L'Arca, Massimo Daleffe

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In uscita il 3 / /2019 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine DSULOH e inizio PDJJLR 2019 ( ,99 euro)

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MAX DAHL

L’ARCA

ZeroUnoUndici Edizioni


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L’ARCA Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-301-7 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Aprile 2019 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


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PROLOGO

Pankow fissò i compagni uno per uno. Poi, sporgendosi verso di loro, lentamente appoggiò le mani sul tavolo. «Ripassiamo la lezione prima di lasciarci» disse con un vago tono saccente. Ricordò la lista degli ingredienti utilizzati. Venticinque grammi di polvere pirica. Lampadina rotta nel sacchetto di plastica. Molletta agganciata alla sua brava linguetta. Batteria da nove volt. Pausa. Pankow fece un cenno con il capo. «Ok?». Tutti annuirono seri. «Ma questa volta cambieremo la confezione». Tirò fuori qualcosa dalla borsa e lo sollevò sopra la testa, aprendolo. «Un libro» mormorò qualcuno. «Un bel libro» aggiunse gongolando Pankow. «Guerra e Pace, compagni». Appena depositato il quale, ovviamente, si doveva telefonare subito per rivendicare l’azione. Così sarebbero andati a prenderlo gli sbirri e non uno sfigato qualsiasi. «E quando lo apriranno … bum!». Forse lui si aspettava delle risate, ma nessuno sorrise. Recuperò la faccia dura. «Botto a parte, non farà grandi danni». Poca polvere e nessun chiodo, tutto sommato un grosso petardo. Anche se dalla rapina in banca era già passato un mese, meglio comunque che le acque si calmassero ancora un po’. «Facciamo giusto casino, tanto per continuare a farli cagare sotto. Dopo la Grande Azione, invece, ci diletteremo con mister tritolo. Allora capiranno che solo noi facciamo sul serio» mormorò minaccioso. Come sempre, lui stesso avrebbe fatto sapere a tutti loro quando ritirare il libro. Ossia proprio lì, in quella stessa sala, e di persona. Insieme, avrebbero trovato il solito biglietto con ora e luogo della missione. «Dopo averlo letto, bruciatelo. Non mangiatelo, perché quando lo cagherete la scientifica andrà a rovistare diligentemente anche nella vostra merda. Bruciatelo e basta».


4 Piegò la testa in basso e fece una smorfia, come a chiedere intesi? e tutti annuirono seri. Puntualità. Calcolare in anticipo il tempo necessario per andare nel luogo indicato all’ora indicata. Naturalezza. Camminare lentamente e senza nervosismo. Prudenza. Dentro la busta non c’erano cioccolatini. Si doveva quindi maneggiare con cura, tenendolo con cura nella mano. Niente corse né urti improvvisi. «Se beccate una fottuta buca, in premio avrete la tessera vitalizia del club dei monchi». Un paio di nervosi sogghigni. Pankow fece una pausa. Mise le mani dietro la nuca, inarcando la schiena per stirarsi. Alzò un dito per riprendere i compagni distratti. «Per non avere l’aria di uno stronzo che sta liberandosi di un finto libro con una vera carica esplosiva» disse soffocando una risatina, «nessun giro a vuoto. Individuare subito da lontano l’angolino giusto per piazzarla». Che non fosse troppo in vista, altrimenti lo spazzino di turno avrebbe rovinato la festa. Magari nascosta dietro un monumento, una pianta, un cespuglio. Dimenticare i cessi pubblici, i bar o i negozi, insomma i luoghi chiusi. «Sotto l’auto in sosta è un’idea di merda», perché se quella ripartiva, erano fottuti. «E se lo siete voi, lo è anche la Cellula. In tal caso, prima di avere le manette ai polsi, strapperò gambe e braccia all’imbecille di turno». Pankow sottolineò la promessa mimando l’operazione con le sue grosse mani. Una volta deciso il punto giusto, deporvi il libro con delicatezza e guardarsi bene in giro. Anche in alto nessuno doveva vederli, nemmeno Dio. E ancora meno una merdosa telecamera. Probabilmente Dio non avrebbe fatto la spia, ma lei sì. «Nessuno, dico nessuno, deve badare a voi». Nemmeno la loro madre avrebbe dovuto notarli, in quel momento. Dovevano essere invisibili, incolori, perfino inodori; dovevano passare completamente inosservati, di fronte a chiunque. Ai passanti e, ovviamente, soprattutto agli sbirri.


5 Abbigliamento decoroso. Meglio una cravatta. Più del resto, ricordarsi i guanti. Niente impronte. Mai guardare una persona negli occhi per più di un secondo. «Faccia serena ma non da schizzato. A ogni modo, evitare sempre lo sguardo di un poliziotto. Non si sa mai cosa frulla per la testa di un piedipiatti. A furia di sospettare, va a finire che la testa di legno ci azzecca proprio con voi». Niente cerimonie. Se s’incontra la ex dopo dieci anni, il figlio ficcanaso dei vicini, l’insegnante di matematica del liceo o il panettiere del quartiere, filarsela subito dopo un pacifico sorriso, naturalmente scusandosi perché di fretta. Dopo il saluto, voltarsi per controllare che l’incontrato non si giri. In caso contrario o se qualcuno improvvisamente cominciava a gettare occhiate strane, mantenere il sangue freddo. «Mai, mai, mai innervosirsi! Continuate per la vostra strada e, quando sarete soli, lasciate il libro in un angolo buio». La stessa cosa se qualcosa fosse andato storto, per qualsiasi ragione: un attacco di dissenteria, un palazzo che crolla, un gay pride o un raduno di neonazisti, un cane idrofobo di fronte sé. Se per qualsiasi motivo l’obiettivo risultasse irraggiungibile, abbandonare subito la busta lontano da sguardi indiscreti. «Insomma, non dovrete averla addosso». Aveva infiammato il gruppo, come sempre. «Ricordatevi sempre che un buon rivoluzionario è preciso, concentrato e determinato. Ho finito». Erano tutti incantati; li liberò con un gesto delle mani, come un prestigiatore. Rumore di sedie spostate all’indietro. Involontariamente, tutti si fermarono un istante, quasi sull’attenti. Pankow li fissò negli occhi, uno per uno. Annuì compiaciuto, avevano tutti lo sguardo deciso.



7

I

Per la seconda volta in una settimana, Jurij tornò all’internet point di via Crimea, malgrado fosse dall’altra parte della città. Via Crimea, vicino al quartiere Lorenteggio, ossia piena periferia. Quello che lui prediligeva, del resto: odiava il centro di Milano – Milano City, come la chiamavano gli stronzi pseudo-trendy – con i suoi grattacieli volgari e presuntuosi, i suoi altezzosi palazzi neoclassici, frotte di manager acidi e spocchiosi, sciami di eteree modelle e di non-modelle che se la tiravano. Lontano dal centro la gente era più semplice, più vera. Come la prima volta in cui vi capitò, era mezzo vuoto; non bisogna essere esperti di marketing per capirne la ragione: in genere chi cerca un internet point, studenti e stranieri per primi, preferiscono andare nel centro della città o nel quartiere delle università. Per di più, non era solo in periferia, era anche un po’ distante da tutto il resto, tanto che ci si poteva domandare a chi potesse servire in quella via anonima, fatta di palazzi, palazzine e palazzoni. Nessun negozio, nessuna scuola, nessun ufficio. Il bar più vicino era alla fine della via, verso il semaforo. Oppure ce n’era in via Cavaleri, all’angolo. L’internet point era l’unica attività commerciale di quel tratto di via Crimea, quasi nascosta sotto i portici di un casermone grigio pieno di lavoratori stranieri. Infatti la sua ristretta clientela era un miscuglio di etnie e nell’aria aleggiava un pungente profumo di spezie. Il proprietario stesso era straniero, a occhio e croce asiatico. Nonostante il lungo viaggio da casa sua – Cologno Monzese, nell’hinterland a nord di Milano, almeno un’ora e mezza di metro e uno scomodo cambio di linea nel delirio umanoide della fermata intermedia di Loreto – Jurij ci era comunque tornato volentieri. Per due motivi, il primo dei quali era proprio la tranquillità. Ergo sicurezza. In quelli più affollati si annidavano spesso tizi che puzzavano di piedipiatti, tipacci dell’anti-terrorismo o della narcotici. L’altra ragione era una vaga nostalgia. A sette, ottocento metri da lì, in via Cavaleri, fino a qualche anno prima l’adolescente Jurij s’ infiammava infatti nella sede del centro culturale dove aveva scoperto l’ideale anarchico. Si chiamava il Brescia, in onore di Bresci, ma vi avevano


