In uscita il 28/4/2017 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine aprile e inizio maggio 2017 ( ,99 euro)
AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.
GIULIA BULGARELLI
INDELEBILI CICATRICI
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com
www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/
INDELEBILI CICATRICI Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-095-5 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Aprile 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Il male mette radici quando un uomo comincia a pensare di essere migliore di un altro. (Josif AleksandroviÄ? Brodskij)
Astenetevi dal giudicare, perchĂŠ siamo tutti peccatori. (W. Shakespeare)
PRIMA PARTE
7
GIOVENTÙ BRUCIATA
Che strana è la vita. Nasci in un posto, poi senza accorgertene ti ritrovi catapultato da tutt’altra parte, per cambiare di nuovo rotta diretto verso altri orizzonti. Nel frattempo hai modificato le tue abitudini, ti sei adattato al tuo nuovo stile, ti sei fatto delle amicizie. La tua anima è come una valigia, piena zeppa di esperienze, ma arriva un giorno in cui comunque ti fermi e pensi: e adesso che faccio? Insomma, arrivi a un punto in cui vuoi, in cui desideri, andare incontro a una svolta. Non importa se positiva o negativa. Certo, se le cose cambiassero in meglio mica alzi la mano e dici “No, grazie! Passo!”. Accetti e la fai finita lì. Ma se questo cambiamento si rivelasse una fregatura? Ad esempio, se da un momento all’altro ti ritrovassi a pensare: adesso vivrò oppure morirò? Ecco, io questo dubbio lo ebbi quella volta in cui mi ritrovai sdraiato su un letto, con mani e piedi legati, e con la canna di una pistola ficcata in bocca. Ma forse è meglio fare un passo indietro. Mi presento: mi chiamo Ryan Landry, ho ventotto anni e la storia che sto per raccontarvi ebbe inizio anni prima, a San Francisco. All’epoca ero un adolescente e vivevo con la mia famiglia: mio padre, Bud Landry, gestore di un’importante catena di ristoranti, mia madre, Tamara Landry, organizzatrice di eventi, e mio fratello Toby. Impersonavo alla perfezione il classico cliché del ricco ragazzo di città: ero viziato, capriccioso e narcisista. E come ogni figlio di buona donna stavo con Abby, la mia ex ragazza. Volendola definire con una sola parola, la prima che mi viene in mente, direi che era una stronza. Una stronza colossale. Egocentrica, snob, capace di farti sentire una merda con una sola occhiata. E, per non farci mancare nulla, era pure una baldracca! Non c’era amore fra noi. Eravamo giovani, ricchi e invidiati da tutti. Bastava questo. L’ultimo anno di liceo fu un continuo di feste di ogni genere, con fiumi di alcol, sesso e droga. Ogni dannatissimo week-end. L’importante era
8 divertirsi e farsi notare, e il gioco era fatto. Come diavolo ero messo? Freddy me lo diceva spesso che esageravo. Freddy era mio cugino. Il mio migliore amico. Il mio angelo custode. Era diverso da me. Era razionale e serio e aveva quel giusto grado di malizia che gli consentiva di fiutare il pericolo laddove io non vedevo nulla di più di una semplice ombra. Gli volevo un bene dell’anima. Stavamo sempre assieme. A lui raccontavo tutto. Freddy e Toby erano i miei due unici veri amici. Una sera accadde l’impensabile. Era estate. Mi ricordo ancora il giorno. Era il 20 luglio del 2002. Fuori da una discoteca. Pioveva. Stavo discutendo di brutto con un tizio, un balordo lercio nell’aspetto e nell’animo di nome Todd. Todd spacciava. Era lui che mi procurava la roba. Non ricordo il motivo del litigio. Fatto sta che, a un certo punto, tirò fuori una pistola e minacciò di farmi fuori. Io ero solo, disarmato e avevo paura. Ma ero troppo incazzato per non reagire e così provai ad affrontarlo, inutilmente. Schivai la morte per un soffio. Lo stesso, però, non si può dire di Freddy. Il proiettile a lui arrivò direttamente. Senza che me ne fossi accorto, Freddy si era messo in mezzo. Quel bastardo di Todd se la svignò all’istante. Rimasi lì a fissare il corpo senza vita di mio cugino, riverso sull’asfalto. Piansi. Lo toccai, lo alzai da terra e lo strinsi a me, fregandomene delle prove e delle impronte digitali e di tutte quelle cazzate. Qualcuno che aveva casualmente assistito alla scena chiamò la polizia. Mi tennero sotto torchio per almeno due ore. Fortuna volle che, a un certo punto, stanchi di stare a sentire me che rispondevo a monosillabi e continuavo a pregarli di farla finita e lasciarmi in pace, mi dissero che ero libero di andare. «Ti teniamo d’occhio!» dissero, mentre trascinavo il culo fuori del distretto. Ero seduto sul taxi, quando mi assalirono i ricordi di quel che era accaduto: la sparatoria, il corpo freddo di Freddy che giaceva inerme per terra, il sangue. Cacciai dalla mente l’immagine di lui disteso sopra un tavolo, all’obitorio, mentre il coroner pasticciava con i suoi organi e poi lo ricuciva come un pollo. Starmene lì fermo, su quei sedili puzzolenti, e costretto ad ascoltare irritanti canzonacce alla radio, mi fece ribollire il sangue nelle vene. Incazzato e stanco, chiesi al taxista di fermarsi e mi feci scaricare davanti a un drug store ancora aperto, ma non comprai nulla. Non era di alcol che avevo bisogno. Attaccai a correre, più forte che potei.
9 Arrivai davanti alla porta di casa bagnato fradicio. Odiavo il mondo intero, ma più di tutti odiavo me stesso per aver permesso che una cosa simile accadesse. Mi dissi: “Basta con le stronzate”. Era arrivata l’ora di crescere, di svegliarsi. Avevo compiuto diciotto anni, mi ero diplomato. Era ora di iniziare una nuova vita. Ma il destino può giocarci strani scherzi, e il più delle volte proprio nei momenti meno indicati. In casa le luci erano tutte spente. Toby dormiva tranquillo nella sua cameretta. Mamma era in vacanza. Papà invece… beh, in quel momento pensai che fosse ancora in giro a spassarsela. Capitava spesso che facesse tardi. Per lavorare. Per scopare la bella segretaria sulla scrivania del suo ufficio. O per giocare a fare il ricco porco nei club di lusso assieme ai suoi amici. Ma papà non era uscito. Papà era a casa. In salotto. Le luci erano spente. Papà stava scopando, ma non con la sua segretaria. Scopava un’altra, una ragazzina. La ragazzina in questione era Abby. Ho ancora impressa nel cervello quella scena disgustosa. Lui a braghe calate, seduto sulla sua poltrona preferita, con Abby che gli stava sopra, mezza nuda. Sebbene fossero al buio, immaginai cosa ci fosse sul tavolino di fronte alla poltrona, vicino ai calici di champagne vuoti. Sapevo che il bastardo era pieno di cocaina fino al collo. Già, al grande capo piaceva incipriarsi il naso di tanto in tanto. Potete immaginare il mio stato. Avevo appena perso il mio migliore amico e la mia fidanzata cavalcava il vecchio come fosse un toro da rodeo. Un altro, se fosse stato al mio posto, avrebbe ammazzato entrambi. Io non feci nulla, a parte tagliare la corda. Corsi in camera e ficcai in valigia tutto ciò che mi capitò sotto mano. Nel portafogli avevo del contante. Decisi che me lo sarei fatto bastare, almeno finché non avessi trovato una soluzione. Avevo bisogno di soldi per la mia fuga, ma non potevo utilizzare le carte di credito. L’ultima cosa che volevo era che mi beccassero. Prima di andarmene, m’infilai in punta di piedi in camera di Toby. Mi si strinse il cuore all’idea di lasciarlo. Ma che cos’avrei potuto fare? Era solo un bambino e io ero pur sempre un ragazzo che stava scappando da casa e non avevo la più pallida idea di quale piega avrebbe preso la mia vita. Cosa ne sarebbe stato di lui? Così me ne andai. Gli lasciai un biglietto e un braccialetto che portavo sempre al polso e che lui
10 adorava. Scrissi un messaggio nel quale esprimevo tutto il mio affetto e aggiunsi che sarei tornato a prenderlo. Sgattaiolai fuori passando per il garage. Guidai quasi tutta la notte. Mi fermai quando ormai albeggiava. Presi una stanza in un motel scalcinato, dove per un po’ trovai sollievo. Più o meno. Alle prime ore del pomeriggio ripresi il mio viaggio. Continuai a guidare finché non arrivai al confine con l’Arizona. Guardai il cartello con le indicazioni per Phoenix. Non c’ero mai stato. Era una grande città, pensai che avrei avuto l’occasione di rifarmi una vita laggiù. Inoltre era abbastanza lontana da casa. Senza indugi, proseguii fino a raggiungere la meta predestinata. Una volta arrivato, avrei dovuto trovarmi al più presto un lavoro. I soldi che avevo non mi sarebbero di certo bastati all’infinito. Quasi per caso una sera, in un locale, mi attaccò pezza un tizio. Cercava gente giovane e ben motivata e che non creasse rogne. Quando gli dissi che avevo bisogno di grana, rispose che mi avrebbe aiutato volentieri. Bastava che accettassi di fare tutto ciò che mi veniva richiesto. «Sai ballare?» mi chiese. Gli risposi di sì. «Allora ballerai nel mio locale.» Punto. Non aggiunse altro. Non so perché, ma acconsentii a farmi incastrare. Forse perché ero giovane, ingenuo e senza mezzi. O più semplicemente, perché non avevo alternative. Fatto sta che nel giro di poche ore avevo un nome d’arte, Jake Ross, una stanza, del cibo, e una vita che non apparteneva più soltanto a me stesso. Il Continental era all’apparenza un night-club come tanti, solo un po’ più elegante e frequentato da gente coi quattrini. Lì dentro potevi trovare di tutto: scambisti, mogli insoddisfatte, uomini d’affari pronti a sborsare grosse somme per una notte di orge sfrenate, donne sole che si regalavano sveltine con ragazzi molto più giovani di loro e coppie che amavano i ménage à trois. Questa era la clientela, al Continental. Per farla breve, io ballavo. Mezzo nudo su un palco, per essere precisi. Facevo lo spogliarellista e, all’occorrenza, anche la puttana. Donne viziose, in coppia o single, non importava, bastava che pagassero. All’interno del locale nessuno doveva azzardarsi a mettermi le mani addosso. Se qualcuno voleva divertirsi doveva chiedere a Luke. Se Luke era d’accordo, allora l’affare era concluso. Era un ex marine, pazzo e sadico all’inverosimile, nonché uno dei più infami sfruttatori
