L'oro del Gobbo

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In uscita il 29/7/2015 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2015 (4,99 euro)

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MASSIMO GHELARDI

L’ORO DEL GOBBO

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L’ORO DEL GOBBO Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-908-1 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Luglio 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova Dedica: alla mia famiglia e agli amici


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PROLOGO

Roma 1945

La bara del Gobbo ancora aperta, sorretta da due caprette di legno, era disposta di fronte alla cappella di Santa Lucia, sul lato destro della navata, in modo tale da permettere ai visitatori di rendergli omaggio transitando in senso orario attorno al feretro. In molti avevano sfidato l’attenzione dei carabinieri e si erano soffermati a lungo, con emozione, a osservare il volto del giovane disteso sulla seta azzurra che rivestiva la cassa. Un viso di ragazzo ricomposto da quei vivi che aiutano i morti ad assumere, per l’ultimo saluto, un’espressione serena. Una serenità che nessuno, mai, aveva letto negli occhi del Gobbo, nei quali, piuttosto, si alternavano crudeltà, avidità, coraggio, sospetto; solo rare volte, l’abbandono a un attimo di amicizia aveva aperto lo sguardo a un’espressione indifesa da ragazzo di strada che guarda sorpreso il mondo e se stesso. Morto. Il Gobbo era morto e sul viso pareva ancora aleggiare l’ultima sorpresa per l’agguato; una sorpresa che non aveva avuto il tempo di trasformarsi in rabbia per il tradimento e dolore per le ferite. Un incaricato di polizia contò dieci giovani donne tra i primi visitatori; alcune asciugarono una lacrima, altre osarono una carezza. Giaceva supino, affondando nei paramenti quella gobba che in vita gli aveva deformato il dorso ma non impedito di catturare cuori di donna con lo sguardo fiero, azzurro come la seta del suo ultimo giaciglio.


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DESTINI INCROCIATI

Ettore Bandi non poteva immaginare che nel giro di poche ore Andrej Dragan avrebbe fatto irruzione nella sua vita. Non c’era nessuna apparente ragione perché, proprio quel mattino, un professore rumeno fuggito in Italia nel 1990 e un vecchio generale dell’esercito facessero improvvisamente prendere nuova vita alla memoria di suo fratello Franco e di Giuseppe Albano detto il Gobbo del Quarticciolo. Non c’era alcuna ragione apparente. Eppure questo avvenne, a distanza di molti anni dai giorni in cui questa storia aveva avuto realmente inizio. Non esiste vita che non ricerchi il proprio senso nel percorso sotterraneo di mille sottili radici che si dipanano, quasi capillari, verso un’unica fonte a trarne sangue e nutrimento. E così succede che fatti e persone lontani nel tempo compongano, a un tratto, un unico quadro di vita, come un fiume che accoglie altri affluenti. Nessun passato è definitivamente alle nostre spalle; in ogni avvenimento apparentemente concluso c’è un seme che deve ancora dischiudersi. Amori, odi, azioni, sentimenti, tracciano nella dimensione del tempo un solco invisibile, nel quale si sviluppano i percorsi di vite future. Per molti anni, la fantasia di Ettore aveva percorso le strade della memoria accompagnata dalla voce tranquilla della madre. Una donna forte, Loredana, segnata da ferite che soffocavano il cuore, ma sulle quali non poteva e non doveva posare il pensiero, trascinata ora per ora, giorno per giorno, fuori dalla nera caverna del dolore dalla voglia di vita del figlio appena nato. Quel sedativo che il tempo sempre fa scorrere nelle vene inconsapevoli, le aveva permesso nelle sere d’inverno, dinanzi alle due scodelle di minestra che univano madre e figlio in un


5 abbraccio di affetto tranquillo, di raccontare al bambino com’era stata la vita prima della guerra che, senza pietà, si era presa Dino, suo padre, e poi Carlo e Franco, i suoi fratelli. Dino era stato ucciso da un bombardamento americano. Carlo era morto a diciotto anni vestendo la camicia nera e cantando le canzoni disperate di Salò. Franco era scomparso nei giorni convulsi della fine della guerra e Loredana aveva saputo del suo destino solo qualche tempo dopo dalle parole del capitano Catarsi che le raccontò come il giovane ufficiale del servizio segreto dell’esercito italiano, fosse stato ucciso mentre combatteva una strana guerra, in una zona grigia di luoghi e sentimenti dove s’incrociavano e confondevano viltà e coraggio, speranza e disperazione, fascisti e antifascisti, banditi e partigiani e denaro, molto denaro, che fluiva dalle casse dei servizi segreti americani e inglesi. Loredana aveva vissuto giorni trascinati senza più lacrime; pochi mesi erano stati sufficienti a bruciare, come un’unica fiammata, tre vite e, insieme, ogni sogno e ogni speranza. Ma dentro di lei, in quei pochi mesi, era cresciuta una vita iniziata quando tutto era ancora da compiere. A Loredana era apparsa solo come un nuovo dolore, ma in un breve precipitare del tempo quella vita le venne appoggiata sul seno mentre urlava reclamando la sua piccola scintilla di amore. Lo chiamò Ettore perché quel nome le era sempre piaciuto. Poi il suo bambino, in un rotolare via di anni e sentimenti e nuovi sogni e nuove speranze, aveva attraversato i tempi dell’amore e degli entusiasmi e Loredana era riuscita, attraverso di lui, ad amare nuovamente la vita.