8 aggiunto la a per tenere lontani gli sbirri. Precauzione inutile perché ce li avevano comunque tra i piedi quasi tutte le sere. Fino a chiuderlo con la scusa che con le loro assemblee – effettivamente infuocate – disturbavano la pubblica quiete. Il Brescia era la saracinesca malandata e piena di graffiti tra il bar dei tranvieri frequentato da anziani che parlavano solo in milanese e la tavola calda, frequentata invece dai sudamericani. Quanto tempo era passato. Ricordò che prima di iniziare a frequentare quel negozietto sfitto riadattato a sala riunioni, Jurij non si era mai interessato di politica. Appena diciottenne, alle sue prime elezioni aveva votato i comunisti, ma solo per tradizione famigliare. Lì, invece, per la prima volta aveva udito parlare di antiautoritarismo, della necessità di eliminare la obsoleta macchina burocratica statale e del concetto di maggioranza, di realizzazione delle potenzialità individuali e collettive, di piccole società organizzate in federazioni, di decisioni prese da un’assemblea dove tutti sono eguali e si vota all’unanimità. Per un ragazzo disincantato e in cerca di ideali entusiasmanti, quelli erano concetti vivi, vitali e vivificanti. E poi c’era Anton. Anton. Cavolo, Anton! Se lo ricordava bene quel focoso oratore, un ucraino inguaribile adoratore di Bakunin, così sfegatato che cercava anche di somigliargli fisicamente, presentandosi altrettanto robusto e con una folta barbona scura. Nei suoi interventi, più simili a comizi che a chiacchierate tra compagni, non attaccava solo lo Stato e i suoi ingannevoli istituti, le elezioni e i referendum; inveiva spesso anche contro concetti apparentemente imparziali come frontiere, etnie, razze, omosessuali e transessuali, proprietà privata e perfino la carne da mangiare a tavola. Tutte categorie borghesi per intrappolare il libero pensiero. E, naturalmente, fu proprio lui che a Jurij fece conoscere Bakunin, certo, ma anche pensatori come Proudhon, Thoreau e naturalmente Johann Kaspar Schmidt, meglio conosciuto come Max Stirner. Un modello politico dal quale Jurij non si allontanò mai più. Se le ricordava bene quelle serate, grandiose ed elettrizzanti, in quella stanzina male illuminata. Al posto del Brescia ora brillavano i neon di una lavanderia a gettone. Le pareti rosse e blu dell’internet point erano tappezzate di poster di concerti e mostre, forse per nascondere l’intonaco scrostato. Prima di sedersi alla postazione, si specchiò nella vetrinetta che conteneva


9 aggeggi informatici in vendita. Era uscito presto di casa, senza nemmeno lavarsi. Barba lunga – non certo da santone indiano, ma più lunga comunque dei due millimetri che Jurij regolava costantemente ogni santa mattina – occhi intorpiditi, capelli schiacciati da un lato e aperti come un ventaglio dall’altro. Del resto, era scivolato fuori alla chetichella, simile a un ladro, per non incontrare la mamma che gli avrebbe chiesto come sempre dove andava. Ridacchiò della propria immagine, lui che normalmente era così leccato con capelli ben pettinati e riga laterale, occhiali perbene, barbetta curata e sguardo cristallino, tanto che i compagni spesso lo bollavano come il bancario. Proprio a lui che le avrebbe bruciate tutte. Nella sua posta elettronica trovò la mail di convocazione all’Arca, come sempre senza mittente. Chissà come faceva il compagno Batman a rendere i messaggi anonimi; non se l’era mai fatto spiegare e forse non ci avrebbe capito niente. Lui e il computer erano due pianeti separati. Quello che importava alla Cellula, a ogni modo, era che nessuno sarebbe potuto risalire a loro attraverso cookies o altre tracce sul web. Grazie compagno re degli hacker. Comunque, la riunione era convocata d’urgenza per la sera, alle venti. L’avviso era arrivato quasi all’ultimo momento, ma quella era la norma da seguire per evitare che le mail girassero per troppo tempo sul web. Delete. Ore venti, sala riunioni del centro sociale Arca. Eccoli nello stanzone spoglio ma capiente dove si prendevano le decisioni riguardanti tutti. Il posacenere al centro del tavolo era già pieno di mozziconi. L’Arca stava in via Padova, numero centodiciotto, a metà tra la fermata metro della Gobba e piazzale Loreto. Soprattutto di sera, la via diventava una zona extra-europea. A parte i rumeni, la fetta più consistente dell’umanità presente erano infatti arabi e asiatici. Soprattutto quando pioveva, ci si sentiva un po’ come in una scena di Blade Runner e la sua metropoli multirazziale e incasinata. A Jurij questo piaceva, così come a chi frequentava l’Arca. Solo intorno a un paio di bar frequentati da milanesi, o comunque italiani, il Milly e il Pagoda, si aveva ancora la vaga impressione di essere in Italia. L’Arca. Era il centro sociale più grande e conosciuto della città. Si diceva anche d’Italia. Era sempre stato un’oasi di creatività e libertà. Purtroppo la


10 situazione stava per cambiare. Negli ultimi sei mesi i due governi che si erano avvicendati, non sapendo come comportarsi nei confronti dei collettivi autogestiti dove – a detta loro – imperava una sorta di anarchia incontrollabile e una popolazione di fantasmi senza doveri né diritti, avevano deciso di regolamentarli. All’orizzonte si profilavano la schedatura e il controllo; già da un po’ di tempo i ministri dell’interno avevano anche cominciato a intrufolarvi informatori e a tentare di installare microfoni. Le cose erano anche peggiorate con l’ultimo governo in carica da soli due mesi, il cosiddetto Esecutivo dei Banchieri – con presidente del consiglio e ben otto ministri legati alle grandi banche d’affari americane, al Fondo Monetario Internazionale e alla banca centrale europea – che aveva pubblicamente mostrato di non gradire le aggregazioni giovanili di stampo alternativo o no-global. Per il sindaco di Milano, inoltre, i centri sociali erano solo recinti che raccoglievano – oltretutto spontaneamente – chiunque volesse trasgredire le regole della buona società. Anarchici, comunisti, ambientalisti, animalisti, alternativi, balordi, immigrati, studenti e barboni. Per i suoi fedelissimi frequentatori, invece, l’Arca era un posto magico dove si poteva ascoltare ottima musica, conoscere personaggi fuori dal comune e vivere per un po’ fuori dagli schemi. Nessuno di loro, comunque, aveva le fette di salame sugli occhi; erano coscienti del rischio di potersi imbattere in uno sbirro in borghese o di essere ascoltati da cimici piazzate dalla polizia. Ma per loro valeva lo stesso la pena bazzicarci per respirare un po’ di sana trasgressione. E poi, trovare i microfoni e distruggerli era diventata une delle attività preferite dai ragazzi dell’Arca. Ogni settimana veniva indetta la caccia alla cimice: tutti si buttavano così, sospinti dalle note dei Clash, a rovistare ogni angolo del Centro per stanarle. Chi ne trovava una, vinceva due giri gratis di birra e la gioia di ricevere un’ovazione mentre fracassava la piccola spia davanti a tutti. Da circa un anno il centro era anche il rifugio di Azione Globale, il gruppo combattente di Jurij e compagni, la loro Cellula. Almeno a sentire Pankow, una delle tante sparse per l’Italia e con ramificazioni perfino in Europa; come a Milano, sempre secondo Pankow tutte le altre cellule in genere erano legate ai centri sociali. Il movimento aveva una struttura federativa e non aveva nessun centro decisionale. Si diventava militanti solo nel momento dell’azione. Anche per questo non c’erano


11 contatti stretti tra cellule. Azione Globale, dunque. La Cellula di Jurij e compagni si chiamava Emile Henry, dedicata al giovane anarchico francese ghigliottinato alla fine del diciannovesimo secolo. Si erano conosciuti tutti nell’Arca ma, a dire la verità, all’inizio avevano pensato di incontrarsi nell’appartamento di Lorenzo; infine lui, che non voleva far sapere alla moglie cosa stavano mettendo in piedi, aveva spinto i compagni a cambiare aria. Si erano dunque conosciuti tutti lì, in quell’area un tempo deposito di autobus e ora luogo di ritrovo brulicante di giovani e artisti, crocevia di idee e dibattiti, un’isola di anticonformismo e opposizione dove la Cellula godeva pertanto di una preziosa protezione. Quella che le istituzioni pubbliche avrebbero chiamato complicità. Il centro sociale era una palestra di idee, come scriveva Patrizia, la giornalista del gruppo, dove coabitavano abbastanza serenamente ribelli, emarginati, esclusi, respinti, disadattati, reietti. Ma anche chi combatteva il Sistema, come Azione Globale. Terroristi, come li denominavano le istituzioni pubbliche. In ogni caso, quella sera erano tutti puntuali, tutti riuniti al tavolo rotondo e tutti a fingere naturalezza, senza però mai staccare gli occhi dalla grossa scatola che Pankow teneva in grembo. Quando anche l’ultima cicca fu schiacciata nel posacenere e tutti tacevano concentrati, lui l’appoggiò delicatamente sul tavolo e l’aprì. Gli sguardi, senza darlo a vedere, tentarono di sbirciare dentro. Come del resto succedeva ogni volta. Con solenne ma anche disarmante lentezza, Pankow tirò fuori dei pacchetti e li sdraiò accuratamente uno accanto all’altro. Sorrideva appagato, come un cuoco che ha preparato una cena prelibata. Sei pacchetti. Tanti quanti loro. Tutti uguali. Lo stesso formato, non più grandi di una borsa da donna, ricoperti da una colorata carta da pacco, con tanto di nastro dorato e fiocco. Sembravano regali di compleanno. Difficile che fossero state proprio le sue ruvide mani ad averli confezionati così eleganti. Tenuto fermo dal nastro da regalo, su ogni pacchetto spuntava un biglietto bianco. Aprì l’unico non ancora chiuso, probabilmente il suo. Dentro c’era un libro. Don Chisciotte.