11 che io abbia mai avuto la sfortuna di conoscere. Luke Brendan, così si chiamava quel figlio di puttana. Nove mesi passai in quella fogna, sculettando su un palco e facendomi trattare come un vibratore vivente. Non ero il solo. Come me, c’erano altri ragazzi che lavoravano per il bastardo. Fra questi c’era Mark, il mio compagno di stanza. Era un ragazzo gentile, docile e sottomesso. Era dichiaratamente gay. A lui Luke procurava solo clienti maschi. Non perdeva mai le staffe in sua presenza, cosa che con me succedeva abbastanza di frequente. Una volta mi picchiò così forte che mi lasciò un segno alla base della schiena. A tutti quelli che lo vedono, dico che mi sono fatto male cadendo dalla moto. Mark divenne il mio amico fidato, la mia spalla su cui piangere e, in un certo senso, anche la mia valvola di sfogo. Ogni volta che ero incazzato o frustrato me la prendevo con lui. Neanche fosse stato lui la causa di tutti i miei guai e non la mia incoscienza. Una sera come tante, dopo che Luke aveva minacciato per l’ennesima volta di fracassarmi le ossa se avessi anche solo osato ripetere le parole “Me ne vado”, mi levai di mezzo prima che gli partisse un altro raptus dei suoi e ritornai in quel cesso di stanza in cui alloggiavo. Seduto sul mio letto, con la testa appoggiata a una mano mentre l’altra reggeva una sigaretta, ripensavo a tutto quello che mi era capitato da quando avevo superato il confine della California, pensando di trovare chissà che a Phoenix. In quel periodo fumare mi dava il voltastomaco, ma era l’unico mezzo che avevo per dimenticare i miei guai. Mark entrò, come sempre quatto quatto come un gatto. Quasi non mi accorsi di lui. «Tutto bene?» «Al solito.» Mark mi lanciò un’occhiata eloquente. «Brendan?» Non risposi. Del resto, non era necessario. «Devi smetterla di provocarlo, Jake.» «E tu devi piantarla di dirmi come devo comportarmi, cazzo!» sbottai. Odiavo ricevere ordini, anche se sapevo che lo diceva per il mio bene. «E non chiamarmi Jake! Quello non è il mio vero nome!» «Scusami», mormorò, assumendo la classica espressione da cane bastonato.
12 «Sai che detesto essere chiamato così», sbuffai, passandomi una mano fra i capelli. «Quelle troie delle clienti dicono quel nome in continuazione mentre costringo me stesso a scoparle per soldi, pregando che finisca al più presto. È uno schifo.» «Magari potresti chiedere a Luke di farti ballare e basta. Forse…» «E falla finita, cazzo! Lo sai che non servirebbe a nulla!» Chinò il capo e venne a sedersi accanto a me, immobile. Le mani appoggiate alle ginocchia. Gli occhi bassi. Gli lanciai un’occhiata furtiva, mentre spegnevo la sigaretta contro il muro. Il posacenere era troppo distante e non avevo voglia di andare a prenderlo. «Oh, Cristo! Smettila di fare quella faccia!» Gli battei una mano sulla spalla, facendolo sobbalzare. Scoppiai a ridere. «Si vede proprio che sei un finocchio, amico.» Sì, signore e signori, all’epoca usavo anch’io quegli assurdi termini. Col tempo, per fortuna, ho capito d’essermi comportato come una vera testa di cazzo. Mark non se la prese. Non se la prendeva mai. Era innamorato pazzo di me. Povero. Se penso a quanto sono stato crudele con lui. «Vorrei tanto essere come te.» «Non dire stronzate», borbottai, sdraiandomi sul letto e chiudendo gli occhi. Finsi di dormire, nella speranza che se ne andasse e mi lasciasse in pace, almeno per un po’. Non lo fece. «Sono serio.» Allungò una mano e mi scompigliò i capelli. Gliela scostai con un gesto brusco, ma neanche questo servì a scoraggiarlo. «Ti amo.» Lo disse così, come se nulla fosse. Un po’ come un “Ciao!” o “Ci si vede!”. Lo guardai torvo. Non perché lo odiassi, ma non volevo che soffrisse per causa mia. Io non l’avrei mai amato. Non ero in grado di amare me stesso, figurarsi un altro essere umano! «Ti amo!» ripeté, convinto. Osò di più: si chinò sul mio petto e provò a baciarmi. Lo spinsi via con forza, facendolo rotolare giù dal letto. Seguì un gemito soffocato. Dovevo avergli fatto male. «Puoi anche scordartelo!» urlai, cercando di lasciar trasparire tutta la rabbia che avevo in corpo. A quel punto, mi piantò gli occhi addosso e non disse nulla. Si rialzò piano da terra e, con calma, iniziò a spogliarsi. Ero talmente confuso e intontito che aprii bocca solo quando si sdraiò supino sul letto e mi fece cenno di avvicinarmi.
13 «Si può sapere che cazzo fai?» riuscii a dire, alla fine. «Scopami…» disse, semplicemente. «Ma vaffanculo!» «Starai meglio, dopo.» «Mettertelo in culo non servirà a tirarmi su di morale! Quindi piantala di fare l’idiota e rivestiti.» «Non pensare e fallo. Fidati di me.» È pazzo! mi dissi. Vuole proprio che lo ammazzi! Ero furioso. «Scopami, Ryan.» Lo disse ancora. Persi davvero le staffe. Mi gettai su di lui e lo afferrai per il collo, pronto a strozzarlo. Le mie mani stringevano e il mio corpo sembrava stesse andando a fuoco. Ero veramente fuori di me. A fermarmi fu un’assurda quanto inconfutabile certezza: sotto di me non c’era Mark ma Luke. In quel momento, era la sua faccia che stavo fissando, non quella del mio amico. Non solo avevo perso le staffe, iniziavo anche ad avere le allucinazioni! «Oh, no! Merda!» Quando mollai la presa la sua faccia era blu e rossi segni sul collo iniziarono a poco a poco a comparire. Mark non si muoveva. Non parlava. Sembrava morto. «Mark? Cazzo, Mark! Svegliati! Ripigliati, porca vacca!» Lui si mosse piano e aprì gli occhi. Iniziò a tossire e a massaggiarsi la gola. «Cazzo, Mark! Mi hai fatto prendere un colpo!» «Mi dispiace.» Lo guardai stralunato. «Per cosa?» «Ti deludo sempre.» Se non mi gettai dalla finestra, poco ci mancò. Rimasi senza fiato, le orecchie mi fischiavano peggio di una teiera bollente e un cerchio alla testa m’impediva di ragionare lucidamente. «Che cazzo stai blaterando?» Sorrise di nuovo. Un sorriso innocente e al tempo stesso colpevole. Come se avesse appena combinato una marachella e, con un’alzata di spalle, mi stesse dicendo “Ops! Scusa! Non l’ho fatto apposta”. Iniziai a pensare che quel ragazzo non fosse normale. Ma come? L’avevo quasi ucciso e lui che faceva? Chiedeva scusa!
14 Balzai in piedi e raggiunsi a grandi passi la porta. Dovevo andarmene da lì o rischiavo di esplodere. «Va tutto bene, sto bene», disse debolmente, rialzandosi da terra. «Mi riprenderò.» Non gli risposi. Se avessi aperto bocca, l’avrei coperto di insulti. Tutti quelli che mi venivano in mente. «So che sei arrabbiato con me, ma passerà. Te lo prometto.» Ero già sulla soglia quando Mark mi diede il colpo di grazia. «Ti amo, Ryan», disse di nuovo. «Comunque la pensi, io so quello che dico. E non me ne vergogno.» «Dovresti», ribattei, sprezzante. «Chiunque s’abbassi ad amare uno come me è da ricovero!» «Non è vero, Ryan. Sai che non è vero.» «Basta!» lo implorai, battendo un pugno contro il muro. «Basta, basta, basta!» Uscii a razzo, sbattendo la porta e imprecando. Sfrecciai a piedi fra i vicoli del quartiere, prendendo a calci qualsiasi cosa mi capitasse a tiro. Perché ero finito in quell’inferno? Sapevo di avere delle colpe, di aver fatto degli sbagli, ma non pensavo che le conseguenze sarebbero state così atroci. Stavo vivendo un incubo. Mi sarei mai risvegliato? Cercai la risposta andando dritto di filata in un pub dove bevvi come un dannato, prendendomi una sbronza terrificante. Alla fine mi sentii totalmente devastato. E triste. Tristissimo. Tornai in quella topaia di stanza che ormai albeggiava. Mark dormiva. Senza spogliarmi, mi sdraiai sul letto e fissai il soffitto. Mi sentivo uno schifo e stavo iniziando a credere seriamente che sarei rimasto per sempre prigioniero di quel tunnel della malora. «Siamo due anime dannate», bisbigliai, convinto che non mi sentisse. «Nessuno potrà mai salvarci da noi stessi.» Lui si mosse e si voltò nella mia direzione. «Bentornato, Ryan», mi disse, con voce assonnata. «Bentornato.»
