JURY LIVORATI
L’EREDITÀ
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L’EREDITÀ Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-454-3 In copertina: Immagine proposta dall’autore
Prima edizione Settembre 2012 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
A mia figlia
PREFAZIONE
La scrittura è come la vita: tende ad auto-propagarsi, a diffondersi. L'ho scoperto dopo aver pubblicato il mio precedente romanzo, “M@rcello”, e aver sperimentato la meravigliosa sensazione di sfogliarne le pagine stampate e raccolte in un libro vero, come quelli che si trovano in libreria e che amo leggere da quando ho undici anni. Una sensazione talmente forte da ripagare qualunque sforzo profuso nella stesura del romanzo e da spingermi, per l'appunto, a continuare. “M@rcello” è stato auto-pubblicato con uno dei tanti servizi online e di per sé questo non gli rende onore, ma l'effetto finale del libro rilegato non cambia. Tant'è che, sull'onda dell'entusiasmo, il primo traguardo editoriale della mia vita da scrittore emergente mi ha infuso il coraggio necessario a riprendere una bozza di romanzo iniziato nel 2005, quando tanta volontà e un nuovo computer portatile mi avevano accompagnato nel viaggio col quale speravo di compiere il salto da semplici racconti a un'opera più articolata e completa. Questa, in breve, è la genesi de “L'eredità”. Il romanzo è un ritorno alle mie origini, per così dire, al genere horror-mistery con cui sono cresciuto e dal quale ho tratto maggiori soddisfazioni da lettore. Un romanzo col quale spero di dimostrare a quanti hanno visto in “M@rcello” una semplice autobiografia riadattata che posso scrivere anche di fatti che non ho vissuto in prima persona. Un romanzo, prima di tutto, col quale spero di intrigare, emozionare, stupire, anche spaventare. Un romanzo, infine, dal quale spero di ricevere informazioni utili per il mio futuro da ragazzo-che-gioca-a-fare-lo-scrittore, per capire se e quanto il sentiero che ho intrapreso sia quello giusto. Un primo segnale l'ho avuto grazie alla ZeroUnoUndici, la casa editrice che ha scelto di credere ne “L'eredità” e di darmi una chance, regalandomi di fatto la soddisfazione di aver realmente pubblicato un romanzo. Un'esperienza che corona un sogno, ma che, anziché segnare un punto di arrivo, si inserisce come una meta intermedia lungo il percorso che mi condurrà alla prossima opera con più motivazione, più convinzione e più fiducia, ma anche con l'irrinunciabile umiltà che la condizione di scrittore emergente presuppone. Jury Livorati - 15 Maggio 2012
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PROLOGO
Quando suonarono il campanello, Roberto era seduto in cucina, assorto nei suoi pensieri, diviso a metà tra il dolore e la preoccupazione. Per la prima volta da giorni, si stupì nel constatare come la seconda avesse superato il primo: se gli avessero detto che poteva esistere qualcosa di peggiore della tragica perdita della propria moglie non ci avrebbe mai creduto. Invece eccolo lì, a rodersi il fegato con mille interrogativi e ad attendere con ansia la persona che forse avrebbe potuto portare un po’ di risposte. Il suono lo distolse dalle riflessioni come uno schiaffo violento, al quale reagì alzandosi di soprassalto e raggiungendo a grandi passi il corridoio all’ingresso. «Vado io», gridò a Cristina al piano di sopra, sebbene non ve ne fosse alcun bisogno. L’aveva già avvisata che stava aspettando un’amica della mamma, per fare due chiacchiere. Non le aveva raccontato il vero motivo dell’incontro, ovviamente, ma le aveva comunque chiesto di lasciare che si svolgesse in privato. Cristina non aveva lezione all’Università, quella mattina, ma si era chiusa nella sua stanza a studiare in preparazione di un esame. Roberto alzò la cornetta del citofono appeso alla parete, accanto alla porta di ingresso, e premette il pulsante di apertura del cancello che dava sulla strada statale davanti a casa. «Venga pure» comunicò attraverso la cornetta. Mentre lo sguardo gli cadeva inconsapevolmente sulle chiavi di scorta dell’auto di sua moglie Simona, appese a uno dei ganci di un piccolo portachiavi da parete in legno, e l’ennesimo ricordo nostalgico lo pugnalava a morte, aprì la porta. La ragazza che stava percorrendo il vialetto dal cancello all’ingresso doveva avere la stessa età di Simona ma dimostrava almeno dieci anni in più. Roberto aveva già avuto modo di incontrarla qualche tempo prima, ma non aveva dato importanza a quella sconosciuta, non in un giorno nel quale aveva avuto a che fare con decine di altre persone e con una totale alienazione da se stesso e dalla propria vita, sentimento che mai più avrebbe sperimentato nel resto della sua esistenza. Vedendola avvicinarsi nella luce del sole delle nove di mattina, già fin troppo
8 caldo, in sintonia con l’andamento generale di quella estate, si ritrovò a studiarne ogni minimo dettaglio del volto, come se quell’operazione potesse rivelarsi importante. Ricordò che, quando l’aveva incontrata in precedenza, il viso della donna era coperto in gran parte da un paio di occhiali da sole; nonostante ciò, l’impressione generale era stata quella di una persona deperita, forse addirittura malata, probabilmente vittima di esaurimento nervoso o depressione. In quel momento, mentre spostava l’attenzione dagli occhi, solcati da profonde e scure occhiaie, alle labbra, sottili e tirate come corde di violino, fino a risultare quasi invisibili, Roberto trovò conferma alle sue sensazioni. Con il volto coperto da lunghi capelli corvini, che mettevano in risalto il pallore della pelle, la donna procedeva su gambe esili e instabili, come uno scheletro vivente, a rischio di cadere e spezzarsi al minimo soffio di vento. «Buongiorno» mormorò, quando fu al cospetto di Roberto. Sotto la pelle si scorgevano con nitidezza le vene, che andavano a disegnare un reticolo violaverde che aveva un che di disgustoso e innaturale. «Buongiorno» rispose Roberto. Non aveva pianificato quel momento e non si era preparato niente da dire. Si era reso conto che l’incontro tra loro doveva avere luogo e l’aveva organizzato, punto e basta. Quindi, che le cose andassero come dovevano. In fondo, era lei ad avere qualcosa da dire. «Io... piacere. Roberto» aggiunse, allungando la mano. «Erika» si presentò la donna, esibendo una buffa e malriuscita imitazione di un sorriso. Aveva splendidi occhi, notò Roberto, ma la tristezza di cui erano intrisi ne sminuiva le potenzialità. Erika non riuscì a tenerli fissi nei suoi per più di qualche secondo e abbassò lo sguardo. L’impressione che dava era quella di una persona che ne avesse combinata una di quelle grosse, imperdonabili, e che non sapesse da dove cominciare con le scuse. «Vuole...? Prego, entriamo pure» la invitò Roberto, precedendola. «Grazie» fece lei, seguendolo e richiudendo la porta alle loro spalle. In casa potevano ancora contare su una temperatura fresca ma non sarebbe durata per molto. L’interno era accogliente e curato nei minimi particolari, con pareti e mobili letteralmente ricoperti di fotografie della famiglia. Simona amava suo marito e i suoi figli e ogni centimetro della casa ne era testimonianza, cosa che provocò un forte moto di tristezza in Erika. «Era così felice» commentò, per evitare di scoppiare a piangere. «Già» replicò Roberto, senza aggiungere altro. Voltò a sinistra ed entrò in cucina. Erika lo seguì in silenzio. La cucina era in perfetto ordine e profumata, come se avessero appena lavato i pavimenti. Sul tavolo al centro della stanza, ricoperto da una tovaglia in plastica, erano
9 appoggiate due tazzine da caffè con tanto di piattino e cucchiaino. Contro una parete, di fianco alla finestra che dava sul davanti della casa, era appesa una lavagnetta con un calendario a strappo. Sulla lavagna c’era un messaggio scritto col gesso: Pulisci un po’ di insalata per cena. Ti amo. Ciao. Il calendario era rimasto fermo al foglietto del 30 maggio, il giorno in cui Simona se n’era andata. Erika provò un brivido: si chiese se la sua amica avesse in qualche modo avuto dei presagi di quello che le sarebbe accaduto. Aveva sentito di persone che, poco prima di morire, improvvisamente facevano visita a parenti che magari, di norma, vedevano poco, come per lasciare un ultimo saluto. Comunque fosse, quella lavagnetta e quel calendario spezzavano il cuore, perché rappresentavano resti di una normalità che si era persa, di una vita che aveva subito una brusca interruzione in un giorno come tanti. «Prego, si sieda» disse Roberto, prendendo posto a sua volta. La sua espressione era indecifrabile: Erika vi leggeva rabbia, sentimento che immaginava di aver provocato in lui anticipandogli che sua moglie aveva condiviso con lei segreti dei quali lui non era al corrente, ma potevano anche essere tristezza e rassegnazione. «Grazie» accettò Erika, sedendosi. «Se... vuole, mi dia del tu, io...» «Bene» acconsentì Roberto. Teneva le mani incrociate sul tavolo davanti a sé ed era visibilmente nervoso. Trasse un sospiro e subito dopo parve aver ritrovato un minimo di tranquillità e razionalità. «Dunque, Erika, io non sono ancora del tutto sicuro del perché ti abbia chiamato qui» esordì, senza guardarla negli occhi. «Non voglio che pensi...» cercò di intervenire lei. Roberto la fermò alzando una mano. «Non penso niente, per ora. I nostri rapporti sono cominciati male, con la telefonata che mi hai fatto e...» «Ti chiedo scusa, ero agitata e spaventata e...» «...e sono peggiorati dopo la lettera, ma... vedi, se c’è anche una, solo una, minima, remota possibilità che la morte di Simona non sia stata casuale o comunque che sia coinvolto anche indirettamente qualcuno, io... io devo saperlo o non avrò mai pace». Erika mantenne un attimo di silenzio, poi disse: «Come le dicevo... ti dicevo... quando ho telefonato ero scossa, fuori di me, perché io e Simona siamo sempre state come sorelle.» «Questo lo so, me l’hai detto e ho avuto modo di verificarlo in parte, anche se
10 non mi spiego come mai Simona non me ne abbia mai parlato.» «Forse... probabilmente perché io ho condiviso con lei un periodo della sua vita che l’ha segnata in profondità e che ha cercato per anni di dimenticare.» Roberto alzò lo sguardo. «È di questo che devi parlarmi?» «Sì, anche» spiegò Erika. «E di che cosa si tratta?» cercò di tagliare corto lui. «Non è... non è così facile e se devo essere sincera... non so nemmeno se abbia davvero importanza e se sia in relazione con quello che è successo a Simona, ma...» «Se non è importante, perché hai fatto di tutto perché ci vedessimo?» «Per lo stesso motivo che hai appena detto tu. Voglio essere certa che la scomparsa di Simona sia stata causata da una tragica fatalità e non da altro.» «Dunque ribadisci che potrebbe essere coinvolto qualcuno?» «Non dico questo, mi auguro di no, anzi. Ma...» «Ma?» la incalzò Roberto. «Io... prima vorrei sapere che cosa ti ha convinto a chiamarmi, alla fine» chiese Erika, sull’orlo delle lacrime. «Senti, non ho molto tempo, è inutile che...» «Non è inutile!» lo smentì Erika, scaldandosi solo per un istante, prima di riabbassare il capo e la voce. «Per favore, ho bisogno del suo aiuto. Sono giorni che non dormo e fatico a mangiare, a tal punto i dubbi mi tormentano. Immagino sia lo stesso per lei. Per te.» Roberto annuì con un gesto del capo. «Io potrei avere una parte della storia ma tu sicuramente ne hai un’altra. Ti prego, dimmi perché mi hai chiamato. Raccontami che cosa è successo e magari riusciremo a trovare insieme la verità. Sempre che sia diversa da quella che sembra.» Roberto la guardò con serietà. Era ancora spazientito e in qualche modo poco convinto della scelta che aveva fatto nell’accettare di incontrarla per parlare. Dalle prime battute, i loro discorsi sembravano destinati a trasformarsi in un inutile spreco di parole, una nostalgica serie di congetture prive di fondamento, una collezione di se e ma che non avrebbe cambiato la realtà dei fatti. «E per favore» aggiunse Erika «non essere arrabbiato con me. Non voglio altro che quello che vuoi anche tu: mettermi il cuore in pace. Perché niente potrà riportare in vita Simona ma se posso, se possiamo, fare qualcosa per capire che cosa le è successo... mi sentirei meglio. Penso di doverglielo, per la donna che è stata nei miei confronti.» Quelle parole fecero breccia nel cuore di Roberto, che si ammansì. Non aveva niente da perdere, in fondo, e anzi poteva sfogarsi con qualcuno sugli ultimi
11 sviluppi di cui era venuto a conoscenza. Mattia era dalla nonna e non sarebbe rincasato prima dell’ora di pranzo, mentre Cristina aveva promesso di non disturbarli. «Vuoi un caffè?» le chiese, prima di cominciare il suo racconto.
PARTE PRIMA L’incidente
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Simona lasciò cadere la penna sul tavolo e agitò il polso, dolorante dopo aver scritto per quasi mezz’ora. Aveva riempito sette pagine di quaderno, pur avendo cercato di essere il più sintetica possibile, perché raccontare tutto nei minimi particolari avrebbe richiesto ore e lei aveva solo mezza mattina libera. Avrebbe fatto leggere la storia completa a Cristina quella sera, pregandola di arrivare fino in fondo prima di porle qualunque domanda: aveva deciso di non raccontargliela a voce, proprio per non incappare nelle sue inevitabili obiezioni e perdere la sua attenzione. Le aveva scritto un sms per avvisarla che, appena fosse rincasata dal lavoro, avrebbero dovuto fare due chiacchiere per risolvere il loro litigio. Si augurava che la verità, incredibile com’era, non peggiorasse le cose ma non poteva tenerla per sé. Doveva provare ad aprire gli occhi a sua figlia, nella speranza che trovasse un modo di ribellarsi, di cambiare le cose, di riuscire là dove tutte prima di lei avevano fallito. Sempre che ci avessero provato, anziché accettare passivamente il destino, come aveva fatto Isa. Probabilmente avrebbe messo a repentaglio la sua vita ma non poteva fermarsi nemmeno di fronte a quello. Per il bene suo e di Cristina. E di tutte le altre. Chiuse il quaderno e lo ripose nel cassetto del suo comodino, sotto alla biancheria: non voleva che suo marito lo trovasse accidentalmente ed era sicura che lì non avrebbe mai frugato. Scese al piano di sotto e cercò il telefono per chiamare Roberto.