12 «Qualcuno l’ha letto?» chiese. Uno di quei mattoni che tutti conoscono ma nessuno legge. Solo Jurij alzò timorosamente la mano; vedendo che era l’unico, si affrettò a precisare che però non gli era piaciuto. «Ridondante». «Allora non perdiamo nulla» replicò sarcastico Pankow, richiudendo con cura il pacchetto. Aggiunse che ne aveva comprate sei copie appositamente uguali per metterci insieme la miscela esplosiva. Nessuno si mosse e tutti fissarono quei pacchi colorati con un’aria seria e allo stesso tempo incuriosita. Era la prima volta che i pacchetti venivano consegnati a tutti contemporaneamente. Le volte precedenti ognuno aveva ritirato il proprio da solo, sempre direttamente dalle mani di Pankow nello scantinato dell’Arca. «Questo è il tuo, Rosa». La guardò negli occhi. Lei, come strappata dal torpore, mormorò decisa: «ricevuto». Patrizia Cortinovis, nome di battaglia Rosa, come la Luxembourg, e Patty per gli amici intimi, giornalista freelance per diverse riviste, un paio dell’area anarchica, dove aveva mosso i suoi primi passi politici, alcune dell’estrema sinistra e altre ancora legate all’ambientalismo e all’ecologia. Con i suoi scritti feroci, dissacranti e sparsi ovunque, era diventata l’ispiratrice del terrorismo ecumenico, per usare la definizione in voga tra i giornalisti televisivi. In quegli anni, per i movimenti di protesta il terreno si era fatto fertile; con la crisi economica, che non se ne andava più e anzi picchiava sempre più forte, erano infatti riemersi scontento e rabbia, termini sepolti nel dimenticatoio da decenni. Prima che Patrizia s’imponesse al grande pubblico, la ribellione era stata troppo frastagliata per portare a qualche risultato; di fronte al Sistema di potere avevano sempre gravitato varie galassie che non comunicavano nemmeno tra di loro, facendo così involontariamente il gioco di chi avversavano. I movimenti di estrema sinistra, che andavano dai trotzkisti ai maoisti, quelli ecologisti, che andavano dal movimento di liberazione degli animali fino ai neo primitivismi, quelli anarchici, che spaziavano dai punk agli squatter, e quelli di liberazione sessuale, dalle varie leghe degli omosessuali alle femministe; tutti questi movimenti di protesta o di ribellione violenta non avevano mai nemmeno voluto sentire parlare l’uno dell’altro. Il caos però non era mai servito a nessuno di loro. Dividi et impera e tutto il resto. Finché un giorno arrivò Patrizia a teorizzare e auspicare la necessità di


13 un’unione tra tutte le frange terroristiche e i movimenti eversivi – con l’esclusione dei neonazisti e degli islamici – in una sorta di sacra alleanza tra movimenti diversi per ideologia, composizione e strategia, eppure tutti legati da un nemico comune. Lo Stato borghese e capitalista. Il Moloch da demolire. Il Leviatano da abbattere. Ribelle e anticonformista da sempre, Patrizia era sempre stata innamorata dell’idea di dover stare continuamente ed esasperatamente contro. Era una rivoluzionaria di professione e lo sarebbe stata anche nelle vesti di suora di clausura. A parte l’impegno giornalistico, era stata componente del famigerato, per i media ovviamente, Comitato di Liberazione Animale, il gruppo responsabile di alcuni attentati ai danni dei centri di vivisezione ma, per sua fortuna, non era mai stata beccata dalla polizia; lavoratrice a tempo perso in una cooperativa di assistenza ad anziani e bambini handicappati; membro fondatore dell’Associazione di Sostegno America Latina Alternativa; attivista di primo piano per mantenere i legami tra i collettivi sociali europei. Inutile dirlo, il nome del gruppo combattente, Azione Globale, era stato coniato proprio da lei. Alcune sue frasi avevano cominciato a rimbalzare anche fuori dal circuito ristretto delle riviste politiche. Siamo soggiogati da una monarchia assoluta il cui dittatore è il Capitale. Il suo potere ha spazzato via tutti gli altri, la Chiesa, le corporazioni, la politica. È una rincorsa senza speranza, nella quale si può solo scegliere di essere consumatore. O consumi il tuo pasto o diventi il pasto di qualcuno. Bella e intelligente, il suo viso possedeva il fascino vivace della persona di talento. Trentacinque anni o giù di lì, sebbene il tempo l’avesse appesantita sui fianchi, irradiava lo stesso una forte carica sensuale. Naso impertinente e rotondo, leggermente a patata, lentiggini e capelli ramati. Bocca carnosa e mani lunghe e affusolate. Molti uomini, compagni e no, avevano perso la testa per lei. Nonostante i numerosi corteggiatori, però, non si era mai legata seriamente a un uomo. Tenendo un atteggiamento fiero e disinteressato, affermava infatti che non vedeva in giro il tipo giusto. In realtà, il dinamismo di Patrizia era un peso difficile da sostenere per qualsiasi uomo.


14 Pankow proseguì, girandosi verso Sandro, nome di battaglia Didi. A differenza degli altri, il nome di battaglia non se l’era scelto da solo. Gli era stato affibbiato da Pankow, mentre ironizzava sul suo balbettare. Il giorno che Sandro propose, come gli altri, il proprio nome di battaglia, non riuscì ad andare oltre il terzo tentativo. Did … Did … Did … fermandosi sempre sulla seconda d e raddoppiandola un po’ di volte prima di bloccarsi. Emozione o confusione, chissà. Nessuno seppe mai quale nome avesse scelto. Comunque, Pankow sancì che si sarebbe chiamato solo Didi. Secoli addietro faceva una bella vita, Sandro Carminati alias Didi, poi le cose gli erano andate male ed eccolo precipitato nella discarica della società. Dopo aver vagabondato per varie case occupate, talvolta insieme a dei rom e talvolta con famiglie albanesi, Didi finalmente era riuscito a sistemarsi stabilmente in un posto fisso. Da un po’ di tempo, infatti, dimorava in una fabbrica abbandonata ai confini della città. Aveva scelto un buco in quell’enorme casermone, un tempo produttore di cemento e ora invece solo una topaia sporca e maleodorante che riforniva di droga la città, un posto dimenticato da tutti e rifugio per tossici, barboni e immigrati clandestini. Eppure, Sandro non era un vero barbone, non ne aveva l’aria e non chiedeva l’elemosina nelle strade; il suo aspetto da bravo ragazzo, biondino e con gli occhi verdi, non faceva neanche lontanamente immaginare che fosse uno spostato. Bisognava scrutarlo per bene, per accorgersi che era troppo magro e pallido, e che i suoi vestiti erano lisi e scoloriti o addirittura rattoppati; comunque la gente per strada non lo scansava come accadeva invece a quelli con i quali dormiva di notte. Si dichiarava apolitico ma di fatto sfoggiava una spilla anarchica. Guardò in alto verso Pankow e, prima di rispondere, si grattò la testa e accarezzò il suo pacchetto. Pankow proseguì la distribuzione chiamando Batman e dandogli uno dei pacchetti; Marco Beretta aveva scelto questo nome prendendolo da uno dei suoi fumetti preferiti; tirò verso di sé il pacchetto con aria spavalda. Tra loro due c’era una sorta di confidenza perché talvolta si vedevano nel centro sociale, al fuori dalle riunioni. Per sottolineare la sua prontezza all’azione, dimenò anche la bionda chioma raccolta a coda di cavallo. Non ancora trentenne, era il più giovane del gruppo, sebbene dimostrasse molto di più della sua età anagrafica. Magro, con il pomo di Adamo quasi appuntito, gli occhi cerulei e il suo nome scritto in giapponese


15 tatuato sull’avambraccio; nonostante fosse uno stregone del computer, Marco non aveva mai studiato informatica. La sua era pura e cristallina passione. Ufficialmente sbarcava il lunario come programmatore in un’azienda di proprietà di un amico; ma, appena libero, frequentava assiduamente l’Arca dilettandosi con un po’ di sano hackeraggio ai danni di istituzioni pubbliche, banche e multinazionali. Il suo ideale più grande era la libertà estrema senza alcuna forma di governo. Ovviamente era vicino alle posizioni degli anarchici. Marco era una scoperta di Pankow; prima di conoscere Azione Globale, infatti, il ragazzo faceva parte di un gruppetto di piromani che la sera si divertiva ad accendere carbone sotto le ruote di Mercedes e Bmw. Incendi sacrosanti dal punto di vista morale, di Marco ovviamente, ma irrilevanti nell’ottica di una Rivoluzione. Talento sprecato, gli aveva detto allora Pankow, proponendogli di unirsi alla cellula per impiegare degnamente le sue capacità alla tastiera e incanalando così in modo proficuo la sua rabbia giovanile. Pankow nominò Medici; alias Lorenzo De Angelis, dandogli il pacchetto e lui annuì senza fiatare, mettendoci sopra la mano. Contrariamente allo stereotipo del romano, Lorenzo era un uomo di poche parole, per nulla incline alla discussione e alla polemica. Ciò non significava che non fosse una persona profonda, ma solo riservata. Era di Centocelle, ossia un romano alla decima e fiero di esserlo, tanto che cadeva sempre nelle provocazioni goliardiche dei suoi compagni milanesi e reagiva con veemenza. Lo faceva imbestialire sentire che doveva rispettare gli orari milanesi e di dimenticarsi il senso del tempo romano, oppure che a Milano doveva scordarsi la dolce vita e la confusione della capitale. Stereotipi, replicava lui, odiosi stereotipi. Nella vita privata era uno stimato radiologo del Niguarda, aveva all’incirca quarant’anni, sposato e papà di una bimba. Lasciata Roma, da una decina d’anni si era trasferito a Milano per lavoro. Oltre al giramondo Pankow, era l’unico non milanese. Il suo nome di battaglia richiamava sia Lorenzo de’ Medici che la professione di medico. Un uomo riflessivo e pacato, ma anche molto determinato. Era lento sia nell’andatura che nella parlata, ovviamente con un considerevole accento romano; anzi, tutto ciò che faceva era lento. Ma anche ben fatto. I pochi capelli sopravvissuti stavano sui lati, conferendogli un’aria più matura. Il suo viso era incorniciato da una barba accademica di una settimana e arricchito da occhialini tondi alla Groucho Marx. In effetti, era un uomo


