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MARIA PIA ZACCHI
INCUBO A SCUOLA
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ INCUBO A SCUOLA Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-328-4 Copertina: immagine Shutterstock.com
Dedicato a tutti coloro che vivono nell’universo degli scomparsi.
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21 aprile 1989, Scuola Elementare “La Rosa” di Albenga (SV)
No, niente di quello che potete immaginare. Che la vita è strana lo sanno tutti. Ma strana fino a che punto? Quando ero bambina volevo scrivere un romanzo e con grande sforzo di fantasia ne avevo trovato l’incipit. Cominciava così: “Era una notte buia e tempestosa…”. Già. Perché un bel romanzone come Dio comanda non può che iniziare in modo tremendo, in una notte piena di fulmini, con la tempesta che ulula alla porta e gli stipiti che sbattono in attesa del fantasma… No. Ripeto: niente di tutto questo. La mia personale historia horribilis cominciò in una mattina piena di sole, al principio di una bellissima primavera. Io ero felice. Avevo tutto ciò che si può desiderare: la gioventù, l’amore, un lavoro che mi piaceva, una bambina stupenda e persino un cane come lo avevo sempre desiderato, dono di mio marito a Natale. Vivevo in una delle regioni più amene d’Italia e da poco avevamo comprato, accendendo un mutuo, una casetta nel verde. Insomma: ero da invidiare. Mi è rimasta impressa la luce di quella mattina. Tanta luce. Il cielo azzurrissimo come solo nella terra d’Alessandro sa essere, così assolutamente splendente che a guardarlo il cuore si riempie di gioia. Volavano le rondini e gli alberi del viale erano ricoperti di fiori rosa, i fiori preferiti di mia figlia. Davanti alla scuola si assiepavano i genitori perché era l’una e i bambini stavano per uscire. Io ero già pronta con la mia classe: gli alunni in fila, gli zainetti in spalla, tutti eccitati al pensiero di andare a casa. Facevo fatica a trattenerli il tempo necessario finché suonasse la campana.
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La bidella sorrideva e sorridevo io pure, perché c’era tanta allegria e tanta voglia di essere felici. I piccoli premevano sulla porta dell’atrio in attesa che la spalancassimo e dessimo loro il via. Ogni tanto gettavo un’occhiata fuori per fare un cenno a qualche genitore: fu allora che vidi mia suocera Chicca, con Mimosa per mano e Artù al guinzaglio. Ebbi un moto contrariato. Ero un po’ gelosa della mia piccola dai rossi capelli riccioluti, e anche del mio cocker spaniel blu roano. Che ci facevano lì? A quell’ora Mimosa doveva essere alla scuola materna… Con la mano feci un gesto interrogativo rivolto a mia suocera. Lei sorrise, arricciando le rughe del suo viso magro, e si strinse nelle spalle. Ok, mi dissi, dopo mi spiegherà. Mimosa si sbracciò mandandomi una serie di baci e Artù abbaiò festoso. Intanto suonò la campanella, aprimmo le porte e gli scolari si riversarono fuori in un’ondata incontenibile, tra le urla e i richiami delle mamme e dei papà, dei nonni, degli zii, delle tate che erano lì ad attenderli. Ci fu il solito marasma, quel momento di confusione che tutte le insegnanti temono, in cui devi avere i poteri di un dio dell’Olimpo per essere sicuro di affidare ogni pargoletto al genitore giusto. Non sei mai tranquillo. E se nel caos fosse in agguato il profittatore, il ladro di bambini?… Ma no! Cosa vai a pensare? Da noi non succedono certe cose! Spintoni, voci, gridolini di gioia, abbracci, cartelle che passano di mano in mano, portiere di auto che sbattono, code di veicoli che stazionano in sosta vietata pur di non far fare al bimbetto un metro a piedi… colori… vestitini che svolazzano… maestra, vado!… dov’è tua mamma?… là!… non la vedo, aspetta… sì sì vai pure… tutto un groviglio di corse sguardi parole gesti scalpiccii… sei esausta, ma paga dell’opera tua… hai consegnato gli alunni alle rispettive famiglie… anche per oggi ti è andata bene, non te ne sei perso neanche uno! Mi girai verso Margherita, la bidellona dal volto allegro, come a condividere con lei la soddisfazione del dovere compiuto. Le mie
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colleghe cominciavano a sciamare, qualcuna si soffermava a far due chiacchiere, altre raccoglievano libri o quaderni da correggere. «Vado anch’io», dissi, e d’istinto cercai tra la folla che si diradava il visino paffuto della mia piccola. Niente. Eppure pochi minuti prima era proprio lì davanti, con nonna e cane. «Ho visto tua figlia», mi sorrise Margherita. «Dove? Non la vedo più.» «Era qui sul marciapiede un attimo fa…» «E adesso?» «… Non so…» Intanto la strada si era fatta quasi deserta e tra le aiuole stazionavano solo due o tre mamme intente a rifilare metri di focaccia ai figli a mo’ di pranzo. “Bel sistema”, pensai. Ero di nuovo leggermente innervosita. Dov’era mia figlia? E Artù? E mia suocera? Mia suocera era una brava donna, ma con un quoziente intellettivo molto limitato e un metodo educativo ancor più scarso. Che da tutto ciò ne fosse uscito un ragazzo in gamba come mio marito era per me un mistero. «Non c’è più?» mi chiese la bidella. «Boh… non la vedo…» «Era con tua suocera, no? Saranno tornate a casa.» «Già.» Abitavamo a trecento metri dalla scuola. «Ok, le raggiungo là. Ciao.» «Ciao, bella.» La voce serena di Margherita mi sarebbe riecheggiata a lungo nelle orecchie. Direi per tutta la vita. Perché quelli erano gli ultimi minuti in cui sarei vissuta realmente. Gli ultimi attimi accettabili della mia esistenza. Presi la borsa e affrettai il passo verso casa. Ero tranquilla? Non troppo. Sono una mamma e una mamma sente cose che gli altri non sentono, si dice. Sono una mamma apprensiva.
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La nostra villetta appena comprata sorgeva in quel quartiere di periferia, tutto verde e rumoroso dei gorgheggi di uccellini indaffarati tra i rami fioriti. In lontananza si scorgevano le torri di Albenga, città antichissima, preromana, adagiata in una delle rare pianure liguri e attorniata da fiorenti campagne. Io ci ero nata e la amavo. Il suo skyline accompagnava l’orizzonte fin dove l’occhio si perdeva, rendendo unico il paesaggio, una sorta di New York medioevale. Impiegai pochi minuti a raggiungere il cancelletto. In giardino Artù non c’era, altrimenti mi sarebbe corso incontro col suo abbaiare enfatico. I cocker sono cani particolari, iperattivi e fedelissimi, strabocchevoli di amore per il loro umano. Artù non faceva eccezione. Era giovane, ma affettuoso e appiccicoso quant’altri mai. Le sue lunghe orecchie di un bel nero tendente al blu e le zampotte ciuffate mi avevano conquistato il cuore. «Artù!» chiamai senza troppa convinzione. Attraversai il piccolo giardino, pochi metri dove avevo già riversato la mia passione per le piante di ogni tipo: non c’era un centimetro quadrato dove non germogliasse qualcosa, dalle piante grasse agli iris, dai convolvoli ai giacinti multicolori. La porta di casa era chiusa. Bussai, non so perché. Chiave, toppa. Porta che si apre. «Mimosa?» Silenzio. Il ritmo cardiaco accelerò un pochino e mi diedi della stupida. «Mimosa? Chicca?» Silenzio. «Artù? Mimosa?» *** «…» Cucina… camera… bagno… Nessuno.
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Scesi giù in lavanderia. Nessuno. Guardai dietro casa: piccolo orto, quattro metri per quattro con un filare di pomodori, uno di insalata e uno di fagioli borlotti. Nessuno. “Merda.” Erano le tredici e trenta. Caspita. Di solito a quell’ora mia figlia o era a dormire all’asilo o era a casa che pranzava. Per forza. Pensai che fosse tornata alla scuola materna. Composi il numero. Mi rispose la voce squillante della bidella. «Ciao, Emma. Sono Astrid. Mimosa è lì da voi?» «No. È venuta a prenderla tua suocera alle undici. Mi ha detto che la mandavi tu perché la bambina aveva una visita dal pediatra.» «Ma no! Ce l’ha domani! Accidenti, si è sbagliata. E vabbè. Scusami. Ciao.» «Ciao.» Misi giù la cornetta. E adesso? Vuoi vedere che mia suocera si era fiondata dal pediatra con cane e bambina? A quell’ora? Cercai il numero del medico. Dottor Pedriconzi Walter… Squilli… squilli… Lo studio apriva dalle dieci alle dodici e dalle quindici alle diciotto. Non poteva esserci nessuno, adesso! Buttai giù mentre il nervoso cominciava a salirmi amaro su per la gola, insieme a un certo astio che serbavo in fondo all’animo per le grandi occasioni contro quella brava e beata donna di mia suocera. Merda! Decisi di telefonare a mio marito, anche se era al lavoro. Chissà mai. Al centralino della caserma mi risposero subito. «Pronto? Sono la moglie di Angelo… posso parlargli? Scusate ma è urgente.» «Ciao, Astrid. Sono Lorenzo. Angelo è fuori, su un’apertura porta.» «Sai tra quanto rientra?»
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«Sono appena usciti… credo mezz’oretta. È qui vicino. Devo dirgli qualcosa?» «No no. Chiamo dopo, scusa tanto.» E adesso? Senz’altro mia suocera aveva portato Mimosa a casa sua. Non poteva che essere così. Ma non aveva telefono, dovevo andarci di persona. Uscii e percorsi un po’ troppo in fretta i due isolati che mi separavano dal condominio dove abitavano i miei suoceri, i genitori di Angelo. Vivevano in un appartamentino di quattro locali al pianterreno, insieme alla figlia Mirella, che studiava ancora. Era iscritta a medicina ed era una brava tipa, dall’aspetto lindo e semplice, tranquilla. Anche il caseggiato era tranquillo. Tutta gente che lavorava, oppure pensionata. Qualche cane, qualche gatto, qualche bambino silenzioso. L’autostrada scorreva poco distante e rappresentava l’unico disturbo. Per il resto c’erano la campagna intorno e le montagne all’orizzonte, le Alpi Marittime così belle e azzurrate da sembrare un dipinto cinese. Suonai al citofono e subito mi aprì Pietro, sempre quieto nei suoi modi, le spalle ancora quadrate e forti nonostante l’età. Indossava una tuta di felpa, stinta, e le pantofole di velluto marrone che gli avevamo preso per il compleanno. «Ciao, Astrid. Non sei a scuola?» Sorrise, per subito rabbuiarsi notando la mia espressione tesa. «No. Sto cercando Chicca, Mimosa e Artù! Erano all’uscita delle lezioni e poi non li ho più visti! Sono qui, vero?» «Qui? Ma… veramente Chicca ha detto che mangiava da te…» «Guarda che da me non c’è nessuno. Ne vengo ora!» Dovevo essere impallidita, perché Pietro mi disse di sedermi un momento. «Vuoi un bicchier d’acqua?» Pietro era un Vigile del Fuoco in pensione. Angelo ne aveva preso il posto, come spesso succede. Essere pompiere era una vocazione di famiglia. Scossi vivacemente la coda di cavallo.
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«No… voglio capire dove sono!» «Magari hanno fatto un giro… è una bella giornata…» argomentò lui. Non mi sembrava più così bella, quella giornata! «Senza avvisare?» brontolai. Pietro ebbe una smorfia preoccupata. «Bah… lo sai come è fatta Chicca…» Lo sapevo e, sinceramente, in quel momento avevo voglia di darle una mazzata in testa. «Vieni, facciamo un giro. Saranno al parchetto.» L’idea che fossero andati tutti a mangiare qualcosa al piccolo parco vicino alla scuola non mi aveva nemmeno sfiorata. Ecco, doveva essere proprio così! Mimosa avrà piagnucolato per avere la focaccia e la Chicca l’avrà accontentata! «Giusto! Hai ragione! Ci vado subito!» «Vengo con te.» Ancora un tratto col cuore in gola. Ancora centinaia di metri a dirmi che ero davvero stupida ad agitarmi tanto. E che caspita! Cosa poteva essere successo? Niente. Di sicuro la spiegazione era semplicissima e tutto sarebbe finito con una mia occhiataccia rivolta alla suocera e qualche rimostranza benevola. Ma al parco, un parchetto piccolo piccolo e abbracciabile con un solo sguardo, non c’erano. E nemmeno al bar del parchetto. E nemmeno nel campo della parrocchia. E nemmeno nei bagni della parrocchia. E nemmeno al caffè del corso. E nemmeno dalla zia Lucia, la sorella di mia suocera, una vedova che abitava col figlio sulla via principale. E nemmeno sul viale alberato che faceva il giro della periferia. Restavano la città, il mare, la spiaggia… Il cuore mi usciva dal petto e anche Pietro non aveva una bella faccia. Tornammo a casa mia. Nessuno. Allora presi il telefono e richiamai mio marito in caserma. Mi immaginai la sua faccia abbronzata mentre sbottavo: «Angelo, non troviamo più tua mamma, Mimosa e neanche il cane!»