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11 MAGGIO 1994

Corriere della sera “Ho assistito all’arresto di Erich Priebke, l’ex nazista, delfino di Kappler, che partecipò al massacro delle Fosse Ardeatine. Ero a casa sua, seduto sulla poltrona del salotto, e stavo concludendo la lunga intervista, oltre un’ora, interrotta cinque o sei volte da telefonate e visite di amici… Erano passate da poco le ventuno: sa che potrebbero venirla a prendere, in qualsiasi momento, magari proprio adesso? Non ci credeva Erich Priebke, fino alla fatale scampanellata.» In Argentina avevano arrestato Priebke. Cinquanta anni prima a Roma c’erano la guerra, il sangue e l’orrore, anni lontani riportati alla memoria dell’Italia dai resoconti delle televisioni e dei giornali: Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine era stato arrestato dopo una lunga caccia. Quella mattina, però, non solamente i giornali avevano costretto Ettore a tornare con il pensiero a quel mondo che aveva conosciuto attraverso i racconti di sua madre, a quel mondo in cui avevano vissuto Dino e Carlo e Franco; un’inaspettata telefonata era giunta da Romolo Catarsi, comandante di suo fratello durante gli anni di servizio al Sim. Dopo la morte di Franco, lui e la moglie erano stati molto vicini a Loredana e al bambino appena nato. Molte volte Ettore, ancora ragazzo, gli aveva chiesto del fratello e aveva voluto che gli raccontasse delle sue missioni. Con il passare del tempo i rapporti si erano diradati, limitandosi, ormai, allo scambio di auguri per Natale. «Buongiorno Ettore.» Qualche attimo di silenzio.


7 «Generale, generale Catarsi! È lei, vero? Come sta? Che piacere sentirla.» L’anziano militare era andato in pensione con il grado di “generale” ed Ettore sapeva quanto tenesse a quel titolo. «Certo che sono io, e tu come stai? Se non telefono io, lasci passare mesi… vero?» Continuarono per qualche momento a scambiarsi reciproche notizie. «Bene, veniamo al dunque, ti ricordi di quando eri poco più di un ragazzo e mi chiedevi continuamente di raccontarti la storia dell’ultima impresa di tuo fratello?» «Certo. Ricordo bene quando fantasticavo su quell’oro che Franco avrebbe dovuto scoprire e recuperare e che, invece, gli costò la vita. Erano lingotti d’oro della Banca d’Italia trafugati dai tedeschi e poi spariti nel nulla.» «Esatto Ettore. Alcuni nostri informatori ci avevano segnalato che durante la ritirata dei tedeschi da Roma, nel giugno del 1944, un loro camion era stato assalito da un gruppo partigiano guidato da un giovanissimo comandante conosciuto come il Gobbo del Quarticciolo. Tra il bottino conquistato si diceva che i partigiani avessero trovato, oltre alle armi, due casse di lingotti; Franco avrebbe dovuto indagare e recuperarli. Ti sembrerà incredibile, Ettore, ma ora abbiamo nuovamente una traccia di quell’oro. Un ufficiale dei carabinieri, un caro amico, mi ha confidato che in un appartamento del Tuscolano è stato trovato il cadavere di un uomo e, fin qui niente di strano, ma, ciò che è importante è che durante la perquisizione della casa del morto è venuto fuori un lingotto d’oro. «C’è impresso un marchio, quello inconfondibile della Banca d’Italia dell’epoca, e una specie di strana incisione, fatta piuttosto rozzamente con un grosso chiodo o uno scalpello, che rappresenta una figura d’uomo con una gobba sulle spalle. I carabinieri che si occupano delle indagini hanno collegato quel lingotto al furto tedesco dell’oro della Banca d’Italia. Per ora non hanno diffuso la notizia. Ho pensato di avvertirti subito perché tutto questo


8 potrebbe aiutare a far luce sugli ultimi giorni di tuo fratello e del Gobbo del Quarticciolo. Pensa che strano destino che, dopo tanti anni, riemerga casualmente uno dei lingotti rubati prima dai tedeschi e poi dalla banda del Gobbo. Il passato non passa mai mio caro Ettore. Chissà che tu non possa indagare a tua volta. Mi raccomando, però, se lo farai cerca di non attirare l’attenzione dei carabinieri: sai come sono, non prenderebbero certo bene la concorrenza di un’agenzia d’investigazioni privata.» «Come si chiama quell’uomo, il morto intendo?» «Non lo so ancora Ettore, ma te lo farò sapere.» Restarono ancora a lungo al telefono prima di salutarsi. Suo fratello, il Gobbo, i tedeschi, l’oro: quanto tempo trascorso. E ora, improvvisamente, un uomo ucciso o semplicemente morto e un lingotto ritrovato riportavano indietro l’orologio di cinquanta anni. Ettore Bandi, non appena finiti gli studi, aveva aperto, a Roma, una piccola agenzia d’investigazioni. Nei primi anni aveva dovuto stringere la cinghia, i clienti erano pochi e le indagini si limitavano a infedeltà coniugali. Con il tempo e con l’aiuto di Catarsi e dei suoi contatti, era riuscito ad ampliare la sua attività, sempre più apprezzata e ricercata. Proprio in occasione di un’indagine aveva conosciuto Bianca. Capelli scuri, occhi verdi, o grigi, o castani secondo il tempo e l’umore. Lui si era innamorato dal primo momento, lei, invece, era stata lentamente conquistata. Una storia che conservava ancora amore e freschezza nonostante gli anni trascorsi precipitosamente o lentamente, dipendeva dal punto di vista con cui si volgeva indietro a ritrovarne le tracce indelebili: il matrimonio, la gioia dei figli, la tristezza e il dolore per la perdita di persone care. I sentimenti che accompagnano una vita. Da qualche tempo Ettore aveva deciso di dare spazio, in agenzia, a una socia più giovane: Gilda Pellegrino, riservandosi un ruolo di rilievo solo nei casi più importanti. Stava ancora cercando di dare un significato alla vicenda del lingotto ritrovato, quando il telefono suonò nuovamente.