16 sagace e diligente. Veniva dall’estrema sinistra e, in passato, si era anche candidato per il consiglio comunale di Roma. Ma era uno schivo, non parlava volentieri della sua vita privata. «Ecco, Ramon» fece Pankow, porgendo un altro involucro infiocchettato a Jurij. Sebbene non amasse l’usanza del nome di battaglia, quest’ultimo era visibilmente soddisfatto quando si sentiva chiamare Ramon. Nel suo sguardo, comunque, saettò anche un lampo di asprezza che l’altro ricambiò, annuendo. Reciproca diffidenza tra loro due, da sempre. Eppure, a dispetto dell’antipatia, Pankow si fidava di lui. Non ciecamente, visto che non concedeva completa fiducia nemmeno a se stesso. Ma, più degli altri, il compagno Ramon si era sempre mostrato onesto e affidabile. Era idoneo a compiere qualsiasi azione, essendo il più presentabile della Cellula. Taglio di capelli disciplinato e sguardo pulito da bravo ragazzo; camminata diritta con portamento sicuro, senza trascinare i piedi o con movenze particolari; parlata senza inflessioni e con voce morbida; nessun precedente con la giustizia; tanto sano idealismo. Non faceva nemmeno uso di droga, non fumava e beveva con moderazione. Era dunque perfetto per qualsiasi azione, a maggior ragione per girare la città con un involucro in mano che nessuno doveva notare. Con quella sua aria candida da giovane professore beneducato, Pankow non si sarebbe preoccupato di lui nemmeno se i piedipiatti l’avessero fermato. Jurij Colombo era un anarchico tutto d’un pezzo e, come tale, non considerava la violenza di per sé una consuetudine corretta. L’anarchia non si poteva imporre con la forza, diceva sempre, era una pratica collettiva. Per indole, quindi, avrebbe preferito riforme graduali che prendessero il posto della forza. Ma, come tutti i libertari sapevano, se la situazione non lasciava alternative, la forza diventava necessaria. Ecco la ragione della sua presenza in un gruppo di lotta armata. Era stato conquistato da Pankow, conosciuto ovviamente all’Arca, quando l’aveva sentito dire di essere alla ricerca di gente che protesta e magari pratica la violenza di piazza, ma a cui manca l’ultimo tratto di strada. Impugnare l’arma. Jurij era alla ricerca di uno scopo, un obiettivo, qualcosa che traducesse il suo scontento in azione. Ma non aveva mai voluto frequentare gruppi o


17 associazioni che parlavano di nemici di classe. Si sentiva oltre quelle idiozie, lui che voleva punire chi usava la scienza per costruire centrali nucleari o per infliggere sofferenze al genere umano; il suo desiderio era spazzare via i banchieri che ormai governavano alla luce del sole sia in Italia che in Europa. Pankow gli parlò di “azione diretta” e non di “lotta armata”. Anche questo lo colpì profondamente. Sei compagni, sei pacchetti. «Perché tutti insieme?». La domanda di Lorenzo fu rincorsa da una pausa, un silenzio nel quale tutti si guardarono intorno e il quesito rimbalzò immediatamente da uno sguardo all’altro. Pankow rimase immobile, con le braccia conserte e la robusta mascella sulla difensiva. Ovviamente si era tenuto il sesto pacchetto. «Abbiamo sempre fatto una sola azione alla volta» aggiunse Lorenzo. «Non sei contemporaneamente». Medici aveva rotto il silenzio facendosi portavoce degli altri. Non era il tipo ideale per guidare un gruppo, ma sicuramente aveva il fegato per parlare a nome altrui. «Perché limitarci a un’azione sola» replicò Pankow, calpestando i dubbi dei compagni, «quando sei azioni contemporanee faranno veramente parlare di noi, fornendo anche una prova di forza della Cellula?». «Non avete notato che ormai non fanno quasi più caso a noi?» rilanciò. Sguardi seri. Riflessivi. «Le nostre azioni, infilate ordinatamente una alla volta, ormai si sono confuse con quelle degli islamici e dei nazi» commentò in tono di disappunto. Ancora silenzio. Anche Lorenzo non si muoveva. «Che immagine hanno avuto di noi, finora?» chiese ancora Pankow, guardando a destra e sinistra. «Furti di rame dai binari delle ferrovie, dai cimiteri e dalle cabine elettriche; una rapina in gioielleria; una rapina a un casello autostradale; le lettere con proiettile ai direttori delle filiali Equitalia; auto bruciate, un paio di vetrine infrante e computer rubati; scritte sui muri del comune e della prefettura. E una rapina in banca». Tutti ripensarono all’incursione armata nella scalcagnata banca alla periferia di un anonimo paesino padano. Perfino il direttore del posto sembrava sul punto di ridere, quando gli avevano puntato contro le armi.


18 «Tutto qui» dissero le mani di Pankow aprendosi come per lasciare cadere della polvere. «Non siamo ancora nessuno e nessuno non può fare paura al Sistema. E nemmeno reclutare compagni nuovi». Pankow non era un ideologo né un intellettuale. Ma sceglieva sempre le parole più efficaci per motivare chi gli stava di fronte. Carisma. Pankow ne aveva da vendere. Alto e robusto, occhi grigio-verdognoli decisi e mascella volitiva, capelli da marine e barba ispida e brizzolata, ogni sua azione aveva sempre qualcosa di fisico. Era il più vecchio della Cellula, tra i quaranta e i cinquanta e forse più. Indefinibili. Nessuno gliel’aveva mai chiesto, era uno di quegli uomini senza età apparente, uno che probabilmente aveva avuto lo stesso aspetto già a diciotto anni. Non era un tipo cerebrale ma non per questo stupido o ottuso. Al contrario, le sue decisioni seguivano sempre traiettorie logiche e razionali. Argomentava sempre le sue affermazioni e parlava con proprietà di linguaggio. In più, un vago e impalpabile accento francese gli donava un alone esotico. Pankow era pura azione, lucida e consapevole. Anche per queste ragioni, su di lui circolavano storie e leggende. Era un mito vivente. Aveva accennato più volte al suo desiderio di ingrandire la Cellula. Jurij sospettava che mirasse a trovare proseliti non tanto per aumentare le forze in lotta contro il sistema ma più semplicemente perché giudicava l’attuale formazione poco affidabile. E probabilmente aveva ragione. Il primo comandamento di un combattente clandestino – come preferivano chiamarsi loro – era quello di non farsi notare, di essere invisibile nella sua vita privata. Il guerrigliero deve saper vivere tra gli altri e deve stare attento a non sembrare diverso dalle persone comuni, soprattutto in una città. A costo di passare per un pacato borghesuccio. E come poteva esserlo uno che vive in mezzo agli sbandati in una fabbrica abbandonata, oppure una che scrive articoli infuocati contro la polizia, oppure ancora uno che tutti i giorni cerca di sabotare qualche banca dati? O addirittura un ex militante di gruppi terroristici stranieri? Per questo motivo, tra l‘altro, più di tutti Pankow aveva una paura fottuta di essere catturato. «Bisogna impressionare il Sistema» riprese, ancora più deciso. «Fargli


19 vedere che noi abbiamo due palle grandi come angurie!». Ora, i suoi compagni avevano un’espressione più convinta. Li aveva riconquistati, come sempre. «Bien» proferì con fierezza. «Domani mattina tutti noi contemporaneamente lasceremo il pacchetto all’ora e nel luogo indicati sul biglietto. Poi scomparite» sottolineò con un tagliente gesto della mano. Patrizia alzò la mano. «Il contenuto è …». «Innocuo, come le altre» disse lui, con un tono pacato. «Niente più che grossi petardi». Tutti acconsentirono. «Ma stavolta faranno il botto in luoghi più interessanti del solito. Palazzo Marino, la questura, la stazione Centrale, e così via». Jurij, tirandosi su, richiamò l’attenzione degli altri. «Parteciperanno anche compagni di altre cellule?» domandò, aumentando il tono di voce e cercando l’attenzione di Pankow. «Ho preferito tenere la cosa circoscritta» rispose lui, serio, «ancora per un po’. Troppo presto per incontrare combattenti di altre cellule» aggiunse. Jurij storse la bocca. Rimuginava su Pankow. Si vedeva benissimo sul suo viso la mancanza di fiducia nel gruppo. Era abbastanza evidente che ancora non li considerava preparati. Recentemente aveva insistito per fare un poligono in campagna per svezzarli con le armi, che, tra l’altro, non era andato neppure male. Jurij alzò la mano per dire ancora qualcosa. «Appena tornato qui» riprese Pankow, senza badare al compagno, «Medici si occuperà della rivendicazione per i giornali con il volantino redatto da Rosa». «Obiezione» disse Marco alzando la mano. Si vedeva lontano un miglio che stava per sparare una stupidaggine. «Se la fa Medici» fece indicando il compagno, «penseranno che siamo una cellula di caciaroni romani». «In va-va-va-vacanza a Milano» scherzò Didi balbettando e ridacchiando. «Aridaje!» protestò Lorenzo. «Bello il vostro, di accento» disse imitando la cadenza lombarda dei compagni. Risate miste a grida.


20 «Basta!» urlò Pankow. «Credete di essere a un talk show?». Patrizia si schiarì la voce e tirò fuori un foglio da una cartella appoggiata sul tavolo; lo diede a Lorenzo che si era subito ricomposto. Mentre gli altri parlottavano, ognuno lo lesse velocemente e, annuendo, lo passò al vicino. Si trattava dello stesso già visto una settimana prima, ma era giusto controllare. «Se non ci sono altre domande o richieste di chiarimento» s’inserì Marco, «è più saggio sciogliere la seduta e ritrovarci quando le acque si saranno calmate». Mormorio di approvazione generale. «Non ci vedremo per qualche tempo» concluse Pankow. «Tra un paio di settimane fate un giro da queste parti». Raccomandò ai compagni di fare sempre, nei giorni seguenti, un contropedinamento per scovare eventuali piedipiatti alle loro calcagna – a turno, uno della Cellula doveva seguire un compagno e controllare se qualcuno gli stava dietro. Sandro, per esempio, doveva fare l’ombra di Jurij e viceversa. «Ripassiamo un’altra volta la lezione, prima di lasciarci…».


21

II

Le nove e trenta. Jurij era davanti alla televisione da almeno un’ora, in attesa di ascoltare un notiziario. Moriva dall’attesa di conoscere l’esito dell’azione ma non poteva certo telefonare ai compagni. Finalmente. Fece un balzo sulla sedia: interrompevano le trasmissioni per un’edizione straordinaria. Addentò il panino e si preparò ad ascoltare, con il sorriso trepidante di chi attende grandi notizie. Anche per questo le prime parole lo trapassarono come una lancia. «Attentati esplosivi a Milano. Un morto». Fu come una fitta. Per qualche istante rimase impietrito, la bocca aperta. «Un morto», ripeté come un’eco. Le dita frenetiche cambiarono subito i canali per sentire anche altri telegiornali. Tutte le televisioni stavano trasmettendo l’edizione straordinaria, quella sorta di finestra spalancata improvvisamente sulla normale programmazione televisiva giornaliera quando moriva un papa, veniva assassinato un politico importante oppure scoppiava una guerra. Tutti quanti annunciavano, con tono tra il grave e il concitato, che sei esplosioni avevano colpito sei zone diverse di Milano e che la bomba davanti al Municipio aveva ucciso un passante. Ovviamente tutti i notiziari parlavano di bomba. Di atto terroristico. Di strategia omicida. «Bomba». Jurij scandì le due sillabe meccanicamente, come per ricordare a fatica una cosa successa un secolo prima. Invece erano passata solo poco più di un’ora da quando, nei pressi del Municipio, lui aveva messo il suo pacchetto. Poco più di un petardo, secondo Pankow. Bomba, l’aveva invece chiamato il giornalista. Jurij si passò una mano sul volto. O qualcun altro aveva avuto la stessa idea di mettere un ordigno esplosivo davanti al Comune, oppure il suo pacchetto non conteneva un semplice petardo. Inutile giocare con le supposizioni. Era stata proprio il suo pacchetto. Il suo libro. La sua bomba.


22 «Un morto. Un morto, porca puttana ladra!». Picchiò il telecomando sul tavolino. Davanti a sé vedeva l’ennesimo giornalista stronzo sullo schermo, il consueto inviato sul posto torreggiante a qualche metro dal punto dell’esplosione. Per terra si vedeva una grande macchia rossa e ovunque brandelli senza una forma precisa. Forse vestiti, forse pezzi di carne umana. La voce ansimante e fintamente costernata raccontò che il malcapitato era un giovane a passeggio con il cane; notando il pacco, il passante l’aveva preso afferrato e probabilmente aperto. E il petardo di Pankow l’aveva fatto a pezzi. Altro che club dei monchi. «La polizia mantiene il più stretto riserbo. Forse un ordigno al plastico». La stanza cominciò a girare, gli mancò l’aria. Avevano ammazzato un uomo. Anzi, lui aveva ammazzato un uomo. Non era nei loro programmi, e soprattutto nei suoi. Jurij non ci aveva mai tenuto molto all’idea di far secco qualcuno. Soprattutto un povero disgraziato. Certamente, non uno che portava a spasso il cane. «Un gesto sprezzante e criminale dei terroristi» berciò un altro giornalista televisivo. Oltre a danneggiare il monumento, l’esplosione aveva dunque ucciso il cittadino inerme e innocente, colpevole solo di aver raccolto il pacchetto proprio nel momento dell’esplosione. Il giornalista aveva piagnucolato che quel povero ragazzo era un semplice passante, uno studente universitario capitato nel posto sbagliato nel momento sbagliato. A differenza di quelli della stampa, i giornalisti televisivi non erano mai particolarmente svegli; in più, amavano la retorica e il vittimismo. Anche perché dovevano leggere le veline dettate da qualcuno più in alto, naturalmente con la regia dei politici. «Un omicidio vergognoso, un grave misfatto». Si parlava di telecamere, quelle del comune e quelle di una banca vicina, che forse avevano catturato l’immagine del killer. Prese subito il telefono e chiamò Patrizia, l’unica con la quale aveva rapporti al di fuori della Cellula. Anche lei sembrava scossa. Ma non per il morto. «Perché mi telefoni? Sei impazzito?». Jurij si era scordato che non si dovevano chiamare per qualche giorno. Ma, in preda alla foga, se n’era semplicemente fregato. E quindi non l’ascoltò neppure. «Hai sentito cosa è successo al mio pacchetto?» chiese, infatti. «Un


23 fottuto passante con il cane lo vede nascosto sotto un cespuglio e gli scoppia in mano!». Patrizia sbottò rabbiosamente. «Sei sordo?» gridò. «Non dovevi chiamarmi!». «È ancora troppo presto per le intercettazioni, Patty». «Gli sbirri non sono tutti dei ciula come credi». «Comunque, qualcuno di noi l’ha fatta grossa». «Sta zitto!». Ma lui borbottò tra sé. «È morto un ragazzo! Uno che non c’entra, oltretutto. Quanto credi che ci impiegheranno a beccarci tutti, adesso?». Lei aprì le labbra per dire qualcosa; poi rinunciò perché, in fondo, comprendeva lo sfogo del compagno. Era inutile riattaccare. Tanto, se li stavano ascoltando, ormai avevano già sentito abbastanza. «Cosa dicono i giornalisti della tv?» chiese lei, dopo la pausa. «Dicono tutti la stessa cosa. L’ordigno era ad alto potenziale distruttivo». Al plastico, altro che petardo! Patrizia sospirò. «E naturalmente» concluse lui, «piangono sul morto, un innocente studente, bravo ragazzo e roba del genere. Poi le solite stronzate, indagini della polizia a trecentosessanta gradi e così via». Jurij aveva cominciato ad alzare la voce. «Calmo!» esclamò lei energicamente. «Innanzitutto non è colpa tua. In secondo luogo, sai che la nostra lotta può anche coinvolgere altre persone». «Conoscevo i rischi delle nostre azioni. Ma non mi aspettavo di far fuori uno qualunque che non c’entra niente. Magari era uno come noi», continuò lui, uno che si guadagnava il pane con fatica, uno ai margini della schifosissima e maledetta società borghese. «Pensa» Jurij assunse un tono sarcastico, «magari anche lui frequentava un centro sociale». Patrizia sbuffò, non riuscendo a farlo stare zitto. «E ora invece si trova in una bara con un braccio spappolato!» gridò infine lui. «Basta, adesso!» lo bloccò lei. «Siamo in guerra contro lo Stato. Contro il capitalismo bancario. Contro il regime! E poi, se ci pensi bene, non è tutta colpa nostra». Jurij s’irrigidì, incuriosito.


24 «Sai bene come funziona» spiegò la compagna. «Aizzano la massa con cazzate tipo senso civico e responsabilità del cittadino. È un vostro dovere denunciare ogni elemento sospetto» fece in falsetto. «E questo qua si è avvicinato troppo alla bomba». «Bomba. Finalmente qualcuno di noi che la chiama con il suo vero nome» ribatté lui. Patrizia si morse il labbro. «Avevamo concordato la linea dell’azione calibrata» disse con amarezza Jurij. Sì al regicidio e no all’omicidio e cazzate così. «Aspettiamo la prossima riunione e insieme agli altri decideremo» cercò di chiudere lei. «Sì, aspettiamo» borbottò lui, lamentoso. Tutti e due tacquero. Riprese lei: «C’è altro, vero?». Jurij si stropicciò le guance con la mano libera. «Be’, non mi è piaciuto nemmeno l’atteggiamento fascistoide di Pankow». «Non esagerare». «Blateriamo tanto di antiautoritarismo ed eguaglianza, e poi questo qui alza la voce scagliando ordini a destra e sinistra. In più ci manda ad ammazzare un innocente». «Però ci vuole qualcuno che tenga i fili per impartire le direttive. Per non far scivolare la discussione nel solito fiume di parole». «Mai utilizzare la violenza avanguardista» recitò in falsetto Jurij, facendo il verso alla compagna, «è solo propaganda e spreco di risorse». Non a caso era una frase di un suo vecchio articolo. Lei abbozzò. «Oltretutto, qualcuno l’ha forse nominato il leader della Cellula?» chiese sempre innervosito Jurij. «Avresti preferito stare due ore in più a discutere di collettivi nazionali e della presenza imperialistica delle istituzioni?» chiese lei. «Non è meglio agire?» aggiunse a bassa voce. «Chi c’era con me» alzò lei la voce, spazientita, «sul tetto del laboratorio dove allevano i beagle per la vivisezione? Chi c’era con me a spaccare le vetrine delle banche il sabato sera? Chi c’era con me a buttare la benzina sulle sedi di Equitalia? Chi c’era con me a buttare giù i tralicci dell’alta velocità? Forse era un altro Jurij?». Lui sospirò nervosamente. «Hai lasciato indietro le botte prese dagli sbirri insieme ai NO-TAV».


