In uscita il 30/4/2015 (13,70 euro) Versione ebook in uscita tra fine aprile e inizio maggio 2015 (2,99 euro)
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Enrico Maria Guidi
IO, ICARO E IL TELECOMANDO
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IO, ICARO E IL TELECOMANDO Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-880-0 Copertina: immagine Shutterstock
Prima edizione Aprile 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
PARTE I
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PRIMA.
C’è tanta gente che fa Mao Mao. Perché faccia Mao Mao… questo proprio non saprei dirlo. C’è capitata per caso… forse. Non so come sia successo. Non so perché. Mi ci sono trovato. Improvvisamente. È come scendere per strada e accorgersi che si è fatta una scelta, il più delle volte una fottuta scelta che però, ormai, si è fatta. E tutto si trasforma, diventa altro e comincia a girarti attorno come una trottola e a essere tanto vero come un film virtuale, come un essere perfetto con la pelle sintetica e gli occhi bionici che fanno frii frii quando girano. Mi pare di esserci cascato per caso, per un errore di calcolo magari o, forse, perché ho spinto il tasto sbagliato del telecomando. Lì, voglio dire, cosa ci facevo? In quello spillo di mondo, dove il privilegio è sempre quello di non esserci. Io Icaro lo avrei evitato volentieri, ma m’è capitato tra le palle, come il dito medio di una donna che ti sottolinea la divisione tra le due. Non l’ho cercato e non l’avrei neppure fre-
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quentato se la notte non fosse caduta all’improvviso, metallica e impasticcata, nel mezzo della notte stessa. Avrei dovuto spegnere tutto con il telecomando, una leggera pressione e… più nulla. M’ero fermato nell’agorà, fermato proprio, ansimante e desideroso di riposo dopo l’ennesima salita, seduto sullo scalino di un portico a fissare il vuoto di gente e di prospettiva che avevo davanti. Non volevo nessuno e nulla, solamente stare lì, come un manichino metafisico, ad aspettare un’ora giusta, una delle tante, per stordirmi tra le lenzuola, affossato nel cuscino duro e teso, sotto il piumino d’oca originale e il lampeggio paranoico della radio sveglia, puntata su di un canale qualsiasi, di quelli che trasmettono ventiquattro ore su ventiquattro musica del cazzo, per lo più nella lingua barbara d’oltremanica. «Già visto gli altri?» mi disse, e io mi accorsi che lo conoscevo appena. È vero, sembra impossibile non conoscere qualcuno, almeno di vista, qui, in questa città morta, piccola, dove tutti conoscono tutti, dove il privato è collettivo. Ma è altrettanto reale che, anche se avevamo fatto le scuole assieme, più o meno tutte, e ora ci trovavamo ogni fottuto mattino nella stessa aula universitaria, fianco a fianco, nelle stesse biblioteche, alle stesse mostre, rendermi conto che lo conoscevo appena era una realtà effettiva. «Gli altri chi?» risposi, ma era già sparito come un ologramma infernale. Non ci feci molto caso, non me ne fregava nulla, era uno come tanti, forse più stordito degli altri e certamente più di me, che non ero ancora stordito per nulla, solamente affaticato dalla salita.
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Lo immaginavo però, percepivo dove sarebbe andato o finito anche quella sera. Lo vedevo uscire, in perfetta dimensione estetica, con la giacca blu e affannato, sudato, dall’ultimo vernissage. Appoggiarsi a un muro con la mano destra e piegarsi in avanti, non troppo lontano dall’entrata della mostra, e vomitare tutti i tramezzini mangiati. Poi, come se nulla fosse, come se il suo stomaco fosse un sostituto sintetico, rientrare aggiustandosi il colletto della camicia, o il nodo della cravatta firmata, e infilarsi in bocca una mentina. Rimasi ancora un poco seduto sugli scalini indeciso su cosa fare. Qualcuno sarebbe certamente arrivato e non era una preoccupazione imminente, non sapevo bene cosa me ne sarei fatto della presenza di qualcun altro. La sera passò tra inutili discorsi e risate, tra bibite e birre, come sempre, come ogni sera. Il ripetersi è un vizio sottile. Ci si carica fino all’infinito a forza di ripetere se stessi. È come sforacchiare con un cacciavite la stessa superficie per anni, aspettando che sia totalmente sfonda e senza la possibilità di venderla a qualche miliardo di lire, a meno di falsificare una firma. La ripetitività non ha nessun altro nemico che la noia, se si cade nella noia allora anche il ripetersi diventa un gioco da rottinculo, sei fottuto per sempre. Nella noia non si ha più nulla da fare, ma nella ripetitività si diventa anche creativi, anzi necessariamente creativi, perché tanto tutto è assolutamente, merdosamente ripetitivo. E allora può succedere che si sogni, che si immaginino cose anche bellissime, come assistere al banchetto degli avvoltoi che