9 «Buongiorno dottor Bandi» la voce di Gilda lo riscosse dai pensieri. Si scambiarono frasi di circostanza, poi lei affrontò il motivo della telefonata. «Si ricorda quando chiesi il suo consiglio per la strana vicenda di un rumeno arrestato dai carabinieri? Io ero stata nominata difensore d’ufficio.» Gilda, prima di entrare a far parte dell’agenzia investigativa aveva esercitato la professione di avvocato e aveva avuto necessità di ricorrere ai servizi d’investigazione: era entrata, così, in contatto con Bandi. Lui era rimasto colpito dalla determinazione del giovane avvocato e dalla sua capacità di affrontare ogni questione in un’ottica non convenzionale. Avevano parlato a lungo delle aspirazioni di Gilda e del suo futuro, infine le aveva proposto di collaborare con lui nell’agenzia; in poco tempo lei si era conquistata uno spazio sempre più importante, fino a diventare socia. «Forse ricordo» rispose Bandi. «Ma sono trascorsi tre o quattro anni. È successo prima che tu entrassi in agenzia.» «Sì, tre anni per la precisione. Proprio ieri, però, quello stesso rumeno, Andrej Dragan, si è presentato in studio e ha chiesto di parlarmi con urgenza. Sarò fuori per lavoro per qualche giorno ma giovedì prossimo tornerò nuovamente a Roma e le sarei veramente grata se potrà dedicarmi qualche momento per prendere un caffè insieme e scambiare due parole.» Bandi si rese conto che Gilda preferiva non trattare per telefono l’argomento. «Certamente, sarò in agenzia giovedì prossimo.» «Devo chiederle una cortesia, nel frattempo.» «Dimmi.» «Le lascio sulla sua scrivania una memoria in cui ho ricapitolato la questione in cui fu coinvolto Dragan. Potrebbe dargli un’occhiata prima di incontrarci?» «Bene.» «La ringrazio, a presto.»


10 Ettore sorrise tra sé, pensando a quante volte aveva chiesto a Gilda, senza successo, di abbandonare il “lei”. La giovane collega aveva perseverato con quella forma di rispetto e, in fin dei conti, a lui non dispiaceva. Era solo. Bianca aveva raggiunto uno dei figli; sarebbe tornata solamente la settimana successiva e, quella sera, le stanze vuote si affollarono di presenze di un passato lontano, così lontano che mai avrebbe pensato potesse farsi reale nella sua vita. La conversazione con il generale Catarsi lo aveva incuriosito, eccitato. Improvvisamente si era trovato proiettato nel tempo che era stato di suo fratello: il tempo dell’avventura, delle armi, del pericolo. Si fermò nella solita pizzeria: due tranci di pizza e tre lattine di birra da conservare in frigo e aprire, ciascuna, dopo aver finito la precedente, in modo che fosse sempre fredda. Si era proposto una lunga serata di lavoro e la birra gli avrebbe tenuto compagnia. Finì in breve tempo di cenare e, con il bicchiere reso opaco dal freddo, si trasferì alla scrivania. Provò a recuperare tutti i ricordi degli avvenimenti di quel lontanissimo 1945 così come gli erano stati narrati, negli anni, da Loredana e da Catarsi. Mise giù una serie di brevi appunti collegati in una sorta di grafico. Si accorse, ben presto, che la mente rifiutava di seguirlo sulla strada di una ricostruzione schematica di quello che era stato un periodo di fortissime emozioni. Ricordava quando, ancora ragazzo, aveva provato a seguire con la fantasia suo fratello nelle grotte di Celoni, là dove il Gobbo aveva il suo rifugio. Era andato anche a vederla quella zona che ora si presentava come una delle tante periferie di Roma. Aveva provato a pensare come poteva essere nel 1944 e a immaginare i sentimenti di Franco: cosa aveva provato quel giovane tenente, quel ragazzo di venti anni, già passato attraverso le prove della guerra e dei combattimenti? Paura, esaltazione? Che cosa aveva conosciuto di se stesso nel momento in cui aveva dovuto abbandonare la divisa e indossare i panni del bandito?


11 Immaginava, Ettore, quali sensazioni potessero impossessarsi di un giovane in armi che sperimenta, a un tratto, la selvaggia libertà del fuorilegge. Aveva conosciuto un lato oscuro del cuore? E questo lo aveva spaventato? Quante volte, forse, si era trovato sull’orlo di un precipizio che lo chiamava e lo affascinava? Quante volte in quei brevi mesi al cui termine, come in un tempo infinito e fulmineo, lo aspettava la morte, il tenente e l’uomo onesto, avevano dovuto trattenere il bandito e l’avventuriero; quante volte il travestimento era diventato l’abito vero? Ettore sapeva che in quel tempo di mezzo che era intercorso tra la fine della guerra e la pace vera, quando tutto era apparso ingannevolmente concluso, era invece continuata a lungo una lotta violenta per arricchirsi o semplicemente sopravvivere, per accaparrarsi le nuove ricchezze che sbarcavano dalle navi o dai grandi aerei americani o per agguantare quel poco pane che poteva garantire ancora un giorno di vita. In quel tempo di mezzo, quando sembrò che non si dovesse più morire, continuarono a bruciarsi vite, sogni e speranze. Trascorsero alcune ore; le lattine vuote avevano lasciato sulla scrivania il loro segno rotondo. Ettore si alzò stirando in alto le braccia. Era contento del lavoro fatto. I lunghi anni trascorsi sembravano, in quella sera d’estate, pochi giorni. Lui stesso era un tenente ventenne, con l’entusiasmo di una vita ancora tutta da inventare. Aveva ricordato, scritto, ricapitolato; di nuovo erano trascorsi, dinanzi ai suoi occhi, i volti di persone lontane conosciute solo nel bianco e nero delle fotografie.