25 Patrizia lanciò un verso liberatorio. Ben detto. «E comunque» grugnì lui, non ancora placatosi, «l’idea del pacchetto regalo è una patetica cazzata, ecco». Lei scosse la testa, sconsolata. «Avresti preferito una scatola nera con teschio e tibie incrociate? L’avresti trovato meno appariscente?». Lui non rispose. «Pankow sa quello che fa. Il pacchetto regalo nel periodo natalizio attira meno l’attenzione, ovvio. Ma se lo trovi così assurdo» chiese ancora lei, insistente, «perché non l’hai fatto notare nell’ultima riunione?». Lui increspò le labbra. «O magari ti stai cagando sotto?» insinuò lei. «Mollami! Certo che no» si schermì lui, «solo non mi aspettavo che qualcuno ci rimanesse. Uno che non c’entra, per di più». «Adesso non pensarci più. Siamo un gruppo unito e decidiamo tutti insieme. Ne parlerai alla prossima riunione». «Ok» mugugnò più tranquillo. Prima di riprendere, Jurij si schiarì la voce. «Secondo te qualcuno ci avrà ascoltati?». «Lo scopriremo presto» replicò lei, sorridendo sarcastica. «In questo caso ci saluteremo dalle sbarre con un fazzolettino». Tra di loro c’era un rapporto molto intimo, conoscendosi da anni e avendo perfino avuto un flirt durante l’adolescenza. Dopo di che erano sempre rimasti amici. E poi anche compagni di lotta, per di più. Erano gli unici a conoscersi prima di aver frequentato l’Arca. «Patty!» la fermò lui prima di riagganciare. «Non hanno detto cosa è successo al cane di quel tizio». «Bravo, questo è il mio Jurij» ridacchiò Patrizia, felice di riassaporare il senso dell’umorismo del suo vecchio amico. Riagganciato il ricevitore, il ragazzo si stese sul letto con un asciugamano bagnato sulla fronte. Non era affatto tranquillo ma, per non inquietare la compagna, aveva finto spavalderia; forse perfino cinismo. In più, il solito mal di testa aveva cominciato ad aggredirlo da un paio di minuti. Cefalea a grappolo. Soprannominata simpaticamente il mal di testa del suicidio, una volta ogni due giorni scatenava nella testa di Jurij una squadra di martelli pneumatici che lavoravano operosamente per ore. Aveva cominciato a


26 soffrirne dopo l’università e l’intensità del male cresceva anno dopo anno. Anche la frequenza degli attacchi sembrava essere aumentata nel corso del tempo. Talvolta, prima di essere dilaniato dal male, Jurij scorgeva perfino macchie scure o puntini. Una patologia dall’origine sconosciuta come tante altre malattie; ragione per la quale Jurij si chiedeva sempre a cosa servissero i medici. Senza causa, non c’era nemmeno la cura. Il suo medico di base, che lo conosceva fin dall’infanzia, gli aveva caldamente consigliato innanzitutto di evitare pasti irregolari, stress, sonno disturbato, emozioni eccessive, alcol e ambienti fumosi. Lo stile di vita di Jurij includeva purtroppo quasi tutti i divieti del medico. Per lenire il dolore, allora, gli rimanevano i farmaci – tutti sempre con nomi impronunciabili – e gli unici che potevano calmare la tempesta erano i triptani, alcuni in spray altri in pastiglia. Facili da prendere. Il più veloce a spegnere l’incendio, però, era l’unico da iniettare. Ma siccome lui non ce la faceva a cacciarsi una siringa nel braccio o nel didietro, non poteva prenderlo quando era solo. Prese dal cassetto una di quelle pastiglie magiche e la inghiottì senz’acqua. Attese qualche minuto e, quando finalmente il farmaco iniziò ad avere effetto, si addormentò, tormentato ovunque da pruriti. Oltre al lavoro a tempo determinato – insegnante d’italiano in una scuola svizzera frequentata dai milanesi ricchi – Jurij teneva lezioni private in quattro o cinque famiglie, a seconda del periodo. Ovviamente con quelle famiglie non aveva un contratto, era chiamato solo quando i voti dei figli facevano rizzare i capelli in testa ai genitori. Nel primo pomeriggio andò dai Fuchs per una lezione di storia e lettere. I Fuchs erano la famiglia a cui lui era più affezionato ed era anche l’unica che lo chiamava tutte le settimane, spesso anche due volte. Ma la ragione per cui la preferiva non era solo il guadagno. Innanzitutto, andava d’accordo con Sebastian, un alunno simpatico e sveglio. Al ragazzino non mancava la voglia d’imparare, sebbene non studiasse molto perché a scuola si annoiava. Mentre i suoi compagni combinavano qualcosa solo perché obbligati e, per il resto, vegetavano interessati unicamente a ragazzine e videogiochi, Sebastian li trovava sciocchi e reputava gli insegnanti svogliati. Lui voleva di più. Bisognava quindi solo fargli vedere il lato romantico delle materie da studiare. Con lui Jurij sentiva che il suo lavoro era utile e apprezzato.


27 In secondo luogo, si trovava bene con la madre di Sebastian, Natalia Fuchs; non era la solita borghese, altezzosa, incurante dei bisogni del figlio e magari esigente nei confronti del malcapitato che dà lezioni private. Donne di quel tipo ne aveva già incontrate in altre case. La madre di Sebastian, al contrario, era una donna relativamente giovane e spiritosa, attenta al dialogo con il figlio e rispettosa del ruolo di Jurij. Era l’unica a chiamarlo professore. Suo marito, un famoso ingegnere di origine tedesca, era sempre in viaggio e non l’aveva mai visto, né la moglie aveva mai parlato di lui. Jurij non si era mai interessato della professione del padre del suo alunno, finché un giorno Natalia Fuchs gli aveva spiegato che suo marito era un ingegnere nucleare, un dirigente che lavorava per varie multinazionali e progettava gli impianti delle centrali nucleari, in Italia, in Francia, negli Stati Uniti. Era uno stregone dell’atomo, come lo avrebbe chiamato Patrizia. Appena saputa la cosa, Jurij avrebbe subito voluto mollare le lezioni in quella casa. Ma non lo fece. E, in più, si guardò bene dal dirlo ai compagni. Sapeva benissimo che Azione Globale era alla ricerca di azioni clamorose e quale migliore bersaglio di uno che maneggiava l’atomo? Qualcuno ne avrebbe proposto la gambizzazione e Jurij avrebbe dovuto fare da basista. Sicuramente Fuchs era un individuo spregevole e non meritava pietà, ma Jurij non voleva fare del male né a Sebastian né a sua madre. Inoltre aveva trovato un ottimo posto di lavoro e lui aveva bisogno di soldi, non voleva vivacchiare come gli amici dell’Arca, che stavano in piedi con le mance offerte dai partiti politici o con l’aiuto dei genitori. Inoltre, i Fuchs lo pagavano il doppio del normale per due lezioni la settimana e il loro pupillo era particolarmente affezionato a Jurij. Palazzo in stile Liberty con edera sulla facciata, appartamento gigante su due piani. Marmi, parquet, tutto automatizzato. I Fuchs erano quelli che vivevano in serie A, tanto per usare un’espressione del compagno Marco. Ovviamente Jurij giocava in serie C. Andare da loro, nella loro casa sul viale Majno, a due passi dai propilei di Porta Venezia, per lui era davvero come essere promosso di rango. Anche se solo per un pomeriggio alla settimana e sebbene cercasse di non farsi ammaliare da quella lussuosa vita alto borghese. Di solito, la signora Fuchs rientrava solo quando la lezione stava volgendo al termine. Quel giorno, invece, era già in casa. Infatti, durante


28 la spiegazione del romanticismo in letteratura, Jurij la sentì parlare al telefono nella stanza accanto. Si poteva intuire che parlava con il marito e nel suo tono irrigidito c’era del rancore. Non avendolo mai visto, l’immagine che si era fatto di lui non era certo positiva. Doveva essere freddo, senza emozioni, un calcolatore. Del resto, progettare impianti che davano energia ma, potenzialmente, anche la morte, non doveva essere un affare per spiriti delicati e di animo buono. Natalia Fuchs, invece, era una donna graziosa, gentile ed educata; non le aveva certo chiesto l’età, ma doveva essere sulla quarantina. Ottimamente portati, soprattutto quando indossava la gonna al ginocchio e la scollatura con un filo di perle. Poche rughe d’espressione e nessun segno di cellulite. Certo, non doveva essere un’impresa restare in forma quando le incombenze quotidiane erano sbrigate da un paio di governanti, un maggiordomo e una cuoca, un giardiniere e il meccanico per le auto. Tuttavia, ciò non sminuiva affatto la classe della donna, che peraltro non sembrava nemmeno sciocca. Ma quel pomeriggio i pensieri di Jurij erano tutti per quello che era successo la mattina. E non poteva essere diversamente. A tratti smetteva di guardare il libro e cercava di leggere qualcosa negli occhi di Sebastian, forse un’intuizione, una spiegazione. Una giustificazione. Si dice che i bambini siano la bocca della verità. Non è quella che hai messo tu, è la bomba del compagno di un’altra cellula. Avrebbe voluto leggere una cosa così, in quei giovani occhi concentrati. Il ragazzino smise di ripetere e lesse dal libro, seguendo l’indice che accarezzava la riga. Tornò indietro e rilesse. Jurij ascoltò con attenzione, per un po’. Poi ripensò ancora alla bomba. Spremendo la memoria, scandagliò a ritroso tutta la giornata passata, come se così avesse potuto cancellare tutto. Il biglietto sul suo pacchetto diceva di arrivare alle otto davanti al comune e di depositarlo alle otto e quindici. Verso le sei e mezza della mattina era quindi partito da casa per prendere la metro. Si era messo un cappotto marrone, anonimo e largo, e aveva tenuto il pacchetto colorato con il Donchisciotte dentro la mano destra. Nella tasca sinistra del cappotto, aveva infilato invece un libro da leggere, un vero libro. Il De Cive di Thomas Hobbes, saggio che stava rileggendo per la terza volta. Uscito nella stazione metro del Duomo, impiegò dieci minuti a piedi per arrivare di fronte alla facciata


29 cinquecentesca di Palazzo Marino. Se la ricordava ogni volta che ci passava davanti, quella facciata. Interrogazione di storia dell’arte in quarta liceo, aveva risposto che la facciata di Palazzo Marino era settecentesca. La prof, scuotendo la testa, gli aveva detto che le bastava questo per rimandarlo al posto. Erano passati anni da allora ma non riusciva a toglierselo dalla testa. Si era poi seduto una decina di minuti su una panchina davanti al monumento per guardare la piazza, ma scrutandola come per la prima volta in vita sua. Si era voltato anche dalla parte opposta per osservare la Scala con la celebre facciata del Piermarini e la cupola moderna, una piccola audacia simile alla piramide di vetro davanti al Louvre. Non ci era mai entrato in vita sua, pur amando la musica. Solo che, prezzi a parte, non gli piaceva dover stare con tutti quei borghesi acculturati e petulanti. Snob, in una parola. Jurij ricominciò a riesumare accuratamente ogni istante della mattinata, cercando di ricostruirne tutte le azioni fatte, anche le più piccole, che cosa avesse fatto e guardato. Era sicuro di non avere parlato con nessuno. Con lo sguardo aveva fissato e perlustrato la facciata – quella sì ispirata al neoclassicismo, benché sicuramente costruita all’inizio del novecento – della Banca Commerciale Italiana, per individuare dove stavano le telecamere e dove erano puntate. Sarebbe stato meglio andare proprio sotto la facciata, per vederle bene. Una cosa molto poco intelligente in quel momento. Gli era sembrato di vederne comunque quattro, due in alto ai lati dell’enorme portone d’ingresso e due ai lati estremi della facciata, sempre alla stessa altezza, tutte puntate verso il selciato e non davanti, verso i giardini di piazza della Scala. Aveva scrutato allo stesso modo anche Palazzo Marino, trovandone anche lì quattro, più o meno nelle stesse posizioni del palazzo della banca. Probabilmente ce n’erano altre che lui non era riuscito a scorgere. Avendo ancora qualche minuto di tempo, per calmarsi si era messo a leggere qualche pagina del De Cive; per arrivare lì, aveva fatto la strada a piedi, con calma, e senza fretta. Siccome era in anticipo, aveva allungato di proposito il giro. Sicuramente era passato inosservato. Era certo che nessuno l’aveva osservato, forse solo un paio di sguardi di circostanza; un ragazzo che gli aveva ceduto il passo sullo stretto marciapiede e una signora sui sessanta che si era scusata frettolosamente per averlo urtato. Niente di più. Indugiò con il pensiero sulle telecamere, sul fatto che se davvero erano puntate sul selciato e non davanti, si sicuro non l’avevano ripreso, poiché


30 lui aveva depositato il pacchetto nell’aiuola dell’albero dietro una panchina, a qualche metro dal monumento con la statua di Leonardo al centro della piazza. Nessuno poteva aver notato il pacco. Nessuno. A eccezione di quel passante con cane. Maledetto lui e il suo animale. «Ma davvero Byron è morto in guerra?». Jurij riprese contatto con il suo allievo. «Sì, Sebastian. Morì in Grecia aiutando gli indipendentisti nella loro lotta di liberazione». «Da cosa?». «Dagli oppressori. Il popolo greco voleva essere libero e lui aveva lasciato l’Inghilterra e la sua comoda vita per aiutarli». Il ragazzo annuì sorpreso. In quel momento entrò nello studio la madre. Come va il mio pupillo? Natalia. Pochi anni di differenza tra loro, saranno stati sei o sette, eppure il rapporto professionale e una comprensibile sudditanza psicologica avevano sempre infuso in Jurij un vago timore reverenziale. Guardò il viso dolce e materno della donna che gli chiedeva conto dei progressi del figlio. Profumo. Jurij non se ne intendeva molto ma aveva imparato da Patrizia che quell’aroma dolciastro e sensuale doveva essere un’essenza francese. «Migliora velocemente» rispose lui. «Ha solo bisogno di leggere molto e soddisfare la sua curiosità. È un ragazzo intelligente. I voti negativi sono dovuti solo al fatto che la scuola per lui è noiosa». Il ragazzo annuì con fierezza. La donna fece però la smorfia di chi si aspetta di più. «Tra poco cresceranno anche i voti, vedrà» aggiunse allora lui. Lei sorrise e cambiò argomento. «Un caffè?». «No … grazie!» fece lui colto alla sprovvista. «Posso offrirti qualcos’altro?». Gli stava dando del tu, era la prima volta. La donna aggiunse che loro apprezzavano molto ciò che lui faceva per nostro figlio. Apprezzavano. Chissà se suo marito sapeva davvero dell’esistenza di Jurij. «Allora vada per un tè». Natalia chiamò la cameriera e lui disse a Sebastian che facevano una


31 pausa. Si accomodarono in salotto, mentre il ragazzino dal caschetto biondo saltellò fuori dalla stanza e salì verso la sua camera a giocare. Una casa veramente sfarzosa, di quelle che si vedono nelle riviste di architettura. Il solo soggiorno era già grande come l’appartamento di Jurij. Si vedevano due colonne che sostenevano il soffitto e una scalinata che probabilmente portava alle camere del piano di sopra. Il pavimento in parquet e i divani morbidissimi con stoffe pregiate. Tra le altre cose che colpirono l’attenzione del ragazzo c’erano due antichi tavoli di legno e una credenza di gusto asiatico, forse del Tibet o un posto così. Non era lusso sfrenato. Sobrio era l’aggettivo adatto. Lo poteva vedere anche lui che non se ne intendeva. Entrambi si sedettero su uno dei divani, naturalmente uno di fronte all’altra e non vicini. Arrivò la cameriera con il tè. «Dove vai adesso di bello? Altre lezioni?». Jurij sorrise. «Niente lavoro. Vado all’Arca, dai miei amici». Avrebbe voluto mordersi la lingua. Anzi, tagliarsela. Anche se difficilmente quella donna poteva costituire un pericolo. «Arca» ripeté lei perplessa. «Centro sociale» mormorò lui con un vago tono petulante. «Cioè uno di quei posti» continuò lei, con uno sfumato sguardo di riprovazione, «sporchi e sottosopra dove gira droga, si fanno concerti e si organizzano le manifestazioni contro la polizia?». Lui fece una smorfia impressionata. «Se lo descrive così, mi vengono i brividi. Quello che frequento io è diverso». Pausa. Jurij ci ripensò. «Be’, forse talvolta c’è un po’ di confusione!». Entrambi risero. «Ed è vero che si fanno concerti ma non ho mai sentito parlare di manifestazioni contro qualcuno, tanto meno contro la polizia». «Magari ti sembrerà strano, ma io sono stata in un posto simile, un po’ di anni fa. Si chiamava Leoncavallo». Jurij sorrise, ovviamente perché l’aveva conosciuto bene. Raccontò di esserci andata con amici e che si era molto divertita; sorridendo, disse di aver visto una confusione bohemien – il ragazzo sorrise impercettibilmente nel sentire quel patetico termine ormai in disuso che ogni buon borghese adopera per definire artisti, disadattati e alternativi tutti insieme – assi e pezzi di lamiera contro le pareti, manifesti ovunque, graffiti e scritte sui muri, gente


32 colorata e dall’aspetto dimesso che girovagava qua e là. Una foresta di spinelli e birre ovunque. Descrizione impeccabile. Ricordava inoltre una specie di palco di fortuna dove probabilmente si tenevano i concerti. Su un muro aveva visto anche un cartellone che ricordava, o celebrava, una manifestazione fatta contro lo Stato e la polizia. Ecco da dove veniva la sua idea di un centro sociale. Aggiunse comunque di essersi divertita e di aver trovato quel posto un simpatico diversivo. «I miei amici di quella sera mi dissero allora che i centri sociali sono tutti così». «Bah, forse un tempo» rispose lui alzando le spalle. Aggiunse subito che erano ormai cambiati, che solo in quello spazio si potevano trovare creatività, fantasia, un pizzico di salutare disorganizzazione, musica non commerciale, dibattiti su argomenti di ogni tipo e tipi interessanti che sembravano esistere solo lì. Libertà. «Soprattutto tanta libertà. In più, io ci trovo i miei amici». «Mio marito, che ama esagerare, dice comunque che sono covi di comunisti e ribelli». «Be’, io non sono comunista e nemmeno la maggior parte dei miei amici». Lei annuì con un sorriso enigmatico. Chissà se era disinteresse o accondiscendenza. «Suo marito vede solo un aspetto della realtà. Talvolta non basta fissare una parete, bisogna anche guardarci dietro». Una bella frase, una di quelle da cinema che gli uomini dicono alle donne per impressionarle. Chissà come gli era venuta. «Però ammetto di essere un po’ ribelle». Natalia rise divertita e sorseggiò il tè. Era la prima volta che la madre di Sebastian gli parlava così confidenzialmente. Era sempre stata gentilissima e comprensiva, ma finora non gli aveva mai chiesto niente di personale. «Cosa pensi della politica?». La domanda della donna lo sorprese. A prima vista avrebbe potuto sembrare pericolosa. Una specie di questionario allo scopo di vedere chi si era portata in casa. Per poi sbatterlo fuori, se ritenuto potenzialmente dannoso. Ma il ragazzo intuì che non era così. Natalia Fuchs era


33 semplicemente curiosa. E anche lui lo era, non avendo mai veramente conosciuto una persona come lei. «Vorrei che l’uomo» rispose lui fiducioso, guardandola con una luce un po’ provocatoria, «fosse così evoluto da non avere bisogno di essere governato». «Sarebbe il caos» disse lei, colpita da quella frase. «Non se questa libertà maturasse gradualmente. Nessun caos, bensì un nuovo ordine sociale, più avanzato e senza classi». L’aveva sparata grossa, però ormai era fatta. Lei sorrise, dubbiosa. «Governare un altro uomo» riprese lui, incoraggiato, «alla fine è sempre una forma di schiavitù». Sempre con cautela, Jurij disse che i rapporti tra gli uomini dovrebbero essere non autoritari e anzi basati sul libero accordo. «Al posto di uno Stato poliziesco» chiarì, «libere associazioni e federazioni solidali». Natalia taceva, sempre più incuriosita da quelle idee, per lei probabilmente solo bizzarre. «E se l’uomo si evolvesse a questo livello» concluse lui, pacato, «che bisogno ci sarebbe di leggi e di una maggioranza che accontenta qualcuno e scontenta tutti gli altri?». Silenzio. Sguardi. Lei si passò la lingua sulle labbra con un’espressione a metà tra perplessità e coinvolgimento. Ma con gesto della mano, quasi impercettibile, scacciò i suoi pensieri e recuperò un’aria più neutra. «Vivi ancora con i tuoi?». «Con mia madre. Mio padre è mancato due anni fa». «Mi dispiace. Laurea in lettere, giusto?» lui annuì e sorseggiò la bevanda. «Le tue occupazioni sono sempre state la scuola e le lezioni private?». Il ragazzo disse di sì. Addentò con delicatezza un biscotto al burro preso dal vassoio. Era delizioso e non poté fare a meno di sottolinearlo con un gemito. «Non pensi di cercarti un lavoro stabile? Almeno in futuro», puntualizzò lei. Jurij increspò le labbra, come a dire che non era una cosa facile. «Ho provato a cercare e lo farò ancora. Ma non ho ancora trovato ciò che cerco».


34 Cercando di deglutire alla svelta i pezzi di biscotto, si lagnò del fatto che le porte sembravano aperte solo per chi aveva un paio di costosissimi master, per ingegneri e programmatori. «Ma per un laureato in lettere, per uno come me, non c’è niente». «Potresti trovare un impiego in azienda. Mio marito è un grosso industriale e …». «No, non si preoccupi» la bloccò lui, cercando di mascherare con un timido sorriso il suo scatto brusco. «Preferisco restare nel mio campo. Altrimenti mi sembrerebbe di aver studiato per niente». Con aria studiatamente naif, aggiunse che aspettava una buona occasione come insegnante. O come scrittore. Talvolta riusciva a essere un ottimo ipocrita. Sapeva benissimo di mentire. Gli piaceva insegnare, certo, ma non sopportava l’ambiente burocratico della scuola e perciò escludeva a priori di avere un futuro come professore. E non scriveva nulla, se non un diario delle sue sensazioni e alcuni racconti che lui stesso trovava superficiali. La donna parlò di Sebastian, della sua scuola e dei suoi professori. La mente di Jurij, stanca di stare sulla difensiva, andò a spasso e tornò al suo chiodo fisso, che aveva dimenticato per un po’. La bomba al Municipio. Sembrava quasi il titolo di un romanzo. La voce di Natalia faceva da sottofondo ai suoi pensieri. Piano piano la testa iniziò a pulsare, colpa del tè o della chiacchierata. La donna se ne accorse ma attribuì la smorfia del ragazzo alla sua fretta di andarsene. Andò perciò alla porta che dava sul corridoio e urlò il nome del figlio. Dopo pochi secondi entrò il ragazzino dai capelli dorati e corse subito da lui. «Ci vediamo giovedì?» chiese Jurij. Sebastian annuì e promise di studiare. «La prossima volta ripasseremo l’Illuminismo» aggiunse lui con fare cattedratico. Il ragazzino tornò in giardino saltellando. Lei lo guardò con affetto; si capiva benissimo che, se non fosse stato per Jurij, suo figlio non si sarebbe nemmeno sognato di leggere concetti e nozioni che invece grazie a lui studiava e apprendeva con passione. Una stretta di mano cordiale. «Alla prossima chiacchierata» disse Natalia. Usò le due mani, calde e avvolgenti, e gli diede l’arrivederci alla settimana successiva. Jurij non ne capì bene la ragione, ma si sentì


35 turbato. Come se avesse fatto qualcosa di sbagliato. Eppure le sue lezioni e il suo comportamento erano impeccabili. Era quasi l’ora di cena ma Jurij non andò subito a casa; sapeva che la mamma avrebbe brontolato, ma in quel momento era più importante andare all’Arca. Doveva avere spiegazioni, essere rassicurato, parlare e discutere. Doveva capire perché si trovava coinvolto in un simile casino. Ovviamente avrebbe dovuto beccare Pankow. Se lui non ci fosse stato – come era probabile – avrebbe almeno potuto anticipare qualcosa a Marco. Alle riunioni quei due parevano quasi intendersela. Altro che divieto di telefonate e contatti. Si vedeva benissimo che tra loro c’era più confidenza. Anche questo lo stava sempre più innervosendo. Era inquieto, nervoso e preoccupato. Forse impaurito. Probabilmente anche in collera. Ma non si sentiva pentito di aver aderito alla lotta armata. Seppure a malincuore, infatti, la considerava comunque indispensabile per rovesciare il regime bancario-capitalista e industrializzato, almeno in quella società e in quel momento storico; ma non accettava e non avrebbe mai accettato che questa toccasse persone inermi e soprattutto innocenti. E, per ciò che ne sapeva, o sperava, anche i suoi compagni la pensavano come lui. Jurij, dunque, non era mai stato un amante delle armi e della lotta. Il suo punto di riferimento politico, difatti, non era certo Bakunin, l’emblema del rivoluzionario pratico, ma il più intellettuale Max Stirner, un libertario tedesco del secolo diciannovesimo, misconosciuto al di fuori degli ambienti accademici e anarchici. Jurij non disdegnava certamente la figura del primo, più celebre e determinato; di lui ammirava l’impegno diretto civile e politico, per il quale aveva pagato personalmente con il carcere e l’esilio in Siberia; il suo attivismo cosmopolita che lo portò a essere l’agitatore di una sommossa popolare in Francia, l’organizzatore di una vera protesta politica con un manifesto programmatico, il fondatore di un giornale in Italia e ovviamente un coriaceo libero pensatore. Come lui, anche Jurij riteneva lo stato capitalista un diabolico strumento nelle mani della borghesia per controllare le masse; come lui, esigeva un mondo basato sull’eguaglianza e sulla libertà, sull’armonia e sulla giustizia sociale. Concetti immortali e imprescindibili. Eppure, nonostante tutto, alla fine Bakunin finiva per essere pericolosamente semplicistico e impreciso sui meccanismi da adottare


36 per cambiare la situazione; proprio per questa ragione, alla fine Jurij preferiva Stirner, perché accettava l’amara necessità che talvolta si dovesse venire a patti con un’istituzione statale o comunque una società organizzata con un corpus di leggi; in più, perché vi ritrovava tutte le brillanti intuizioni libertarie insieme a praticità e obiettività. In più, proprio come Stirner, Jurij non era un anarchico nel senso generale del termine. Infatti preferiva la definizione di libertario, più vicina al termine libertà. Non a caso con la stessa radice. Oltretutto, il pensatore tedesco aveva preso sempre le distanze dagli anarchici del suo tempo. Compagni di lotta e fratelli, ma ancora un po’ troppo idealisti o impulsivi. Di lui, Jurij teneva sempre a mente qualche pensiero importante. Un giorno sua madre gli aveva confessato il cruccio che la faceva stare male, ossia di sapere che il suo unico figlio disprezzava l’ideale comunista, la tradizione di famiglia. Jurij le aveva risposto che nella società comunista, come in ogni altra utopia, gli uomini non saranno mai realmente eguali ma solo proclamati tali. Parola di Stirner. Stirner e Bakunin. La verità, sebbene il ragazzo non riuscisse ad ammetterlo, era che il suo entusiasmo si divideva tra i due pensatori come portavoce di due diversi modi di lottare. Da una parte la calma diplomatica, la pazienza e una vaga alterigia quasi spirituale – che rendeva sospetto l’uso della forza – e dall’altra l’ansia giovanile di reagire energicamente a una situazione iniqua e fossilizzata da secoli. Alla fine aveva scelto di abbracciare la lotta armata, benché dal punto di vista militare non potesse certo prendere a modello Bakunin e meno ancora Stirner. Aveva perciò scelto di ispirarsi a Ernesto Che Guevara, senza ombra di dubbio il più grande guerrigliero del mondo occidentale. Le gesta del Comandante argentino l’avevano entusiasmato fin da ragazzino e ne aveva sempre amato la grande lezione umana e politica. Per questo, nonostante fosse un inossidabile libertario, Jurij aveva scelto un guerrigliero comunista a modello umano e militare. Non a caso, quindi, si era preso il suo stesso nome di battaglia, Ramon. In più, anche se nessuno poteva provarlo, Jurij era sicuro che il medico argentino non solo fosse un vero rivoluzionario ma nel suo intimo anche un libertario, magari inconsapevolmente. Ramon. Il Che era uno con gli attributi da vero guerriero e l’equilibrio morale per farlo senza smarrire la propria umanità. In pace come in guerra, il Che


37 non aveva mai ucciso cittadini incolpevoli. Per ciò che riguardava soldati, politici, funzionari governativi e giornalisti, la faccenda era stata più delicata. La guerra è guerra, purtroppo. Ma la gente innocente, il cosiddetto uomo comune, non si può toccare. Il compito di un rivoluzionario è fare la rivoluzione, non uccidere inutilmente. La bomba al municipio. Ecco la tragica difformità. Alla fine, i suoi pensieri giravano sempre intorno a quella. Pensò a sua madre. A lei non sarebbe bastato spiegare che lui non c’entrava. O quasi. Cosa poteva dirle? Che lui era stato convinto a piazzare una carica esplosiva solo simbolica e che invece l’avevano imbrogliato? Tralasciando l’aspetto tragico della vicenda, avrebbe dipinto la Cellula come un asilo. Inoltre, sua madre era una che spaccava il capello in quattro, una donna concreta che comunque non avrebbe potuto accettare quella giustificazione. Sebbene fosse stata una contestatrice in gioventù e, a suo modo, avesse sempre protestato contro il sistema, non avrebbe certo voluto sentir parlare di morti innocenti, stragi o quant’altro. Causati da suo figlio, poi. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

PROLOGO ......................................................................................... 3 I ....................................................................................................... 7 II .................................................................................................... 21 III .................................................................................................. 45 IV .................................................................................................. 61 V.................................................................................................... 72 VI .................................................................................................. 84 VII ................................................................................................. 94 VIII.............................................................................................. 103 IX ................................................................................................ 124 X.................................................................................................. 144 XI ................................................................................................ 156 XII ............................................................................................... 161 XIII.............................................................................................. 168 EPILOGO ...................................................................................... 177



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