15
FUGA DALL’INFERNO
Il tempo scorreva lento nell’afosa città. Le ore assomigliavano ai giorni, i giorni alle settimane, le settimane ai mesi. Mi stavo riducendo a uno schifo. Mangiavo poco e male, bevevo parecchio, fumavo come una ciminiera, dormivo fino a tardi la mattina e la sera dovevo essere sveglio e attivo per fare il mio numero. Sul palco e a letto. Stavo morendo. Lentamente, dentro di me, stavo morendo. Mi guardavo allo specchio e mi dicevo: “Questo non sono io. Non posso essere io!”. Dovevo andarmene da lì, e in fretta. Il problema erano come sempre i soldi. Luke mi pagava la metà di quello che guadagnavo e quello che avevo bastava a malapena a coprire l’affitto e le spese. In più, mollare Luke non era un’impresa facile. Lui era il mandriano e noi i buoi della sua fattoria. Se uno di noi tentava di scappare, rischiava di beccarsi una pallottola nella schiena. Avrei potuto denunciarlo, ma alla polizia non importava di aiutare quelli come noi. Per quanto li riguardava, eravamo lì di nostra spontanea volontà. Bastava dire di no sin dall’inizio. Una volta dentro, era inutile tentare di ribellarsi. Ma io ero determinato a farlo. Una sera, finito il mio spettacolo sul palco, presi Mark in disparte e gli parlai. «Me ne vado.» Mi lanciò un’occhiata sofferente, come se gli avessi appena rifilato un calcio nelle palle. «Dove?» «Via. Lontano da qui.» «Ma come farai? Luke ti controlla.» «Lo ammazzerò prima che possa anche solo muovere un dito!» Gemette. «Non farlo, ti prego.» «Cosa? Ammazzare quel bastardo?» «Andartene…» Mentre lo diceva, aveva gli occhi lucidi.
16 «Non ce la faccio più a stare qui, Mark! Questo posto mi uccide, lo capisci?» «Allora portami con te.» «No!» «Perché?» «Perché finirebbe male per entrambi. E poi io non ti amo, lo sai.» Se anche le mie parole lo ferirono, ingoiò il rospo e andò avanti nel suo discorso. «Tu vuoi che io venga con te», ribadì, cocciuto. «Sennò perché me l’avresti detto?» «Che cazzo ne so? Forse volevo solo salutarti prima di andarmene. Siamo amici, in fondo.» «Tu per me sei molto di più, invece.» «Oh, per favore! Dacci un taglio!» Gli voltai le spalle e me ne andai, ignorando la sua voce che mi chiamava. Per fuggire avevo bisogno di un piano bene elaborato. Analizzai ogni possibilità. Scappare dopo un numero, approfittando dell’uscita di sicurezza? Impossibile. Luke faceva sempre un giro nei camerini per raccattare il denaro. Fingere di andare da una cliente e poi darmela a gambe? Figurarsi! Ogni volta che mettevo il naso fuori di casa, Luke mi sguinzagliava dietro uno dei suoi tirapiedi. Non avevo scelta. Avrei dovuto affrontarlo di persona, in un modo o nell’altro. L’occasione si presentò un giorno di giugno. Mi fece chiamare nel suo ufficio, o per meglio dire, quel cesso che lui si divertiva a chiamare “ufficio”. Una stanza angusta e dalle pareti ingiallite, dov’erano appiccicati qua e là vecchi poster di famosi pugili e copie di manifesti risalenti al tempo di guerra. E poi ancora trofei vinti a non so quali gare e un manichino, posto in un angolo, sul quale aveva appoggiato la sua uniforme, ornata di medaglie al valore. Quale fosse il valore attribuito a un tipo d’uomo come Luke Brendan ancora oggi lo ignoro. «Chiudi la porta!» abbaiò, non appena fui dentro. Questo fu il suo “Buongiorno”. M’avvicinai piano alla scrivania, sforzandomi di tenere la bocca chiusa e di non urtarlo. «Volevi vedermi, Luke?» Schioccò le labbra. Mi fece cenno di sedermi. Mi offrì addirittura da bere. Glen Grant, il suo preferito.
17 «Ho intenzione di cambiare. Fare qualcosa di diverso.» Prese una sorsata di whisky e mi rifilò uno dei suoi sporadici sorrisi a trentadue denti. Brutto segno, pensai. Se capitava poteva essere per due motivi: voleva farmela pagare per qualcosa oppure era carico come una mina e con qualche folle idea che gli ronzava in testa. In quel caso, era la seconda. «Volevo che fossi il primo a saperlo.» Si alzò e fece il giro della scrivania. Si piazzò davanti a me e mi afferrò per le spalle. M’irrigidii all’istante. Pessima mossa. Luke se ne accorse e un lampo di eccitazione gli attraversò il viso. «Porno!» esclamò. Lo guardai perplesso. Mi balenò in testa che avesse intenzione di fare un film. Mi sbagliavo. Ciò che stava progettando era addirittura peggio. «Ho in mente un grande affare! Stammi a sentire.» Mi costrinse ad alzarmi, in modo tale che fossimo uno di fronte all’altro, occhi negli occhi. «Hai idea di quanti pervertiti ci siano a questo mondo?» Ne ho uno proprio qui di fronte, avrei voluto rispondergli. Mi limitai ad annuire. Prese a camminare su e giù per la stanza, fissando il pavimento. Stampato in faccia aveva quel ghigno strafottente che detestavo. «Ora, ecco il piano. Quello che faremo noi sarà di accontentare questi poveri mentecatti e dare loro il miglior servizio che possa esistere! E sai come?» Era chiaro che non me lo stava domandando sul serio. Non gliene fregava niente della mia opinione, voleva solo fare scena. S’era preparato quell’assurdo monologo nei minimi dettagli e ora lo stava recitando a memoria. Bevve ancora. Si scolò l’intero contenuto del bicchiere prima di riprendere a parlare. «Parafilie!» sbottò. «Robe da malati mentali! Schifezze che gente come te, come me, non s’azzarderebbe mai a guardare. Vomito solo a pensarci!» Scosse la testa e si passò una mano fra i corti capelli a spazzola. «Ma questo è ciò che daremo al nostro pubblico. E ora ecco la novità. Sarà tutto dal vivo!» Per poco non schizzai via urlando “Aiuto!”. Pensai seriamente che fosse impazzito. O meglio, era già folle. Avevamo definitivamente toccato il fondo e difficilmente saremmo risaliti.