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TOMBOLO - A NORD DI LIVORNO, SETTEMBRE1944

Improvvisamente Mike traballò, sbattendo il grande corpo nero contro un pino. «Uomo bianco perché io devo morire per te. Sei un maccaroni, Mussolini, mamma mia…» Mike barcollava e rischiava di schiacciarlo per terra. Mike aveva bevuto tutto quello che si può trangugiare su questa terra: «Uomo bianco, italiano, sei un nemico. Non voglio morire per te.» «Dura testa di negro. Tu non devi morire per me. Devi solo darmi la benzina. Ricordi? Ti ho pagato. Prima di bere ti ho pagato. Non devi morire. Non stasera. Dannato negro imboscato. Devi darmi la benzina, non me ne frega niente se sei bianco o nero. Siamo in questo buco del culo di pineta. Ci sono negri e puttane. Ci sono bianchi e puttane. A me interessa la benzina. Capisci Mike? La benzina! Per questo ti ho pagato.» «Fuck you!» Mike crollò per terra. «Stronzo americano, svegliati, alzati.» Improvvisamente il suono acuto dei fischietti e i lampi di torce elettriche frugarono il buio. Le grida dei soldati americani della MP rimbalzavano tra i pini: «Proprio ora!» imprecò Franco; dette ancora un’occhiata a Mike, ubriaco, semi svenuto nella terra marcia e profumata della pineta. Poi corse, mentre fra i cespugli altre ombre sgusciavano via cercando di sottrarsi alle lame di luce. Grida americane, bestemmie italiane.


13 Corse ancora, saltò un fosso, il piede sgusciò sul fango e si trovò immerso nell’acqua. Accanto a lui un’ombra scartò di lato con un grido. Era una donna. «Stai zitta, stai tranquilla. Se ci muoviamo, ci prendono.» S’immerse nel fango sporcandosi la faccia, costringendola a fare altrettanto, poi la tirò giù accanto a sé mentre la stringeva per non farla muovere. Fu una strana sensazione, il corpo della ragazza stretto al suo in quel fosso di fango e acqua putrida gli trasmetteva uno strano senso di calore, indescrivibile, commovente. Sembrò, a Franco, di stringere a sé un bambino per proteggerlo dai pericoli del buio e della cattiveria. Allentò la stretta che immobilizzava la donna e la mutò in una sorta di abbraccio di consolazione e coraggio. Le torce arrivarono, illuminarono, esplorarono, facevano schermo alle facce invisibili degli uomini della Military Police rendendo più terribili le grida, i richiami, il trillo penetrante dei fischietti. Quei due corpi avvolti nelle canne e nel fango, riuscirono a sottrarsi alla luce che scandagliava il fosso. Trascorse molto tempo prima che nella pineta scendesse il silenzio. La retata terminò: alcuni ladri, contrabbandieri e borsari neri furono arrestati. Le puttane e i soldati si erano scambiati insulti che, qualche ora dopo, sarebbero stati dimenticati fra le cosce delle donne e i dollari sottratti a volti ubriachi; pelle nera o bianca non avrebbe fatto differenza. Franco strisciò fuori dal fango e aiutò la donna a risalire dal fosso. Mentre cercavano di ripulirsi, altre ombre sgusciavano fuori dai cespugli, rianimando il buio di voci e imprecazioni. Il popolo della pineta si chiamava e si riconosceva. «Vanna, ci sei?»


14 «Fra poco gli cadevo fra le braccia, ho fatto appena in tempo a buttarmi fra i cespugli di pungitopo. Sono tutta graffiata. Accidenti a loro.» Voci, richiami, bestemmie e qualche risata. «Ma come puzzi!» «È colpa dell’acqua marcia. E poi tu non credere di essere un bello spettacolo.» Quel popolo notturno, passata la breve burrasca, era pronto a riprendersi la pineta per continuare gli affari, i traffici, il contrabbando. Presto sarebbero tornati i soldati americani, questa volta carichi di provviste da rivendere al mercato nero. Franco percorse un lungo tratto nella pineta portando con sé la ragazza. Sembrava diversa dalle altre prostitute, le mancava la loro spavalderia, era spaventata e tremava. La rincuorò e sembrò che lei fosse contenta di quella specie di protezione. Raggiunsero una radura; la costeggiarono per qualche minuto finché lui individuò i pioppi; una breve deviazione e trovò quel che stava cercando. Sotto un mucchio di rami e fogliame c’era la bicicletta e, avvolta in una tela cerata, la sua divisa. Il tenente Franco Bandi sapeva di dover attendere ancora qualche ora. Era un posto pericoloso, quello a ridosso di Coltano. Gli americani stavano costruendo un campo di concentramento per i fascisti. Un campo di prigionia molto duro e farsi trovare nelle vicinanze, seppure in divisa da ufficiale, non lo avrebbe messo al riparo da sospetti e domande. Doveva aspettare l’albeggiare e la fine del coprifuoco. Si ripulì alla meglio, approfittando di una pozza d’acqua non così putrida come quella del fosso. «Forza lavati anche tu» disse alla ragazza. Lei obbedì mentre lui faceva un giro intorno per vedere che nessuno li avesse seguiti. Il sonno lo colse non appena appoggiò la schiena al tronco lucido di un pioppo. La ragazza si era già sdraiata per terra e si era addormentata.