*** «Ed è questo uno dei casi principali in cui si usa shall» concluse Roberto parlando alla classe. Era convinto che più della metà degli studenti non avesse seguito la spiegazione e che, dei restanti, solo un paio l’avessero capita fino in fondo.
16 Ma che cosa poteva farci? Il suo lavoro era insegnare, non costringere ad ascoltare. «Domande?» aggiunse, sapendo che non ce ne sarebbero state. Invece Cantini, dall’ultimo banco a destra, stava alzando la mano per intervenire. Ma due secchi toc sulla porta dell’aula lo interruppero e catturarono l’attenzione dell’intera classe. Roberto si divertì nel vedere le teste dei ventitré ragazzi davanti a lui ruotare nella stessa direzione, come girasoli, e nel pensare a come qualunque evento estraneo alla lezione, anche il più insignificante, come qualcuno che bussava alla porta, potesse rappresentare per loro motivo di interesse mille volte maggiore alla lezione stessa. «Sì?» La porta si aprì e il bidello fece capolino. «Mi scusi, professore. La cercano al telefono. Sua moglie» comunicò, ritirando subito la testa e sparendo alla vista dei ragazzi. «Arrivo» rispose Roberto. «Aspettatemi in silenzio e date un’occhiata al dialogo» disse agli studenti, ancora una volta consapevole di parlare al vento e nello stesso tempo curioso di sapere quale motivo avesse spinto Simona a chiamarlo e a fargli interrompere la lezione.
*** La segreteria puzzava di fumo. Roberto si chiese se la nuova legge che vietava di fumare nei luoghi pubblici venisse rispettata anche lì o se fosse solo colpa dell'odore che non se ne voleva andare dalle pareti neanche a distanza di mesi. Come un amante che non voleva saperne della fine di una relazione. Uno sguardo al posacenere stracolmo sulla scrivania della segretaria gli diede la risposta che cercava. «Prego» gli disse il bidello vestito a puntino indicandogli il telefono accanto alla tastiera del computer. Con l'altra mano si stava esplorando il naso alla ricerca di qualcosa che, a giudicare dall'impegno che ci metteva, doveva essere enorme. Roberto distolse lo sguardo con un senso di disgusto e andò al telefono. «Eccomi, amore» disse, proprio mentre alle sue spalle il bidello aveva trovato quel che cercava e si apprestava a esaminarlo minuziosamente, visto che nessuno lo stava guardando. «Ciao, tesoro! Come va?» La voce di Simona era squillante e gioiosa come sempre. Nei primi tempi
17 Roberto si chiedeva se recitasse, perché gli sembrava impossibile che una ragazza potesse essere sempre così felice, così priva della minima ombra di preoccupazione negli occhi, come un cielo perennemente terso. Poi aveva capito che Simona era proprio così e l'aveva amata più di ogni altra cosa. «Mah, le solite cose» rispose facendo un tono annoiato. «I ragazzi non ascoltano, fa un caldo bestiale...» E si accorse in quell'istante del ventilatore su un armadietto contro la parete. Però, pensò. Non si trattano male qui in segreteria! «E tu?» Da quell'inizio sembrava che la telefonata non fosse stata dettata da una reale necessità ma piuttosto dal semplice desiderio di Simona di scambiare due chiacchiere. Roberto non ne era certo dispiaciuto, sia perché poteva prendersi un time out dalla lezione, sia perché quello sarebbe stato un atteggiamento tipico di sua moglie, una di quelle cose che lo avevano fatto innamorare: lei faceva quello che sentiva. Con le dovute eccezioni, ovviamente. «Sì, tutto bene.» Ci fu una pausa, come per chiudere i convenevoli. «Niente, volevo dirti che oggi non devi andare a prendere Mattia alle quattro.» Roberto se ne era quasi dimenticato - ma sicuramente se ne sarebbe ricordato all'ultimo momento. «Come mai? Non sta bene?» chiese. In quel momento entrò la segretaria e lo guardò come per accertarsi che fosse autorizzato a trovarsi lì e a usare il telefono. I ragazzi la chiamavano Robocop per quel suo essere così fiscale e severa. Aveva una sigaretta accesa tra le dita. «No, no, sta benissimo. È solo che la maestra che dovevano avere oggi pomeriggio ha un impegno e non hanno trovato nessuna supplente, perciò escono prima. Quindi...» «Quindi ci pensi tu?» «Esatto! Passo a prenderlo a venti all'una e lo porto da tua mamma.» «Accidenti!» esclamò Roberto. «Vorrà dire che oggi non potrò prendermi neanche dieci minuti di pausa dagli scrutini.» Quelle riunioni lo annoiavano terribilmente e aveva trovato un po' di conforto nel pensare che avrebbe potuto assentarsi per andare a prendere il figlio a scuola. «Di' la verità: l'hai fatto apposta!» Sorrise. «Certo» rispose Simona stando al gioco. «Ho corrotto la maestra perché stesse a casa. Perché so che ti piace tanto stare a fare gli scrutini... A parte scherzi, ti lascio. Vai pure dai tuoi ragazzi.» «Già» commentò Roberto sconsolato. Guardò l'orologio e vide che mancavano dieci minuti al suono della campana. «Anche se a questo punto potrei anche lasciarli a chiacchierare fino alla fine della lezione.» La segretaria, seduta davanti allo schermo del computer, si voltò a guardarlo con espressione di rimprovero. Roberto fece finta di non notarla. «Fai come vuoi» concluse Simona. «Allora ci vediamo stasera. Buon lavoro.
18 Ti amo.» «Grazie, buon lavoro anche a te.» Fece una pausa. «Anch'io ti amo» aggiunse. Notò l'ombra di un sorriso di scherno sulle labbra della segretaria. Roberto riattaccò e si voltò. Il bidello era ancora lì e lo guardava. Sembrava essersi trasformato in una guardia del corpo, tanto era serio e composto. Al professore venne voglia di scoppiargli a ridere in faccia e di gridargli di darsi meno importanza perché, come dicevano i ragazzi, era e restava uno sguracessi. «Grazie» disse invece, mentre alle sue spalle la segretaria spegneva la sigaretta affogandola nel posacenere pieno. Uscì dalla segreteria e tornò a chiedersi se valesse la pena tornare in classe quando mancavano poco meno di dieci minuti alla campanella. Passando davanti alla sala insegnanti gli cadde l'occhio sulla macchinetta del caffè e quello fu fondamentale a fargli prendere la decisione. Trovò trenta centesimi nel portafogli e li usò per prendersi un caffè. Quelli furono i suoi ultimi momenti di relax.
*** Appena ebbe riagganciato, Simona tornò pensierosa. Si era sforzata di non lasciare che la sua preoccupazione trasparisse dalla voce mentre parlava con Roberto. Uno sforzo che non le era nuovo e al quale doveva ricorrere tutte le volte che i tristi ricordi del passato le riaffioravano alla mente, come relitti dei quali non sarebbe mai riuscita a liberarsi. Ma negli ultimi cinque giorni la situazione era peggiorata e, se prima i suoi momenti difficili erano dovuti solo al rimorso per non aver mai raccontato a Roberto la verità, si erano aggiungente la paura e la frustrazione per aver scoperto che nemmeno lei era al corrente di tutto. Quando, il venerdì precedente, sua madre l’aveva messa a conoscenza dell’intera storia, le era piombato il mondo addosso ed era stata colta da un senso di piccolezza, di fronte a un destino che solo il demonio poteva averle riservato. Si era sentita presa in gabbia, costretta a fare da spettatrice a un incubo che avrebbe colpito Cristina, senza la possibilità di intervenire per aiutarla. Ma non poteva accettarlo, su quello sua madre aveva ragione, nemmeno di fronte alla minaccia di una fine crudele. E così si era buttata subito all’attacco, decisa ad agire d’astuzia, di psicologia, per aprire gli occhi a sua figlia. Non era andata per niente bene, come si era aspettata, e non avevano fatto altro che litigare violentemente. L’ultima risorsa era metterla di
19 fronte alla verità, costasse quel che costasse. Trascorse il tempo che la separava dall’uscita da scuola di Mattia preparando un semplice sugo al pomodoro per il pranzo e facendosi una doccia. Quando aprì il cassetto della biancheria per prendere degli slip puliti, fu colta da un tremendo sospetto. Recuperò il quaderno che aveva riposto poco prima e lo aprì alle pagine che aveva scritto: c’era ancora tutto. Per un momento aveva temuto che le parole avessero potuto cancellarsi, come se la storia non accettasse di essere messa per iscritto, ma solo di essere tramandata di madre in figlia, nel rispetto delle “regole”, come le aveva chiamate sua madre. Non era un’idea assurda, non dopo le esperienze che aveva vissuto. La sveglia sul comodino indicava le 12:32. Simona mise da parte i suoi pensieri e si vestì velocemente, per poi precipitarsi in cucina a spegnere il gas. Recuperò le chiavi dell'automobile e scrisse un breve messaggio per Roberto sulla lavagnetta alla parete: Pulisci un po’ di insalata per cena. Ti amo. Ciao. Passò in garage usando la porta che lo collegava al salotto e mise in moto in tutta fretta. Un minuto dopo era in strada, diretta alle scuole elementari. Ma non vi arrivò mai e a dire il vero non percorse che poche centinaia di metri prima di trovare la morte. Perché le “regole” andavano rispettate.
*** Quando Mattia uscì dal cancello delle scuole e in mezzo alla folla di genitori non notò né la mamma, né il papà, cominciò a preoccuparsi. Quando, spostando lo sguardo alle automobili parcheggiate sui due lati della strada, non vide né la Focus di Roberto, né la Corsa di Simona, la sua preoccupazione si trasformò in disperazione. Ma quando, dieci minuti più tardi, si ritrovò da solo, ancora in piedi ad aspettare che qualcuno lo venisse a prendere, mentre tutti gli altri erano già andati da un pezzo - persino Simone, che era sempre il più ritardatario e di mattina arrivava cinque minuti dopo e la mamma gli aveva detto che non era una bella abitudine, perché la brava gente si vedeva anche dalla puntualità - la disperazione divenne terrore. E cominciò a piangere silenziosamente. Non era mai accaduto prima, tutto qui. Sin dal primo giorno in prima elementare la mamma o il papà erano venuti a prenderlo ed erano sempre le
20 prime persone che trovava davanti al cancello appena usciva. Era stata proprio la mamma a rassicurarlo quel primo giorno, quando lui non voleva saperne di restare lì con quei nuovi bambini e con quelle vecchie che volevano insegnargli le cose, dicendogli che gli serviva a diventare bravo e che si trattava solo di poche ore e che alla fine lei o il papà sarebbero stati lì prontissimi a riportarlo a casa in mezzo alle sue montagne di giochi. Da quel giorno Mattia era cresciuto di quasi due anni e aveva imparato davvero tante belle cose e soprattutto a leggere. E non era più così restio quando era il momento di svegliarsi per tornare a scuola, perché i "bambini nuovi" erano i suoi migliori amici («Tu sei il mio migliore amico del cuore» aveva detto un giorno a Raffaele, perché con lui aveva legato più che con tutti gli altri) e le "vecchie" si erano dimostrate quanto mai simpatiche e affabili, come tante nonne... con la differenza che queste lo nutrivano di lettere e numeri anziché di pasta al pomodoro, gustose bistecche e cremose torte. Quando si avvicinava la fine della mattinata, però, non c'era argomento delle lezioni o chiacchiera con il compagno di banco, che ovviamente era Raffaele, che lo distogliesse dal pensiero che di lì a non molto avrebbe trovato uno dei suoi genitori, giunto come una fata delle favole per riportarlo a casa. E sempre la sua attesa era stata ripagata, di modo che ormai il fatto di trovare Simona o Roberto al cancello delle scuole era una certezza ben salda, come trovare la luna e le stelle nel cielo notturno ogni volta che si alza lo sguardo. Quel giorno, invece, le cose erano andate diversamente e dieci minuti di ritardo erano stati sufficienti a far nascere in Mattia un senso di tradimento. La mamma glielo aveva promesso e non manteneva la parola data. La mamma e il papà si erano dimenticati di lui. E quanto sarebbe dovuto passare perché infine si ricordassero? Quanto tempo ancora avrebbe dovuto starsene lì ad aspettare? Di certo non poteva incamminarsi da solo, la mamma era stata chiara su quel punto. C'era troppo pericolo in strada e non doveva azzardarsi ad attraversare senza di lei. «Mattia? Come mai ancora qui?» La voce giunse dal vialetto che portava dal cancello all'entrata delle scuole ed era molto familiare. Mattia, senza smettere di piangere, si voltò e trovò la maestra Anna ferma accanto a lui con una borsetta in spalla e un mucchio di fogli sotto al braccio. Era una donna sui quarant'anni, molto carina e dal viso aperto e rassicurante. «Non... Non sono ancora venuti» disse singhiozzando il bambino. «Mi hanno lasciato qui.» E scoppiò in un pianto vero e proprio. «Ma no, Mattia! Cosa dici?» La maestra appoggiò i fogli sul muretto che circondava il cortile della scuola e prese Mattia tra le braccia, stringendolo a sé. «Avranno avuto un contrattempo. Abbiamo chiamato tutte le vostre mamme per avvisare che oggi uscivate prima e abbiamo sentito anche tua
21 mamma, perciò vedrai che adesso arriva.» Le sembrò che il bambino si calmasse leggermente ma non ne era sicura. Poi si ricordò del primo giorno in cui aveva visto Simona. "Se un giorno dovesse succedere che non lo veniamo a prendere" le aveva detto poco prima di andarsene dal colloquio "E che Dio lo scongiuri, perché altrimenti Mattia dà giù di testa!" Avevano riso entrambe. "Comunque, se per caso abbiamo un contrattempo e né io né mio marito riusciamo a venire, non è che lei o qualche sua collega potreste accompagnarlo da sua nonna?" Anna aveva acconsentito di buon grado e Simona le aveva spiegato come raggiungere la casa di Gisella. «Senti» propose a Mattia che continuava a piangere, ma che trovava evidente conforto dal suo abbraccio «adesso che ci penso, tua mamma mi ha detto che non poteva venire perché aveva molto da fare e mi ha chiesto di accompagnarti da tua nonna. Abita qui vicino, non è vero?» Il bambino si era calmato davvero e Anna si sentì meno in colpa per la bugia che aveva appena detto. Anche se proprio una bugia non era, non del tutto. «Sì» rispose Mattia con quella sua vocina squillante, rotta da singhiozzi che andavano spegnendosi. «Abita in quella via là» precisò, indicando una strada che incrociava quella su cui si affacciava la scuola. «Oh, ma allora è vicinissimo!» commentò Anna. «Ci potresti arrivare con un salto!» «No» ribatté Mattia, con una serietà che fece venire alla maestra una gran voglia di ridere e di prenderlo in braccio e riempirlo di baci. Quanto avrebbe voluto poter avere un figlio! «Con un salto no. Ma se mi aiuti ad attraversare la strada posso arrivarci da solo.» «Certo che ti aiuto! Ma prima voglio che quelle lacrime spariscano, va bene? Non mi piacciono proprio, no no!» Mattia prese il fazzoletto dalla tasca destra dei suoi pantaloncini e si asciugò gli occhi sfregandoli con forza. Poi tirò su con il naso e ingoiò quanto aveva raccolto, il che, non si fosse trattato di un bambino di sette anni, avrebbe fatto infuriare Anna. «Ecco!» annunciò infine Mattia, completamente dimentico della paura che lo aveva colto quando gli sembrava che i suoi genitori lo avessero tradito e avessero deciso di lasciarlo ad aspettare in eterno. «Benissimo, allora andiamo. E sai cosa ti dico? Non solo ti aiuto ad attraversare, ma ti porto proprio fino a casa della nonna!» Raccolse i suoi fogli e si incamminò, tenendo per mano il bambino.