18 «Dimentica le riviste! Dimentica i film! Al diavolo anche internet. La gente vuole partecipare. Vuole toccare con mano ciò che desidera. Vuole vivere le proprie emozioni fino in fondo! Alcuni locali concedono al massimo qualche scudisciata sul culo e una ridicola scopata sul palco, ma non basta. No, no! Occorre di più!» Andò alla scrivania, si versò un’altra abbandonate dose di Glen Grant e la ingoiò in un istante. «Di denaro ce n’è abbastanza da comprare un nuovo locale! Aggiungeremo nuove stanze e in ciascuna vi sarà un vizio diverso. Tu e gli altri mi aiuterete a realizzare questo progetto. E se questo non dovesse bastare, faremo in modo di chiamare altra gente, adatta a questo genere di cose.» «Luke, io non credo che…» «Sarà un successo.» «Sì, ma…» «Guadagnerai un sacco!» Fui sul punto di dire la mia, ma mi bloccai. I suoi occhi si ridussero a due fessure. Conoscevo quello sguardo. Significava “Guai in vista”. Guai alquanto spiacevoli. Da lì a pochi secondi mi sarei ritrovato carponi, con una catena al collo, braghe e mutande calate e con un grosso affare che minacciava di mettermi KO. Come se non bastasse, la testa mi ronzava e iniziavo a sentirmi strano. Eppure avevo bevuto un solo drink. Senza parlare, mi tirò su di peso e mi scaraventò sul divano. Sapevo ciò che stava per succedere. Aveva aspettato il momento giusto per farlo, il bastardo. «Tu sarai la chiave del mio successo.» Sibilò, fissandomi con quei suoi occhi da serpe nera. Fu in quell’istante che decisi che quegli occhi non avrebbero mai più rivisto la luce. «Sì.» Lo fissai a mia volta, sorridendogli beffardo. «Contaci… lurido e patetico sacco di merda!» Non gli diedi il tempo di controbattere, né di difendersi. Rapido, sfilai dallo stivale il coltello a serramanico che portavo sempre con me e gli sferrai un colpo secco, in pieno addome. Si piegò in avanti e cacciò un urlo. Con la mano, lo colpii alla gola, soffocandolo. Lo spinsi giù e lo bloccai a terra con un piede. Riverso sul pavimento, con le mani che premevano sulla ferita sanguinante, m’implorava silenziosamente di risparmiargli la vita. Non ebbi pietà. Impugnai il coltello e lo affondai
19 in lui più e più volte, colpendo in tanti punti diversi, in modo che sentisse ovunque dolore. Volevo distruggerlo. Il sangue fuoriusciva copiosamente da ogni lacerazione e là dove la lama non era penetrata non mi feci scrupoli a infierire, guidato da tutto l’odio che avevo accumulato nei suoi confronti. Non pago, presi a calciargli la faccia. Sentivo le ossa del cranio che si frantumavano sotto i miei colpi. Non so per quanto tempo andai avanti, ma di una cosa sono certo: quando trovai la forza di fermarmi, su quel pavimento, ai miei piedi, non c’era un uomo né un cadavere. Non c’era più niente. Una volta finito crollai a terra, ansimando. Tremavo da capo a piedi. Tutta l’adrenalina che avevo in corpo mi abbandonò di colpo, lasciandomi inerme, con una sensazione di malessere generale che mi prese alla bocca dello stomaco. Deglutii per non sentirlo. Trovai, abbandonato in un angolo, un asciugamano, lo stesso che Luke utilizzava per tamponarsi il sudore dopo aver eseguito diligentemente i suoi esercizi ginnici. Da bravo ex marine non passava giorno in cui non si allenasse con costanza. Lo usai anch’io quell’asciugamano, per togliermi di dosso le tracce del suo sangue ancora fresco. Sgattaiolai dalla finestra e passai per la scala antincendio, poi m’intrufolai nella mia stanza e corsi al bagno e, con frenesia, iniziai a sfregarmi le mani, il viso e le braccia. Sapevo di non essere solo. Nascosto dietro la porta c’era Mark, che sapeva tutto, ma non avrebbe detto nulla, a nessuno. «L’hai fatto?» Mi voltai a guardarlo. «Hai ucciso Luke?» Tutto ciò che riuscii a dire fu: «Mi odi?» Conoscevo già la risposta. «Non potrei mai odiarti.» Lasciai che mi abbracciasse. Ne avevo bisogno. Un bisogno insopportabile. Ma sapevo anche che non potevo gettarmi tutto alle spalle così presto. «Dobbiamo far sparire il cadavere», mormorai, divincolandomi dalla sua stretta. «Hai già in mente cosa fare?» Ci rimuginai su qualche secondo. Alla fine, scossi la testa. «Potremmo abbandonarlo nel deserto», azzardò Mark. «Avvoltoi e coyote andrebbero a nozze con la sua carcassa.»
20 «E come si potrebbe giustificare la sua presenza laggiù?» ribattei dubbioso. «Se qualcuno trovasse il cadavere e chiamasse la polizia? Io l’ho accoltellato. Dall’autopsia risulterà subito che è stato assassinato.» Mentre lo dicevo mi fissavo le mani, incapace di credere che fossi stato veramente io a fare una cosa simile. Eppure era così. «Brendan aveva diversi nemici», proseguì Mark, con noncuranza. «A nessuno importerà granché della sua scomparsa. E di certo non alla polizia.» «Era un marine», sospirai. «Agli occhi della legge è morto un eroe della patria.» «Un eroe che spacciava droga, vendeva uomini e donne per sesso e il più delle volte era ubriaco fradicio. Chi vuoi che lo rimpianga?» Avrei voluto dargli ragione, ma era difficile credere veramente che sarei riuscito a farla franca. Iniziai seriamente a dubitare di me stesso e delle mie capacità. Il mio carattere impulsivo mi aveva condotto ancora una volta sulla via del non ritorno. «Forse dovrei avvertire gli sbirri e dire che è stata legittima difesa.» «Non potresti provarlo. Non del tutto almeno.» Lo guardai confuso. «Che vuoi dire?» «Sul tuo corpo non compaiono segni evidenti di avvenuta colluttazione.» Mi prese il polso, costringendomi a tirare su il braccio. «Nessun livido, nessuna contusione. Neanche un taglio o un graffio. Inoltre, non stavate litigando. Nessuno nelle vicinanze ha sentito nulla. E i casi di tentata violenza carnale nei confronti di un uomo non spingono di certo la polizia a fare i salti mortali.» «E allora cosa suggeriresti?» «Te l’ho detto, facciamolo sparire nel deserto.» Si avvicinò, afferrandomi per le spalle e scuotendomi appena. «Ecco cosa faremo. Caricheremo Brendan sulla sua auto e andremo nelle zone di Coachella Valley. Lui adorava quel posto, ci andava spesso. Mettiamo delle bottiglie sul sedile posteriore, così sembrerà che avesse bevuto. Immagino che l’avesse fatto, giusto?» Annuii. «Perfetto! A quel punto, lasceremo che l’auto cada giù da un burrone. Prenderà fuoco e il suo corpo verrà carbonizzato. Ecco fatto. Un casuale incidente.» Imprecai, allontanandomi da lui. «E io?» borbottai. «Non si chiederanno che fine ho fatto io?»
21 Mark si strinse nelle spalle. «Dovrai avere pazienza e rimanere qui un altro po’. Nel frattempo, diremo a tutti che hai in mente di trasferirti in Florida.» Risi, anche se in realtà il mio voleva essere più un disperato tentativo di non farmi prendere dal panico. Non c’era nulla di divertente in questa storia. «Basta perdere tempo!» esclamò Mark, lanciandosi a passo di carica verso la porta. «Dobbiamo ripulire tutto e far sparire ogni indizio.» «E se dovessi fallire?» Uno strano sorriso comparve sulle sue labbra. «Andrà tutto bene. Fidati di me.» Pulimmo accuratamente la stanza, centimetro per centimetro, mattonella dopo mattonella. Attenti a non trascurare il benché minimo dettaglio, facemmo sparire tutto ciò che potesse divenire un facile indizio, a cominciare dall’asciugamano insanguinato. Il mio coltello a serramanico ritornò al suo posto, laddove nessuno avrebbe osato mettere mano. Quando fummo sicuri che tutto apparisse lindo e ordinato, almeno secondo la logica di Luke, avvolgemmo il cadavere all’interno di una coperta, lo piazzammo all’interno del bagagliaio e partimmo. Ci muovemmo prima del tramonto. In tarda serata, facemmo il nostro numero sul palco come se niente fosse. D’accordo con Mark, sparsi la voce che presto avrei fatto i bagagli e sarei partito per Miami. Nessuno fece domande al riguardo. Passarono i giorni e la scomparsa di Luke non passò inosservata al club. Iniziarono a circolare delle ipotesi: che era partito improvvisamente per un viaggio senza dire nulla, che se n’era semplicemente andato o che aveva avuto dei guai con qualcuno. Mark e io tenemmo le orecchie dritte e gli occhi aperti per tutto il tempo. Un passo falso e tutto sarebbe andato a puttane. Per primo, mi sforzai di mostrarmi vagamente interessato alla cosa, senza esagerare. Dopo un paio di settimane la macchina fu ritrovata in fondo alla gola rocciosa e il suo corpo, beh, ve lo lascio immaginare. Ovviamente intervenne la polizia, ma come aveva previsto Mark la morte di un pappone spacciatore di droga non fu un evento che sconvolse particolarmente. Il caso venne liquidato in fretta come possibile suicidio/incidente causato da alcol. Giusto per far felici i media, alcuni di noi vennero interrogati, me compreso. Ma il risultato non fu nulla di eclatante. Per la società eravamo semplicemente dei ragazzi sbandati