15 Si svegliò di soprassalto, il cielo era schiarito e la luce cominciava a farsi strada fra gli alberi. Svegliò anche la ragazza. «Ascolta» le disse «ora io vado. Tu non puoi venire con me. Sai come tornare indietro? Dove abiti?» «Alle colonie» rispose lei. «Bene, non è difficile arrivarci. Aspetta ancora qualche minuto prima di muoverti. Come ti chiami?» «Laura.» «Buona fortuna Laura.» Franco raccolse il sacco con la divisa, ben attento a non farla vedere; l’appoggiò sul manubrio della bicicletta e si allontanò. Si cambiò quando fu certo che la ragazza non potesse vedere che era un militare, un ufficiale. Alcune ore più tardi era a rapporto dal suo comandante, il maggiore Catarsi. «E così, tenente, non ha potuto verificare i nostri sospetti?» «La retata americana mi ha costretto a nascondermi; comunque, non credo che Mike, il sergente nero, abbia realmente la possibilità di trafugare armi da vendere ai contrabbandieri con cui è in contatto per la benzina. Non si fa certo scrupoli, ma è abbastanza furbo per non cercarsi guai troppo grossi.» «Il nostro informatore è affidabile» rispose il maggiore «e sostiene che i contrabbandieri vogliano comprare le armi dagli americani per rivenderle a sbandati fascisti che stanno tentando di costituire un gruppo di combattimento da questa parte del fronte. E questo se non probabile è, comunque, plausibile. Oltretutto gli americani hanno costruito quel campo di prigionia proprio a pochi chilometri da qui. Può essere una tentazione per un colpo di mano anche se sarebbe una follia. Le voci che stiamo raccogliendo mi fanno pensare piuttosto che i fascisti stiano tentando di organizzare un’unità clandestina che possa operare nel lungo periodo.» «Secondo lei, Maggiore, vorrebbero creare una specie di “quinta colonna” che sia in grado di compiere azioni di sabotaggio anche


16 dopo la fine della guerra? Con tutto il rispetto, questa sarebbe una follia più grande dell’assalto al campo di concentramento a Coltano.» «Tenente, pensi a quante persone in questi anni hanno aderito al fascismo non solo per conformismo o convenienza ma per convinzione, come me e lei. Molti poi hanno maturato dolorosamente un ripensamento che li ha condotti a combattere contro ciò che loro stessi erano all’inizio della guerra. Io e lei abbiamo creduto in Mussolini. Quanti anni aveva all’inizio della guerra? Diciannove, venti? Sembrava un’avventura gloriosa. Sappiamo quello che poi è successo. Il domani che attende l’Italia sarà duro. È sufficiente guardare ciò che accade adesso a Livorno, come nelle altre città liberate: fame, miseria, bambine e donne che si vendono, tutto ciò che accade a un popolo sconfitto. E durerà ancora a lungo. Lei pensa che non ci sarà spazio per chi vorrà lavorare nell’ombra?» «Non so, credo e spero che ci sarà più spazio per l’entusiasmo e la voglia di vita che per la disperazione» disse Franco quasi riflettendo ad alta voce. «Può darsi, tenente, lo spero anch’io. È anche per questa nostra speranza che dobbiamo lavorare. Qualunque sia l’intento dei fascisti che operano nel nostro territorio, dobbiamo scoprirli e distruggere la banda. Si riposi qualche ora e poi continui il suo lavoro.» «Agli ordini» Franco salutò. *** Gli americani in poco più di un mese avevano creato nella pineta di Tombolo, alcuni chilometri a nord di Livorno, un immenso campo di stoccaggio e distribuzione dei rifornimenti che arrivavano al porto. Un’enorme ricchezza in viveri, medicine, armi, abiti, coperte, mezzi di trasporto, pneumatici, olio combustibile e benzina, fluiva ogni giorno verso il campo


17 americano dalle navi ormeggiate. Solo una parte di tanta abbondanza arrivava a destinazione; altra parte, con l’attiva complicità degli stessi soldati, era sottratta, rapinata, sviata verso il mercato nero e il contrabbando che da Livorno si diramava, come un immenso e pulsante sistema di vasi sanguigni, verso i paesi vicini, affamati, malati e infreddoliti, dove era venduta a prezzi esorbitanti. Tombolo era il cuore che pompava a caro prezzo la vita in quella terra sventrata dalle bombe che iniziava a ripopolarsi man mano che gli sfollati, sfuggiti alla morte dal cielo, tornavano a cercare le proprie case o quei pochi muri sbrecciati che restavano soli testimoni della loro vita di un tempo. Gli anni della guerra. Quattro anni, tanto lunghi e tanto brevi. Erano stati sufficienti quattro anni a devastare vite, case, intere città; e ora, il cuore della nuova speranza era in quella grande macchia selvaggia di pini e querce che misteriosamente traevano nutrimento dalla sabbia in cui affondavano le loro radici; quella macchia selvaggia che di giorno in giorno era disboscata, bonificata e si popolava di tende e baracche e di soldati. Soldati bianchi e neri, alti e solidi come la gente di Livorno non aveva mai visto. Intorno a quelle tende e a quei soldati, un’altra città si era sviluppata, occhiuta, attenta a ogni movimento del campo, pronta a disperdersi e a ricomporsi: puttane, ladri, contrabbandieri, disertori, disperati di ogni genere, ragazzini affamati. Tutti contrattavano, piangevano, compravano, si vendevano, rubavano; tutto, pur di sopravvivere, era lecito in quella terra di nessuno, fra quei pini, fra quelle querce, su quella terra umida di foglie marce come la vita. Quella vita che così si era trasformata in soli quattro anni. Franco ripensava a quanto grande e solitario fosse stato quel bosco fino a qualche anno prima. Il tempo trascorso non era misurabile secondo l’ordinario succedersi delle ore, dei giorni e dei mesi. Poteva essere scandito solamente con il succedersi delle