22
*** Gisella versò la pastasciutta nel piatto di Mattia quando mancava un quarto d'ora all'una. Avrebbero già dovuto essere lì, lui e Simona, invece non li vedeva nemmeno arrivare dalla finestra. Pazienza. Si sarebbero mangiati la pasta fredda. L'avrebbe anche riscaldata volentieri ma a Mattia non piaceva. Avrebbe portato pazienza anche lui. Si sedette a tavola e cominciò a sgranocchiare una fetta di pane. A lei la pastasciutta non andava, non con quel caldo. Le sarebbe bastata una fetta d'anguria e poi un bel caffè. Nell'attesa accese il televisore e cercò qualche programma interessante. Trovò una soap su Canale 5 e vi si perse. Alla prima fetta di pane ne seguirono altre due e avrebbe continuato a quel ritmo, senza nemmeno rendersene conto, se poco prima dell'una non avessero suonato il campanello. “Finalmente” pensò mentre si alzava per andare a rispondere. «Venite, venite!» disse al citofono premendo il tasto che apriva il cancellino all'esterno. «Nonna» la chiamò la voce di Mattia dall'altra parte prima che riponesse la cornetta. «Sono venuto con la maestra.» «Con la maestra?» chiese Gisella, senza ancora avere un'idea di quante altre domande sarebbero seguite a quella. «Sì, vieni fuori. Ha detto che deve dirti una cosa.» Mattia sembrava euforico e per un momento Gisella pensò che le stesse giocando uno scherzo. Non ci trovava niente di comico ma non si sapeva mai quali strane idee girassero per la testa di un bambino. «Salve, signora. Le chiedo scusa se la disturbo, ma dovrei dirle una cosa.» La voce della maestra Anna convinse Gisella della buona fede di Mattia, ma d'altro canto accese la prima spia di allarme. Dov'era Simona? Avrebbe dovuto essere lei con Mattia o avrebbe dovuto avvisarla se i suoi progetti fossero cambiati. E invece... Gisella ripose la cornetta del citofono e aprì la porta di ingresso. Mattia le corse incontro dal cancellino e la salutò con la sua voce cristallina. Gli accarezzò i capelli biondi e gli appoggiò un bacio sulla fronte ma era distratta e rivolgeva continuamente lo sguardo sulla donna in piedi davanti a casa sua. «Vai, vai a mangiare che altrimenti si raffredda» disse al nipote. Non che la temperatura della pasta fosse al centro dei suoi pensieri: in quel momento era ormai concentrata su altre questioni. Aveva una sorta di presentimento che, al contrario di quanto avrebbero detto Simona e Roberto, a suo parere era più che giustificato. Quando qualcosa era strano, sotto sotto
23 c'era una tragedia. Di dimensioni più o meno grandi, ma pur sempre una tragedia. «Salve» la salutò la maestra. Indossava una gonna che arrivava alle ginocchia e una camicetta bianca a maniche corte, ma sudava copiosamente. Nei suoi occhi Gisella non lesse nessun allarme ma non si lasciò fuorviare. «Le chiedo ancora scusa per l'orario e...» «Dov'è mia nuora?» la interruppe l'anziana signora senza riguardo. Non le interessavano tutte quelle balle del “mi scusi” e del “mi perdoni”. Voleva sapere. Anna sembrò per un attimo smarrita, colpita da quell'atteggiamento sgarbato. Ma che simpatica nonnina! pensò. Poi si chiese se non fosse colpa della preoccupazione per Simona e le sembrò una possibilità, ma non l'unica. Quella donna era chiaramente scorbutica. «Sono venuta per questo» rispose. «Pensavo che le avesse detto qualcosa ma evidentemente non è così. Comunque non è venuta a prendere Mattia e io l'ho trovato davanti alle scuole che piangeva e... beh, ho pensato di portarlo da lei.» Aveva parlato come se temesse che da un momento all'altro Gisella si mettesse a gridare per rimproverarla di qualcosa. Fu chiaramente sollevata quand'ebbe finito senza che ciò accadesse. Non le era mai capitato di sentirsi così in soggezione. Gisella rimase qualche istante a riflettere, squadrando la maestra. «No, non mi ha detto niente» confermò. «È successo qualcosa» aggiunse. «Ma no, magari...» cominciò Anna ma non poté continuare. «Invece sì» la bloccò Gisella. Era vistosamente agitata, ma la maestra, visto che andava aumentando l'avversione che provava verso quella donna, non seppe dirsi con certezza se fosse più per la preoccupazione per la nuora o per il disturbo che la notizia le aveva arrecato. «Grazie per avermi portato Mattia. Adesso provo a chiamare a mio figlio.» Anna non poté fare a meno di notare l'errore grammaticale, ma non era il caso di fare la pignola. Anzi, a giudicare dalle parole di Gisella era giunto per lei il momento di togliere il disturbo. «D'accordo, allora io vado. Buon pranzo e...» E vedrà che risolverà tutto per il meglio voleva aggiungere, ma ancora una volta preferì trattenersi. Si voltò e tornò verso le scuole elementari. Bella gratitudine, si disse. Neanche le avessi portato in casa un cane randagio con la rabbia! Intanto Gisella si era già dimenticata di lei. Tornò in casa, mentre il bastardo verme del dubbio, che per lei era già una certezza assodata, le penetrava sempre più in fondo alla mente. Pensava che Simona avesse fatto un incidente. Era la soluzione più logica: le vedeva sempre quell'espressione assente, come se avesse la testa da qualche altra parte. In quegli ultimi giorni,
24 poi, sembrava che il suo cervello si fosse trasferito del tutto. Poche ore prima, a casa sua, le aveva visto quella stessa espressione da persona troppo presa da qualcos'altro per ascoltare chi aveva davanti. Probabile che fosse partita per la tangente mentre guidava e fosse finita fuori strada. Raggiunse il telefono in salotto e prese la piccola rubrica lì accanto. Cercò il numero del liceo di Torvinaia, scritto sotto ROBERTO LAVORO dalla scrittura arrotondata di Simona, e chiamò. Rispose una donna dal vocione grosso come quello di un camionista e la mise in attesa mentre andavano a cercare suo figlio. Passò qualche istante nel quale Gisella non sentì nulla - ma se il suo udito fosse stato quello di un tempo avrebbe percepito il rumore dei tasti che la segretaria batteva scrivendo al computer - quindi sentì la voce di Roberto. «Pronto?» «Roberto? Sono io. La Simona non è mica andata a prendere Mattia. Vai a vedere se la trovi?» Non tradì alcuna emozione nella voce. Diede quella notizia come se avesse detto Mi si è rotta la lavatrice. Chiama il tecnico. «Che cosa?» chiese Roberto, che aveva capito ma che proprio per il tono della voce di sua madre non sapeva se crederle o meno. «Hai provato a chiamare a casa?» Gisella si rese conto solo in quel momento che era quella la prima soluzione da provare. Era stata troppo certa del suo presentimento per pensarci. In ogni caso, non poteva fare tutto lei: aveva preparato da mangiare per Mattia e lo aveva accolto, tanto le era stato chiesto. Che si prendesse qualche responsabilità anche Roberto! «No, perché secondo me è successo qual...» Stavolta toccò a lei non poter finire la frase. «Ma stai zitta! Cosa vuoi che sia successo?» Roberto, che passando anni con Simona ne aveva ricevuto parte dell'ottimismo, non poteva più accettare le congetture perennemente negative della madre. Non era la prima volta che lo chiamava nel bel mezzo di una delle sue lezioni sicura che Mattia fosse stato rapito o che casa loro fosse stata presa d'assalto dai ladri, quando in realtà si trattava solo di una spina del telefono staccata. «Lascia stare, adesso torno a casa e guardo io. Magari si è addormentata.» Ma persino un bambino avrebbe capito che neanche lui credeva a quell'ipotesi. «Come vuoi» concluse Gisella e riattaccò senza salutare. Intanto in cucina Mattia stava finendo il suo piatto di pastasciutta, sereno e di nuovo sicuro che i suoi genitori non lo avrebbero abbandonato mai e poi mai.
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*** Roberto riattaccò ancora tranquillo ma ben conscio che da un momento all'altro la situazione avrebbe potuto degenerare. Da Simona aveva imparato a vedere sempre il lato positivo delle cose, a considerare il bicchiere mezzo pieno. «Le disgrazie succedono abbastanza raramente» gli aveva detto. «Al telegiornale ne senti venti al giorno, è vero, ma il telegiornale parla di tutta l'Italia, se non di tutto il mondo. Cosa sono pochi rari casi su sessanta milioni di persone? E poi» aveva aggiunto «se devi vivere con la paura che ti possa sempre accadere qualcosa di brutto - a te o ai tuoi - allora tanto vale che non esci più di casa. Ma sta' attento, perché un giorno anche la casa potrebbe crollarti addosso!» Roberto aveva riso e aveva assimilato il concetto e, col passare del tempo, lo aveva fatto suo e aveva cercato di trasmetterlo ai suoi figli, anche se forse per Mattia c'era ancora del lavoro da fare. E aveva scoperto che si viveva meglio, molto meglio. Ora si trovava, forse per la prima volta, a doversi costringere a ricordare le parole di Simona. Già, perché mai prima di quel giorno aveva effettivamente dovuto fare i conti con una possibilità così concreta: sua moglie doveva andare a scuola, invece non solo non ci era andata, ma non aveva avvisato né sua madre, né lui, né soprattutto suo figlio. E chissà quanto ci era rimasto male Mattia! Prese il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans e frugò tra le tante cartacce alla ricerca del foglietto che gli serviva. Roberto non aveva mai amato i cellulari, tanto meno quelli che chiamavano di "ultima generazione" e che sembravano fatti per tutto tranne che per telefonare. Non si era mai nemmeno sforzato di capire come usarne uno, asserendo con fermezza che come non ne aveva avuto bisogno per quarant'anni, ne avrebbe benissimo fatto a meno per il resto dei suoi giorni. Simona non era di quell'avviso - e tanto meno Cristina, ma lei aveva diciannove anni - e si era comperata un Nokia ultimo modello con uno schermo gigante e più funzioni di quante lei stessa avrebbe mai potuto e dovuto usare. «Voglio vedere se un giorno o l'altro non sei costretto a chiamarmi sul cellulare e allora ti accorgerai che è utile» gli aveva detto quando lui aveva espresso le sue perplessità circa quell'acquisto e subito dopo gli aveva scattato una fotografia di una nitidezza impressionante. Finalmente Roberto trovò il foglietto spiegazzato e in condizioni pessime in mezzo a due scontrini di mesi e mesi addietro. Su di esso aveva annotato le dieci cifre del numero di telefono di Simona. La segretaria gli lanciò un'altra
26 occhiata che gli parve una critica per quel suo trascorrere tutto quel tempo al telefono. Se lo sapesse il preside! dicevano quegli occhi severi. E lo saprà molto presto! sembravano sottintendere. Poi la donna distolse lo sguardo e si accese un'altra sigaretta. Roberto riprese la cornetta e digitò il numero. Oh, ma per fortuna che eri sicuro che si fosse addormentata! sentì quasi dire da sua madre o forse era il Roberto precedente, quello che non capiva quanto meglio fosse vivere pensando positivo. Così sicuro che invece di chiamare a casa provi direttamente sul cellulare. A proposito, aveva ragione lei: devi ammettere che il telefonino è molto utile. E lo ammetterò volentieri pensò il Roberto più ottimista mentre sentiva il primo squillo. E mi metterò anche in ginocchio a chiederle scusa se non le è successo niente... e sicuramente è così. Quasi certo che l'hanno chiamata prima al lavoro e lei non ha fatto in tempo ad avvisarci. Oppure si è dimenticata, d'altronde a volte è così sbadata. Così sbadata, eh? E allora perché prima di oggi non è passato giorno in cui lei non si sia presentata con largo anticipo davanti alle scuole per portare a casa Mattia? Soprattutto perché il telefono continua a squillare e lei non ti risponde? Lei che non si separa mai dal cellulare? In effetti erano ormai una trentina di secondi che Roberto sentiva il tuuu prolungato nella cornetta senza ottenere risposta. Beh, potrebbe esserselo dimenticato a casa. Anzi, così tutto torna: l'hanno chiamata al lavoro in tutta fretta e lei è corsa senza dire niente a nessuno. Se non sbaglio aveva avvisato la maestra di portare Mattia dalla nonna nel caso non fossimo andati a prenderlo. Ecco tutto. Lasciò suonare il telefono per un altro minuto, ancora perfettamente tranquillo. Aveva impedito che il dubbio e l'ansia che esso portava con sé come uno scomodo bagaglio si impossessassero di lui. Aveva visto il bicchiere mezzo pieno e aveva trovato una spiegazione più che plausibile per l'apparente scomparsa di Simona. Riattaccò. La segretaria tornò a voltarsi, sempre più scocciata. «Qualche problema?» chiese, sforzandosi di mostrare quanto poco le importasse la risposta. Tirò dalla sigaretta ed esalò una nuvoletta di fumo che le coprì il volto grasso e severo. «No, nessuno. Ma devo passare a casa dieci minuti, mia moglie ha dimenticato una cosa importante. Le dispiacerebbe avvisare il preside, se arriva, che in ogni caso sarò di ritorno per le...» Guardò l'orologio e vide che era da poco passata l'una. «Per l'una e venti al massimo?» Accompagnò quella richiesta con lo sguardo più gentile che gli riuscì, ma non pensava che una donna come quella segretaria potesse farsi intenerire da un tentativo come quello. Ci sarebbe voluto ben altro. Una bella dose di bastonate, forse, ma
27 probabilmente non sarebbe stato ancora abbastanza. «Ma certo» rispose lei con un sorriso finto come un crocefisso appeso in una moschea. Inspirò un'altra boccata di fumo. «Lo avverto io, nel caso, ma di solito non passa prima delle due e mezza di pomeriggio. Lei comunque non ci metta troppo, perché sa che non gli piace quando qualcuno si assenta per troppo tempo senza un motivo valido.» E pronunciò quelle ultime parole con un tono palesemente canzonatorio che sottintendeva: E lei ha detto che non ha nessun problema serio, vero? «Non si preoccupi» la rassicurò Roberto, desiderando ardentemente di poterle saltare addosso e picchiarla fino a cancellarle quel sorrisino dalle labbra. «Molto bene» concluse la segretaria e tornò al suo lavoro al computer. Roberto si spostò nuovamente in sala insegnanti per recuperare le chiavi dell'auto e nello stesso istante entrò in segreteria la professoressa Mannini, una sua collega che insegnava storia dell'arte. Lui non se ne accorse e comunque non aveva tempo di fermarsi a chiacchierare: archiviati i cattivi pensieri sulla segretaria aveva altri problemi per la testa. Recuperò la sua borsa da una sedia della sala insegnanti e andò alle sale che portavano al garage della scuola.
*** Il tragitto dal liceo a casa sua non doveva misurare più di tre o quattro chilometri e cinque minuti più tardi era fermo al semaforo di fronte all'abitazione. Prima di passare da casa voleva andare fino alle scuole elementari, per percorrere lo stesso percorso di Simona: se le fosse davvero accaduto qualcosa, sarebbe stata ferma al bordo della strada, magari ancora intenta a compilare una constatazione amichevole per un incidente. Il semaforo passò al verde e la Focus partì facendo stridere le gomme. Procedette dritto fino al successivo semaforo, svoltò a sinistra e continuò su quella strada fino alle scuole. Il centro del paese era deserto, com'era logico a quell'ora in cui tutti stavano pranzando. L'aria era immobile e il caldo sarebbe stato davvero insopportabile, tanto più all'interno dell'abitacolo della Ford, se Roberto non avesse regolato sul massimo l'aria condizionata. Fece manovra e tornò per la stessa strada, ma invece di arrivare al semaforo svoltò a destra, appena dopo il cimitero. Era un percorso alternativo, ma nemmeno qui trovò la Corsa di Simona e, se prima aveva temuto ancora l'insorgere di qualche dubbio, aveva potuto constatare che non c'era stato nessun incidente. Tutto a posto si disse. È al lavoro, come avevo pensato.
28 Ben più rilassato, guidò fino all'incrocio di fronte al supermercato. Svoltò a destra e poi subito a sinistra. Anche la statale era completamente deserta e faceva una certa impressione. Come a volerlo smentire, dalla direzione di Torvinaia spuntò un grande camion rosso. Roberto fermò l'auto di fronte allo stesso cancello da cui Simona era uscita poco prima. Inutile entrare, dal momento che di lì a pochi minuti avrebbe dovuto tornare al liceo. Smontò dall'auto mentre il camion lo sorpassava e una ventata d'aria bollente gli scompigliò i capelli e gli evocò l'immagine del ventilatore sull'armadietto della segreteria a scuola. L'immediata e incontrollata associazione di idee lo fece sorridere e il sorriso lo tranquillizzò ancora di più. Aprì il cancellino e percorse il vialetto diretto alla porta d'ingresso. Si fermò a metà strada guardando verso il garage. Per puro scrupolo premette uno dei due bottoncini sul piccolo telecomando che aveva attaccato al portachiavi, facendo aprire la porta basculante. Il garage era vuoto, a parte le biciclette e gli scaffali stracolmi di roba vecchia e inutilizzabile, ma della quale lui e Simona facevano una fatica incredibile a separarsi. L'Opel di Simona non c'era e non fu una grande sorpresa. Tutto previsto. Tutto normale. Roberto arrivò alla porta, l'aprì ed entrò in casa. Guardò subito il piccolo orologio argentato sul mobiletto alla sua destra e vide che era quasi l'una e un quarto. Non sarebbe riuscito a rispettare i tempi come aveva assicurato alla segretaria, ma che gli importava? Anzi, era una piccola rivincita, un modo per dimostrarle che non gli faceva né caldo né freddo quel suo fare da Robocop, come dicevano i ragazzi. E che, per quanto lo riguardava, poteva andare a quel paese e stringere amicizia con tutti quelli come lei. Appoggiò il mazzo di chiavi accanto all'orologio, dietro al quale c'erano tre fotografie: Mattia, Cristina e i loro innamoratissimi genitori. Tutti di qualche anno più giovani. Più in alto, sulla parete, la grande cornice con la foto che lui e Simona avevano fatto al mare anni prima. Ogni volta che la guardava, Roberto sentiva lo scrosciare delle onde alle loro spalle e l'odore salmastro dell'aria; vedeva il cielo sgombro sopra di loro; percepiva l'amore che lo legava a sua moglie sotto forma di un calore che si trasferiva dall'uno all'altra attraverso la pelle. Anche in quel momento in cui aveva fretta - di sapere, più che di tornare a scuola - non si privò di quel piccolo, dolce tuffo nel passato. Poi passò in cucina. L'ordine impeccabile che sempre vi regnava era rotto solo dal piccolo grembiule giallo appoggiato sul piano di lavoro. Roberto vide il messaggio scritto sulla lavagnetta e ne prese mentalmente nota. Se ne sarebbe scordato presto. Spostò in giro lo sguardo alla ricerca del telefono cordless e, dopo interminabili istanti di frustraione, lo trovò su una delle sedie. Lo raccolse e cercò tra i numeri memorizzati nella rubrica quello salvato sotto SIMO LAVORO. Senza perdere altro tempo, fece partire la
29 chiamata e si preparò a porre fine al piccolo mistero di quella giornata. «Pronto?» Roberto si era atteso un "Pronto, pennelli Italbrush", che era la risposta standard che Simona rivolgeva ai clienti dell'azienda ma non fu tanto quello a smorzare gran parte della sua sicurezza: la voce era quella di un uomo, dunque Simona non era al lavoro. Hai visto il tuo ottimismo a cosa è servito? Buttalo nel cesso, dammi retta! lo rimproverò il suo vecchio io, che era rimasto nascosto fino a quel momento. No! si oppose Roberto. No, forse non è ancora arrivata. Forse... «Pronto? Chi parla?» La voce all'altro capo era chiaramente scocciata e Roberto si chiese se si trattasse del centralinista che lavorava al mattino al posto di Simona. In quel caso, non sapeva certo invogliare i clienti a rivolgersi all'azienda. «Ehm, salve» cominciò, non sapendo bene che cosa dire. Si era aspettato un altro tipo di telefonata, più simile a quella che un'ora e mezza prima aveva avuto con Simona. «Sono il marito di Simona, la vostra centralinista... quella che lavora di pomeriggio...» Strana come definizione: quella che lavora di pomeriggio. Diminutiva, quasi in modo offensivo, se rivolta a Simona. Perché lei era di più. Molto, molto di più. «Sì, la conosco. Ma non l'ho ancora vista oggi. Comincia alle quattordici, se non sbaglio. Lavora...» «Sì, lavora part-time e solitamente comincia alle quattordici, ma non l'ho trovata a casa e pensavo che magari le aveste chiesto di presentarsi prima al lavoro.» Improvvisamente quell'ipotesi, la stessa che fino ad allora aveva sostenuto il morale di Roberto come il bastone per un cieco sul punto di cadere da un momento all'altro, gli apparve quanto mai infantile e fragile. Come hai potuto pensare a una cosa così banale? Tanto valeva credere che l'avessero presa gli alieni e le avessero chiesto una visita guidata alla Terra. «No, spiacente. Nessun cambio di programma.» Fece un attimo di pausa e si schiarì la voce. «Devo intuire che probabilmente oggi non verrà al lavoro?» Roberto lo odiò con tutto il cuore, ancor più di quanto aveva odiato la segretaria del liceo. Quello era il suo problema: il lavoro. Lui era alla ricerca di sua moglie, ricerca che - checché ne dicesse il suo lato più "simonesco", che messo alla prova si dimostrava alquanto debole - sembrava farsi più disperata ogni minuto che passava, e quello si preoccupava del lavoro. Possibile che quel giorno dovesse avere a che fare solo con persone prive di sentimenti? «Non lo so, a dire la verità». E stava dicendo la verità anche a se stesso. Forse solo a se stesso. «Può darsi che stia arrivando adesso, forse arriverà con un po' di ritardo... ma non posso assicurarle niente. Mi scusi il disturbo,
30 arrivederci.» «Si figuri» rispose l'altro, ma il tono della voce diceva qualcos'altro. Diceva Scuse accettate, ma vedi di non riprovarci! E riattaccò. Roberto fece lo stesso e si sedette pesantemente sulla sedia più vicina. Guardava davanti a sé, ma senza vedere niente in particolare. Fissava il vuoto mentre pensava ma anche il suo pensiero non aveva un oggetto specifico. Serviva più che altro a mascherare un sentimento che si celava più sotto e che lui non poteva controllare: quel dilagare di un'emozione che non era né semplicemente ansia, né semplicemente paura. Era più simile alla rassegnazione e ciò significava che non temeva che fosse accaduto qualcosa a Simona, ma che lo sapeva e si stava già costringendo ad accettarlo. «Simo?» gridò senza sapere che lo stava facendo alla casa vuota. «Simona, tesoro? Sei di sopra?» Solo dopo qualche secondo di silenzio gli sovvenne del garage e si rese conto della stupidità del suo gesto. Possibile che una piccola parte di lui avesse pensato ancora che Simona stesse dormendo? Sua moglie era riuscita a trasmettergli il suo pensare positivo così a fondo? Se anche fosse, ormai quello era stato il suo ultimo tentativo di emergere. Roberto era in preda alla disperazione. Simona non c'era. La sua auto non c'era. Era forse scappata di casa? E perché avrebbe dovuto? Che problemi avevano? Si amavano come il primo giorno, avevano con i loro figli un rapporto ancora migliore. La loro situazione famigliare era invidiabile: non senza momenti difficili, ma per lo più pervasa dall'armonia. Difficoltà economiche, semmai Simona fosse segretamente legata a quell’aspetto materiale del loro rapporto, cosa che Roberto sentiva di poter escludere, non erano mai esistite. E allora cosa? Roberto riprese in mano il telefono e cercò in memoria il numero di cellulare di Simona. Gli squilli rimasero nuovamente senza risposta, ma almeno aveva verificato che Simona aveva portato con sé il telefonino: non aveva sentito la suoneria provenire dal salotto o dalla loro stanza da letto o da qualunque altra parte della casa. Il che, rifletté solo brevemente, non era niente di che rallegrarsi. Chiuse la chiamata e sospirò. Doveva riordinare le idee, se non voleva perdere tempo prezioso. Eppure c'era quell'agitazione crescente che gli faceva venire voglia di mettersi a correre in tutte le direzioni e gridare il nome di sua moglie finché non l'avesse finalmente trovata o qualcuno non lo avesse fermato e portato dal più vicino psichiatra. Da un lato desiderava abbandonarsi alla disperazione per non lasciarsene sopraffare, dall'altro sentiva di dover ritrovare il pieno controllo di sé per cercare una soluzione.