22 che si guadagnavano da vivere mostrando le chiappe per qualche bigliettone infilato negli slip. Dovetti ricredermi sull’intera faccenda: ero libero. Tuttavia, attesi un’altra settimana prima di andarmene. Se fossi sparito subito dopo il fatto avrei destato sospetti. In questo modo, nessuno si prese la briga di venirmi a cercare per alcunché. Prima di partire, però, volli accaparrarmi ciò che mi spettava di diritto. Avevo saputo da Mark che Luke nascondeva i soldi in un capanno in mezzo al deserto. Non gli domandai come facesse a saperlo. Sinceramente, non vedevo l’ora di dire addio a quella città del cazzo e a tutti i suoi abitanti. La baracca in cui Luke nascondeva il denaro era abitata da un povero ubriacone di nome Dudley. Dudley era stato mollato dalla moglie e dimenticato dai figli. L’alcol era il suo unico compagno. Viveva di quei pochi spiccioli che Luke gli allungava, ma se ne serviva solo per comprarsi da bere. Dei soldi non sapeva nulla. Il suo compito era custodire una sacca in una buca scavata sotto le assi di legno della sua baracca. Se avesse osato fare un passo falso, cercare di scoprire cosa contenesse o se, una volta scoperto, avesse osato darsela a gambe, Luke sarebbe venuto di persona a tagliargli la gola. Dudley aveva una paura fottuta di Luke e comunque era sempre troppo sbronzo per rendersi conto di ciò che accadeva attorno a sé. Mark noleggiò un’auto e mi portò da lui. Si conoscevano, ma questo non impedì a quel vecchio sbronzo di puntarci contro il fucile. Misure precauzionali, ci disse. Mark mi presentò come uno dei nuovi galoppini di Luke. Disse che ero stato incaricato di recuperare il sacco e portarglielo. Dudley non fece una piega. Viveva fuori dal mondo. Non sapeva nulla riguardo alla morte di Luke e dubito che gliene sarebbe importato qualcosa. Quel tizio ormai era andato per sempre. Prese posto sulla sua vecchia sedia a dondolo piazzata all’esterno della baracca, si accese una sigaretta, una delle mie che gli avevo offerto, e attaccò a bere e a fumare insieme. Lasciò a me e a Mark l’ingrato compito di scavare nella fossa e tirarne fuori il bottino. Quel maledetto postaccio puzzava di piscio, escrementi e altre schifezze maleodoranti. Trattenni il respiro più che potei. Starmene chiuso là dentro, con quel tanfo, mi faceva venir voglia di vomitare anche l’anima. Per fortuna, in due fu semplice e in poco tempo finimmo. Prima di andarcene, sfilai dal portafogli un biglietto da cinquanta dollari e lo allungai a Dudley. Un gesto di pietà, lo ammetto. Santo e demonio, ecco cos’ero. Sapevo
23 che uso ne avrebbe fatto, ma gli dissi comunque di comprarsi del sapone, dei vestiti puliti e un po’ di cibo. Una volta in auto, Mark mi guardò di sottecchi. «Lo sai che non lo farà, vero?» Mi strinsi nelle spalle e iniziai a contare i soldi nella sacca. Ce n’erano abbastanza da permettermi di vivere dignitosamente. E di portare le mie chiappe fuori da quel maledetto stato. Chiesi a Mark uno strappo fino all’aeroporto. Con fatica, riuscii a convincerlo a prendere la sua parte di denaro. Almeno in questo modo mi sarei assicurato che avesse il culo parato. In fin dei conti, se l’era meritato. Camminammo fianco a fianco fino alle porte scorrevoli, ma una volta arrivati lì davanti ci fermammo quasi in contemporanea. «Allora questo è un addio.» Furono le prime parole che mi rivolse, dopo parecchi minuti di silenzio. Mentre ce ne stavamo chiusi in macchina, bombardati dal caldo e carichi di stress, non avevamo aperto bocca. «Sì», risposi. «Senza dubbio.» Era inutile mentirgli. Entrambi sapevamo che non ci saremmo più rivisti. «Quindi, tra meno di due ore tu te ne starai lassù nel cielo, diretto per chissà dove. Io invece rimarrò qui, a piangere il mio amore perduto.» «Ti prego, falla finita!» Sapevo che stava soffrendo, ma non volevo illuderlo. «Avrei detto no a chiunque mi avesse offerto la sua mano», disse, fra il serio e lo spensierato. «Ho voluto te sin dall’inizio. E ti voglio ancora. Ma tanto so che tu ti dimenticherai di me. Anzi, scommetto che stai già cancellando dalla tua mente la mia immagine.» «Ma non dire stronzate! Io non ti dimenticherò mai.» «Davvero?» «Davvero.» Parlavo sul serio. Era stato leale con me, mi aveva aiutato. Era un bravo ragazzo. Avrebbe potuto fare grandi cose. Quando glielo dissi, si mise a ridere. «Sarei finito male lo stesso, ma non importa. L’unica cosa bella che mi sia mai capitata sei stato tu. Anche se, si sa, le cose belle sono destinate a finire, no?»
24 Non gli risposi. Mi limitai a piegare il capo da un lato e ad alzare le spalle. Facevo sempre così quando non sapevo cosa dire o cos’altro aggiungere. A volte, il silenzio vale più di mille parole. Mark lo capì e mi lasciò andare. Prima, però, mi chiese se potevo dargli un bacio. Una specie di dono. Mi rifiutai. «Troppa gente», mi giustificai, anche se sapevo che in quel modo lo stavo ferendo brutalmente. Ma ormai era troppo tardi. Mentre m’incamminavo all’interno dell’aeroporto, sapevo di avere i suoi occhi puntati contro, ma non mi voltai mai a guardarlo. Faceva parte del mio passato e io ci stavo dando un taglio netto. Quando fu il momento di acquistare il biglietto, chiesi quali fossero i prossimi voli. Me ne vennero elencati almeno quattro o cinque. Tra questi, scelsi New York. Non so perché proprio New York. Forse perché mi sembrava così distante da tutto, da San Francisco, da Phoenix, da ciò che ero stato prima di arrivare fin lì. In ogni caso, avrei potuto ricominciare da capo. Sul serio, stavolta. E fu col sorriso stampato sulla faccia che salii a bordo e, mentalmente, mandai a fanculo tutto il resto.
25
VOLTARE PAGINA
Conoscete quella vecchia canzone? Quella che fa: “I want to be a part of it, New York, New York”? Di chi era? Frank Sinatra, forse? Comunque, eccomi qui. A New York City. Era il giugno del 2003, e io avevo diciannove anni. Ricordo come si sentivo. Visto da fuori, ero un ragazzo come tanti. Di bell’aspetto, capelli castani un po’ spettinati, camicia nera senza maniche sbottonata sul davanti, jeans stretti e strappati a livello del ginocchio e stivali neri da motociclista. Dentro, ero una persona completamente diversa da quella che avrei voluto essere. Ero pieno di segreti e saturo di esperienze delle quali avrei volentieri fatto a meno. Mi aggiravo per le strade come un cane randagio. Avevo con me la mia sacca da viaggio contenente quei pochi vestiti che ero riuscito a recuperare e la preziosa borsa dalla quale mai e poi mai mi sarei separato. Feci un piano per la giornata. Innanzitutto, avevo bisogno di mangiare, lavarmi e dormire. Trovai un albergo di poche pretese e chiesi se potevo affittare una stanza, almeno per un mese. Poi, avrei deciso sul da farsi. L’edificio in cui stavo era alquanto ordinario, e la stanza in cui alloggiavo era spartana e priva di fantasia nell’arredamento. Però era confortevole, le lenzuola erano pulite, acqua e luce funzionavano alla perfezione, c’erano un condizionatore per l’estate e un termosifone per l’inverno e un frigo bar rifornito di qualsiasi cosa desiderassi. Che dire? Sembrava di stare al Palace Hotel! Considerando come vivevo prima. Riposi accuratamente le mie cose, feci una doccia, sgranocchiai noccioline e salatini davanti alla Tv, mi scolai una birra gelata e poi mi buttai a letto. Ero stanco morto. Dormii per quasi tre ore. Quando mi risvegliai, ero intontito e di cattivo umore e avevo l’impressione che si trattasse solo di un sogno. Poi, però, riordinai le idee e mi rilassai. Mi venne una voglia tremenda di caffè. Da quanto tempo non ne bevevo uno decente! Accanto all’albergo, avevo scorto una piccola tavola calda. Non era niente di che, ma il servizio era buono e le cameriere del
26 turno del pomeriggio avevano facce graziose e bei culi. Ce n’era una in particolare che mi colpì subito. Avrà avuto sui sedici anni, o poco più. Anche lei mi aveva notato e spesso mi lanciava occhiatine maliziose. Mi servì lei. Fu molto gentile. Per un attimo, fui tentato di proporle di vederci una volta finito il suo turno, ma all’ultimo secondo ci ripensai. Troppo giovane, pensai. Cerca il grande amore non una scopata. La mancia, però, gliela lasciai comunque. Girovagai senza meta per un po’, fino a che non fece buio e il mio stomaco iniziò a ruggire. Ero affamato. Le uniche cose che avevo ingurgitato erano state delle schifezze e una fetta di torta alle fragole. Il mio corpo sentiva il bisogno di una bella bistecca, cucinata alla vecchia maniera. Chiesi ad alcuni passanti dove avrei potuto mangiarne una veramente buona, senza però spendere un capitale. I primi due che beccai non erano del posto e m’ignorarono. Il terzo mi scambiò per una specie di hippie e si allontanò sconcertato. Con il quarto andò meglio. M’indicò un tipico ristorante, molto conosciuto in città. «Il Peter Luger Steackhouse. Vai là e ti troverai da dio!» «Dove sta?» «Al numero 178 della Broadway. Brooklyn.» «È lontano da qui?» «Assolutamente no! Prendi la metro, direzione Times Square. E in poco tempo ci sei!» Aveva ragione. La bistecca era davvero squisita. Alta e tenera, come piace a me. Ero nel pieno della soddisfazione! Lasciai un’altra generosa mancia al cameriere. Il ragazzo, ho dimenticato come si chiamasse, fece un largo sorriso, che mi scaldò il cuore. Mi ricordò un bambino che è felice di aver ricevuto una caramella come premio per il suo buon impegno. Già che c’ero, gli chiesi se per caso stessero cercando nuovo personale. «Spiacente, ma al momento siamo al completo.» «Fa lo stesso.» Inutile starci male. Un lavoro non si trova così, dall’oggi al domani. Per fortuna di soldi a disposizione ne avevo ancora. La mia idea comunque era quella di spenderli per rifarmi il guardaroba, dal momento che ero partito con tre stracci addosso e qualche altro nella sacca. Ero anche senza cellulare. Luke l’aveva distrutto mesi prima, durante un litigio. Mi ripromisi di compramene al più presto un altro.