18 emozioni, degli entusiasmi, del dolore e dello sgomento. Sentimenti che dilatano o accorciano il tempo ma lo trasportano, comunque, in un'altra dimensione della mente, dello spirito e della vita. Non c’era niente che fosse rimasto uguale a prima e così era ininfluente che fossero trascorsi solo quattro anni, potevano esserne passati quattrocento oppure solamente uno, ma non c’era misura umana che potesse raccordare il prima e il dopo. In quel “prima” che la guerra aveva allontanato in una dimensione della memoria quasi irreale, l’immensa foresta di pini e querce, popolosa di cinghiali e daini, d’istrici e volpi, giungeva a ridosso dei tomboli di sabbia bionda e su quella sabbia, quasi a frangere le onde, erano state costruite le “colonie” del Calambrone. Il treno in quel tempo così vicino e cosi lontano, giungeva a Pisa da Firenze. Due interi vagoni erano riservati ai bambini che dalle città e dai paesi dell’interno venivano condotti al mare per le cure elioterapiche. Vicino alla stazione ferroviaria partiva il trenino che da Pisa andava a Livorno seguendo la linea di costa. Prima fermata a Marina di Pisa, poi a Tirrenia – Calambrone, e poi cento ragazzini marciavano inquadrati verso il rumore sordo e continuo delle onde. Il mare restava a lungo nascosto agli occhi emozionati dei bimbi dalle alte dune di quel lunghissimo arenile che si distendeva dal Calambrone, l’antico porto della Repubblica Pisana, verso nord, fino a Marina di Pisa. Quella sabbia fina, frantumata nei mille riflessi di conchiglie triturate dal mare e dalle tempeste, innervata dalle brevi e secche radici di piante basse e spinose che vivono di sale e di luce, s’inoltrava in profondità nella pineta confondendosi col verde e l’ombra degli ampi ombrelli dei pini. Un mondo profumato di resina, rumoroso solo di vento e di animali selvatici che era stato modificato da nuovi architetti. Le loro visioni che avevano preso forma nei disegni e nei plastici infine erano diventati realtà. La velocità, la luce e l’aria stessa erano diventati materia concreta; il mare e la pineta racchiusero


19 così, nell’infinità delle loro linee parallele, una nuova strada, una ferrovia e una nuova città. L’uomo portava, tra quegli attori secolari, l’immagine solida della sua potenza e razionalità, i sogni della sua vita, la velocità e un progetto per il mondo del domani. Infine, le Colonie completarono il grande progetto. Sembravano costruite per essere osservate e ammirate da quegli aerei che ormai solcavano, sicuri, le rotte del cielo, essi stessi inni al futuro. L’arancione intenso della “Rosa Maltoni Mussolini” irrompeva tra il verde cupo della macchia e quel mare che cambiava colore secondo la carezza o lo schiaffo violento del vento. La “Principe di Piemonte” disegnava sulla spiaggia le linee essenziali di un aeroplano diretto verso l’orizzonte. Un bambino con le braccia aperte alla vita e al futuro era la Colonia Vittorio Emanuele II. Centinaia e centinaia di “figli della lupa” e di “balilla” avevano giocato, studiato, fatto esercizio e imparato a nuotare in quelle immense strutture nelle quali si voleva educare e forgiare una nuova Italia, solo pochi anni prima di portarla verso la catastrofe della guerra. Dopo non ci furono più bambini in quelle stanze che vennero occupate dagli sfollati, in una promiscuità chiassosa e litigiosa. Sulle spiagge di Tirrenia gli americani sembravano confusi dal sole del mediterraneo che sin dalla liberazione di Roma ne aveva accompagnata la marcia. Migliaia di soldati che avevano fame di vita e sembravano ammaliati e storditi dall’attività frenetica di quel popolo che era stato vinto, ma era sopravvissuto all’angoscia di una guerra combattuta e persa nei deserti africani e nelle steppe gelate della Russia, ai figli morti in combattimento e a quelli sepolti nelle case e nelle scuole bombardate. Eppure quelle madri e quei padri, i giovani e i vecchi, costruivano nuovamente la loro vita e, insieme, la vita comune. Per gli italiani non c’era tempo per la disperazione, bisognava vivere, mangiare, dare una mano alla speranza perché il futuro esisteva ancora ed era nuovamente a portata di mano. E quei soldati alti, che sembravano così diversi,


20 furono risucchiati dalle mille voci e dalle mille mani che offrivano l’arguzia e il coraggio del commercio clandestino e del contrabbando. La macchia di Tombolo divenne in poco tempo un mondo indipendente e anarchico nutrito dal cibo e dall’alcol del porto. E lungo le strade di Livorno bivaccavano gli americani ubriachi che sembravano non aver più voglia di andare oltre, di pensare di nuovo a morire. Quanti di loro si persero in quell’immensa pineta, sperando di sottrarsi per sempre alla guerra? Quanti si dimenticarono delle sterminate pianure americane e delle loro città di là dall’oceano, irretiti da questa strana gente e da queste donne che offrivano amore non sempre mercenario e dal mare così caldo, così sempre presente? *** Laura non sopportava il puzzo che ristagnava nei corridoi della colonia. In quel grande edificio erano stipate centinaia di persone fuggite dalla città bombardata. L’acqua era razionata e la luce affidata a candele oppure a lampade alimentate con un petrolio comprato dagli americani che anneriva le pareti e toglieva il respiro. Il prezzo, troppo spesso, erano le gonne alzate e mani bianche o nere che frugavano sotto i vestiti. L’odore delle stanze la faceva impazzire e piangere di rabbia. Rabbia verso chi? Non lo sapeva. Il caldo dell’estate faceva ribollire il sudore e il puzzo degli abiti lavati male, ma lì davanti, a pochi passi, c’era il mare. Quel mare che lasciava trasparire la sabbia nel cavo delle piccole onde smosse dalla brezza. E così, agli occhi di chi fosse passato inconsapevole della tragedia appena trascorsa, sarebbe apparso un quadro quasi lieto di donne e bambini che correvano verso l’acqua. Sembrava gioia e in parte lo era.