31 Pensò di telefonare ai carabinieri, ma desistette subito. Era ancora troppo presto. C'era un tempo minimo, se non sbagliava, per poter dichiarare una persona scomparsa, e sicuramente non era ancora trascorso. Soprattutto, non era del tutto certo che Simona fosse effettivamente sparita; d'altronde, spiegazioni diverse non gli venivano in mente. Ma come spiegarlo ai carabinieri? No, non era ancora il caso di chiamarli. Posò il telefono e si spostò a passo spedito in salotto. Anche lì tutto era perfettamente in ordine: il divano e le due poltrone bianche sul grande tappeto con al centro il tavolino di vetro, dove un'altra foto di Roberto e Simona ricordava i primi anni del loro amore eterno; il parquet perfettamente pulito; la gattina, Nuvola, addormentata nel focolare del camino vuoto; il "tavolo delle grandi occasioni", come lo chiamava Simona, dove pranzavano la domenica o quando avevano ospiti. La gatta alzò pigramente la testa e guardò per un secondo Roberto con gli occhi semichiusi, poi tornò nella sua posizione raggomitolata. Roberto si voltò e andò alle scale. Sentiva di non poter restare fermo troppo a lungo se non voleva soccombere al suo stesso stato d'animo. Raccogliere continuamente nuove informazioni attraverso gli occhi distoglieva i suoi pensieri da quel nucleo centrale in continua espansione che si trovava al centro della sua mente: Simona stava male. Le era successo qualcosa di brutto. Simona non ce l’aveva fatta. Buttò uno sguardo nella sua stanza da letto ma anche lì non c'era niente fuori posto. Non fece nemmeno caso all'ultimo cassetto del comodino di lei, appena socchiuso. Non trovò nulla neanche nelle stanze di Cristina e Mattia e passò persino nel bagno. «Dove sei, Simona?» sussurrò, come a chiederlo a se stesso. O forse sperava che in qualche modo lei sentisse quelle parole, quasi potessero viaggiare sospinte dal vento dell'amore che spirava dall'uno all'altra. «Dove sei?» Non ottenne risposte e ridiscese le scale, diretto all'automobile.
*** Era l'una e trentacinque. Il traffico sulla statale era aumentato. Oltre ai tir, circolavano le auto di chi partiva con un certo anticipo per essere al lavoro alle due. Viaggiavano auto nell'una e nell'altra direzione sotto quel sole cocente, forse un po' troppo caldo per la fine di maggio. Non era ancora arrivata l'estate e già i termometri segnavano trentadue gradi. Possibile che si ripetesse un'ondata di calore come quella del 2003?
32 Riflessioni del genere non toccavano più Roberto quando uscì dal cancellino di casa sua. Gli giunse l'odore insopportabile di un autotreno che trasportava maiali e che era in sosta al semaforo, ma quasi non se ne accorse. I suoi sensi si erano affievoliti, come legna consumata da un fuoco di sempre più vaste dimensioni. Si portò verso la Focus, accorgendosi in quel momento che quando era sceso aveva lasciato la portiera aperta. Possibile che inconsciamente fosse già così preoccupato da non chiuderla? Entrò nell'abitacolo dove l'aria era rovente e irrespirabile e sentì - ma come qualcosa di lontano, quasi fosse il corpo di un altro - una gocciolina di sudore che gli scivolava lungo la schiena. Comico, se pensava che dentro aveva freddo. Stava per richiudere la portiera quando il suono di un clacson alle sue spalle lo destò come da un sogno. Tornò per qualche istante alla realtà, tornò un uomo integro e non fatto solo di pensieri funesti. Alle sue spalle, due auto più indietro rispetto al camion che trasportava maiali, un signore sui cinquant'anni, quasi certamente lo stesso che aveva suonato il clacson, stava imprecando e agitava le mani nell'aria davanti a sé. Poi le batté una contro l'altra e infine ancora sul clacson della sua Mercedes che emise quel fastidiosissimo rumore. Roberto spostò lo sguardo dietro alla Mercedes e vide che la coda di veicoli si andava allungando. Al clacson dell'uomo inviperito se ne aggiunsero altri. Guardò dall'altra parte, in direzione del semaforo, e vide il verde. Tuttavia il camion non si muoveva. Scese dall'auto. Nella sua mente prese forma una terribile possibilità. Compì pochi passi in direzione del semaforo e vide che davanti al camion fermo c'erano altre auto. Quattro o cinque. Le ultime due erano parcheggiate sul ciglio della strada, a ridosso del fosso che la costeggiava per una cinquantina di metri, ma occupavano ugualmente parte della carreggiata, dando origine ai rallentamenti e alla coda di auto... oltre che alla stizza dell'uomo sulla Mercedes. Accelerò il passo. Poi si mise a correre. Davanti a lui, poco oltre la strada che costeggiava lateralmente la loro casa, quella che andava verso la piccola frazione di Cadiceto e che si incrociava con la statale, accanto alle due auto parcheggiate c'erano due donne e un uomo. Quest'ultimo, un giovane dai capelli biondi che Roberto non aveva mai visto, stava in piedi al bordo del fosso e guardava verso il basso scuotendo la testa. Le due donne, anche queste sconosciute, parlottavano poco più indietro. Una delle due sembrava scioccata. Le auto passavano a rilento sulla carreggiata ristretta e gli autisti lanciavano curiose occhiate verso il punto dell’incidente. Ma Roberto non vedeva ancora niente. Tuttavia sapeva già tutto quello che
33 c'era da sapere. Ancora tre falcate di corsa - il sudore sulla schiena e sul resto del corpo scendeva copioso - e scorse i segni neri sull'asfalto. Più tardi si sarebbe chiesto come aveva fatto a non notarli quando era passato e si sarebbe risposto che era così fermamente convinto che Simona stesse bene che non l'avrebbe smosso nemmeno un manifesto funebre con il nome di sua moglie stampato a lettere cubitali. E, quando l'avrebbe pensato, quel manifesto sarebbe esistito davvero. Attraversò la strada e finalmente giunse di fianco all'uomo che guardava nel fosso. Seguì il suo sguardo e sentì le lacrime che gli sgorgavano ancor prima che il suo cervello avesse registrato ogni particolare della scena che gli occhi gli avevano inviato. «No, signore, si fer...» stava cominciando il giovane, andando verso di lui come per fermarlo, ma la sua voce sembrò solo l'eco di parole pronunciate millenni prima ad anni luce di distanza da lì. E in ogni caso Roberto non aveva intenzione di continuare: era più che sufficiente quello che già vedeva, senza il bisogno di sentire o toccare. Davanti a lui, nel fosso vuoto e pieno di sterpaglie seccate dalla siccità, giaceva quel che restava dell'Opel Corsa di Simona. Doveva aver sterzato bruscamente verso destra - e successivamente fu confermato grazie all'analisi della gomma bruciata sull'asfalto - e aver perso il controllo. Il muso dell'auto non esisteva più, accartocciato su se stesso come uno dei tanti involucri di merendine che affollavano il fondo di quello stesso fosso. Il parabrezza era una fittissima ragnatela di crepe che riflettevano i raggi del sole, alto nel cielo. Solo in un punto il vetro era sfondato e da quel buco relativamente piccolo spuntava la testa di Simona. Era in gran parte ricoperta dai lunghi capelli castani, sporchi e appiccicosi per il sangue che li imbrattava, ma non abbastanza da nascondere metà del volto martoriato: la guancia destra, che era stata ancora liscia e morbida come quella di una ventenne, nonostante avesse passato i quaranta, era ricoperta da un mostruoso reticolo di graffi profondi e sanguinanti che era la replica in piccolo delle crepe sul parabrezza. Poco sopra lo zigomo si scorgevano piccoli punti biancastri che dovevano essere quanto rimaneva dell'occhio, la cui orbita era occupata da un pezzo di vetro appuntito. Dalle labbra dischiuse usciva, abbandonata come un cane che si rilassa al sole, parte della lingua e forse quel particolare sarebbe stato il più terribile, quello che sarebbe ritornato più spesso negli orribili incubi di Roberto: il cadavere di sua moglie laggiù, con la lingua penzoloni come quando fingeva, e solo fingeva, di essere morta. «La conosceva?» chiese a un tratto il giovane, che si era portato accanto a lui. Era rimasto in silenzio per qualche istante, rispettando la disperazione e il pianto di Roberto. Poi aveva posto quella domanda della quale probabilmente
34 già aveva intuito la risposta. Ancora una volta quella voce parve lontana a Roberto, ma stavolta come quella che ci richiama da un sogno dal quale non vogliamo staccarci. Ci sembra di poter restare se ci impegnamo, se fingiamo di non sentire quel richiamo, ma alla fine il sogno è svanito e noi abbiamo gli occhi aperti. Quello del professore non era un sogno meraviglioso ma il peggiore degli incubi, perciò cedette facilmente e distolse lo sguardo. Le lacrime, però, non cessarono. «Simona» riuscì a dire prima di scoppiare in un attacco di singhiozzi. Il giovane attese pazientemente. Nel frattempo si erano avvicinate anche le due donne, alle quali si era aggiunto un uomo sui quarant'anni che aveva parcheggiato la sua auto accanto alle due già ferme. Il camion con i maiali era già lontano e passavano altre auto cariche di curiosi. Un'anziana signora di Cadiceto, che Roberto e Simona conoscevano solo di vista, passò per la strada lì accanto sulla sua bicicletta, appesantita da una voluminosa borsa della spesa, e si lasciò scappare un "Santo Dio!" prima di fermarsi a sua volta per curiosare. Lì c'era di che riempire tutte le sere d'estate con le sue compagne di chiacchiere. In lontananza continuavano a suonare i clacson di quelli che ancora non potevano vedere la scena. Ma per Roberto quello era un altro mondo. Si riprese dalla crisi di pianto e continuò: «Era... Era mia moglie.» Dopodiché le lacrime ripresero ancora più abbondanti di prima e lui fu costretto a portarsi i pugni agli occhi. Poi neanche quello fu abbastanza e si lasciò cadere in avanti, prono, a versare il suo dolore sull'erba secca. «Mi dispiace» disse una delle due donne, quella che da lontano gli era parsa sotto choc. Era così. «Stavo passando di qui dieci minuti fa e ho visto questi segni neri per terra. Non li avevo visti stamattina andando al lavoro e neanche quando sono tornata per pranzo, perciò mi hanno colpito. Ho dato un'occhiata verso il fosso e...» Scosse la testa, come se non sapesse mettere a parole quello che le frullava nella testa. «È stato uno spettacolo tremendo e le dico che posso capire se lei...» Ma, dopo le infelici parole "spettacolo tremendo", Roberto era scoppiato in un pianto ancor più disperato. Il giovane bloccò la donna alzando una mano aperta verso di lei. Le lanciò un'occhiataccia. Smettila ammonivano quegli occhi. Lo vede benissimo da sé che sua moglie si è ridotta a un ammasso di carne maciullata, senza che glielo fai notare e glielo ricordi! «Abbiamo già chiamato l'ambulanza e i carabinieri» comunicò invece ad alta voce. «Arriveranno a momenti.» Carabinieri, pensò Roberto tra un singhiozzo e l'altro. Era il caso di chiamarli. Sì, decisamente.
35
*** Quando, con maggior lucidità, Roberto avrebbe provato a ricordare gli eventi successivi, non sarebbe riuscito a catalogarli secondo un ordine cronologico, né a collegarli tra loro con un filo di certa consequenzialità logica. Ripensare a quei momenti sarebbe stato come sfogliare le pagine di un album di fotografie scattate nella stessa vacanza: oh sì, qui eravamo in spiaggia; qui invece davanti all'hotel; oddio, questa sono io vestita da hawaiiana! L'unica suddivisione che sarebbe stato in grado di eseguire era tra ciò che era avvenuto subito dopo la tragica scoperta e ciò che era stato nei giorni seguenti. Dapprima un susseguirsi interminabile di avvenimenti nello spazio di poche ore, poi un calando che si riduceva a qualche telefonata e a qualche mesto discorso con Mattia o Cristina o con poche altre persone che gli facevano domande e cercavano di consolarlo. E più il ritmo si faceva blando, più Roberto sentiva avvicinarsi un mostro tremendo e inimmaginabile fino a pochi giorni prima. Un mostro che non aveva mai creduto potesse raggiungere anche lui, che aveva vissuto sforzandosi proprio per tenerlo lontano. Un mostro che però, fu costretto a scoprire, si era mantenuto a una distanza tutt'altro che eccessiva e - libero - si stava avventando sulla sua nuova vittima come una cupa ombra di dolore e morte. Era il mostro della solitudine.