27 Quando uscii dal locale non era tardi, ma di starmene in giro da solo non mi andava e l’idea di sbronzarmi in un qualche bar non mi attirava. E poi ero stanco. Me ne tornai all’albergo e, di nuovo, crollai in un sonno profondo. La mattina dopo, la luce che penetrava prepotentemente attraverso i vetri della finestra, che tenevo chiusa nonostante il caldo, mi svegliò. Ancora una volta, sentii lo stomaco brontolare. Dovevo fare colazione. Andai alla stessa tavola calda del giorno prima, solo che stavolta a servirmi non c’era più la graziosa cameriera, ma una signora attempata con biondi capelli acconciati in una strana maniera. Di certo non era uno spettacolo per gli occhi, però era cordiale e disponibile, e mi venne voglia di chiedere anche a lei se per caso la direzione stesse cercando nuovo personale. Purtroppo ottenni la stessa identica risposta. «Però, se ti può fare comodo, io conosco un posto che fa al caso tuo!» aggiunse, ammiccando. «Mio figlio maggiore ha da poco aperto un’attività in proprio. Un bar sull’8th Avenue. Potrebbe interessarti?» Avrei spiccato un salto in alto fino a toccare il soffitto con un dito se solo avessi potuto. «Certo che sì!» Mi presentai al bar quella mattina stessa. Alan, il proprietario, mi accolse a braccia aperte. «I lavori sono da poco finiti e io ho una gran voglia di far decollare questo posto!» «Anch’io vorrei cominciare al più presto, se fosse possibile.» «Hai esperienza in questo campo?» «Non molta.» A parte ballare e scopare, non avevo fatto altro al locale di Luke. «Però imparo in fretta.» Alan si mise a ridere. «Comincerai domani alle otto, va bene? Vedremo cosa farti fare.» «Tranquillo! Non ti deluderò.» E mantenni la parola. Nel giro di un mese ero diventato bravissimo a servire ai tavoli senza rovesciare nulla, far arrabbiare i clienti o rompere bicchieri. Mi piaceva stare lì. Lo stipendio che prendevo lo mettevo da parte, mentre il resto dei soldi mi servivano per l’affitto della stanza e altre cose. Non ero ancora pronto a trasferirmi in un appartamento, così decisi di prolungare la mia permanenza all’albergo. Al Cheese, così si chiamava il bar, oltre a me e ad Alan ci lavoravano sua moglie, suo cognato e suo fratello minore. Io e il fratello servivamo
28 ai tavoli, Alan e sua moglie si dividevano i compiti fra il bancone e la cassa, il cognato stava in cucina. Una gestione famigliare a tutti gli effetti. Io stesso divenni parte della famiglia. Con me erano tutti molto affabili, soprattutto Lucy, la moglie di Alan. Per lei ero un po’ come un fratello o un cugino. Ogni tanto capitava che m’invitassero da loro a cena, oppure a fare delle gite la domenica. Con Blake, il fratello di Alan, legai abbastanza. Un giorno mi chiese se mi andasse di fare un’uscita a quattro, la sua fidanzata avrebbe portato un’amica a tenermi compagnia. «Grazie amico, ma al momento non ho intenzione di farmi accalappiare. Capisci che intendo?» Blake afferrò al volo il concetto e mi sorrise, complice. «Se è per questo non devi preoccuparti! Questa ragazza non sta cercando storie. Vuole solo divertirsi.» «Sicuro? Non voglio prendere in giro nessuno.» «Ti dico solo che è stata mollata dal fidanzato pochi mesi fa. Non s’aspetterà nulla da te, se non un po’ di sano esercizio fisico!» ammiccò, battendomi una mano sulla spalla per incoraggiarmi. Accettai per due motivi: non volevo dire di no a Blake e, onestamente, il mio corpo mi lanciava segnali molto chiari ogni mattina. Era giunta l’ora di tornare in carreggiata! Facemmo quell’uscita e, lo ammetto, fu un po’ una delusione. Non per colpa dell’amica, anzi! Era uno schianto! Alta e con un gran fisico. Gambe lunghe e affusolate, fianchi morbidi che si accompagnavano a un sedere sodo e ben proporzionato e un’espressione da gatta. Il problema si presentò in seguito. Si chiamava Elizabeth, ma lei preferiva farsi chiamare Tiz, con la “z” che si pronuncia come una “s”. Non Liz o Beth. Tiz. Era piuttosto singolare. Lei stessa era piuttosto singolare. Giocava a fare la seducente, ma se qualcuno s’azzardava a farle un fischio o un complimento rozzo, caricava come un toro e zittiva tutti con poche ma spietate parole. Un tipo di donna del genere fa paura, però al tempo stesso è anche molto affascinante. Al cinema, come d’accordo, ci sedemmo vicini. Blake e la sua ragazza pomiciarono tutto il tempo, mentre io e Tiz guardammo il film dall’inizio alla fine. Non mi degnò mai di uno sguardo né la sua mano
29 cercò la mia, così io rimasi al posto mio. Ero convinto di non piacerle e così evitai di provarci. All’uscita, ci separammo. Blake e la sua ragazza se ne andarono, lasciandoci soli. Io feci il galantuomo e mi offrii di accompagnare Tiz all’auto. Stranamente, durante il tragitto, mi prese la mano e la strinse nella sua. Aveva una pelle molto morbida. Nessuno dei due disse una sola parola. Arrivati all’auto mi disse di salire. O meglio, me lo impose. L’uomo rude che è in me protestò. Tuttavia, eseguii senza fiatare. Appena salito, non feci nemmeno in tempo a mettere la cintura che Tiz mi prese la faccia e mi baciò con irruenza. Per fortuna baciava bene. Risposi al bacio con un certo entusiasmo e, fregandomene dei convenevoli, le toccai il seno, constatando con una punta di delusione che fosse rifatto. Vista la mia esperienza in uno strip club dove cose come quella sono piuttosto frequenti, preferivo un bel seno naturale. Tuttavia, me ne feci una ragione. Lei mi lasciò fare. Poi, come se niente fosse, mi ficcò una mano fra le cosce e iniziò a strofinarla sopra la patta. Mi diventò duro all’istante. Ero convinto che mi avrebbe fatto un pompino, o che saremmo andati oltre. Invece, con la stessa rapidità con la quale s’era fatta avanti, si tirò indietro. Si guardò allo specchietto retrovisore e si sistemò i capelli. «Ti accompagno a casa», disse, in tono neutro. «Io vivo in una stanza d’albergo.» Non fui capace di mentire. Che poi Tiz potesse considerarmi un poveraccio non m’importava, la realtà era quella. Lei, però, non fece una piega. «Allora ti accompagno al tuo albergo. Qual è l’indirizzo?» Glielo dissi. Partimmo a gran velocità sulla sua Fastback blu notte. Raramente mi era capitato di stare al posto del passeggero quando alla guida ci stava una donna. Signore, vi prego, non odiatemi per questo! Io vi adoro, lo giuro, ma le vostre abilità alla guida lasciano un tantino a desiderare a volte. E ora, per cortesia, evitate di affilare i coltelli. Tiz guidava come un pilota professionista. Era sicura di sé e non dava segni di incertezza. Mi piaceva avere accanto una donna che fosse a suo agio coi motori come coi fornelli. Arrivati a destinazione non mi diede il bacio della buonanotte, né mi fece un sorriso. «Grazie per la serata», disse soltanto. «Grazie a te», replicai garbatamente. «Posso chiamarti domani?»
30 Lei rise e mi disse l’unica cosa che un uomo non vorrebbe mai sentirsi dire. «Mi faccio viva io!» Mi scaricò e poi partì a razzo. E io come un coglione rimasi lì fermo, sul marciapiede, a fissare la strada. Fu peggio di quanto non immaginassi. Pensai che, con molta probabilità, non ci saremmo più rivisti. Inutile dire che, dopo pochi giorni, ce ne stavamo stravaccati sul letto, grondanti di sudore e ansimanti dopo due ore di sesso sfrenato nostop. La regola fra noi era semplice. Né chiamate né messaggi, a meno che non decidessimo di comune accordo di vederci e fare sesso. Da me o da lei, non aveva importanza. Presto iniziai a stancarmi di quel tipo di rapporto. A Blake non dissi nulla, come Tiz mi aveva pregato di fare. Però la cosa iniziava a darmi davvero sui nervi. Una sera la incontrai e glielo dissi chiaro e tondo. «Basta con gli scherzi.» «Pensavo fossimo d’accordo.» «Mi tratti come un giocattolo!» Mi rispose con un’alzata di spalle, come se non gliene importasse un accidenti. La sua freddezza mi spiazzò, al punto che il mio tono assunse una sfumatura più dolce. «Vorrei uscire con te. Come due persone normali…» Avrei preferito affogarmi piuttosto che giocarmi la carta del “ragazzozerbino”. Non mi si addiceva per niente. Non servì comunque a nulla, dato che mi liquidò con un secco: «Non m’interessa!» «Guarda che mica ti sto chiedendo di sposarmi!» «E se anche fosse? Siete tutti uguali! Belle parole per infinocchiarci, poi a stare male siamo noi. Bastardi egoisti!» «Mica siamo tutti uguali», ribattei senza convinzione. Non me la sentivo di dichiararmi innocente, tuttavia qualche rara eccezione esisteva ancora in circolazione. «Io voglio scopare, esattamente come lo vuoi tu. Se non ti sta più bene, allora finiamola qui.» «A posto, allora!» Stavolta fui io a piantarla in asso. Me ne tornai all’albergo, senza mai voltarmi. Da dove mi trovavo era lontano, ma non mi sognai di domandarle un passaggio. Ripresi la mia vita di sempre, solo che a divertirsi eravamo soltanto io e me stesso. Nessuna donna di mezzo.
31 Strinsi con la mia mano destra una fedele collaborazione. Ogni volta che ne sentivo il bisogno lei c’era e non mi domandava nulla, né mi faceva domande inutili o mi dava risposte stronze alle quali ribattere in maniera ancora più stronza. Andava bene così. Una sera, annoiato, decisi di andare in un locale del quale avevo sentito parlare spesso. Anche Alan e Blake c’erano stati e mi dissero che lì ogni tanto suonavano gruppi dal vivo. La cosa mi stuzzicava parecchio. Io stesso sapevo suonare. Al liceo avevo imparato a suonare la tastiera, e mi piaceva. La sera in cui andai suonava una band di giovani, miei coetanei, dal nome strambo. “The Bikers”, si chiamavano. Mi misi a ridere. Ancora non sapevo che li avrei adorati. Il loro repertorio comprendeva successi musicali anni Ottanta e Novanta, il mio genere preferito. Arrivai in ritardo, avevano già iniziato. Il pezzo era “Relax” dei Frankie Goes to Hollywood. La voce solista nonché il chitarrista riusciva a intonarla alla perfezione e gli altri lo seguivano a ruota, senza intoppi. La musica stessa era ok: né troppo alta, né fuori tempo. Era perfetto. Ascoltavo e intanto li osservavo uno a uno. Erano tutti così diversi fra loro. Il solista sembrava fuoriuscito da una di quelle commedie per adolescenti. Il classico bel ragazzo, giocatore di football, adorato dalle ragazze. Accanto a lui, invece, c’era “il platinato”, o meglio colui al quale mi divertii ad affibbiare quel nomignolo. Era il bassista. Una specie di punkettaro misto a metallaro, considerando il suo stile Total Dark. Dietro di loro il batterista, un biondone tutto muscoli e capelli lunghi. Mi aspettavo di vederlo tirare fuori una tavola da surf da un momento all’altro. Un misto fra “BayWatch” e “Un mercoledì da leoni”. Infine, c’era una ragazza. Piccolina, bionda, con un piercing al naso, una minigonna di pelle, una canotta nera traforata e sotto un top dello stesso colore e ai piedi un paio di anfibi sgangherati. Suonava la chitarra elettrica. La guardai a lungo, non tanto perché fosse l’unica ragazza sul palco, ma perché tutta quella pelle nuda mi faceva rabbrividire. Eravamo in autunno e a New York faceva un cazzo di freddo. Rimasi ad ascoltarli fino alla fine. Erano davvero bravi! Al termine dell’ultima canzone, ero quello fra il pubblico che applaudiva più forte. Ringraziarono i presenti e, senza troppe cerimonie, si misero a
32 sgomberare il palco. Di lì a poco se ne sarebbero andati. Fu in quel momento che colsi al volo l’occasione per andare a parlare con loro. Il platinato era il più vicino a me, in quel momento. Mi rivolsi a lui. «Complimenti! Siete stati grandi!» Mi guardò per tipo mezzo secondo e mi rifilò un “Grazie!” senza troppo entusiasmo, cosa che m’irritò parecchio. Chi si credeva di essere? David Bowie? Con il giocatore di football andò meglio. Aveva sentito i complimenti, si avvicinò mi strinse la mano e mi ringraziò di cuore. «Torna a sentirci, ok?» disse, strizzando l’occhio. «Ci puoi scommettere!» Mi fece un mezzo sorriso, poi tornò a fare le sue cose, senza degnarmi più di uno sguardo. Ero emozionato e deluso al tempo stesso. Speravo di poter fare quattro chiacchiere, magari dirgli che sapevo suonare la tastiera e che se avessero avuto bisogno io ero disponibile. Avevo voglia di fare anche qualcos’altro oltre al lavoro al bar. Volevo un hobby. Quello della band mi sembrava un buon incentivo. A parte questo, una nota positiva c’era: avevo preso casa, finalmente. Beh, chiamarla “casa” forse è troppo. Un monolocale. Non troppo distante dal bar di Alan, non troppo costoso, anche se mi toccava comunque fare tagli qua e là se volevo vivere degnamente, era abbastanza vicino alla metro e i vicini si facevano gli affari loro. Per un tipo come me, era il meglio che si potesse desiderare. Come ho già detto, il destino a volte gioca degli strani scherzi. È vero. Credeteci. Una mattina, era una domenica credo, ero seduto alla solita tavola calda. Sorseggiavo il mio caffè, guardando fuori dalla finestra. Il tintinnio del campanello legato alla porta suonò e attirò la mia attenzione. Considerando la mia solitudine, qualsiasi cosa accadesse attorno a me era un diversivo ben accetto. Non si trattava, però, della solita famiglia o uomini soli o coppie. Erano loro. I ragazzi della band. Certe cose capitano solo nei film. O nei libri. A me, invece, stava capitando in quel momento. Erano solo in tre, la ragazza non c’era. Il platinato e il surfista si sedettero vicini, mentre il giocatore di football mi dava le spalle. Chiacchieravano e ridevano, non so per cosa. Ero distante. Decisi che se non avessi colto la palla al balzo non avrei avuto una seconda
33 chance. E così mi buttai. Ingoiai tutto d’un fiato quel che restava del mio caffè e mi avvicinai. Non fecero caso alla mia presenza, finché non gli fui a un centimetro di distanza. «Ehi», attaccai, «come va?» Mi guardarono tutti e tre dall’alto al basso, confusi. «Ero al locale due sere fa.» Lo dissi così, giusto per rompere il ghiaccio. Inizialmente, vi fu un coro di “Oh!” seguiti da un “Ok!” e un “Spero che lo spettacolo ti sia piaciuto!”. Quando fu chiaro a tutti che non mi sarei schiodato da lì tanto facilmente, calò un silenzio imbarazzante e i tre si guardarono in faccia l’uno con l’altro, incapaci di trovare le parole giuste per liberarsi di me senza sembrare crudeli. «Ok, arriverò al dunque. Mi chiamo Ryan e volevo chiedervi se poteva interessarvi un tastierista. Ho notato che nella vostra band manca e quindi…» «Grazie, ma siamo a posto così.» La risposta arrivò dal platinato. La sua velata ostilità mi dava sui nervi, ma cercai di ignorarlo. «A dire la verità, non c’è più», saltò su il surfista. «Greg ci ha dato il benservito.» Il platinato strabuzzò gli occhi, come se avesse visto un fantasma. «Che cazzo dici? Quando?» «L’altra sera», intervenne il giocatore di football. «Non te l’abbiamo detto perché non volevamo farti incazzare.» «Oh, beh, grazie tante! Sono comunque incazzato!» «Lui e Claire hanno litigato di brutto. Per questo ha deciso di andarsene, fra le altre cose.» «Oh, Cristo!» «C’era da aspettarselo. La tua ragazza ha un caratteraccio!» Mi schiarii la voce, riportando la loro attenzione su di me. «Non vorrei sembrarvi insistente, ma credo che potrei esservi di aiuto. Che ne dite?» Il surfista soffocò una risata. Il giocatore di football mi sorrise, imbarazzato. «Non voglio fregare il posto a nessuno!» mi affrettai a chiarire. Meglio non dare una cattiva impressione. Il platinato alzò gli occhi su di me e mi scrutò a fondo. «Te la senti di venire con noi e farci vedere quello che sai fare?» Li guardai uno a uno, e sorrisi. «Finite i vostri caffè. Oggi offro io! Fate con comodo, io vi aspetto fuori.»
34 Circa mezz’ora più tardi, ci ritrovammo nel garage del giocatore. I suoi erano fuori, a fare un giro, mentre le sue tre sorelle erano a fare shopping al centro commerciale. Via libera. Potevamo fare tutto il casino che volevamo. «Questa è la nostra sala prove», spiegò imbarazzato, accedendo l’interruttore. «Non possiamo permetterci di noleggiarne una seria e così veniamo qua.» «È perfetta!» Cazzo se lo era. Per essere un garage, era stranamente ordinato e pulito. Le varie cianfrusaglie erano state accuratamente disposte su mensole o all’interno di alcuni scatoloni. Le scarpe erano riposte nelle loro scatole e divise a seconda dei proprietari: padre, madre, figli. Niente odori strani o rumori sospetti che potessero far pensare alla presenza di topi o altre creature dei bassifondi. «Questa è la tastiera che usava Greg.» M’indicò con un cenno della testa una nuovissima ElettronicStar professionale, costata sicuramente un occhio della testa. «Salve, dolcezza!» esclamai, accarezzandone i tasti dolcemente. Ho sempre pensato che uno strumento musicale vada trattato al pari di una donna. Con sensibilità e galanteria. Mi accomodai sullo sgabello, ne regolai l’altezza, feci scricchiolare le dita e poi mi concentrai. Era passato un po’ di tempo, ero fuori allenamento. Ma le note in testa le avevo tutte. Un po’ come quando impari ad andare in bicicletta: poi non te lo dimentichi più. «Avete qualche preferenza?» «Fai tu. Improvvisa.» «Agli ordini!» Il giocatore si piazzò di fronte a me, a braccia conserte. Gli altri due se ne stavano in disparte, ciascuno ai lati opposti della stanza. Mi sembrava di stare sotto esame. Ero nervoso, lo ammetto. Cercai di mantenere la calma. Non volevo fare figure di merda. Non ora che mi sentivo così sicuro di farcela. Quando le mie dita toccarono i tasti, ecco che ebbe inizio la magia. Sentivo il ritmo scorrermi nel sangue. Nella mia testa le note della canzone c’erano tutte, in fila, una dietro l’altra. Fu come avere lo spartito sotto ai miei occhi. Scelsi un vecchio successo del mitico Elvis Presley, “Jailhouse Rock”. Mentre suonavo, mi venne voglia anche d’intonare qualche strofa. E lo feci. La mia voce non era al pari delle
35 mie dita, ma riuscii a cavarmela. Finita l’esibizione, seguì qualche secondo di silenzio. Mi vennero i brividi. Temevo di averli delusi. All’improvviso, il giocatore attaccò ad applaudire come un forsennato e il surfista lo seguì a ruota. Perfino il platinato mi sorrise, lasciando perdere l’aria da duro. Ero al settimo cielo. «Amico, come hai detto che ti chiami?» «Ryan. Ryan Landry. E voi?» «Io sono Eric! E Loro sono Travis e Kevin.» Il giocatore di football, il surfista e il platinato. Ottimo. Ora sapevo come avrei potuto chiamarli in pubblico. «Claire, la ragazza di Kevin, è la nostra seconda chitarrista. La vedrai stasera al pub dove ci riuniamo.» «Fantastico!» «Benvenuto fra noi!» Era fatta. Ero del gruppo. Quello fu l’inizio della mia nuova, spettacolare vita.