21 Guido era apparso all’improvviso un giorno, mentre lei raccoglieva pinoli da regalare al piccolo Giorgio, un ragazzetto tra i sei e gli otto anni, magro come un chiodo, che girava nei corridoi della colonia senza mai chiedere niente. Nessuno sapeva dove fosse la sua famiglia, lui, la notte, si raggomitolava in un angolo qualsiasi. Laura appena poteva gli dava qualche cosa da mangiare. Quel giorno accosciata a raccogliere i pinoli era invisibile a tutti, anche a quel giovane che correva strappando vestiti e pelle sui rovi spinosi. Le rovinò addosso rovesciandola per terra, la guardò con gli occhi sgranati, stupefatto e impaurito. Lei si stava rialzando quando, poco lontano, udì le grida dei cacciatori, le ci volle un attimo per capire che quel giovane era la preda. Lui seppe di averli ormai addosso. Troppo vicini per riuscire a fuggire. Si gettò disteso dietro un rovo e poi arrivarono. Erano della polizia militare americana, sugli elmetti e sulle fasce nere intorno al braccio spiccava, bianca, la sigla MP. Laura finse uno spavento maggiore di quello che in realtà provava, aprì la bocca senza parlare come fosse bloccata dal terrore, alzò il braccio e indicò un punto lontano nel bosco. I soldati restarono per un attimo incerti poi seguirono l’indicazione e continuarono la caccia. «Grazie bimba!» Occhi neri sotto i capelli arruffati, un che di spavaldo traspariva dallo sguardo e dal tono delle parole, quasi che quel giovane si pavoneggiasse nella camicia strappata dalle spine e la pelle sanguinante. Laura lo guardò diritto negli occhi e gli rispose dura che non era una bimba e che non aveva fatto niente di cui essere ringraziata. «Mi hai fatto cadere tutti i pinoli, accidenti a te» aggiunse poi. «Mi chiamo Guido.» «Io, Laura. Ti conviene scappare, da un momento all’altro tornano.» «Devo aspettare la notte, ora è troppo pericoloso.» Laura gli dette un’ultima occhiata e poi si avviò verso la colonia.


22 «Aspetta Laura.» Guido la chiamò ma poi non seppe aggiungere parole. La guardò e le sorrise. «Nasconditi» disse lei. «Non vuoi sapere perché scappo?» «Non m’interessa. Tutti scappiamo da qualcosa.» «Torna qui stasera e te lo dirò!» «Ti ho detto che non m’interessa.» Gli volse le spalle e si allontanò in fretta. «Laura sei tornata?» la voce fioca di sua madre la chiamava da dietro la tenda che delimitava, nel grande stanzone comune, la loro piccola “parte privata”, così l’aveva chiamata un donnone energico che si era autoproclamata “capo camerata”. A Laura stava bene che ci fosse qualcuno a occuparsi dei turni di pulizia e di dare un minimo di organizzazione e sicurezza alla vita comune. «Sono qui, mamma.» Con il cuore stretto scostò la tenda e si avvicinò a quel piccolo corpo consunto steso sulla branda. «Sono qui, mamma» disse di nuovo prendendole la mano. «Ora preparo qualcosa da mangiare.» I soldi stavano finendo e Laura sapeva che sarebbe dovuta tornare a Tombolo: la sua pelle, le sue cosce, i suoi seni le avrebbero procurato il denaro sufficiente a vivere ancora. Era pericoloso, lei lo sapeva e aveva già pagato il conto della sua presenza non gradita né autorizzata. In quella macchia selvaggia sembrava non ci fosse alcuna legge: ladri, disertori americani, puttane e borsari neri parevano mischiarsi nel folto del bosco senza regole, ma era solo apparenza, in realtà c’erano norme non scritte di convivenza e di suddivisione degli affari; che questi fossero il contrabbando, il furto o la vendita del proprio corpo non aveva importanza, ma era necessario appartenere comunque ad un gruppo organizzato e riconosciuto che garantiva accettazione e, qualche volta, protezione. Questo valeva per tutti, anche per le puttane. Laura aveva cominciato perché era il modo più veloce per avere cibo e denaro; tutto era crollato a Livorno, la sua casa, il negozio dove lavorava, tutto era finito sotto le bombe fuorché lei e quel