*** Ricordava di aver sentito le prime sirene che sovrastavano i clacson degli automobilisti spazientiti pochi minuti dopo le parole del giovane che diceva di aver chiamato soccorso ma, nello stato in cui era, il tempo gli si rivelava in tutta la sua relatività e per quanto ne sapeva potevano essere trascorse anche due ore. Riverso a terra, con la faccia premuta contro le mani e affondata nell'erba secca, sentì qualcuno, una donna, dire Eccoli! e qualcun altro, un uomo, Facciamo spazio e molte altre voci che commentavano la scena con inutili imprecazioni, o invocazioni a Dio e a tutti i Santi. Ricordava di aver pensato Perché, perché, Signore? Perché a noi? Siamo forse stati superbi a pensare di essere una famigliola perfetta o quasi? No, non credo! Non credo, Signore, perché tu hai fatto morire presto anche il padre di Simona e anche mio padre, che non era per niente superbo e che mi
36 ha dato tutto quello che poteva, tutto quello che aveva guadagnato in una vita intera di lavoro. Credo che tu sia stato invidioso della sua generosità e per questo lo hai fatto morire con quel tumore al polmone, nonostante non avesse mai neanche preso in mano una sigaretta. E credo che adesso ti sia preso Simona per lo stesso motivo. Era troppo bella, bella dentro, per lasciarla quaggiù ancora qualche anno, vero? Tu sei troppo potente per lasciarti scappare delle prede così prelibate. Perché lasciarla a me, d'altronde? Un misero professore che la amava come la sua stessa vita, se non di più. Sono troppo poco, vero? Sono troppo niente! Ed è per questo che non fai morire anche me? Ricordava le sirene, talmente vicine da fargli male alle orecchie, e una voce che gridava: «State indietro, per favore. Allontanatevi e lasciateci lavorare. E voi, prego, riprendete la marcia, sgomberate la carreggiata!». Aveva un accento meridionale molto marcato, ma in quel momento Roberto non capiva di quale regione fosse più di quanto fosse mai riuscito a comprendere l'infinità dell'universo. Né gli interessava. Un altro uomo, sicuramente un altro dei carabinieri giunti sul posto, raccoglieva le prime testimonianze della donna che aveva trovato Simona. «Dunque lei mi dice che non ha assistito all'incidente ma ha trovato l'auto successivamente?» chiedeva, questa volta senza alcuna inflessione nella voce. «Sì. Sono arrivata e ho visto quei segni e...» rispondeva lei. «Bene, bene, il resto l'ho capito. Volevo solo sapere se è stata testimone del sinistro» la interrompeva lui. «Signori! Signori, per favore!», ricominciava il carabiniere con l'accento meridionale, probabilmente quello incaricato di ripristinare la normale circolazione del traffico. «Allontanatevi, non c'è niente da vedere. Sgomberare, prego! Sgomberare!» Ricordava robuste braccia che lo circondavano da dietro e finalmente lo rialzavano da terra. Non cercava di aiutare il suo soccorritore ma se ne stava a peso morto, tutti i muscoli rilassati, la testa piegata in avanti e gli occhi chiusi. Le lacrime continuavano a sgorgare incessantemente e gli rigavano le guance, graffiate in alcuni punti dai rametti che c'erano tra l'erba. «La prego, signore, non ce la faccio. Stiamo cercando di aiutarla» diceva l'uomo alle sue spalle. Lui apriva gli occhi per un momento e vedeva due mani intrecciate sul suo petto, che fuoriuscivano da due maniche arancione fosforescente, poi li richiudeva. Si sentiva come un bambino un po' cresciutello tra le braccia di sua madre ma l'idea non gli suscitò alcuna ilarità. È già arrivata l'ambulanza? pensava. Non me ne ero accorto. Non ho sentito le sirene e... E invece sì che le aveva sentite, perché… Ricordava il carabiniere meridionale che abbandonava la sua cortesia fatta di
37 prego e per favore e si metteva a gridare rivolto a qualche automobilista. «Santa Madonna, ma vi volete scansare! Lasciate passare l'ambulanza e procedete! Avanti! AVANTI!». E le sirene dell'autoambulanza erano anch'esse vicine al punto da spaccare i timpani ma tutto d'un tratto venivano spente. Sentiva uno o due portelloni che si aprivano, altri uomini che gridavano Lasciateci spazio! Lasciateci spazio! «Non penso ci sia più molto da fare» annunciava senza mezzi termini il carabiniere privo di inflessioni nella voce. «Abbiamo chiamato i vigili del fuoco per estrarre il corpo. Occupatevi di quell'uomo... del marito.» Ricordava altre due braccia che lo prendevano per aiutare il primo soccorritore. Lo portavano a sedersi all'interno dell'autoambulanza ma lui pensava che volessero imbottirlo di medicinali per calmarlo e addormentarlo e seppellirgli Simona prima che potesse vederla per l'ultima volta. «No, lasciatemi! Lasciatemi!» gridava a squarciagola, con la voce rotta dalle lacrime e si dimenava come un pazzo mettendo a dura prova la pur grande forza degli uomini che lo sorreggevano. Apriva per un altro istante gli occhi arrossati e vedeva una cinquantina di persone, che ai suoi occhi lacrimanti apparvero come il doppio, assiepate attorno al punto dove si era schiantata l'auto di Simona. Qualcuno guardava incuriosito, altri scuotevano la testa commentando tra loro, altri venivano allontanati dal carabiniere meridionale o almeno pensava che si trattasse di quello. Davanti a lui c'era l’auto-medica con la sua luce blu che lampeggiava silenziosa. Poco oltre, un'auto dei carabinieri. E sulla strada molte meno automobili di prima. Che ore sono? si chiese. Quanto tempo è già passato? Ricordava di essere coricato su una barella all'interno dell'ambulanza, con le lacrime che scivolavano verso le orecchie, mescolate al sudore. Ecco pensava. A questo serve essere ottimisti! A soffrire di più quando la realtà si manifesta per quello che è. Se avessi creduto fin da subito alle parole di mia mamma, a quelle che stava dicendo prima che io la interrompessi, forse sarei già stato preparato. D'accordo, non sarei mai stato del tutto pronto per una scoperta così, ma non sarebbe stata neanche una completa sorpresa. Ricordava l'ago che gli penetrava nella vena del braccio. Sentiva la lieve puntura e riprendeva a dimenarsi, provando un lontano senso di vergogna e impotenza per essersi lasciato imbrogliare dai soccorritori: lo stavano addormentando come aveva temuto e mai e poi mai avrebbe rivisto Simona. Almeno non coscientemente. Ma non riusciva a compiere alcun movimento: quei bastardi l'avevano legato come un salame. Gridava, trasformando tutta la sua disperazione in un verso mostruoso e in una nuova, incontrollabile crisi di pianto. Ma il suo urlo non era ancora finito che già veniva sovrastato da altre sirene, quelle dei vigili del fuoco che venivano a liberare ciò che restava del
38 corpo di Simona. E Roberto, sentendo i primi sintomi del torpore che i medicinali gli inducevano, riapriva gli occhi appena in tempo per vedere i due uomini in divisa arancione fosforescente che trasportavano all'esterno una cassa di ferro. Il nuovo letto di Simona pensava, senza realmente volerlo fare. Poi dormì.
*** Quando riaprì gli occhi, la prima cosa che vide fu un soffitto bianco che era un po' troppo alto per poter essere quello della sua camera da letto. Bastarono pochi attimi perché l'idea che di quella potesse trattarsi si dissolvesse, lasciando spazio al ricordo e alla conseguente comprensione. Abbassò nuovamente le palpebre, sentendosi gli occhi gonfi, e si costrinse a non riprendere a piangere. Non trovò lo sforzo eccessivo come aveva creduto e rifletté che potevano averlo aiutato altri calmanti che gli erano stati somministrati durante il sonno. Era all'ospedale. Lo avevano portato lì perché era sotto choc ed era necessario tenerlo sotto controllo prima che decidesse di suicidarsi o annegasse nelle sue stesse lacrime o perdesse la ragione. Simona era morta. Morta in modo crudele. Quella era la verità, non il sogno che aveva fatto mentre dormiva, dove lui e lei andavano a ballare in un locale in cui non erano mai stati, mentre centinaia di persone tutt'intorno li applaudivano. Quello era un sogno. La realtà era un incubo. Riaprì gli occhi. Provò a muoversi e scoprì che ci riusciva senza problemi. Si mise a sedere sul letto e si guardò intorno. Era in una piccola stanza che probabilmente era riservata alle persone come lui o a quelle che avevano mancamenti improvvisi dopo notizie infauste sulle condizioni di un famigliare: c'erano solo quel lettino e un armadio di ferro con le ante scorrevoli, di quelli che anche al liceo erano presenti in ogni classe. La stanza era così piccola che si sentiva mancare l'ossigeno, come se le pareti fossero in procinto di stringersi sempre di più, fino a soffocarlo. Il lettino era di quelli che i medici usavano per le visite, rivestito di pelle grigio-azzurra e con uno strato di carta a coprirne igienicamente la superficie. Roberto si guardò gli abiti e trovò macchie verdi di erba sui jeans, a livello delle ginocchia. Notò anche il minuscolo forellino rosso nell'incavo del braccio sinistro, dove gli avevano inserito l'ago della prima puntura. Aveva
39 solo un vago ricordo di quel momento: stava piangendo come mai aveva fatto in vita e gli pareva che non avrebbe mai smesso; ed erano lacrime di dolore, ma anche di rabbia. Di quei sentimenti restava ben poco, come l'alone di una fastidiosa macchia su una camicia bianca. Anche in quello i calmanti dovevano avere avuto un ruolo fondamentale. E non era nemmeno male, in fondo: perché rifiutare qualche momento di tranquillità quando i giorni a venire si prospettavano come i peggiori possibili nella vita di un uomo? Si portò una mano alla fronte, si massaggiò le tempie e si sentì terribilmente stanco. Forse era perché si era appena svegliato, forse la reazione del suo organismo a un grande dolore era una spossatezza degna di un'intera maratona. Spostò la mano nei capelli e se li ravviò, trovandoli sporchi e sudati. Era ridotto peggio che uno straccio, puzzava come se non si lavasse da giorni e soprattutto non gliene fregava un bel niente. Fosse stato per lui avrebbe smesso di lavarsi per l'eternità, se solo gli avessero detto che Simona era ancora viva. Niente poteva anche solo avvicinarsi per importanza a lei. E lei non c'era più. Guardò l'orologio e vide che mancava un quarto alle quattro. Due ore pensò. Due ore fa sono uscito di casa con una piccolissima speranza. Due ore fa ho visto quell'uomo sulla Mercedes che bestemmiava il mondo. E due ore prima aveva assistito allo spettacolo più truce della sua esistenza. Pensò alla segretaria del liceo e a cosa dovesse aver pensato non vedendolo tornare né dopo quindici minuti, né dopo un'ora, né dopo due. Per non parlare degli altri professori che lo aspettavano per gli scrutini. Chissà quante male parole gli avevano rivolto! «'Affanculo!» esclamò a quel pensiero, sentendosi la bocca impastata e la lingua addormentata. «Oh, si è risvegliato!»,disse una giovane voce di donna dal corridoio su cui si affacciava la porta della stanza. Roberto sentì il rumore di una sedia che veniva spostata e pensò a quale strano effetto dovesse aver avuto la sua imprecazione sull'infermiera che stava aspettando il suo risveglio. Gli venne quasi voglia di ridere. Quasi. L'infermiera entrò nella stanza con espressione seria. Non poteva avere più di trent'anni ed era abbastanza carina, non fosse stato per un grande neo poco sotto lo zigomo destro. Sembrava fatta apposta per essere un'infermiera: la casacca e i pantaloni bianchi le donavano molto, come una cornice su misura per un quadro di un certo valore. Un quadro con una brutta macchia nel punto sbagliato ma pur sempre carino. «Come si sente?» chiese con dolcezza. La sua voce era morbida e in altre occasioni Roberto avrebbe potuto trovarla anche sensuale. Ciò che non mancò di notare, invece, fu che i medici gli avevano riservato il meglio: era stato
40 altre volte all'ospedale - per il tumore di suo padre, soprattutto - e non aveva mai trovato infermiere particolarmente gentili e carine. Quella sembrava un'eccezione. «Un po'... imbambolato» rispose Roberto senza riflettere. «A pezzi» aggiunse, questa volta dicendo ciò che veramente spiegava tutto. Abbassò lo sguardo e sentì nuovamente le lacrime che cercavano di farsi largo. Riuscì a trattenerle fissando le ciabatte bianche dell'infermiera come fossero il capo d'alta moda migliore che fosse mai stato prodotto. L'infermiera sospirò e i suoi occhi sembravano luccicare. «Il dottore le ha dato dei calmanti e mi ha detto di lasciarla riposare. Glielo consiglio anch'io, se posso permettermi...» «Dov'è mia moglie?» Lo chiese con un tono che stupì persino se stesso: senza dolore, senza cattiveria. Solo con curiosità. La speranza se n'era andata ore prima, già quando aveva visto il giovane scuotere la testa al bordo del fosso e dentro lui era rimasto spazio solo per la rassegnazione. Che non era che allo stadio iniziale, naturalmente, e in gran parte sostenuta dai soliti calmanti. «Beh, sua moglie è...» Era evidentemente imbarazzata. Forse non l'avevano informata che lui aveva fatto in tempo a vedere, pensò Roberto. «Penso di poterle dare tutte le spiegazioni che cerca, professor Santoni» intervenne in suo aiuto un medico entrando in quell'istante nella stanzetta. Era un uomo distinto, che sotto al camice indossava una cravatta rossa su una camicia azzurro chiaro. Portava un paio di occhialini dalla montatura che gli davano un'aria da perfetto dottore. Dott. Michelini Cesare, c'era scritto accanto alla sua foto sul cartellino che portava appeso al taschino. «Se si sente in grado di seguirmi, vorrei accompagnarla nel mio studio, dove posso spiegarle tutto.» «Certo che ne sono in grado» rispose Roberto, senza preoccuparsi di esserlo davvero. «Andiamo.»
*** Lo studio del dottor Michelini era una stanza poco più grande di quella in cui si era risvegliato Roberto. Addossata con un lato contro il muro c'era una piccola scrivania con un computer e alcune pile di carte e cartelle. Su un mobiletto lì accanto era appoggiata una stampante laser collegata al computer. La parete opposta era ricoperta quasi interamente da una libreria con i ripiani occupati da grossi volumi rilegati. Una piccola finestra che dava sul cortile interno dell'ospedale assicurava l'illuminazione.
41 Su una delle due sedie di fronte alla scrivania sedeva un carabiniere molto robusto. Appena Roberto e il dottore entrarono, si alzò e si tolse il cappello. «Maresciallo Mortini, buongiorno» si presentò, allungando la mano verso il professore. «Professor Santoni» rispose lui, che in un certo modo si era atteso di non dover parlare solo con il dottore. «Piacere» aggiunse, accorgendosi troppo tardi di quanto fuori luogo gli suonasse quella parola: che diamine, non stava facendo una nuova conoscenza al bar! Prese la mano del maresciallo e la strinse con tutta la forza che i medicinali avevano lasciato nei suoi muscoli intorpiditi. La presa del carabiniere era salda. Roberto sentì un senso come di dejà-vu e capì d'un tratto che quella doveva essere la stessa persona che aveva raccolto la testimonianza della donna sul luogo dell'incidente. Quello senza accenti nella voce. «Sedetevi pure» invitò il dottore, prendendo posto a sua volta sulla poltroncina in pelle dall'alta parte della scrivania. Il suo tono di voce era sommesso, come pure era parso quello del maresciallo, e Roberto fu loro grato perché dimostravano come potevano il loro dispiacere. Facevano molto di più così che se avessero detto "condoglianze". «Spero non faccia troppo caldo qui dentro.» Il dottore aveva chiuso la porta ma la stanzetta era rinfrescata dall'aria proveniente da un bocchettone sulla parete. «Non ci dovremo stare neanche troppo» commentò il maresciallo che, vista la divisa che portava, col caldo doveva averci a che fare quotidianamente. «E comunque io sto bene» aggiunse Roberto, che continuava a sentirsi leggero e tranquillo come se avesse bevuto qualche bicchiere di troppo. Ma erano una leggerezza e una tranquillità sottili come un velo che copriva qualcosa di molto più grande e pronto a lacerarlo da un momento all'altro. «Per quanto riguarda la temperatura, intendo.» Abbassò lo sguardo come a sottolineare che per quanto riguardava il resto era milioni di chilometri lontano dallo stare bene. «Dunque» iniziò il dottore, incrociando le mani sul ripiano della scrivania e guardandosele mentre rigirava i pollici. Doveva cominciare il suo discorso e, come già gli era capitato molte altre volte in precedenza, si sentiva come se fosse stato lui la causa di quanto era accaduto. Come se la morte non fosse comprensibile ai famigliari dei defunti prima che lui arrivasse ad annunciarla come un fatto inconfutabile, trasformandosi egli stesso in quel vecchio scheletro con la falce tra le mani. Riflessioni che non lo avevano mai sfiorato quando ancora frequentava l'università. «Io penso che lei già sappia che le condizioni di sua moglie non lasciavano sperare nella possibilità che... insomma, che...» «Che sopravvivesse» finì per lui Roberto, annuendo. Gli sembrava incredibile
42 riuscire a intervenire in quel discorso come se stesse dando il suo parere sull'azione del goal durante una partita. Incredibile farlo senza versare una lacrima, senza nemmeno sentirne lo stimolo. «No, ho... ho visto e non mi sembrava proprio che qualunque dottore potesse fare qualcosa.» Forse Gesù stava per aggiungere ma aveva ancora abbastanza razionalità da riuscire a fermare quelle parole suggerite dal torpore che gli aveva investito anche la mente. «Sì, la situazione era disperata, decisamente.» Il dottore si sistemò gli occhiali, che gli erano caduti sulla punta del naso. «E sua moglie non ce l'ha fatta, come ben sa. Abbiamo solo potuto constatarne il decesso. Aveva molte emorragie interne e fratture multiple. Almeno due costole le hanno perforato i polmoni. L'urto l'ha sbalzata contro il parabrezza causando un profondo trauma cranico.» Fece una pausa, continuando a guardarsi le mani giunte. Roberto credeva che stesse riflettendo se aggiungere altri particolari, come l'occhio spappolato colato sullo zigomo o la lingua penzoloni sul volto insanguinato. «Se in qualche modo può esserle d'aiuto, posso assicurarle che sua moglie è morta sul colpo. Intorno alle dodici e trenta, ossia un'ora prima che venisse trovata.» «Non ha sofferto» mormorò Roberto. Stava parlando più con se stesso, come se pensasse a voce alta. «No. È morta all'istante o al più pochi minuti dopo. E comunque le sue condizioni erano così critiche che ha sicuramente perso i sensi prima di spirare.» Il dottor Michelini alzò finalmente lo sguardo e fissò Roberto. Aveva finito il suo resoconto e non si sentiva per niente meglio ma aveva un peso in meno sullo stomaco. Ora temeva che il marito della donna si mettesse a piangere o a sbraitare verso di lui che era tutta colpa sua, che era un assassino, che lo avrebbe denunciato. A volte gli era capitato ed era stato tremendo, perché in quelle occasioni le vittime di incidenti gravi erano morte tra le sue mani, mentre cerava di tenerli da questa parte con tutto se stesso. E il peggio era che lui credeva di aver parte di responsabilità, nonostante qualunque collega sarebbe stato pronto a giurare che non sarebbe stato sufficiente neanche un miracolo. Glielo dicevano spesso, i suoi genitori, che aveva un carattere debole, che non sarebbe riuscito a sopportare tutte le responsabilità del fare il medico, ma come avrebbe potuto dar loro retta a vent'anni e nel pieno delle sue forze e delle sue ambizioni? Ma Roberto rimase perfettamente calmo. Devastato nella mente e nel cuore, ma calmo. Teneva lo sguardo fisso sulle mani del medico, poi lo spostava lentamente su una cartelletta gialla stracolma di fogli, quindi tornava indietro. Si chiedeva che cosa avesse pensato Simona in quel momento, prima di
43 esalare l'ultimo respiro. Chissà se anche allora aveva lottato con tutta la sua grinta per non lasciarsi prendere dal panico e dalla rassegnazione ed era morta col pensiero rivolto a lui e ai loro figli. «E ora» intervenne pochi secondi dopo il maresciallo. «Dovrei porle alcune domande, se si sente in grado di rispondere.» Roberto abbandonò le sue riflessioni e lo guardò. Notò ancora quella mascella squadrata, quegli occhi freddi e quel fisico palestrato che la divisa lasciava percepire. Gagliardo era la parola che meglio descriveva il maresciallo. Un uomo che otteneva sempre quel che voleva, con le buone o con le cattive. «Sì, posso rispondere. Ma dovrei anche...» «Lo so, la capisco perfettamente, ma le chiedo di portare pazienza qualche altro minuto. Poi...» In quell'istante qualcuno bussò alla porta e senza attendere risposta entrò. Era un infermiere e dal suo ansimare si deduceva che doveva aver corso. «Mi scusi, dottore, c'è biso...» cominciò, tutto trafelato. «Mi scusi lei» lo bloccò Michelini alzando una mano verso di lui e indicandogli la porta. «Non posso essere disturbato.» La possibilità di dare risposte del genere era un altro dei piccoli sogni che aveva avuto quando ancora studiava medicina. Stringi i denti! si diceva quando un esame gli sembrava insormontabile o quando l'idea di studiare era pesante come un macigno. Stringi i denti e diventerai qualcuno! L'infermiere lo ascoltò, con un'espressione a metà tra l'imbarazzo e la contrarietà. Tuttavia non osò nemmeno provare a ribattere con un ma. Richiuse la porta alle sue spalle senza salutare e nessuno dopo di lui disturbò il colloquio. Forse si era sparsa la voce. «Chiedo scusa, maresciallo. Continuate pure.» «Nessun problema» lo rassicurò quello, riportando lo sguardo su Roberto, che dava l'impressione di non essersi nemmeno accorto di quanto era successo. «Dunque, signor Santoni!» Trasse un sospiro, come preparandosi a un lungo e noioso lavoro. «Che tipo di donna era sua moglie?» La sua voce era ferma, decisa, priva dei piccoli ma percettibili tentennamenti, come increspature sulla superficie dell'acqua, del dottor Michelini. Roberto si trovò spiazzato: la domanda da un milione di dollari! Avrebbe potuto parlare per ore di Simona e scrivere su di lei un intero libro, senza riuscire a dire come era veramente, senza trasmettere al suo ascoltatore o al suo lettore non solo l'idea del suo essere speciale, della sua capacità di portare l'allegria persino in un gruppo di persone appena colte da un lutto ma anche e soprattutto la magia che c'era in tutto ciò. La magia che talvolta lui percepiva come una luce nei suoi occhi, come un riflesso sul suo sorriso, come una tonalità nella sua voce, e che doveva essere ciò che veramente la rendeva
44 diversa. Come avrebbe potuto spiegare come ci si sentiva quando si parlava con lei o ancor più quando la si abbracciava o la si baciava? Era come entrare in contatto, a un livello sempre più profondo, con quella magia, diventandone partecipi come in una meravigliosa simbiosi nella quale lui viveva del suo amore e lei della sua felicità. E come descrivere... Poi intuì ciò che davvero interessava al maresciallo e finalmente la domanda perse la stranezza e la complessità che le aveva attribuito all'inizio. «Era» cominciò, sentendosi la lingua incollata al palato. Si scoprì a domandarsi se Vasco Rossi si imbottisse di tranquillanti prima di ogni sua apparizione televisiva o di ogni concerto. «Era una donna molto solare, direi... direi in pace con se stessa. Sa... Beh, sa come sono le donne di solito, no? Pensano di essere grasse anche sull'orlo dell'anoressia, si trovano brutte e vecchie a venti o trent'anni e...» Mentre parlava scuoteva la testa come a far rotolare verso la bocca le parole che cercava. «Sì, ho afferrato il concetto» tagliò corto il maresciallo. «Bene.» Fece una pausa per ritrovare il filo del discorso. «Ecco, invece Simona... non si è mai lamentata una volta. Non che pensasse di essere perfetta, anzi era più cosciente dei suoi difetti rispetto a molte altre persone che conosco. Ma non stava lì a disperarsi per un brufolo sulla fronte o perché un giorno pesava tre grammi in più del solito. Viveva cercando di crearsi il minor numero possibile di problemi inutili e occupandosi delle cose davvero serie, davvero importanti. Così riusciva a far stare meglio anche tutti noi. Vede, io ho questa convinzione e cioè che lei, godendo di questo benessere interiore... beh, avesse più carica, più grinta e... e ce la trasmettesse. Come un generatore di corrente che alimentava tre grandi lampade, io e i miei figli, e non si consumava mai; anzi, si ricaricava sempre di più, semplicemente vedendo la serenità che regnava nella nostra famiglia.» Gli si era disegnato un sorriso sulle labbra: il dolore, tenuto a bada dai medicinali, lasciava spazio al ricordo e ai bei pensieri che esso suscitava. «D'accordo, su questo penso sia stato abbastanza chiaro. E mi sembra di capire che non ci fossero difficoltà nella vostra relazione. Nessun... nessun battibecco, nessuna occasione di disaccordo?» Roberto cominciò a scuotere la testa ancor prima di rispondere e si prese un momento per riflettere, nonostante non avesse dubbi. «Direi proprio di no.» Il dottor Michelini, che assisteva interessato alla conversazione, trattenne uno starnuto come per non interromperla o per non perdersene nemmeno una minima parte. «Vede, noi stessi ci meravigliamo spesso nel constatare che... come dire? Ci sembrava che il sentimento che ci legava quando ci siamo conosciuti e ci siamo fidanzati non fosse calato dopo il matrimonio e col
45 passare degli anni, ma rimanesse costante. Se non addirittura più profondo. Ha presente quella complicità, quella voglia di scherzare e di giocare, quell'euforia dei primi mesi, o anche dei primi anni insieme? Guardi, le posso assicurare che non sono mai mancate, tanto che...» Si fermò con un altro mezzo sorriso sulle labbra e lo sguardo perso nel vuoto e i suoi occhi, forse per un inizio del riemergere del dolore o forse per una nostalgia preventiva di quei momenti (e probabilmente per entrambi), luccicarono. «Tanto che certe volte ci ritrovavamo a ridere a crepapelle come due stupidi e senza nessun motivo in particolare. Magari per un'espressione comica dell'uno o dell'altra. E pensi che erano i nostri figli a dirci di smettere. I nostri figli! Pazzesco. Ma anche incredibilmente tenero. E molto doloroso, ora.» Guardò il maresciallo e vide che annuiva lentamente, ma senza abbandonare il suo atteggiamento serio. Gagliardo. Notò che anche il dottore annuiva e il vigore e la partecipazione con cui lo faceva erano quelli di chi era stato davvero colpito. Aveva ripreso a guardarsi le mani e a rigirarsi i pollici. Dal corridoio esterno giungevano molte voci e qualche grido e rumori di macchinari e cigolii di barelle o carrozzine che venivano spostate. E ancora Roberto percepiva quell'odore di disinfettante che impregnava ogni cosa e persona che lavorasse all'ospedale. «Lo so» riprese. «Lei penserà che sto cercando di darle una descrizione della nostra storia... come dire... da favola. È una critica che ci hanno sempre fatto in tanti quando io e Simona tentavamo di spiegare il sentimento che ci legava. E non posso biasimarla. Ma voglio tranquillizzarla un po': abbiamo litigato anche noi e con una certa frequenza. Capitava per le cause più diverse e talvolta restavamo a bisticciare per ore. Ricordo un giorno... stavo lavando i piatti e canticchiavo una canzone - cantavamo spesso, in casa, e anche questo contribuiva a rendere il clima felice - e, lasciandomi prendere un po' la mano, cercai di far roteare un piatto per riprenderlo al volo. Ma mi scivolò e si ruppe. Così Simona cominciò a rimproverarmi che ero peggio di un bambino e che qualche volta avrei fatto meglio a starmene fermo per non combinare disastri. Poi, sa com'è, una parola tira l'altra e si litiga a lungo. Ma lei capisce bene che litigi di questo tipo, per motivi così... come si dice... futili... beh, non si trattava di un lato del mio carattere che lei proprio non poteva sopportare ma di un piatto rotto per sbaglio! Non sono problemi che possano minare una relazione, soprattutto se tiene conto di come le ho spiegato fosse la mia. E noi stessi ce ne rendevamo conto e facevamo la pace e ridevamo di noi stessi. Lo ricordo bene». Di nuovo il sorrisetto e gli occhi lucidi. «Ci abbracciavamo e ci facevamo mille scuse e sentivamo di amarci ancora più di prima, quasi per un momento avessimo intuito cosa avrebbe significato odiarsi anziché volersi bene. Tutto si metteva a posto, capisce? E sono sicuro che in questo giocasse
46 un ruolo importantissimo il carattere di Simona e la sua capacità di trasmettermi la sua serenità interiore.» Il maresciallo lo fissava in silenzio e continuò a farlo per qualche attimo ancora, valutando se dovesse aggiungere dell'altro. Ma la risposta era stata più che esaustiva e si stava facendo tardi, perciò decise di procedere. «Molto bene. Da quanto mi ha raccontato mi sentirei di escludere l'ipotesi di un suicidio...» Roberto spalancò gli occhi e sollevò le sopracciglia in un'espressione di stupore. «Suicidio? Simona? Ma sarebbe più facile che Bin Laden si convertisse al Cristianesimo!» commentò, con tono tremendamente serio. «Porti pazienza, professore, ma non possiamo escludere niente a priori. Quella del suicidio era una possibilità abbastanza remota e le sue parole lo confermano. La dinamica dell’incidente rimane però strana o almeno inusuale e volevamo essere certi che la signora non avesse problemi che potessero spingerla a un gesto estremo.»
*** Da qualche parte fuori, o forse da una stanza lì accanto, giunsero gli squilli di un telefono: due soli prima che una voce femminile rispondesse. In corridoio qualcuno stava domandando a un'infermiera dove si trovasse il reparto di neurologia. «In che senso la dinamica è strana?» domandò Roberto, aggrottando le sopracciglia. Non aveva osservato la scena dell’incidente, non aveva avuto occhi che per il corpo di Simona senza vita, e le parole del maresciallo avevano fatto nascere in lui il sospetto che qualche particolare potesse far pensare a un evento non accidentale. Al coinvolgimento di qualcun altro. «Si sarà accorto che la disposizione delle strisce nere sull’asfalto lascia intuire un'improvvisa e apparentemente inspiegabile sterzata dell'auto verso destra.» «Sinceramente no, non ci ho fatto caso» ammise Roberto. Il dottor Michelini annuì ancora. «Beh... i segni sulla strada formano quasi un angolo retto. Dalla nostra ricostruzione, l’auto deve aver frenato bruscamente mentre sterzava con decisione verso destra. Un secondo prima procedeva in linea retta lungo la statale e un secondo dopo era ruotata di circa novanta gradi verso destra. Una manovra da rally, se mi permette il paragone, che richiede una rotazione rapida e completa del volante. Come se...» «Come per evitare un ostacolo?» lo precedette Roberto.
47 «Esatto. Abbiamo elaborato due ipotesi. La prima è che sua moglie abbia avuto un mancamento o un attimo di distrazione o anche un colpo di sonno, ma lo escluderei, visto l'orario dell'incidente. Magari semplicemente un riflesso di luce solare, un riflesso sbagliato al momento sbagliato. In ogni caso, qualcosa che le abbia fatto perdere il controllo dell'auto facendola schiantare nel fosso.» Roberto pensò a quelle parole e ricostruì mentalmente le immagini di ciò che descrivevano. Simona che guidava sorridente verso le scuole, pensando a Mattia e all'abbraccio che gli avrebbe regalato di lì a non molto; poi un bagliore la accecava, le scivolavano le mani sul volante e lei cercava di riprendere il controllo, riuscendo solo a finire fuori strada dopo un mezzo testacoda. Plausibile, eppure c'era qualcosa che non tornava. «La seconda possibilità, quella più verosimile, è che qualcosa le abbia tagliato la strada, costringendola a sterzare, con le conseguenze che lei ha potuto constatare. Fatalmente, può essersi trattato anche di un gatto che attraversava.» «Ma non c'era nessuno a...» «No, nessun testimone, se è questo che intende.» «Non è possibile! L'incidente è avvenuto a mezzogiorno e mezzo, non è vero, dottore?» «Con molta probabilità» assicurò Michelini. «E a quell'ora le strade sono piene! Se non bastasse questo, c'è un bar proprio lì di fronte, dove c'è il supermercato. A quell'ora è matematicamente certo trovare qualcuno in giro da quelle parti!» «Spiacente, professore, ma non è così. Abbiamo sentito il gestore del bar di cui parla, il quale ci ha spiegato che a quell'ora erano presenti circa mezza dozzina di clienti, ma tutti all'interno, dove l'aria condizionata rendeva la temperatura sopportabile. Per quanto riguarda eventuali testimoni in auto... è vero, era l’orario di uscita dagli uffici, o poco dopo, ma ciò non toglie che in certi momenti la strada sia meno trafficata e... di nuovo, il destino ha voluto che sua moglie transitasse in uno di quei momenti.» «Ma... e se fosse stata tamponata? Se l’avessero fatta uscire di strada e fossero scappati?» Roberto non poteva accettare l’assurdità di una morte causata da un cane o un gatto che attraversavano la strada. La morte di sua moglie. «Ci abbiamo pensato, ma non abbiamo trovato segni di tamponamenti sull’auto, né frammenti di vetro sulla carreggiata. Io...» aggiunse il maresciallo. «Una bicicletta!» quasi strillò Roberto, sovrapponendosi con foga alla sua voce. «Lei ha detto un gatto, ma se fosse stata una bicicletta che le ha tagliato la strada? Ci sono un sacco di quei ragazzini stupidi che pedalano senza mani
48 e senza fare attenzione o quegli extracomunitari che vanno contromano senza...» «Io capisco che lei voglia trovare una motivazione, un colpevole» lo bloccò il maresciallo. «Ma le assicuro che non c’è niente che dia credito a questa possibilità. Né pensiamo che esistano testimoni che non vogliano farsi vivi, perché primo non ne avrebbero motivo e secondo... sa com’è, chi assiste a un incidente tende a rimanere sul posto per chiamare i soccorsi e per curiosare, soprattutto, e... per quanto brutto da dire, ci terrebbero a farsi avanti per raccontare quello a cui hanno assistito, come se dare una mano a noi forze dell’ordine rappresentasse un breve momento di gloria.» «Capisco, capisco, è che...» «E se mi permette» si intromise il dottor Michelini, seppur a disagio «non si arrovelli la mente a cercare la verità a tutti i costi, rischia di... peggiorare le cose. La verità è difficile da accettare ma, e le parlo col cuore, non da medico, deve cercare di farsene una ragione il prima possibile.» «Sono d’accordo» continuò il maresciallo. «Le ripeto: se avessimo anche il minimo sospetto che possa essere andata diversamente, faremmo di tutto per andare in fondo alla vicenda. Ma, per quanto strana, la dinamica, unitamente alle sue dichiarazioni, porta alle conclusioni che le ho illustrato: una fatalità. Va bene?» Roberto rimase in silenzio, il cuore ancora palpitante per l’agitazione. Annuì, serio, ma non era ancora convinto. Non lo sarebbe mai stato.
*** Il dottor Michelini e il maresciallo Mortini tacquero per qualche istante. Roberto iniziò a piangere. Era duro accettare la morte di sua moglie ma lo era molto di più l'idea che potesse averla causata qualcun altro: l’idea della bicicletta che invadeva la carreggiata si era cementata nella sua mente e non se ne sarebbe andata con facilità. Sentiva il dolore mescolarsi con la rabbia e l'odio. In poche ore la sua vita era cambiata in modo radicale, rovesciata a testa in giù su un profondo abisso e con i piedi legati e sostenuti solo da pochi, deboli fili. A proposito, doveva ancora avvisarli. Una ragazza di diciannove anni e un bambino di sette avevano appena perso la madre e lui se ne stava lì a giocare all'investigatore insieme a un maresciallo severissimo e a un dottore curioso. Si sentì incredibilmente in colpa e incredibilmente in ritardo. Guardò l'orologio e vide che erano quasi le quattro e mezza. Poi il flusso delle lacrime
49 aumentò, perché Roberto ricordò di essere anche incredibilmente solo e il pensiero fu come una lama che gli penetrava lo stomaco. «La ringrazio, maresciallo, ma ora devo andare» annunciò, sforzandosi di mantenere un tono di voce normale nonostante il pianto. «Devo avvertire i miei figli.» «Prego, prego. Io ho finito.» «C’è un telefono pubblico, qui?» domandò Roberto, ricordando di non avere il cellulare. «In fondo al corridoio, sulla destra» lo informò il dottore, indicando la direzione con un braccio. «Dopo devo chiederle un altro minuto per il riconoscimento del corpo.» E fece quest'ultima proposta con un senso di colpa denso come catrame. Roberto annuì. «Io invece l'aspetto all'uscita» riprese il maresciallo. «La accompagno a casa.» Perché non posso tornare con la mia auto? stava per chiedere Roberto, poi gli sovvenne che era arrivato all'ospedale in ambulanza. Era così difficile abituarsi all'idea di quello che era successo, di tutto quel susseguirsi di eventi che lo aveva trascinato come un vento impetuoso verso un oceano di tristezza e confusione. «Molto bene. Grazie. Ora però...» «Sì, vada pure. In fondo a destra» ripeté il dottore. E quando Roberto uscì, pensò che mai aveva sopportato vista peggiore di quella del suo volto lacrimante.
*** Mattia si sedette sulla poltrona in salotto e cominciò a guardare la televisione: tra un cartone animato e un sonnellino avrebbe trascorso così tutto il pomeriggio. Gisella cominciò a sparecchiare la tavola e fece una smorfia prima di buttare nel cestino il piatto di pasta che aveva preparato per Simona. Quanto spreco, con tutta la gente che moriva di fame! E perché? Solo perché sua nuora si era persa chissà dove! Era già l'una e mezza e Roberto non si era fatto sentire, il che significava che era tutto sotto controllo. Aveva provato a chiamarlo a casa pochi minuti prima e aveva trovato occupato. Sarà al telefono con lei aveva pensato. L'avrà chiamata e avrà scoperto che è corsa ancora al supermercato perché si era dimenticata di comprare il latte. È così distratta! E la sua convinzione che fosse successa qualche tragedia era svanita con quel pensiero, lasciando
50 spazio solo a una critica interiore nei confronti di Simona. Roberto ne era accecato e non se ne accorgeva ma era una donna poco seria. Sempre pronta a ridere e a scherzare e a cantare. Una signora come si deve aveva due sole cose a cui pensare: la casa e i figli. Invece lei si era cercata un lavoro, perché voleva fare la "donna moderna" in carriera. Bene, cara, benissimo. E intanto io devo tenerti i figli e Roberto deve fare i mestieri al posto tuo quando torna da scuola! Bel ringraziamento che ci dai, poi: ti dimentichi persino di averli, i figli, e se non fosse stato per quella maestra! Ma se fossi vissuta ai miei tempi... Poi cominciarono le sirene e ogni pensiero critico svanì. Le si raggelò il cuore e le si bloccarono le gambe. Rimase piegata sul cestino con un piatto sporco in una mano e una forchetta nell'altra. Chiuse gli occhi e aggrottò le sopracciglia e si ritrovò a pregare mentalmente che non fosse come pensava, che quelle sirene non stessero suonando per Simona, che il Signore preservasse lei e suo figlio e i suoi nipotini da una tale sfortuna. Erano una famiglia così bella, in fondo, e il suo compianto marito lo aveva capito fin da subito. Pregò anche lui. Fa' che non sia successo niente, Mario. tu che sei così vicino al Signore e alla Madonna e a tutti i santi, fa' che stiano tutti bene. «È l'ambulanza?» domandò dall'altra stanza Mattia, mentre il suono delle sirene si avvicinava. Gisella non sentì preoccupazione nel tono di Mattia e se ne rallegrò. Sembrava semplice curiosità e neanche tanto forte, come avesse fatto quella domanda tanto per far prendere aria alla lingua. A conferma di ciò, Gisella, rialzandosi, lo vide aumentare il volume della televisione e mettersi più comodo sulla poltrona. Decise di non rispondergli, fingendo di non aver sentito, e non ricevette altre domande. Non era l'ambulanza. I carabinieri, probabilmente. Le sirene non si avvicinavano più: si erano fermati e a occhio e croce dovevano essere proprio nei pressi della casa di Roberto. Il suo udito sapeva affinarsi, quando le interessava. Poco dopo tornò il silenzio e Gisella ricominciò a pregare, mentre continuava a riempire il lavello con i piatti sporchi. A volte è un po' strana e magari faccio fatica a capire i suoi comportamenti, ma è una brava ragazza. Proteggila, Signore, ti prego. Perché Roberto la ama. Perché ha due figli ed è ancora tanto, tanto giovane. Ma nuove sirene giunsero dalla direzione opposta. E questa volta era l'ambulanza. Quel suono le si era impresso nella mente quando, dieci anni prima, suo marito aveva avuto un infarto. Aveva chiamato immediatamente il pronto soccorso e in pochi minuti li aveva sentiti arrivare e aveva gridato disperata perché facessero più alla svelta, più alla svelta. Ma oggi avrebbe voluto cancellare quelle sirene, allontanarle fino a non doverne più udire il
51 lamento. «Ancora?» domandò Mattia e questa volta si voltò verso di lei. «Cosa succede, nonna?» Gisella si voltò lentamente, cercando di assumere un'espressione distesa. «Mah! Ci sarà qualche persone anziana che si sente male. Con questo caldo non si può mica stare tanto tranquilli.» Fu soddisfatta della sua trovata e non provò quel piccolo senso di colpa che aveva invece colpito la maestra Anna quando aveva mentito a Mattia. Il bambino sembrò soddisfatto della risposta. Guardò la nonna con espressione preoccupata, come a volersi assicurare che anche lei non stesse male per il caldo, poi tornò alla televisione. Mentre le immagini scorrevano si lasciò andare a un grande sbadiglio e cominciò a ponderare la possibilità di schiacciare un pisolino. Gisella seguì mentalmente il percorso dell'ambulanza e la vide fermarsi nello stesso punto dove già dovevano essere i carabinieri. La sirena si spense, ma non si lasciò andare a un altro momento di speranza. A dire la verità, non aveva mai sperato fino a quel momento, ma solo temuto. O saputo. Continuò a lavare i piatti mentre la coscienza le gridava che proprio per quello avrebbe potuto risparmiarsi gli ultimi cattivi pensieri su Simona.
*** FINE ANTEPRIMA. CONTINUA...