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si avventano su di un povero fesso legato nudo sotto il sole nel deserto del Nevada. C’è il deserto in Nevada? Boh! Gli avvoltoi che si pappano le mucose, le labbra prima… poi gli occhi… i coglioni e la fisichella pendula. Poi aprono a beccate la pancia e ficcano dentro il collo… fatto apposta il loro collo per entrare nel ventre, un collo quasi pneumatico, e tirano fuori le budella. Si pappano tutto. Uno splendido cocktail di film italian-western infantili e documentari naturalistici che sembrano finti come i western. E la ripetitività a volte si interrompe, o meglio, sembra interrompersi, se arriva qualcosa di nuovo… Un’altra fottuta ripetitività. E infatti proprio in quei tempi avevo conosciuto una ragazza, diciamo la tipa, che era da fuori di testa. Mi piaceva per i suoi modi, oltre che per come era fatta. Mi assorbiva completamente ed è raro trovare una donna così, una che non ti annoia con la sua voglia di sesso, con il volere sempre affermare la propria femminilità. Era come, dopo tanti anni di bocchini veloci, di scopate del devo farlo per dimostrare cosa poi non si sa, di rapporti stancanti e meccanici, quasi informatici, ritrovare qualcuno con cui parlare e fare un probabile sesso senza tanti problemi o interrogativi. Una pacchia. Stavamo davanti alla città. La vedevo in tutta la sua grandeur, la città. Si delineava lungo il colle come una donna stesa, anche se con quelle due torri sembrava più un uomo che non sapeva bene più un cazzo di un cazzo, con una pompa a pile e-
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terne al posto del cardio e che non voleva più saperne di nulla, se non di scaricare il seme almeno una volta alla settimana. Ma il paesaggio superava ogni limite, era un essere a sé, qualcosa che assorbiva e che rimandava ad altre occasioni, ad altre eventualità. Uno scenario hollywoodiano costato un occhio della testa. «Piano che si consuma» le dissi mentre armeggiava, tirando come un’ossessa, a una canna mal confezionata che voleva a tutti costi passarmi… ma una volta fumato l’avrei mandata in culo, lei e tutte le sue bellezze. «La vuoi far fumare al vento?» disse con due occhi pallati e lucidi. Fumare o no, aspettavo che dicesse qualcosa di concreto, del tipo “ti va da me?”, ma non succedeva nulla e io mi sentivo sempre più stanco e già pensavo alla levataccia del giorno dopo e ai libri che mi aspettavano con un sorriso sadico e attraente sulla scrivania chiara - cavalletti con piano sopra, pieno stile minimale tipo Miami Vice o bancone del falegname, costata una fortuna per via della firma dell’architetto - ricordandomi i giorni che mancavano agli esami. Così all’una le dissi che dovevo andare «Scusa è tardi, devo andare…» le dissi, iscrivendo le mie potenzialità espressive al registro delle frasi fatte, dei topi linguistici. Lei ci rimase niente male, anzi si accorse che era tardi e che pure lei doveva rientrare, che le amiche probabilmente erano già a dormire - con chi poi chissà? - e che poi, soprattutto, il mattino dopo avrebbe dovuto studiare duro pure lei.
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Un mese dopo la situazione non era cambiata per nulla. Ci si vedeva e scopare niente, si parlava in mezzo a tanta gente che parlava, beveva, sniffava e si fumava, si bucava no! quelli erano banditi perché schifosi. E poi c’erano quelli che ti tiravano dentro Hegel o la statuetta di marmo trovata vicino a Roma. A volte però ci si divertiva a fare certi discorsi pataccosi. Soprattutto con i moralisti, quelli che ti sparano davanti l’etica e la deontologia, che sembra una strana malattia, mentre sorseggiano il terzo cuba libre dopo la canna fantastica di maria calabrese e che si affannano subito dopo per avere i semetti da piantare nel vaso che sta sul terrazzo e che la mamma, contenta per la vocazione botanica del pargolo, annaffia ogni tre giorni domandandosi poi per mesi perché il suo bimbo le aveva sradicate tutte proprio quando erano belle alte e piene di foglie, per appenderle a testa in giù nella stanza più buia della casa. Era divertente, dicevo, dire loro che l’etica è una stronzata, è un’invenzione bassa e raccapricciante della mente umana, come il latino o il greco, che insomma sono tutte merdate perché tanto chi c’è c’è e chi non c’è non c’è. Non era un problema di serietà, c’era in gioco la carriera, e tutti sapevamo che chi vuole andare avanti deve avere le palle quadrate, certo, ma anche lo stomaco di ferro e il culo aperto come il tubo di un oleodotto, una lingua prensile come quella dei gatti che solletica, pronto a leccare l’anello anale del più prossimo superiore sino ad arrivare alle prime merde degli intestini. Loro non ci credevano, no! E loro finirono come marionette impiccate senza sentire dolore, convinti dei propri pensieri e dei loro presupposti, fieri santi ed eroi dalle mani
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consumate e le lingue gonfie, con occhi di spugna e un telecomando sessuale che gli fa rizzare la protesi appesa tra le gambe ogni volta che si deve fare piacere o si presuppone sia il momento del piacere… E te girava ‘n’ altra canna. Con la tipa comunque tutto in culo. Buoni amici… se vuoi. Ma rimanere soli mai, in quell’età del cazzo, se non altro per una questione d’immagine. Così mi ritrovai davanti alla cattedrale con una che non ricordo come si chiamasse. Nome di battaglia Fernanda, non nel senso dei terroristi, quelli un’idea cazzuta ce l’avevano, nel senso che si diceva comunemente in giro “ho infilato la Fernanda”. Parlava non so quale lingua, una specie di slang sgrammaticato pieno di “cioè” e di “non so che”, tipico di certa cultura “avanguardistica” della penisola, e io cominciavo a sorvolare le parole e guardavo. Guardare è la grande conquista di questo secolo, perfino un libro più che leggerlo lo si guarda, e io osservavo quella piazza che avevo nelle retine da decenni, e pensavo. Mi sorprendeva il fatto che lì, nella piazza, ci giocavo a pallone uscito dall’oratorio e che d’improvviso, la domenica, lo zio arrivava con il mercedes - famiglia borghese la mia, di origine contadina, ma, da quando me la ricordo, borghese, medioaltoborghese - mi faceva un cenno, lo zio, segno che si andava a vedere la partita a Cesena o Bologna. E solo ora mi rendo conto che i ricordi sono micidiali. Non c’è senso nel perdere la memoria, diciamo pure la memoria storica, ma ce ne può essere uno nel perdere i propri ricordi, dimenticarsi ciò che si è stato per rein-