36
CIAO, CIAO ANGIE!
Mi sentivo come rinato. Avevo degli amici, un lavoro e una casa. Avevo ritrovato una passione che ormai credevo perduta. Non so come, ma trovai pure il tempo per la palestra e, un paio di volte alla settimana, per seguire dei corsi di danza moderna. Le serate coi ragazzi, però, rimanevano la parte migliore della settimana. Legai con tutti loro, anche con Claire. Era pazza ma simpatica. Il suo spiccato senso dell’humour me la fece piacere sin da subito. Con Kevin, dal principio, fu un po’ più dura. Era un tipo solitario, riservato. Una sera, però, riuscii a scalfire quel muro che s’era costruito attorno a sé. Tutti e quattro, noi maschi, eravamo andati a una festa. Il tipo che l’aveva organizzata non lo conoscevamo. Eravamo i classici imbucati, al pari di tanti altri. La gente era un po’ sotto la media, per quanto riguarda età e capacità intellettive e molte delle ragazze erano minorenni, ma la musica non era male. Ballavo e bevevo, cercando di non pensare ai rischi che stavamo correndo in quel momento. Se la polizia fosse intervenuta non so quale disastro ne sarebbe venuto fuori. Neo-ventenni che se la spassano a una festa di liceali. Avrebbero di sicuro pensato che li avevamo portati noi gli alcolici! Come in una di quelle stupide commedie che fanno vedere al cinema. A un certo punto, iniziai ad avere caldo e sentii il bisogno di una boccata d’aria. Se non altro per rilassarmi un po’ e godermi il fresco della serata. Passando per il salotto notai che Eric aveva attaccato bottone con una bella ragazza mentre Travis se la faceva in un angolo con una rossa all’apparenza piuttosto vogliosa. Schizzai via, deciso a non interromperli. Fu a quel punto che lo vidi. Kevin se ne stava seduto sui gradini del porticato, completamente assorto nella lettura di un libro. Mi schiarii la voce, ma non servì a nulla. Ci riprovai. Parlando, stavolta. «È interessante?» «Abbastanza.»
37 Rispose con tono piatto, senza neanche alzare gli occhi dalla pagina. Mi domandai che cosa gli avessi fatto di male per meritarmi tutto questo. «Sai, non me l’aspettavo.» Per un secondo, finalmente, riuscii a catturare la sua attenzione. «Che cosa?» domandò, sinceramente confuso. «Che uno come te amasse leggere. Non sembri il tipo.» Glielo dissi così, di getto, senza preoccuparmi di ferirlo o importunarlo. Volevo solo dare una scossa alla nostra reciproca conoscenza. Sorrise, stando al gioco. «Mi piace dare certe illusioni.» Mi venne da ridere. La trovai una battuta divertente. «Posso sedermi?» Si strinse nelle spalle. «Questo è un paese libero, perciò fai come ti pare.» Presi posto accanto a lui. Sorseggiai un po’ della mia Corona e gli chiesi se ne gradisse un po’. Scosse la testa. Meglio così! Pensai. Ne avrei avuta di più per me. «Che leggi?» Alzò il libro, mostrandomi la copertina. «“Arancia Meccanica”, eh?» Sorrisi. «Io ho visto il film.» «Pure io.» «Ricordi la scena di quella pazza scatenata? Quella con quegli orribili capelli rossi e la casa piena di gatti?» Ridacchiò. «Certo!» «Cristo! Lì è stato davvero geniale. Ammazzare una tizia con un cazzo gigante! Sai se anche nella realtà succedessero certe cose?» Chiuse il libro, scuotendo leggermente la testa e fingendosi perplesso. «Sarebbe un gran bel casino.» «Te lo immagini? “La rivolta dei peni giganti”!» «Ottimo come titolo di un film.» «Horror o porno?» Finse di pensarci su un attimo, poi rispose: «Direi un porno horror!» Ci guardammo per circa un secondo, poi scoppiammo a ridere come cretini. Qualcuno che passava lì accanto, per andare a vomitare dietro i cespugli o per pomiciare nel retro della casa, ci guardò come se fossimo impazziti. «E tu? Leggi di solito?» «Di recente ho letto un libro che s’intitola “I sogni muoiono prima”.» «Bello?»
38 «Mah. Parla di un tizio che di punto in bianco finisce a fare il direttore di una rivista pornografica “innovativa”, per così dire, delle sue peripezie e del fatto che lo zio gangster cercasse di fregarlo di brutto.» «E che aveva di innovativo?» Lo guardai e piegai le labbra in un sorriso. «La verità? Ancora non ho capito quale fosse!» E di nuovo giù a ridere. Strano. Parlando di quel libro mi ritrovai quasi causalmente a pensare alla mia vita passata. Rabbrividii. Kevin se ne accorse e mi chiese se stavo bene. Gli risposi di sì. «Dov’è la tua ragazza?» «Al cinema. Con Angela, la sorella di Eric.» Una delle tre, a essere precisi. «Non le scoccia sapere che tu sei qui a una festa?» «No. Perché dovrebbe? Non mi sembra di fare niente di sconveniente, no? Voglio dire, me ne sto qui seduto con te con un libro in mano. Non me ne sto chiuso nel cesso con la testa infilata fra le cosce di una perfetta sconosciuta.» In effetti. Pessima gaffe. «Ti lascio solo. Scusa se ti ho disturbato.» E scusami anche per essere stato un perfetto idiota. Ciò che disse per convincermi a restare, però, mi spiazzò. «Scusa se ti sembro così freddo», attaccò a dire, sinceramente dispiaciuto. «In genere, gli altri con me non parlano molto. Sai, sono considerato un tipo piuttosto strano. Come puoi ben vedere, alle feste mi apparto in un angolo a leggere anziché ubriacarmi come fanno tutti. Mi vesto sempre di nero e porto le New Rock come se fossi un fan sfegatato degli Iron Maiden, ma la verità è che il Metal mi irrita terribilmente. Cambio colore di capelli in continuazione ed evito la maggior parte dei miei coetanei perché li considero idioti e immaturi.» Rise, passandosi una mano fra i capelli ingellati. «Sì, insomma, faccio proprio la parte dell’asociale, eh?» «Non è un problema. Voglio dire, fregatene no?» «È quello che faccio. Però non voglio sembrare uno stronzo.» «Non c’è nulla di male a voler essere diversi.» Mi guardò con gratitudine e mi sorrise. Gli restituii il sorriso. «Non lo faccio apposta. Solo, mi piace starmene per conto mio.»
39 «E coi ragazzi?» Accennai col capo alla casa. «Mi sembra che con Eric e Travis tu vada molto d’accordo.» «Con loro è diverso. Ci conosciamo da una vita.» Appoggiò il libro accanto a sé e si strofinò le mani sui jeans, come se sentisse freddo. «Per il resto, a parte le uscite con Claire, ho diversi hobby. Adoro leggere. Guardo parecchi film. Seguo corsi di danza. E, a proposito, ti ho visto al corso di lunedì. Non te la cavi male, anche se a mio avviso dovresti guardare meno culi e muovere un po’ meglio il tuo.» «E tu dovresti farti gli affaracci tuoi!» Scoppiammo a ridere. Stava andando alla grande. Perlomeno stavamo sostenendo una conversazione. «Altre passioni? A parte i tatuaggi e i piercing.» Ridacchiai. Io non avrei mai avuto il coraggio di farmeli. Ma a lui donavano. «Direi, girovagare senza meta con il Range Rover di mio padre.» «Ha un Range Rover?» Alla sola parola mi s’illuminarono gli occhi. Da sempre avevo una passione per i fuoristrada. E per i motori, in generale. Kevin rise. «È quello che ho detto.» «E sei venuto con quello stasera?» Kevin alzò il sopracciglio e inclinò leggermente la testa, come dire “Secondo te?”. Attaccai a scrutare il vialetto, manco fossi un metal detector vivente. La cosa fece divertire Kevin, al punto che mi chiese se volessi vederlo. Accettai. Fu amore a prima vista. Cromato, rosso fiammeggiante, grossa cilindrata, motore ruggente. Se fosse stata una donna, l’avrei sposata senza pensarci su due volte! «Possiamo farci un giro?» «Hai bevuto?» «Non abbastanza da rigettare tutto quanto. In ogni caso, preferirei darmi fuoco piuttosto che mancare di rispetto a questa bellezza!» «Ottimo! Sali.» Girammo per almeno due ore quella sera. Parlammo tantissimo, scoprendo un sacco di affinità. Ascoltammo tutti i generi di musica preferiti da Kevin che, guarda caso, erano anche i miei. Pink Floyd, Verve, Queen, Michael Jackson. Mi domandai come avessimo fatto a ignorarci fino ad allora.
40 Quello fu l’inizio di una splendida amicizia. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD