aveva per un attimo mobilitato la coscienza di Ivan.
30 Un barbone tossico e pulcioso, senza qualità, si era imposto all’attenzione di tutti solo per il fatto di esserci, di essere sempre là a vagare mezzo avvinazzato e a blaterare frasi incomprensibili. Costui non sarebbe stato dimenticato. E quando il freddo, il vento e la pioggia avrebbero spazzato via quei quattro fiori, il segno di Silvano avrebbe faticato a cancellarsi. Ivan non badò più di tanto al proprio breve e insolito momento riflessivo. Si limitò a mettere una didascalia delle sue. Una frasetta di circostanza. «Minchia, ho visto i fiori sui gradoni! Comunque era un tossico: lo sapevo che faceva ‘sta fine». Poi, tornò al suo poker. E tenne le carte in mano per l’intero pomeriggio. Fine anteprima. CONTINUA...