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ventarsi, come se tutto fosse stato un sogno, un sogno appunto del quale, dopo pochi minuti, hai perso le tracce. A pensare troppo si finisce con il farneticare, e il farneticare è un privilegio di pochi e forse lo era di Icaro, ma non mio. Io mi trovavo a viaggiare nelle notti fino al mattino attendendo lo scoccare di un’ora qualsiasi, che le lancette dell’orologio della piazza centrale facessero il loro ultimo passo e mi dicessero che era ora di rincasare. Bel casino prendere sonno poi, affascinato dalle virgole dell’alcol o di sostanze magnifiche, intrappolato nella magnificenza di abiti, gioielli e atteggiamenti, folgorato da musiche e quadri impensabili. Ma quella era la notte ed era il meglio che si potesse avere. Il giorno era questione, affare dei proletari, dei professionisti, di chi lavorava per sbarcare il lunario. Noi si lavorava per nulla, ossia solo per il nostro fottuto io, un divertentissimo cazzuto lavoro, chini su quintali di pagine, tonnellate di parole e qualche grammo di idee. Ma si lavorava, si studiava ed era piacevole, non era un lavoro faticoso, cioè era faticoso, ma non si sudava, tranne d’estate, e comunque non era neppure pagato, magari! Era divertente, non era un lavoro, era tempo speso per aspettare la notte. Il rigurgito del giorno, la demenza possibile e voluta fino in fondo come scelta, come necessità… il s’ei piace ei lice, con le dovute scuse a Torquato. E Icaro era sempre lì, con la sua presunta vita perfetta, come se nulla avesse potuto intaccarlo, nonostante le nottate peruviane, il suo successo mondano e quei sei chili di fica appresso. Non era l’invidia che me lo rendeva ostile, dio me ne scampi, era la
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sensazione dell’errore, che qualcosa stava andando storto, che non aveva un senso o che lo avrebbe perduto perché effimero. Insomma era invidia fino all’osso. Come quando andammo alla mostra del momento. Nella sala si susseguivano i quadri della transavanguardia, un raccapricciante miscuglio di stili… un critico con la testa rasata come un quindicenne e dai modi affabili e la presunzione di un cardinale mediceo. Che gli artisti fossero, in quel momento, i padroni del mondo, di quel mondo chiuso tra le mura dell’esposizione, era certo e non erano neppure antipatici, facevano il loro mestiere, ma credersi i creatori dell’intelligenza umana era davvero troppo. E Icaro era d’accordo con loro. Pontificava sui significati dell’esistenza, cremava le idee come fossero cadaveri vecchi, trasformava la vita in una sorta di rappresentazione artistica più simile agli specchi che alla merdona, mediocre, maledetta realtà quotidiana. Gli prestai cinquanta carte, quella sera, perché doveva uscire con una nuova bionda favolosa, figlia di chi o amante di quale artista non ricordo, so solo che doveva portarla a cena e non poteva sbatterla in un tavolo di questo paesello… ci voleva la Riviera, qualcosa di più idoneo. «E con cinquanta carte cazzo ci fai?» gli chiesi. «N’ho rimediate altre cento in giro. I miei erano a corto ‘sta sera… già spompati.» Stronzo! I suoi, due professionisti da 400 milioni di lire l’anno, spompati? Più che altro non li aveva educati ai suoi vizi… lo stronzo! Friggevo d’invidia e invidiavo la sua presunzione. Da parte mia a conti fatti, la tipa e la Fernanda, due
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storie del cazzo. Cambiato nulla. Tanti ci ci co co e nient’altro. Roba da spararsi due seghe al giorno. Alla prossima pensai, magari un’amica di Icaro, di quelle che ti fanno perdere la testa solo a guardarle. *** La presunzione è sempre in agguato però. Anche quando ci si trova in un campo di battaglia, nel mezzo di una guerra, con le pallottole che fischiano alle orecchie. Non era una guerra nel vero senso della parola quella che vivevamo, non era la resistenza o guerra civile che dir si voglia, non era la seconda o la prima e neppure Baghdad, con l’inviato speciale, era semplicemente una sporca maledetta guerra di affermazione, di continuo ritrovare se stessi, di certezze che sfilavano come una teoria di bruchi sull’asfalto, sicuri e allineati, in pericolo per il gioco di un bambino o dell’agricoltore che le stermina, giustamente, perché si vanno ad attaccare all’albero che tanto ha fatto per tirarlo su così ritto e orgoglioso, come mai lui l’ha avuto. Ma la presunzione aveva le proprie carte in regola. Si poteva osare tutto e tutto era osabile e Icaro questo lo sapeva bene, lo aveva capito prima di tutti noi che siamo finiti in banca, che ci mordiamo le palle per le occasioni perse e ci consoliamo sputando i peli dopo aver mangiato le palle, che ci palpiamo il fegato, il cuore, le arterie, come fossimo sempre sull’orlo di una crisi, su una linea gotica immaginaria, anche dopo il referto medico di piena ed efficiente salute.
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(La storia della presunzione però, mi è rimasta sullo stomaco. Ci hanno infilato per anni dicendo che non si deve essere presuntuosi e poi ti accorgi che senza presunzione non riesci a fare nulla. Ci vuole la presunzione del santo dei calzolai che rubava il cuoio per fare i sandali ai poveri. In galera dovevano metterlo e con lui Robin Hood. Ma tutti e due hanno fatto una carriera non male. E Icaro era un tipo del genere. Lui sapeva di non valere più di tanto, di non avere una cultura così profonda e vasta come ciò che voleva fare richiedeva. Non gliene fregava un cazzo, la presunzione l’avrebbe aiutato. E così fu. Ha fatto strada; una tessera giusta che dovrebbe essere bruciata, tutto si ricicla al giorno d’oggi, ma che ancora funziona, il pugno sempre alzato, con moderazione si intende, e un sorriso a trentadue denti. Poi la retorica, la vecchia cara santa retorica ha fatto il resto.) Dopo i tentativi inutili con la Fernanda che si era scopata mezza città e io naturalmente appartenevo all’altra metà, mi stavo facendo in quattro per una ragazza. Mi piaceva da impazzire con quei fianchi rotondi che sembravano un invito a ogni fantasia quando camminava. Mi piacevano i suoi vestiti neri, i suoi capelli corvini e i suoi occhi verdi, le sue mani capaci di scorrere sulla tastiera di un computer come quelle di una pianista. Conosciuta, eravamo diventati amici presto e speravo di potere concludere, di mettermici assieme, in poco tempo. Giravamo come pazzi in macchina. Grossa cilindrata straniera e vetri elettrici, aria condizionata. Una bottiglia di Four Roses nascosta nel cruscotto. Ma giravamo e basta, par-
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lavamo, inventavamo storie. Timidi come due criceti tutti e due… un contatto della pelle e i brividi salivano fino al cervello. Poi la chiamata improvvisa. Il telefono squilla ed era lei. Corsa per le strade strette e angolose della cittadina, un’emergenza sembrava. Si sentiva sola. A rischio di incidente e di multa perché si sentiva sola. Una frittata, un po’ di vino rosso e Martini dry. Poi sul tappeto nudi a strisciarsi i sessi uno sull’altra, a baciarseli e infilarseli, fino alla fine, e quando lo tiri indietro per non creare casini e scarichi tutto dove ti capita: «Hai sparso tutti i bambini sul tappeto» dice ridendo, mentre ansima. Non fu un rapporto durevole, anzi si esaurì lì, in quella sera. Ci vedemmo poi, certo e scopammo un altro paio di volte a distanza di anni; ma sempre per caso. E dire che mi piaceva veramente, piaceva non nel senso solito del termine, non per scoparci o per passare un po’ di tempo, ma perché ci stavo bene, era come me, un po’ più accorta e saggia di me, ma fondamentalmente come me. Non sopportava l’esistenza. Diceva, tra un party e una serata a teatro, che la trovava un gran casino e un vero problema. Lei però era tutto il contrario della presunzione. E per questo era magnifica. Non voleva altro che starsene bene, vivere come voleva, non avere rotture di coglioni. Non voleva nulla insomma o, forse, voleva tutto. A parte lei, la parentesi di lei, bella e invidiabile, era tutto un correre verso qualcosa che non esisteva, e non per illusione, ma solamente perché doveva essere così, così si era deciso. Attenti come mai a vestirsi in determinati modi, ad avere la
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barba rigorosamente di due giorni e qualcosa sempre fuori posto, non avevamo tempo per rielaborare tutto ciò che immagazzinavamo nelle nostre menti. Era un gioco, uno splendido e divertente gioco per tutti, a parte quelli che ci hanno lasciato la pelle, ma dopotutto che fare? C’è sempre un game over. E allora? Un’altra monetina e… Il video game riprendeva. Intanto Icaro cresceva sempre di più. Eravamo convinti tutti che sarebbe diventato un dirigente di partito, non certamente di quei partiti che regnavano allora, troppo scoperti ormai e nel Novantadue gli avrebbero fatto la pelle, no! Un dirigente dei nuovi partiti, riciclaggio dei vecchi con nuove terminologie sempre più del cazzo, nuovi look e le stesse facce con sorrisi più aperti o più preoccupati a seconda dei momenti, nuovi partiti sempre più schifosi, merdosi, puttanieri, spettacolari, diarroici, logorroici, rifatti con la preoccupazione del simbolo, del nome, del potere, con leader grassi o magri che parlano come vescovi, con i baffetti alla Stalin e l’occhio di chi “io ho sempre ragione”, con visi rifatti per sembrare più giovani. Un nuovo che sentivamo, che eravamo certi sarebbe arrivato, ma che speravamo non arrivasse mai. Troppo divertente era il presente. Icaro però, al pari della prima volta che gli rivolsi la parola sulla piazza, compariva di tanto in tanto e poi spariva. La sua presenza era come quella della fenice, sempre pronta a bruciare per poi rinascere. Andava avanti, progrediva, sarebbe arrivato, pensavamo, dove noi mai avremmo potuto desiderare,
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sembrava qualcosa di bionico… mi aspettavo di trovarmi un suo braccio tra le mani da un momento all’altro, magari mentre lo salutavo con affetto. La tentazione di spingere il tasto del muto sul telecomando era grossa. Lasciarlo senza parole, solo immagine televisiva senza un senso, abbandonato ai suoi movimenti così inutili e primitivi, senza il supporto della parola. Uno schifo. Fu in quel periodo che ci trovammo tutti, o quasi, a una rappresentazione teatrale, di quelle di uno dei vari centri sperimentali dell’università. Tutti accalcati in un teatro moderno su di una scalinata di cemento grigio che dava su di un palcoscenico anche lui di cemento. Tutti felici o simili al felice in quella bolgia di puzzo di sudore, di fumo, di canne, di alcol, di merda, di composito umano già in decomposizione. Tipo concerto rock, quando stai a ballare sul vomito di uno e non te ne accorgi e poi a casa non capisci perché puzzi tanto. Ma non è un problema poi grande, puzziamo di natura, ci riconosciamo dalla puzza… grande cosa gli odori. Rappresentavano qualcosa di Brecht, nel primo tempo, e dei testi nostri nel secondo. Cagate pazzesche rilette oggi. La cosa eccezionale era che quello conclusivo, quello che sarebbe rimasto impresso, pensavo, era il mio, mentre quello di Icaro era il primo. In mezzo una merdata di uno del primo anno messo lì con l’intercessione del prof… Andò tutto bene e, come da copione, applaudirono il mio pezzo. “Credo” sia andato tutto bene, perché gli attori si muovevano senza nessun senso teatrale, non sapevano minimamente cosa fosse la scena, erano legnosi e di una legnosità non intenzionale, ma d’inesperienza. Recita
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parrocchiale, tipo. Chi se ne frega, pensai, è andata. Il pubblico che conosceva gli autori, perché eravamo tutti dello stesso gigantesco gruppo, si voltò verso di noi per applaudirci. Icaro si alzò in piedi e nella posizione in cui era prese tutti gli applausi, tutti quegli applausi che erano destinati a me, pensai. Cercai di farmi vedere, ma inutilmente. Alla fine il merito fu tutto suo. Non ci rimase che tuffarci nel dopo spettacolo, in una stanza assieme agli attori, al regista che sembrava un aliscafo e a qualche sedicente critico che aveva la nostra età e non un cazzo di straccio di idea. Mi fermai un poco e poi me ne sparii, lasciando lì Icaro e l’allegra combriccola a sporcarsi il naso con la peruviana e a intasarsi i polmoni con la calabrese. La si racconta così come una pagina di diario, ma fu un evento importante. Primo perché smisi di frequentare il teatro d’avanguardia, almeno quel tipo di teatro d’avanguardia, secondo perché fu l’ultima volta che vidi Icaro. Icaro sparì. Dileguato, dal giorno alla notte, anzi dalla notte al giorno. Sparito con i suoi vestiti, con i suoi libri e articoli, con il suo cellulare e i suoi debiti. Era l’84 o giù di lì. Non mi sarei mai aspettato, anzi, non ci saremmo mai aspettati, di ritrovarlo dodici anni dopo tra i portaborse cagacazzo, ma di quelli importanti, del partito di maggioranza. Sì, perché la conclusione di tutto ciò sarà questa: Icaro ha intrapreso una brillante carriera politica e in questo non ci sarebbe nulla di strano, era previsto, un paraculo come lui non poteva che fare una brillante carriera politica, ma che fosse riciclato, lui mez-
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zo cocainomane, vendiculo a esigenza e a richiesta, in un partito che si proponeva per il rinnovamento e che faceva della questione morale il proprio cavallo di battaglia elettorale, non lo si sarebbe mai previsto. E invece è logico. A dire il vero sapevamo cosa stesse facendo dopo la sua scomparsa, ma nessuno ci voleva credere. Le indagini, infatti, partirono subito e le indagini in un paese becero come questo - il pettegolezzo è la prima attività della popolazione e viaggia più veloce che in internet, si possono rovinare carriere e matrimoni con le lingue esplora intestini degli abitanti, sono così sottili che possono arrivare fino all’ultima piega del colon per pulirla della merda falsa e risputarla fuori nei bar del centro o anche nella piazza, la fogna cittadina, dove le signore stanno dietro le persiane a spiare la gente, a guardare la biancheria esposta al sole per capire cosa stia succedendo in quella famiglia o nell’altra, e dove il primo mezzo di informazione è radio massaia - le notizie, dicevo, sono sempre quasi certe e comunque velocissime. Per sicurezza comunque, telefonammo ai genitori, o meglio facemmo telefonare a una ragazza, curiosa anche lei più che preoccupata come tutti noi, che si presentò come la sua ultima scopabile. I genitori ci dissero la verità, che noi non credemmo, e cioè che aveva vinto una borsa. Come poi? È rimasto un mistero. E poi perché aveva tenuto tutto segreto? Che si trovava in America che sta per Stati Uniti. Pensammo tutti che c’era qualcosa di losco, ma non ci preoccupammo più di tanto. A livello di gruppo. Diverso il
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caso personale. Divenne una vera e propria paranoia, dove fosse andato Icaro. I genitori mi diedero anche l’indirizzo americano e gli scrissi, gli telefonai e lui mi rispose sia per telefono che per posta, ma io continuavo a non crederci. Mi invitò persino negli Stati Uniti a passare un mese d’estate “almeno impari un po’ d’inglese” disse conoscendo i miei inutili tentativi di apprendere la lingua barbara. Forse si devono delle spiegazioni, come sempre. Non è che non credessi al fatto che Icaro fosse là, quella era un’evidenza del cazzo, solo che mi sembrava così stupido, così senza senso che lui fosse là mentre io sarei rimasto invece qui a sfogliare libri… a perdere le notti per cercare una donna… a vedere la gente che si affannava… i muri ossidarsi e i genitori invecchiare. Così cercai di dimenticarlo o meglio, evadevo sempre quando un discorso su di lui veniva fuori, quando qualcuno riceveva le sue lettere o le sue telefonate e quando telefonava a me facevo l’orecchio sordo, rispondevo a monosillabi, così che dopo un po’ smise di telefonare e scrisse sempre di più rado, solo se strettamente necessario. Insomma compiva tutte quelle azioni del cazzo che finivano per infilarmelo sempre di più in testa. Ma cosa facesse in America, visto che vi rimase un bel po’ di tempo, non ce lo disse e neppure ci informò di quello che faceva dopo il suo ritorno, quando si stabilì nella capitale. Gran figlio di puttana. ***
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Poco dopo cominciai a bere l’Averna. Poco dopo avere incontrato una ragazza, la Michela, iscritta al primo anno di Lettere e che per un mese mi parlò di delectare e prodesse… peggio della zona, controzona e catenaccio all’italiana. Due palle che non finivano più con l’estetica del Rinascimento. Nonostante tutto, si usciva convinti che il sole non sarebbe mai tramontato in quel giugno, con la pelle pronta a recepire tutti i suoi possibili gradi di calore, tutta la sua splendente luminosità. I tavolini fioriti dei bar sembravano chiamarci, chiederci qualcosa, anche se erano sempre quelle quattro o cinquemila lire che rimanevano lì, il loro argomento principale. Ma credo che se ci fosse qualcuno che conosce questa città potrebbe capire che sono proprio loro, i tavolini della piazza, attenti come studenti alla domanda d’esame, consapevoli di tutti i discorsi dei cittadini, delle critiche degli stranieri, delle manipolazioni dei politici, dei concorsi universitari e di tutto quello che c’è da sapere, gli unici a poter comprendere l’anima intima di questa città. Tavolini immobili, inanimati, ma presenti. Testimoni di tempi e di generazioni. Tondi, come la vita di un uomo che torna sempre al proprio capolinea, stordito dalla propria esistenza. Con Michela ci trovammo una sera semistellata di giugno. Lei aveva ancora a che fare con l’estetica rinascimentale e cercava di spiegare qualcosa, del tipo i programmi televisivi se delectavano o prodessavano. Io mi stavo affannando nelle sue mutandine, nell’odore primaverile che mandavano. Sentivo le
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mani affossarsi nel suo inguine e le dita cercare l’argomento, l’entrata dello spinotto per la trasmissione di energie creative. Reclinati i sedili le salii sopra e sentii le sue gambe avvolgermi. La infilai, ma la posizione scomoda dei sedili che si affossavano creava problemi. A ogni andata corrispondeva un ritorno e quando lo tiravo un po’ troppo in dietro usciva. Non me ne sarei accorto se non fosse stato per il fatto che al terzo colpo fuori porta lei lo prendeva in mano e se lo rinfilava. Una fatica della miseria ricominciare sempre da capo. A parte ciò era una gran palla. A volte ci si chiede cosa sia una donna. Non c’è risposta a queste domande. È come domandarsi cos’è un uomo, un cavallo, una lucertola, un caimano. Sono e basta. Avevano pure una loro ragione, per quanto inconcepibile o almeno difficile da comprendere. L’essere si esenta da certe risposte a meno che non ci si affidi al più bel libro del mondo, la Bibbia. Ma poi viene scontato domandarsi: “Che ci sto a fare?” Aveva le idee chiare però, voleva fare il critico o la critica, non accademica, militante. Avrebbe voluto organizzare mostre e lanciare artisti, proprio come Icaro al primo anno d’università, e questo mi infastidiva un poco. Ma ci sapeva fare, giocava con il mio telecomando come voleva, accendeva e spegneva, alzava e abbassava, schiariva e scuriva. Soprattutto programmava il videoregistratore e finiva che si sapeva sempre cosa si sarebbe fatto, quale sarebbe stato il programma, quando interromperlo e riavviarlo, le cose che si potevano saltare e le immagini da fermare.
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Quella estate fu una delle più belle forse, ma anche una di quelle in cui mi sentii in balìa di altri, e non solo di Michela, ma anche di tutti quelli che passavano accanto alla mia esistenza e la sfioravano come un tocco di vento. L’ho già detto, nelle cose ci si capita e basta! Non puoi farci nulla, di fatto gran parte dell’esistenza si eviterebbe, se si potesse, ma non si può e allora non resta che tuffarcisi. Così si ragionava, mentre si inghiottivano noccioline americane alternate a plegine con del succo di frutta alla pera. Michela d’altronde, non era meglio degli altri, né di me. Si gingillava come una foglia nel vento, accoglieva solamente quello che poteva essere alla sua portata. Fuori da scherzi o da giochi che non sono più concessi, non aveva nulla di ciò che a un uomo, nel senso di maschio, poteva piacere. Era diventata un uomo. Aveva gli stessi atteggiamenti, sembrava di stare con il compagno di facoltà. Tranne a letto. Lì si squagliava, prendeva in mano il cazzo come se fosse un feticcio sacro, lo accarezzava lo osannava lo baciava come null’altro. Al di fuori di quello però, era un uomo. Cominciai a pensare che fosse lesbica. Poi seppi, o meglio constatai, che lo era. Se la faceva con una ricercatrice di economia, si slinguavano fino a notte fonda in una roulotte della ricercatrice, roulotte sua e del marito. Ma non era proprio lesbica convinta… solo un passatempo, tanto che durò solamente qualche mese. Cosa piacevolissima per noi che, saputo il luogo, andavamo a spiarle e ci eccitavamo tantissimo. E qui sarebbe dovuto finire il racconto di Michela, che è poi la storia squallida di una futura impiegata in un comune del nord.
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Ma tempo al tempo. È difficile però ricordarsi di quei tempi senza ironizzare o avere voglia di non ricordare. Certo erano tempi belli, quasi senza problemi, ma non avevano un senso, nessuno si poneva problemi seri, quesiti e, tanto meno, soluzioni. Ci si poteva addentrare nelle notti come si entra in un videogioco senza nessuna curiosità vera, senza un necessario interesse. La formula di vita era quella più scontata, fingere di vivere, fingere che ci fosse davvero una motivazione. Crollare come un termitaio seccato dal vento, con la speranza che il giaguaro seduto sopra si rompa l’osso del collo. Finire come una prova tra le tante dell’indifferenza e del disagio giovanile, ascoltando le teorie fantasmagoriche e del cazzo dei sociologi e degli psichiatri. Era bello guardare i reportage, tipo fiction giornalistica alla tele, l’intervento degli esperti e i commenti degli intellettuali. Che cosa ne sapevano di come vivevamo, anzi lo sapevano benissimo, visto che frequentavano le feste e i raduni per scoparsi la bella di turno illusa di una carriera facile o per incularsi quello più adolescenziale al quale piaceva il cazzo e basta! Senza tanti problemi di mancanza dell’immagine paterna o altre cavolate. Tempi divertenti ma duri, in questo aveva pienamente ragione Icaro, nei quali era importante, soprattutto importante, avere il dominio del telecomando. Saperlo usare, sapere quando accendere e quando spegnere, conoscere la sensibilità di ogni tasto in spugna o in materiale sintetico morbido. Non lasciarsi mai andare del tutto, controllare ogni minimo risultato, anche
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la più piccola variazione dell’essere. Ci aveva insegnato bene Fromm, durante gli anni del liceo, cosa fosse l’essere e l’importante era applicare la sua teoria al contrario. Solo così si sarebbe potuto vivere bene. (Ricorrente a proposito, per divertirci, era ricordare le lezioni di storia del liceo o anche quelle dell’università. Quelle pallosissime palandrane sulla resistenza, sull’Italia fatta dai partigiani, che ci sembravano molto simili ai parmigiani. Tutti le conoscevano e non gliene fregava più un cazzo a nessuno, avevano rotto i coglioni quasi come i film sulla guerra nel Vietnam, ma almeno quelli erano spettacolari. Tutta roba vecchia; patetici in quei documentari in bianco e nero, con quei movimenti a scatto, tante marionette insomma, vestiti come residui dell’ottocento puzzolente, con quelle armi da era pre-informatica che sembravano volergli esplodere in mano). I giorni passavano in queste inezie, in discussioni spesso senza capo né fondo. Si tirava a campare, a campare molto bene devo dire, figli di borghesi e con un mucchio di soldi in tasca. Finito giugno arrivava luglio ed era il momento esatto per andare via. Dove non aveva poi importanza, una destinazione qualsiasi, mare, montagna o città d’arte, nuovo mondo, bastava andare via. Si montava sul duemila straniero o sul jet e si partiva. Una vacanza come tante, con nulla di eccezionale, ma un modo come un altro per scaricare lo stress di un anno chiusi tra quelle mura. Poi fondamentalmente era importante il ri-
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torno, i complimenti per l’abbronzatura, i racconti sulle avventure, sul viaggio, racconti che finivano quando gli altri, quelli che non erano venuti con te, ti dicevano apertamente che avevi rotto i coglioni e che non ne potevano più. Dopo una di quelle vacanze, Michela ricomparve. Solita routine. Ma arrivò una lettera di Icaro. Può sembrare allucinante, ma non lo era. “Ti racconto come va qui. La città è davvero grande, né Milano, né nessuna città europea può esserle paragonata. Non tanto per l’estensione o per il numero di abitanti, quanto per il fatto che sembra davvero di vivere in un microcosmo. Non nel senso al quale ci siamo abituati o ci hanno abituati, tipo la nostra piccola città, il villaggio, come tu lo chiami, che è o, meglio, era un microcosmo, ma nel senso che qui veramente si incontra di tutto. Giri l’angolo e hai cambiato continente. Insomma qui ho conosciuto dei ragazzi che frequentano il mio stesso corso, ma lo frequentano da più anni. Ho conosciuto anche ragazze e qualcuna l’ho infilata. Ma qui va di moda la stravaganza e in maniera totalmente diversa da quella che ci possiamo immaginare noi. Adesso, non vomitare, si rimorchiano ragazzini. All’inizio era difficile, ma poi ho cominciato a capire. Ora li riconosco subito quelli giusti, con i loro grandi occhi e le bocche serrate come da una paura congenita. Non credere che siano solo portoricani o messicani o afroamericani (si dice così qui). Ce ne sono anche di buona famiglia americana, sedici o diciassette anni, a battere nei locali giusti. Li abbordi con poco, basta una bibita o una birra e poi si esce con la tranquillità di una famiglia che si reca a messa. A volte a dire
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il vero bisogna calmarli, per loro siamo già vecchi e hanno paura, anche perché qualcuno ci ha già rimesso la pelle. Li porti nel tuo appartamento, se vogliono, e lì comincia il bello. Poi, e scusa l’impersonale ma mi viene meglio, dopo i baci e le leccate, le succhiate e le strofinate, veniva il momento di infilarli. Non l’ho mai fatto. Mi fa senso, ho l’impressione che ci si sbatta le palle a vicenda. Così ho adottato il metodo di De Sade. Infilare il mio pippo tra le loro gambe, proprio nel punto in cui si congiungono… ricordi? E poi continuare come consigliava il Grande Marchese. So che rimarrai perplesso da questo racconto, ma a qualcuno dovevo dirlo e tu mi sembri la persona più adatta. Non credo che ti scandalizzerai poi così tanto, visto che quel libro del Grande Marchese me lo hai consigliato tu e quindi qualcosa ti attraeva, penso. Aspetto ancora una tua missiva, se hai voglia scrivi. Tuo Icaro”
Non gli risposi. Perché avrei dovuto farlo? Mi raccontava un pezzo della sua vita, un po’ strano, ma poi non tanto. Si stava divertendo, aveva tutto, perché rispondere e magari avanzare considerazioni che l’avrebbero intristito? Dopotutto non faceva altro che ripetere le esperienze del Grande Marchese. Te le fanno studiare all’università no? E allora? Continuai nella mia routine. Con Michela la sera e con i libri di giorno.
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Il fatto è che spesso è così difficile dare un senso alle cose. Promuoversi una volta ancora alla classe successiva. La fine dei racconti è sempre una fine, buona o cattiva che sia, mentre in questo cazzo d’esistenza non c’è mai una fine, o meglio, quando c’è, è troppo tardi per leggerla e compiacersene. Cosi si spaziava tra la transavanguardia e Lyotard, tra un tramezzino al tonno e maionese e un abito alla moda. Reclusi in atteggiamenti massmediali, passavamo nottate tutto sommato piacevoli, spensierate almeno, finché non arrivava qualcosa ad affliggerci veramente. E cosa ci affligge veramente? La mancanza, la scomparsa, come quando qualcuno muore. E infatti morì uno dei docenti che più mi stavano a cuore, forse l’unico che era stato onesto con me e Icaro, l’unico che non aveva creato illusioni e ci aveva preso a cuore. Insomma non si distinguevano più i momenti strani, quelli nuovi o almeno così creduti, da quelli sentimentali che ti legavano a una tradizione ferrea. Li si accettava entrambi con una buona linea di demarcazione e per questo credo che non avessimo capito nulla. Icaro invece aveva capito e quando gli raccontai questa faccenda, quando lo informai della scomparsa del professore in una chiamata intercontinentale, rispose: «Sono vecchi dai…! … Chi ti scopi adesso?… Racconta!» *** )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD