Io so chi sei, Astrid Scaffo

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ASTRID SCAFFO

IO SO CHI SEI

ZeroUnoUndici Edizioni


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IO SO CHI SEI Copyright Š 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-399-4 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Giugno 2020 Progetto editoriale realizzato in collaborazione con l’Agenzia letteraria Toniarini Dorazi - www.agenziatoniarinidorazi.it


C’è dunque un mondo di cui reggo le sorti indipendenti? Un tempo che lego con catene di segni? Un esistere a mio comando incessante? La gioia di scrivere. Il potere di perpetuare. La vendetta di una mano mortale. (La gioia di scrivere, Wistawa Szymborska)



IO SO CHI SEI



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CAPITOLO 1

La sera che non dimenticherò mai, stavo preparando la cena: soliti gesti, meccanici. Mi sei apparsa in cucina, con i lunghi capelli neri sciolti, e avevi addosso un vestito corto, a fiori piccoli, bianco, che non dimenticherò più e descriverò a me stessa e ad altri decine di volte. Senza trucco e senza gioielli, che non portavi mai: no rapina no, tentativo di rapina no, lo abbiamo escluso subito. Mi hai schioccato un bacio sulla guancia, come facevi tu, e mi hai detto: «Non preoccuparti mamma, all’una sono qui!» Sono qui! E io di rimando, quasi automaticamente: «Mi raccomando, non tardare!» L’ultima frase che ti ho detto è stata inutile. Quanto ho ripensato alle ultime parole che ho pronunciato, a tutto quello che avrei voluto dire, dirti. Ti sei affacciata in salotto. «Ciao papi!» a Pietro, tuo padre, che stava guardando il telegiornale e che, distrattamente, ha risposto: «Ciao tesoro.» Tesoro… almeno tuo padre ti ha accompagnato con un dolce appellativo, ti ha detto quel tesoro in più che io contavo di dirti altre infinite volte. Le parole le amo, le uso con moderazione, quasi si dovessero esaurire come le batterie, scolorire come un bucato lavato male. Anche con te, con voi, ne ho sempre pronunciate poche. Si calcola che si possano dire tante parole, forse troppe. Si pensa che la parola non abbia mai fine: non calerà mai un sipario sulla nostra possibilità di parlarsi. Così pensavo io. Chi mai mi avrebbe impedito di dirti tutto quello che avevo nel cuore? Un silenzio penoso mi stordisce più di qualunque suono. Mi sembra una risacca infinita, un’eco fastidiosa e indolente che mi toglie il


8 respiro, più faticoso di una lite o una discussione e mi lascia la bocca e la gola secca. Sei uscita chiudendo la porta, un suono sordo, che lì per lì non ho notato ma che, poi, mi risuonerà in testa per sempre e i tuoi passi per le scale del palazzo, in discesa, che non ho più sentito. In casa hai lasciato un profumo di zagara, il tuo preferito, l’odore dell’estate, della gioia, della fanciullezza. Mi sembra di sentirlo ancora questo profumo: è dolcissimo quando lo sento tra i tuoi vestiti, frugo fra ciò che ho di te e mi pare di coglierlo, mi spezza il cuore se lo sento per strada, lungo le scale… mi disorienta, in attesa di te, che non vieni ma che, anzi, ti allontani. Allora mi sento mancare, ti cerco affannosamente per la via, guardo i volti di chi passa. Drammatico per me percepirlo nel portone di casa nostra: corro dentro, immagino che sei rientrata, mi stai aspettando e mi precipito su per le scale, apro la porta convulsamente, ti chiamo… non ci sei… mi siedo sfinita e piango, come una bambina, avevo dimenticato cosa si prova e non ho mai pensato di poter lacrimare così. Il pianto di chi aspetta ha un sapore particolare, profuma come il vento, le piante rampicanti, l’edera; ha un odore che rimane addosso. Sai, il suo sapore è così intenso, non credevo che le mie lacrime riuscissero a contenere tutto il gusto del mare, che potessero essere così invadenti, senza pudore, bianche, di un bianco che però non sa di rinascita, di pace. È un bianco crudele, apatico: un colore e un profumo che ti caratterizzano, pensi si possano sentire, vedere anche in chi non sa. Doveva essere una serata fuori con gli amici, Matteo e Giulia, una pizza e via. Una serata qualunque, in una bella estate sul lago. Quando mi è stato chiesto, nei mesi successivi, cosa avessi addosso quando eri uscita, ho descritto tutti i tuoi effetti personali: la borsa nera, con piccole borchie sui lati. Eri così affezionata a quella “borsa da signorina”, come ti deridevo bonariamente io, adatta alle serate “eleganti”. Poi avevi con te i documenti, certo, in casa non c’erano, e un po’ di soldi.


9 Avevi guadagnato qualcosa con alcuni lavoretti, baby-sitter, commessa saltuaria in qualche negozietto, una somma di circa un milione di lire. Alla domanda se tu fossi uscita con del denaro o se ne mancasse in casa, ho risposto che sì, avevi avuto quell’introito, ma non ero in grado di dire se lo avessi speso tutto o se ne conservavi ancora un po’. Di certo avevi con te qualche spicciolo per la pizza con gli amici e per la serata, e non ero in grado di dire se avessi in borsa altri soldi. A casa non mancava nulla in particolare, non una valigia o dei vestiti, nulla che facesse pensare a una “fuga”, se era questo che intendevano… e poi fuggita da chi? Da cosa? Da noi, lo escludevo. Piccole discussioni sì, ma nulla di particolare che non potesse essere risolto, da noi, fra di noi. Un “noi” che vedevo disgregarsi, a mano a mano che dovevo dare conto di me, di te, di papà, della nostra vita. La cosa che è pesata di più a Pietro è stata anche questo “scoprirsi”. Il dover aprire la nostra casa, come una lattina, dover condividere ricordi privati, foto nostre e solo nostre, dover parlare di te come un’altra, una che non era qui, che doveva essere descritta bene, senza omettere un dettaglio, un “qualcosa” che potesse essere utile alle indagini, a chi ti cercava. A me pesa anche il sospetto, più o meno celato, degli altri a noi davvero estranei. E soprattutto a me e a Pietro pesa l’interrogarsi, anche inconsciamente, se era da noi, dalla nostra realtà che tu volevi fuggire… rendermi conto che un litigio, una banale discussione forse poteva aver innescato qualcosa, una via senza ritorno, un allontanamento, un addio. Sono domande che mi sono posta mille, un milione di volte senza risposta, nelle notti insonni, quando il silenzio romba più che mai e al minimo suono ti alzi, tendi l’orecchio frenetico, ansioso, per capire se sia una chiave nella toppa quella che ti sembra di sentire. Quando vorresti staccare il telefono, perché ti rendi conto che la tua vita è al collasso e vorresti solo dormire, ma poi non cedi e ti sembra sciocco e crudele averlo anche solo pensato: il telefono potrebbe suonare, tu potresti chiamare perché hai bisogno di noi, qualcuno ci potrebbe avvertire che ti ha trovata, che ti sta riconducendo a casa. Il sonno non te lo concedi più, diventa un lusso, una condanna, perché


10 quando, sfinito, ti corichi, ti senti in colpa, non dormi comunque e se riposi è un sonno senza sogni, una lunga apnea in un mare che non vuoi conoscere, dal quale ti senti trascinare troppo giÚ e allora vuoi solo risalire, svegliarti. Avevi forse un cellulare? A questa domanda tardiva, ho amaramente sorriso ma stavo per piangere. Il regalo per il tuo ventunesimo compleanno, a gennaio, sarebbe stato un telefono che ti avrebbe resa reperibile: oggetto che quella sera non avevi e che non avresti avuto mai in regalo o, perlomeno, non da noi.


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CAPITOLO 2

La mia Anna è scomparsa la notte del 6 luglio 1998. A vent’anni. Come se in questo spazio ignoto, di tempo senza senso, avessero ancora un valore le date, i momenti. Credevo che il tempo fosse una ruota, un giro circolare che tutto appiana, prima o poi, lenisce. M’illudevo che la vita fosse in progredire per te, per noi. Ci avresti visti vecchi, stanchi ma non feriti dalla vita; forse spiaggiati sul divano rosso del soggiorno ad ascoltare i tuoi resoconti, felici per un tuo successo. Magari nonni, impegnati in qualche gioco per farlo divertire, con te che ridevi furbetta, a cercare somiglianze tra di noi. Mi rendo conto di quanto siamo banali noi madri, che per un atavico “istinto di protezione” vediamo la luce, i successi, i sogni dei nostri figli che si realizzano, quasi fare a gara per compiersi. Io ero una di quelle madri lì, con la cioccolata calda pronta, le premure un po’ invadenti, con te che cercavi sempre maggiore autonomia. Una madre qualsiasi e tale volevo rimanere. Lo davo per scontato, non ci pensavo. Come se la mia vita dovesse procedere sempre nella mia casa sul lago, nel mio paradiso privato, con voi accanto. Mia figlia è sparita in una sera d’estate, limpida e afosa, ricca di promesse per lei. Quando non pensi che la vita possa schernirti, buttarti addosso una marea nera, cocci e detriti. Quando la felicità profuma, la luce del giorno bagna le tue finestre, ti affacci alla vita e la gusti, come un frutto estivo. Quanto eri bella, una bellezza azzurra, quelle che il mare porta e sembra non appassire mai, ariose che solo un innamorato può descrivere. Come t’indispettivi quando te lo dicevo! Non so se era una giovane bambina insicura che parlava, fuggiva ai complimenti,


12 o se ti rendevi conto di quanto eri bella, ma non volevi lo si sottolineasse: un riguardo a Madre Natura che ti ha creato, prima di me, nel mio grembo. Il tuo, magari, era solo il desiderio che si vedesse altro, che non ci si fermasse all’apparenza. Un desiderio inespresso, e mi chiedo ora che non ci sei più, se io abbia saputo davvero cogliere tutto ciò che c’era dietro, sotto la tua bellezza. Una madre crede nella conoscenza totale dei figli. Si pensa di aver letto le loro anime e di averne capito tutte le profondità: è un miraggio. Ora so che mi eri stata prestata, che c’erano lati di te che non conoscevo. Ma so altrettanto che il mio amore avrebbe esplorato tutto, accettato tutto e ora, se potessi, ti direi che la tua bellezza era la punta di un iceberg; era l’inizio di un lungo viaggio, le prime note di una sinfonia. Sei stata una figlia voluta, richiesta a gran voce e con silenziose preghiere, e infine avuta quando io e Pietro non ce lo aspettavamo più. Non so se tu ti sia mai resa conto di quanto ti avessimo desiderato… perché a un certo punto della vita, non ne so il motivo, un figlio diventa un’urgenza. Dicono “orologio biologico”, ma si sbagliano almeno con me: penso che tu sia arrivata semplicemente al momento giusto, quando io potevo essere tua madre e tu mia figlia. Non poteva essere diversamente, ti ho avuto quando i tempi erano maturi, prima non sarebbe stato lo stesso, per noi. Penso che il bisogno di diventare madre non sia legato a uno stato del corpo, ma a una condizione della mente, che prima o poi arriva come un uragano dentro di te, e pretende che tu ti adegui. Se non ti avessi avuta, avrei sofferto di un male incurabile, una malinconia assoluta, non sarebbe più stata riempita da nulla, perché nulla mi avrebbe nutrito come la tua attesa, il sapere che ti avevo dentro di me. Eppure, sono rimasta incinta quando, ormai a quarant’anni, non osavo sperare più di averti. Per assurdo, sei arrivata quando non piangevo, non sognavo, non imprecavo più. Hai riempito la mia attesa quando non era più tale… si era trasformata in quiete, quasi in pace, rassegnata forse ma pur sempre pace che è stata


13 completamente stravolta. Ancora conservo il test di gravidanza a conferma che eri nella mia pancia, come una reliquia, ora più di prima e tengo inalterata la gioia trepidante, il pianto di felicità. Insieme singhiozzavamo, abbracciati, io e tuo padre, allora… quando abbiamo capito senza capire, visto con una nebbia che annegava gli occhi, sentito già il tuo odore di latte e biscotti e udito il tuo pianto, la tua voce, anche solo immaginandola. Non so se siamo stati in grado di raccontarti tutto questo, ma so che ti abbiamo amata come forse non siamo stati capaci di esprimere. Il parto è stato meraviglioso: le doglie, il travaglio, sono state solo le prove che c’eri, nulla più. Parto naturale. Mi ha resa orgogliosa di te ma anche di me, che mi sentivo forse solo allora, compiuta, madre. Quando ti ho vista per la prima volta, sono stata invasa da una gioia mai provata prima, un sentimento così invadente che mi faceva sentire padrona di tutto, ma anche impaurita, spaventata: sentivo di aver raggiunto il massimo della felicità possibile e, nello stesso tempo, mi sono sentita impreparata a un dono tanto grande. Mi rendevo conto che il mondo che ti stava accogliendo, insieme alle mie braccia, poteva essere anche un pericolo, davanti al quale mi chiedevo se sarei mai stata in grado di proteggerti. Mi sono sentita così piccola e allo stesso tempo così grande, se il mio corpo era riuscito a custodire, crescere un esserino così meraviglioso, fragilissimo e perfetto, forse anch’io sarei riuscita ad allevarti nel modo migliore, custodirti, accompagnarti. Ero incantata… sono rimasta a fissarti per giorni, sai? Non sentivo né il sonno né la fame, tale era la gioia. Ho scelto di andare in pensione subito dopo averti avuta, per non privarmi di nulla, per recuperare tutto il tempo in cui ho desiderato essere madre e non lo ero stata. L’insegnamento non m’interessava più, per una forma di egoismo, dopo aver aiutato a crescere i figli di altri, volevo amare e accudire solo mia figlia. La nonna, mia mamma, era mancata troppo presto e non avrei saputo a chi lasciarti durante la scuola, se avessi deciso di continuare a insegnare. Gli altri parenti di Pietro abitavano troppo lontano, e


14 avevano tanto criticato la nostra scelta di andare ad abitare in un piccolo paesino sul lago. Li sentivo ancora borbottare: «Matti, se vi succede qualcosa, in un posto così isolato! Va be’, d’estate in un piccolo borgo è romantico, ci sono i turisti che lo animano un po’, ma d’inverno vi annoierete e basta… e poi così lontani da tutto.» Figuriamoci quando sei arrivata tu. Il minimo era prendermi della madre imprudente e scriteriata. Poi se avessi chiesto aiuto a loro, molto probabilmente mi avrebbero proposto – perché potessero aiutarmi più facilmente a gestire la tua crescita, la casa e l’insegnamento – di rientrare in città, dove non mi sentivo più a casa: lì ero ormai fuori luogo, qualora avessi voluto continuare a lavorare. Tornare “nella civiltà” per me e tuo padre era fuori discussione, ormai eravamo “pesci d’acqua dolce” o “piante lacustri”, amavamo troppo il luogo che avevamo scelto per farne casa nostra. Orgogliosamente pensavamo che il vero nido fosse poi quello che scegli tu e non quello dove nasci o cresci. E c’eri tu finalmente, e volevamo che crescessi in un ambiente sereno, al lago, lontano dal caos, dove forse avresti potuto esprimerti meglio, crescere libera. Pietro ha appoggiato la mia scelta di lasciare la scuola. «Basta un insegnante in famiglia» scherzava lui «povera piccola, sai come si sentirebbe controllata da due professori? Guarda, meglio così… per noi e per lei.» Il professore tra noi due, decisamente, era lui. Chi lo avrebbe sopportato tuo padre a casa… senza la sua filosofia, perché per lui insegnare filosofia era una missione, non una materia e poi “senza di me, come faranno i ragazzi” diceva. Un disco, questo, che gli ho sentito ripetere in continuazione, quando a causa di una caduta sugli sci, si era rotto una gamba e aveva dovuto prendere un periodo di malattia. In casa scalpitava, era nervoso, non vedeva l’ora di riprendere la scuola, i suoi allievi e io speravamo guarisse presto. Mi ricordo che lo presi in giro, tu eri piccina, dicendogli che qualora fossimo stati ancora sposati, al momento della sua pensione, era meglio che si trovasse qualcosa per passare il tempo: non avrei sopportato le sue lamentele tutto il giorno, stravaccato sul divano, o


15 peggio, di vederlo che mi pedinava nelle mie poche faccende domestiche, con la pretesa di insegnarmi o controllarmi il bucato, il sugo, le pulizie. Tuo padre era amato dai suoi alunni. Quante volte l’ho beccato a intrattenersi, dopo le lezioni, a spiegare, suggerire letture. Cercava di rendere la materia piĂš leggera possibile, li stuzzicava con domande. SĂŹ, Pietro è stato una perdita, per la scuola e per me.


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CAPITOLO 3

Le due e un quarto. Mi alzai istintivamente perché sapevo, in qualche parte di me, che non eri rientrata. Inutile guardare nella tua stanza. Una volta arrivata, ci avresti chiamati: «Mamma, papà, tutto bene! Sono qui» lo dicevi sempre e poi ti avrei sentita rientrare. Guardai la sveglia sul comodino, e con tuo padre mi misi in attesa di un’alba che non arrivava mai. Forse, dopo la pizza, con Matteo e Giulia, ti eri trattenuta fuori, sul lungolago a bere qualcosa con loro. Decidemmo di aspettare un po’, inutile allarmarsi: è solo un’ora di ritardo, che sarà mai. Io e tuo padre avevamo cenato, guardato un po’ di televisione e alle undici avevamo deciso di coricarci, con quel sonno leggero di chi aspetta. Alle tre, io e Pietro eravamo pazzi di angoscia. Così, decisi di chiamare il pronto soccorso dell’ospedale più vicino e, dopo aver constatato dalla persona all’apparecchio che non risultavano incidenti stradali, o nei quali fosse stata coinvolta una ragazza di venti anni con le tue caratteristiche a bordo di una piccola utilitaria, pensai di chiamare comunque anche gli altri ospedali della zona, i più lontani: non si sa mai, magari avevate deciso di allontanarvi, di concludere la serata altrove… Tutti mi rassicurarono, tu non eri stata ricoverata. Dopo queste telefonate ci eravamo un po’ tranquillizzati, almeno non era successo un incidente. Avevamo allertato il personale sanitario degli ospedali nei paraggi… sentivamo di aver agito. Tornammo a pensare a un ritardo, a un divertimento così intenso che ti avesse coinvolta al punto di dimenticare l’ora e ci mettemmo all’ascolto della porta, di ogni movimento che preannunciasse il tuo ritorno a casa, inutilmente. Questo ritardo ci aveva allarmato particolarmente: eri solita chia-


17 mare, avvisarci che saresti rincasata più tardi. Non ci eravamo mai preoccupati su questo. Telefonavi da cabine telefoniche o chiedevi in prestito un telefono, se decidevi di fermarti fuori più a lungo. Sapevi quanto era importante per noi, non era un problema, avevi la massima libertà. Compiuti i diciotto anni non ti avevamo più dato un orario, ti regolavi tu, era sufficiente informarci. Ci preparavamo a farti una ramanzina sulla necessità di non farci allarmare, solo una “lavata di capo”, nulla di più, perché forse la gioia di rivederti avrebbe cancellato anche solo l’intenzione di rimproverarti… ma, mano a mano che passavano i minuti e le ore, il proposito di sgridarti si dileguava, come neve al sole, come la notte alle luci dell’alba. Un’alba solo fisica per noi, che albergavamo nel buio più assoluto. Non vedevo l’ora che si facesse giorno pieno, cresceva una smania, un’agitazione che non sapevo definire. Volevo subito rintracciare chi era stato con te, chi mi poteva dire dov’eri, quando e dove ti avevano lasciata. Ripensandoci ora, so che il nostro sangue stava parlando, un linguaggio atavico, antico, che la ragione non conosce. Pietro, per tentare di dare una spiegazione, mi disse che mancava una delle tue macchine fotografiche, quella che tenevi spesso in auto e forse ti eri attardata da qualche parte per fotografare. La passione per la fotografia ti aveva fatto prima lasciare gli studi dopo il liceo, poi si era frapposta tra me e il mio desiderio che, brillante com’eri, ti laureassi. In quel momento, però, era una speranza. Ma sì, forse con quella macchina fotografica ti eri attardata chissà dove, magari appostata ad attendere l’alba. I colori e le luci innaturali della notte non ti erano bastati e avevi scelto di fotografare il sole che nasce. Ti avremmo vista rientrare, raggiante per il tuo nuovo scatto, ti avremmo abbracciata, tu non ti saresti forse neanche resa conto del perché… Aspettai le nove del mattino: non si può disturbare in casa d’altri prima dell’ora di colazione, anche se avrei svegliato chiunque pur di avere notizie. Chiamai a casa di Giulia e, in cuor mio, sperai che tu ti fossi fermata


18 da lei a dormire, che stanche morte vi foste dimenticate di dircelo. Forse non avevi voluto disturbare, telefonando dall’apparecchio dei suoi. Era ancora una speranza… Il padre mi passò al telefono una Giulia assonnata. Mi disse che ti sei allontanata da loro dopo la pizza, a mezzanotte circa, le pare. Ti avevano vista andare via con la tua auto: loro ti avevano chiesto di fermarti fuori a bere qualcosa in uno dei chioschi del lungolago, ma tu avevi preferito andare a fotografare qualche scorcio del paese in notturna. Forse i fuochi d’artificio del paese vicino. Giulia ti aveva preso in giro per questo, e se ne stava pentendo. Mi disse che avrebbe allertato Matteo: sarebbero andati a vedere dove ti avevano lasciata, ripercorso la strada, chiesto in giro, avvisato chi poteva conoscerti e averti visto. Chiamato Luca. Qualcuno ti avrebbe cercata, subito. Si preoccupava per te e io ne fui rincuorata, non eravamo soli. Avrei scoperto più in là nel tempo che si è soli quando scompare una figlia nel nulla, anche se sei circondata da affetto, c’è chi te la ricorda e, come te, la cerca. Sei solo e tale ti senti, irrimediabilmente. Io e Pietro, anche noi, fra di noi, eravamo soli.


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CAPITOLO 4

«Via, signori, volete che ci allarmiamo per ogni ventenne che non rincasa la sera? È una fuga volontaria, la ragazza avrà voluto viaggiare un po’… vedrà, tempo qualche giorno e ritornerà a casa. È evidentemente un allontanamento vo-lon-ta-rio.» Volontario, con questa parola ben scandita ritornammo a casa, ubriachi dalla notte insonne e dal dolore, ammutoliti dal fatto che un estraneo potesse aver capito quello che per me e tuo padre era un mistero. Non pensai subito che l’appuntato in questione non avesse semplicemente voglia di prendere la nostra denuncia; ero stanca, confusa e, forse, ho voluto pensare che chi vede queste vicende ne possa sapere più di me. Ne ho sofferto, molto, perché mi arrivò il primo giudizio senza che la persona che avevo davanti cercasse di capire, scoprire qualcosa in più. Questa fu la prima delle pugnalate che abbiamo ricevuto. Allora decisi di cercare, Anna, spostare, violare le tue cose per sapere. Possibile che te ne fossi andata senza avermi lasciato qualcosa? Possibile, che se ci fosse stato un problema, un bisogno, tu non me ne avresti parlato? Cercai una lettera, un biglietto: non avevi avuto il coraggio di parlare, strano per noi, però forse uno scritto lo avevi lasciato. Avrei preferito un dialogo, ma anche una paginetta scritta, magari cattiva – anche se non era da te – l’avrei accettata. Se fosse stata una decisione impulsiva? Possibile che tra le tue cose non riuscissi a trovare nulla che me lo dicesse. Guardai dappertutto: nel tuo armadio, nella tua scrivania, nei tuoi cassetti, dove sapevo ci potesse essere il più piccolo segreto. Nulla. Quando trovai il tuo diario stavo per riporlo, perché ahimè, lo avevo


20 trovato nuovo, ma poi ne è uscito un foglio che mi è caduto sui piedi. Lo lessi avidamente, mi si spezzò il cuore ma durò solo un attimo. “Odio discutere con mia madre. Dispute, peraltro, inutili e sterili, dove, pur dandole ragione, questa deve essere assoluta, ovviamente. Ogni obiezione vietata. Un mulo o un muro. Un dialogo tra sordi. Mia madre è una quercia: protettiva e soffocante. Poi mi sento in colpa per aver sostenuto le mie ragioni. Ti colpisce/ci colpiamo anche su punti che non c’entrano, dove avvertiamo più male, ma fermandoci sempre prima dell’irreparabile… poi mi ripropongo di non parlare più in casa, per alcun motivo, di limitarmi a rispondere e, dopo pochi giorni, non ricordo neanche più quale sia l’argomento della lite. Madre e figlia: amore/odio, rapporto mai risolto e tanto carnale… ma sempre tanto amore”. Questo foglio non ha data. Conoscendoti, capii che lo avevi scritto di getto dopo un’arrabbiatura. Mi sentii così vile nel leggerlo. Avrei voluto sapere a cosa ti riferissi, a quale discussione tra noi, per dirti che anche per me è dimenticata, superata dall’amore mio e tuo. Non ho pensato che fosse la ragione della tua scomparsa, mi hanno confortato le ultime parole… In quel momento mi accorsi della cartellina con i tuoi ultimi scatti: era lì, in bella mostra sulla scrivania, non nascondeva certo un segreto. La aprii. Se la disperazione mi aveva portato a leggere nel tuo diario, ero legittimata a guardare le foto che avevi lasciato quasi esposte. Forse perché le vedessi? Con sorpresa, notai che i paesaggi erano pochi, molti meno rispetto ai volti. Soggetti che non conoscevo, pensavo non t’interessassero. Mi resi conto che amavi ritrarre l’essere umano in mille pose: uomini, donne, bimbi, anziani. Non erano gli scorci, i luoghi che t’interessavano, ma le persone. Avevi ritratto decine di soggetti, a me assolutamente estranei. Mi sembravano scatti rubati sul lungolago, nei locali del centro. Le persone fotografate non sembravano essersi rese conto del tuo scatto: guardavo quei visi tentando di capire se fossero in posa, se li conoscessi, se provassero per te un sentimento, di qualsiasi natura.


21 Scoprii una te a me ignota: una persona che non conoscevo. Avevi smesso, anzi, non intrapreso una carriera universitaria pur di ritrarre sconosciuti. Se così ti fossi messa nei guai, se con un tuo scatto avessi immortalato qualcosa che non avresti dovuto vedere e che addirittura, invece, avevi osato fotografare e qualcuno ti avesse voluto far pagare questo? Li guardai uno a uno con attenzione, li scartai non vedendo nulla di anomalo, ma mi chiedevo, contemporaneamente, se io fossi in grado di cogliere quel qualcosa: davvero io, che non ti avevo capito sino in fondo, potevo ora davvero vedere. Ero consapevole che quelli erano gli ultimi, solo gli ultimi. Per cercare di indagare avrei dovuto passarli in rassegna tutti, perché davvero non avevo idea se quello che ci aveva allontanate fosse recente o risalisse a chissà quando. Era lì la chiave del mistero: dalle tue foto si poteva risalire a qualcosa, ti eri allontanata volontariamente, o qualcuno ti aveva fatto del male? )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

CAPITOLO 1 ................................................................................ 7 CAPITOLO 2 .............................................................................. 11 CAPITOLO 3 .............................................................................. 16 CAPITOLO 4 .............................................................................. 19 CAPITOLO 5 .............................................................................. 22 CAPITOLO 6 .............................................................................. 24 CAPITOLO 7 .............................................................................. 26 CAPITOLO 8 .............................................................................. 31 CAPITOLO 9 .............................................................................. 34 CAPITOLO 10 ............................................................................ 36 CAPITOLO 11 ............................................................................ 39 CAPITOLO 12 ............................................................................ 43 CAPITOLO 13 ............................................................................ 46 CAPITOLO 14 ............................................................................ 51 CAPITOLO 15 ............................................................................ 54 CAPITOLO 16 ............................................................................ 59 CAPITOLO 17 ............................................................................ 63 CAPITOLO 18 ............................................................................ 66 CAPITOLO 19 ............................................................................ 68 CAPITOLO 20 ............................................................................ 74 CAPITOLO 21 ............................................................................ 78 CAPITOLO 22 ............................................................................ 80 CAPITOLO 23 ............................................................................ 83 CAPITOLO 24 ............................................................................ 86 Epilogo ........................................................................................ 89 Ringraziamenti ............................................................................ 95



AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Terza edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2020) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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