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E diedi in uno scoppio di pianto. Pietro mi prese delicatamente la cornetta dalle mani. «Angelo, sono papà… ascolta… Sì, non le troviamo… No, non sono né da noi né da voi. No, non sono in giro… Sì, abbiamo guardato al parco, nei bar, da zia Lucia… sì… Alla spiaggia? Ma perché avrebbe dovuto tua mamma… Hai ragione, guardiamo se manca il costume da bagno… Astrid, hai mica visto se manca il costumino di Mimosa? Magari sono a fare il bagno…» Il bagno? Ad aprile? A ogni buon conto controllai. No. I costumini c’erano tutti e così l’adorata ciambella a forma di papera da cui mia figlia non si separava mai quando andavamo in spiaggia. Ormai erano quasi le quindici. E se fossero andate dal pediatra? Telefonammo. Nello studio non c’erano né si erano mai viste, né quel mattino né in quel momento. Del resto, avevano appena riaperto. Angelo disse che sarebbe uscito con la camionetta per perlustrare la zona. Ci disse che intanto avrebbe avvisato vigili urbani e carabinieri. Mi si gelò il sangue. «Mi sento male.» «No, no, Astrid, non fare così. Tranquilla. Sono solo precauzioni. Di sicuro non è successo niente. È per sicurezza. Ora chiamo il pronto soccorso. Magari una sbucciatura di ginocchio… sai come sono i bambini… eh, non fosse mai capitato!» Pietro mi sorrise. Ma era un sorriso strano, storto. Chiamammo il pronto soccorso della città e poi quello del grande ospedale di Pietra Ligure. Niente. Né nonne, né bambini, né tantomeno cani avevano richiesto cure nelle ultime ore. Mio marito cominciò a girare i quartieri di Albenga, partendo da quelli nel centro per allargarsi via via verso la periferia. Furono allertate le forze dell’ordine e i volontari di diverse organizzazioni benefiche del territorio. Volevo perlustrare anch’io, ma mi dissero di stare a casa vicino al telefono, per essere rintracciabile. Si misero a setacciare i dintorni mio suocero, zia Lucia, alcuni vicini
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e poi si unì un sacco di gente, i militi della Croce Rossa e quelli della Croce Bianca, alcune mie colleghe coi mariti, le bidelle, genitori di miei alunni, conoscenti, amici, un gruppo di addestratori cinofili… Vennero le sedici, poi le diciassette, le diciotto, le diciannove… Dovettero chiamare il dottore che mi somministrò un calmante. Mi sentivo come paralizzata. Il mio cuore si spaccava. La gola e la bocca erano secche. La voce mi mancava. Le dita mi formicolavano e gli occhi sembravano due torce. Ma cercavo di vedere le cose positivamente. Non esisteva un motivo per quelle sparizioni, mi ripetevo. Non c’erano motivi! Non eravamo ricchi. Non avevamo mai fatto del male a nessuno. Non eravamo implicati in affari loschi. Mia suocera, il cane e la bambina erano lì, davanti alla scuola, all’una del pomeriggio! Erano lì, in un posto sicuro. Mi avevano fatto ciao. Le avevo viste. La mia bambina era lì! Lì! Due persone e un cane non spariscono così, come aria nella tempesta, come fumo nel vento! Tutto ciò non aveva un senso. Le venti. Le ventuno. Le ventidue. Ormai era caccia aperta. Le ventitré. Stavo morendo. Le ventiquattro. Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? Carabinieri, Croce Rossa, Vigili del Fuoco, volontari, amici, parenti… via vai… la casa è un porto di mare… gente gente gente… io attaccata al telefono che squilla spesso, tanto spesso… decine di telefonate di persone che chiedono, che vogliono sapere… IO NON SO! IO SONO LA MADRE E NON SO! Muoio. Non posso resistere. Angelo è fuori, a cercare. Pietro mi sta vicino. Arriva anche sua
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figlia, che era a Genova. Arriva il figlio di zia Lucia, Carlo, che era andato a farsi un giro col fuoristrada. Nessuno trova qualcosa di sensato da dirmi. IO non trovo niente di sensato da dirmi! Posso ipotizzare che una donna anzianotta abbia deciso di farsi un giro chissà dove senza avvertire nessuno trascinandosi dietro una bimbetta e un cocker? Posso pensare che le abbia dato di volta il cervello e si sia perduta – lei, il cane e la nipotina – nella giungla metropolitana di una placida cittadina ligure? Una contraddizione in termini! Ho il cuore che mi esce dalle tonsille. Il maresciallo dei carabinieri mi chiede per la centesima volta di ripetere quello che so. MA CHE COSA SO? Ho visto mia figlia, mia suocera e il cane per un attimo. E poi più. So che mia figlia avrebbe dovuto essere all’asilo e non c’è. So che il cane avrebbe dovuto essere a casa sua in giardino e non c’è. So che mia suocera avrebbe dovuto essere a farsi i cazzi suoi e non c’è… QUESTO SO! Il maresciallo mi lascia stare. Dubita delle mie affermazioni? Non me ne frega niente. Sono al lumicino. Mi sto sciogliendo. Sono cera messa nel forno. Sono una vipera cui hanno tolto le uova e che vorrebbe mordere tutto il mondo. Sono una mamma che non sa cosa pensare e che non vuole credere al peggio, ma sperare, sperare che questo incubo abbia breve durata perché, se smette di sperare, muore. Vago per la casa illuminata a giorno, gli occhi sbarrati e smarriti. Qualcuno mi accarezza. Altri mi danno pacche sulle spalle, di incoraggiamento. LASCIATEMI MORIRE! Prima, però, ridatemi mia figlia. Ansimo, boccheggio. Tutte le porte sono spalancate, come a dire “tornate, noi vi stiamo aspettando!”. Tutto il quartiere è lì. E poi, nella bella notte stellata e serena, la splendida notte che nessuno nota più, in mezzo a quella selva di gambe, nel calore della ressa, nei bisbigli, nel sommesso chiacchierio… ecco… mi
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arriva all’orecchio un fruscio che ben conosco… un ansito che mi è noto… La gente si scosta, lo lascia passare, fa largo a quella lingua sgocciolante di bava. Sgrano le pupille. Un muso basso e mogio mi cerca, mi si avvicina, si struscia con fare timoroso alle mie ginocchia. Sento l’umido naso nero cercare il mio odore e sospirare nel trovarlo. Una massa di peli scuri si affloscia sui miei piedi come a dirmi: “Sono qui”. E io urlo: «ARTU’!»
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22 aprile 1989, casa di Astrid
ARTU’! Artù! Artù! La voce mi muore in gola sotto forma di rantolo, ma il mio cocker capisce lo stesso, mi si getta fra le braccia, mi lecca con un ardore inusitato. Artù! Artù! Sei qui! Ma allora… «MIMOSA! MIMOSA!» grido con tutto il fiato che mi resta. Se c’è Artù, c’è Mimosa, vero? È così. DEV’ESSERE COSI’! MIMOSA! MIMOSA! Mimosa! Mimosa… No. Mimosa non c’è. Artù è tornato solo. Ha ancora il guinzaglio e se lo trascina intorno alle mie gambe mentre mi lecca, mi lecca, stanco, disfatto, disorientato, tutto madido e sporco come se uscisse da una tempesta. «Artù, dov’è Mimosa? Artù, cos’è successo?» Povero cane. Mi guarda. LUI SA. Il mio cocker spaniel blu roano sa. Sa, ma non può parlare. Mi fissa, i grandi bellissimi occhi neri, di un nero assoluto come solo i cocker hanno, così umidi e pregni d’amore, mi fissa, insistente e mogio. Lui sa, ma non può dire. Lui sa, ma non può raccontare. Tutti tacciono. È chiaro che qualcosa di terribile dev’essere successo. Un cane non torna da solo. E in quello stato. Per quanto ha vagato? Da dove viene? Dove ha lasciato mia figlia e mia suocera? E perché? «Artù, dov’è Mimosa?» gli bisbiglio all’orecchio lungo e riccioluto. Il mio giovane cockerino non scodinzola nemmeno. Sembra
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affranto. Qualcuno gli porge dell’acqua e lui la rifiuta. Mi fissa. Mi fissa. Lui sa. Mi giro come una iena verso la folla che mi circonda. Urlo: «Fate qualcosa! Il cane sa dove sono! Dove le ha lasciate! Lui ci può portare da loro! Muovetevi!» Un collega di mio marito è addestratore cinofilo. Addestra i cani da soccorso. Lo chiamano, mentre mio suocero tenta inutilmente di convincere Artù a scollarsi dalle mie gambe. Niente. Artù non ne vuole sapere. Ho sempre avuto un gran feeling coi cani, e specialmente coi cocker. Ho come la sensazione che Artù ritenga inutile condurci in qualche luogo. Sembra rassegnato. Mi arrabbio con me stessa. Rassegnazione? Ma scherziamo? Mia figlia è da qualche parte che mi aspetta e io parlo di rassegnazione? Se il cane è scemo non è colpa mia! Arriva mio marito con un altro pompiere dall’ultimo, inutile giro nei dintorni. Ha una faccia che non gli ho mai visto. Terrea. I capelli rosso rame sono appiccicati al cranio e gli occhi dorati, quegli occhi di cui mi sono innamorata, così belli e vivaci, hanno perso la loro luce. Sembrano neri. Non mi guarda nemmeno. Albeggia. Mi rendo conto che la notte è passata. Dal mare sale il chiarore delle belle giornate. Sprofondata nel divano vicino al telefono che ha smesso di squillare ormai da un pezzo, vedo la mia casa prendere quel colore mattutino che sempre mi è piaciuto, quel tono che sa di caffè appena fatto, di brioches sfornate, di Mimosa che sbadiglia nel suo lettino… Mi sento male. Ho voglia di urlare. Qualcosa è successo. Qualcosa di brutto. Ma cosa? «Aiutatemi!» mormoro. Gli astanti sono sovrappensiero. Evitano di parlarmi. Al più mi accarezzano. Mio marito sussurra qualcosa al maresciallo dei carabinieri. Basta! Non resisto! Mi alzo. Prendo Artù al guinzaglio. «Andiamo, Artù!» dico con decisione.
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«Dove vai?» mi chiede Angelo, preoccupato. «A cercare Mimosa! Artù sa dov’è!» «Nolan, va con lei», dice mio marito rivolto all’addestratore cinofilo, che ha con sé un bel pastore tedesco a pelo lungo, Buck. Ci muoviamo, nervosi. Con noi escono un appuntato e due mie colleghe che hanno trascorso la notte con me. Ci sono anche mio suocero e tre suoi amici. «Vai, Artù, portaci da Mimosa!» bisbiglio al mio cane, accarezzandolo. A Buck hanno fatto fiutare i giocattoli di mia figlia. Artù bighellona in giro, Buck non lo degna di uno sguardo. Ma all’improvviso entrambi partono in una direzione precisa: la scuola! I guinzagli si tendono. I cani tirano come disperati. Ci avviciniamo al marciapiede di fronte al plesso scolastico dove ho visto Mimosa e mia suocera per l’ultima volta. Un momento col cuore sospeso: Artù e Buck girano in tondo, sniffano il selciato. È Artù, però, a puntare deciso verso la fine della strada, dove questa, con una curva secca, diventando quasi un viottolo va verso le campagne e le ville che le costeggiano. Buck lo segue a ruota, sempre col tartufo umido e vibrante. Il sole si è alzato nel cielo perfettamente azzurro. Non una nube lo offusca. A dieci metri dalla curva, tra due filari di ciliegi in fiore, vicino a un boschetto di ulivi, i cani si bloccano entrambi, all’unisono. Buck si immobilizza sull’attenti. Artù comincia a girare in tondo e a guaire. Non capisco. In quel punto non c’è nulla. Asfalto, campagna, alberi. Una villa a cento metri e un’altra poco oltre, in mezzo a giardini lussureggianti. Da noi crescono anche i banani, ed è tutto dire. I carabinieri controllano quello spazio. L’asfalto è macchiato di grasso, di terriccio, di polvere bianca perché non piove da tempo. L’erba a fianco della strada è schiacciata. Ci sono delle pietre sul
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bordo. Prendo Artù e corro verso la casa più vicina. «Dove vai, Astrid?! Fermati!» grida mio marito. Io busso decisa al portone, suono, tempesto. Mi apre quasi subito una donna che conosco, perché la nipote viene a scuola da noi. È sulla cinquantina, minuta come me, col viso buono. «Maestra!?» si stupisce. «Cosa…?» «Mi aiuti! È scomparsa mia figlia con mia suocera, da ieri! Le stiamo cercando! I cani si sono fermati a poca distanza da casa sua. Lei le ha viste, sa qualcosa? Per carità!» La donna si asciuga le mani sulla vestaglia a fiori, strabuzza gli occhi, disorientata. «No… no… io non ho visto Mimosa né la Chicca… le conosco bene, se avessi… Ma come: scomparse?!» Il maresciallo le si avvicina. «Buongiorno, signora. Ha udito urla, ieri, verso le tredici? O dopo? Lamenti? Richieste di aiuto?» «No, no.» Niente. Anche nella villa vicina. Niente. Nessuno ha sentito o visto niente. I cani sembrano aver esaurito ogni risorsa. Artù mi sta attaccato alle gambe, spento. Buck si lecca una zampa, indifferente. «Cosa significa? Cosa vuol dire?» chiedo a tutti i presenti che, credo, vorrebbero tanto non dovermi rispondere. Nolan allarga le braccia. «Il cane si è fermato qui, non trova altra traccia da seguire.» «Cioè?» Forse sto gridando, ma non me ne importa niente. La maestra Astrid, compassata e buonina, non esiste più. Sono una leonessa a cui hanno tolto il cucciolo e peggio per chi si mette sulla mia strada. Angelo mi fa segno di calmarmi. Non gli rispondo nemmeno. «E allora?» «È come se in questo punto fossero… svanite.» Mi sale in bocca il gusto amaro del mio famoso umorismo nero. «Gli UFO?» rido. Ma nessuno ride con me.
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Telegiornale regionale del 22 aprile 1989
L’annunciatrice, bionda e sorridente, assume un’aria più seria. «…Passiamo ora alla cronaca locale. Da ieri sera non si hanno più notizie di Francesca Accardi, settantadue anni, e di sua nipote Mimosa, quattro. La donna e la bambina sono state viste l’ultima volta davanti alla scuola elementare “La Rosa”, in un quartiere periferico di Albenga. La preoccupazione delle famiglie è grande. Sul posto sono in corso le ricerche…»
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22 aprile, giardino di Astrid
«Allontanamento volontario.» «Ma perché mia madre si sarebbe dovuta allontanare con Mimosa così, senza dirci niente?» Angelo si passa una mano fra i capelli, disfatto. Sua sorella scuote il capo. Gli assomiglia come una goccia d’acqua. Non è bella, ma il suo visino bianco è simpatico e spiritoso, anche se in questo momento, in realtà, è ansioso e tirato. «No, mia mamma non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Perché, poi?» Il maresciallo tace. Sono stati controllati il libretto in posta, non manca niente, le stazioni ferroviarie, gli autobus, i taxi. Niente. Nessuno ha visto, nessuno sa. «La signora ha settantatré anni, vero?» dice il maresciallo, la voce atona. «Settantadue», precisa Angelo, aggiungendo, perché ha colto il significato di quelle parole: «ma non ha mai dato segni di… di…» Povero figlio, la parola “squilibrio” non gli esce proprio. Però è quello che pensano le forze dell’ordine: la nonna è impazzita e si è portata via la bambina, chissà dove. Io mi sento all’improvviso molto feroce. E se fosse? E se la mia adorata suocera fosse uscita fuori di senno o peggio? Se avesse fatto del male a Mimosa? In fondo, se uno impazzisce può combinare qualsiasi cosa! Mi giro da mio marito, credo di avere gli occhi iniettati di sangue. Lui mi guarda spaventato. La scena è surreale. Tra quegli alberi in fiore, col canto degli uccellini a far da colonna sonora e il cielo sempre più blu, come cantava Rino Gaetano.
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«E se fosse?» mi esce un rantolo al posto delle parole. Arriva zia Lucia, seguita da Carlo. La zia mi abbraccia, butta lì un “coraggio”. È piccoletta e grassottella, tutto il contrario di sua sorella, che è secca secca e di statura normale. Carlo è impacciato, mi stringe la mano con dita sudaticce, tiene lo sguardo basso. È grande e grosso, quasi obeso, massiccio, con un faccione tondo che non piace alle ragazze. Per questo vive ancora con sua madre e per questo pensa solo alla caccia. Non lavora. A vivere basta loro la notevole pensione di lei, che è vedova di un dirigente INPS. In città si mormora che suo marito avesse interessi in ben altre attività. Era siciliano, della famiglia Collerata, conosciuta soprattutto per certi trascorsi in odore di mafia, il che dà adito ai mormorii che lo volevano molto ricco, ma non certo per il lavoro impiegatizio. Verità? Falsità? Non mi ero mai posta il problema, né se ne era mai parlato tra di noi. Lo zio Collerata era mancato da parecchi anni e zia Lucia con Carlo erano persone tranquille, con le quali ci si vedeva nelle feste oppure per caso, in paese. Chicca andava spesso da sua sorella e Carlo faceva giocare Mimosa sul suo fuoristrada. Tutto qui. Il maresciallo fissa Carlo e mi sembra uno sguardo strano. Che pensi alla Sicilia mafiosa? Adesso? Quasi mi arrabbio. Per favore, che pensi a mia figlia! Mentre tutti parlano intorno a me, la testa mi gira e svengo.
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Telegiornale nazionale, edizione della sera
Questa volta il giornalista è un uomo, parla in modo professionale, molto compunto. «Liguria, provincia di Savona. Ad Albenga, la storica città di origini preromane, di fronte a una scuola media, sono misteriosamente scomparse da ieri una nonna con la sua nipotina. Le ricerche, iniziate subito, non hanno finora dato esito. Ci colleghiamo col nostro inviato…» È una scuola elementare, non media! Sdraiata sul divano, con una flebo attaccata al braccio, mi rendo conto che fuori dal cancello di casa nostra ci sono già alcuni giornalisti e fotoreporter a caccia di novità. Le immagini che scorrono sullo schermo non lasciano dubbi. Quelle sono le mie rose, le finestre della camera matrimoniale… la finestra della cameretta di Mimosa, con le tendine svolazzanti… Qualcuno più intraprendente o sfacciato suona al citofono. «Buongiorno, sono l’inviato del TG1…» «Non sappiamo niente, siamo in attesa», risponde mio suocero. Angelo e i suoi colleghi sono in giro a battere la zona a palmo a palmo. «Posso parlare con la mamma della bambina?» «Mia nuora non si sente bene, capirà…» «Solo una parola!» «Guardi, abbia pazienza… non è il momento…» Escono fuori zia Lucia e il cugino Carlo, per fare un salto a casa loro. «Signora, signora, lei è una parente?» strillano due giornalisti. «Sono la zia…» «E lei?» il gesto è quello di cacciare il microfono sotto il naso del
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ragazzo. «Io sono Carlo…» «Carlo Collerata, vero?» chiede un inviato del giornale locale. «Sì…» «Visti i trascorsi della sua famiglia, non pensa che possa trattarsi di un sequestro a scopo di ritorsione?» «Quali trascorsi?» Il faccione di mio cugino sembra ancora più molle. «Beh… la famiglia Collerata, in Sicilia, è stata spesso indagata per associazione mafiosa…» insinua il giornalista, con un sorrisetto d’intesa. «Io sono nato qui…» borbotta Carlo, strabuzzando gli occhi bovini. «Due persone non scompaiono così, magicamente», insiste l’altro, feroce. Io sono basita. Mio suocero fa l’atto di spegnere il televisore. «No! Lascia!» «Ma sono tutte fandonie, Astrid…» RITORSIONE?
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Casa di zia Lucia
Le piombo in casa come una iena spelea delle Grotte di Toirano. La stessa furia di cacciatrice. La zia è arrivata da poco, ha lasciato la nostra villetta da un quarto d’ora. «Ma non eri sul divano con la flebo?» si stupisce la poveretta. «Cosa succede? Le hanno trovate?» Per un istante la speranza le ravviva lo sguardo spento. «No… Voglio sapere, zia. Cos’è questa storia che avrebbero rapito Mimosa e la Chicca per ritorsione?» «Cosa… di cosa parli?» Non capisce davvero. E come potrebbe? In suo soccorso interviene Carlo: «Un giornalista ha insinuato che, siccome papà era un Collerata, parente di mafiosi, possa trattarsi di una vendetta.» Lo dice con un tono affaticato, senza credere minimamente a questa tesi. «È mostruoso! Ma quando mai? Mafia? E chi ne sa niente?» «Ma i Collerata sono mafiosi. Sì o no?» incalzo, senza pietà. «Laggiù, in Sicilia…» balbetta Lucia, «forse… Qui non ne sapevamo niente neanche quando c’era tuo zio… ma siamo matti?» Esco sbattendo la porta. Le credo? Non le credo? So solo che rivoglio mia figlia. Ho perso i sentimenti, l’umanità, la bontà. Voglio mia figlia. E basta. Ho perso anche la fede? Passo davanti alla chiesa del quartiere, una chiesa piccolina, del Settecento, dedicata a Maria Bambina. La facciata è estremamente povera, fatta con pietre di fiume e malta. Io ho sempre creduto in Dio, ma non ho mai fatto di Lui il fulcro della mia vita e anche adesso lo sento lontano lontano. Mi fermo, il cuore di sasso.
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Vorrei chiedere aiuto, ma non penso che me lo possa dare. Vado oltre. L’inferno è dentro di me, buio, cupo. Datemi mia figlia, poi discuteremo di tutto. Prima, però, rivoglio mia figlia. Sono sola.
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23 aprile, alba, casa di Astrid e Angelo
Angelo è stato fuori tutta la notte, lui e gli altri Vigili del Fuoco, i ragazzi della Croce Rossa, quelli con funzioni di Protezione Civile, i volontari della Croce Bianca. Niente. Lo zero assoluto. Io non dormo più, non mangio più, non vivo più. L’unica funzione biologica rimastami è l’attesa e l’elaborazione dei dati in mio possesso nel tentativo di capire come ritrovare Mimosa. Angelo rientra, non ci scambiamo uno sguardo. «E se fosse vero?» attacco subito. «Cosa? La pista mafiosa?» Mi sembra scocciato. «Proprio.» «Cazzo! Ma devi credere a ‘ste stronzate?!» «E a cosa dovrei credere? Che quella rincoglionita di tua madre si è persa insieme a nostra figlia?» urlo. Non ho mai urlato con Angelo. Mi accorgo tuttavia che sta crescendo una barriera fra noi. Perché? Non lo sento vicino. Eppure Mimosa è anche figlia sua! «Sono stanco», dice. E si butta nel letto. Io non sono stanca. Io, semplicemente, NON SONO. Sarò di nuovo quando stringerò mia figlia tra le braccia. Allora sarò: sarò moglie, maestra, amica, tutto quello che volete. Ma adesso non sto vivendo. Sono sospesa nell’universo di un incubo che mi soffoca e mi attanaglia, mi toglie tutto, mi stringe in una morsa orrenda fatta di buchi neri e profondi che hanno inghiottito la mia vita. DOV’È MIA FIGLIA? Chiamo Artù e usciamo. Torno nell’ultimo punto in cui i cani hanno fiutato le tracce di Mimosa e di Chicca. Mi metto a perlustrare fra l’erbetta, i ciliegi, i cespugli fioriti, gli ulivi nodosi.
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Lì la campagna sembra più un giardino che altro. Le fronde invitano alla frescura e al riposo. Ma per me non c’è riposo. «Artù», sussurro al mio cocker prendendogli il musone fra le mani, «Artù, dov’è Mimosa? Cerca Mimosa, Artù!» I dolci occhi pregni d’amore, neri come due laghi nella notte, umidi e buoni, mi fissano mesti. Con timore il naso mi sfiora, la lingua calda mi tocca con una brevissima leccatina. Poi il cagnolino si sdraia, con la testa fra le zampe anteriori. Le lunghe orecchie si appiattiscono nella polvere. E sospira. «Tu sai, vero, Artù?» mormoro. Sospiro anch’io. Sono sicura che il mio cane sa, ha visto, e quello che ha visto non gli è piaciuto, al punto che è scappato, fuggito, ed è tornato solo a tarda sera. «Chi ha preso Mimosa, Artù? Chi è stato?» Chi? ),1( $17(35,0$ &RQWQXD
AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Seconda edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2019) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.