23 lumicino di vita che ancora respirava nel petto di sua madre. Non valeva la pena lamentarsi e piangere per ciò che non sarebbe più stato e lei aveva bisogno di pane e medicine e aveva bisogno di acquistare tempo per pensare alla vita di domani quando tutto questo sarebbe finito. Così aveva cominciato, sempre tenendosi ai margini del mondo di Tombolo, provando a non farsi notare dalle altre, lasciando che fossero i militari americani ad avvicinarsi senza che lei tentasse alcun adescamento. Non era bastato. La prima volta era stata circondata da tre o quattro donne che l’avevano minacciata, poi uno schiaffo le aveva girato la testa: «Un semplice avvertimento» le avevano detto. Poi era successo nuovamente e quella volta il pestaggio era stato più duro, ma lei non voleva essere accettata in quel mondo; non era una di loro diceva a sé stessa - non lo faceva di mestiere, era solo sopravvivenza, ancora per poco, solo il tempo di far morire sua madre tranquilla, bevendo un’ultima tazza di brodo. Poi sarebbe tornata in città, forse avrebbe trovato un lavoro, i negozi sarebbero stati ricostruiti e da sola avrebbe potuto sopportare la fame e il freddo d’inverno. Ogni sera, al calare del sole, sedeva sulla sabbia in quel punto, dove il mare lambisce la spiaggia per poi ritirarsi. Nei giorni freschi di maestrale la Gorgona, nera e rocciosa, si stagliava sull’orizzonte, mentre a nord, sempre seguendo la linea del mare, le vette dentate delle Apuane assorbivano, senza renderla, l’ultima luce del tramonto. Anche quella sera lasciava che le piccole e brevi onde le bagnassero i piedi e le gambe. Avvertì appena un movimento dietro di sé e una voce allegra: «Perché non sei venuta?» Guido sedette vicino a lei. «Perché sarei dovuta venire?» «Perché ti aspettavo.» «Mi sono anche dimenticata come ti chiami e non ho nessuna voglia di conoscerti.» Laura si alzò indispettita. Quei momenti sul


24 mare erano preziosi per lei, solo allora si permetteva di sognare e quello sciocco l’aveva interrotta, disturbata. «No, aspetta Laura. Vedi io non mi sono dimenticato il tuo nome.» «Farai bene a scordartelo subito. Chi sei? Che vuoi da me?» Il giovane la guardò incerto, perplesso; di solito le ragazze restavano affascinate dai suoi occhi scuri e da quel modo di fare allegro e un po’ spavaldo, mentre Laura sembrava solamente infastidita. «Va bene, scusa» disse Guido. «Non volevo darti noia. Solo che la polizia americana ha continuato a battere la pineta e sono dovuto restare nascosto finora. Poi ti ho visto e ho pensato di ringraziarti per avermi aiutato.» «Ti ho già detto che non mi devi nulla. Certo, devi essere un gran delinquente se quelli ti hanno dato la caccia per tutto il giorno.» «Mi arrangio. Come tutti, anch’io cerco di vivere e di fare quattrini. E tu cosa fai?» Lei lo guardò in silenzio per qualche istante: «Vado con gli americani.» La voce era dura, decisa, senza imbarazzo. Continuò a guardarlo finché lui distolse lo sguardo. «Anche tu, come tutti cerchi di vivere e di fare quattrini» disse piano Guido. Poi continuò a camminarle accanto. «Senti Laura io ho un grosso affare fra le mani. Questi sono giorni in cui si può fare fortuna.» «Oppure farsi ammazzare» lo interruppe lei. «Sì, forse, ma io non ho molte scelte. E, mi sembra, che nemmeno tu hai un grande avvenire.» «Pensa a te» Laura camminò più veloce infuriata con lui e con se stessa. «Se ti fermi un attimo, possiamo parlare con calma. Non volevo offenderti, ma non credo che tu pensi di fare il mestiere ancora a lungo. Non mi sembri il tipo.»


25 Lei si fermò bruscamente, avrebbe voluto schiaffeggiarlo, insultarlo ma per la prima volta lo vide serio, intento a un pensiero e si limitò a fissarlo. «Del resto anch’io non voglio continuare questa vita. Ora è il momento di rischiare, poi tutti noi, i banditi di oggi, torneremo a essere persone perbene, avremo una casa, dei figli, dei negozi dove altra gente perbene verrà a comprare e tutto questo sarà dimenticato.» Parlava sottovoce Guido, ma eccitato e sicuro. Laura sentì un nodo alla gola e le lacrime che riempivano gli occhi. Si volse verso il mare, verso quell’orizzonte ormai scuro interrotto solamente da una lama rossa lunga e sottile. Sedette raccogliendo al petto le ginocchia. Seduto vicino a lei Guido continuava a parlare del futuro, dei sogni, della vita che sarebbe stata una volta che tutto questo fosse finito. «Guido, cosa vuoi dire con “tutto questo”?» «Voglio dire questa strana vita che c’è toccata. A noi che non siamo morti in battaglia o sotto le bombe, a noi che abbiamo visto crollare il mondo di prima. Non dobbiamo disperarci né arrenderci. Ci sono tante possibilità da cogliere al volo. Gli americani sono polli da spennare; sono polli pericolosi, però possiamo farcela.» L’entusiasmo e la voglia vita che trasparivano dalle sue parole fecero breccia nel cuore di Laura ma non come speranza, piuttosto come una sorta di doloroso rimorso. «Tu credi che io mi sia arresa?» gli chiese. «Non lo so, non posso giudicare nessuno, mi sembra che tu non creda al futuro e questo è male.» «Ora devo rientrare, mia madre ha bisogno delle medicine.» «Tornerò domani e ti dirò di più dell’affare che ho tra le mani. È una cosa grossa.» «Attento alla polizia americana. Abbi cura di te.» ***


26 «Ciao Mike!» Franco vestiva nuovamente i panni del contrabbandiere. Il grosso sergente nero mugugnò qualcosa per risposta. Era seduto sullo sgabello di una baracca di legno nella strada tra la pineta e il mare, dove i soldati neri bevevano e incontravano “segnorine” e piccoli faccendieri italiani in cerca di affari facili. «Mike, l’altra volta mi hai fregato. Hai preso i soldi ma non mi hai dato la benzina. Non va bene. Se non rispetti i patti, nessuno vorrà più fare affari con te.» Franco parlava un inglese spedito ma cercava, con i soldati americani, di apparire più impacciato e incerto. Non ci dovevano essere dubbi sul fatto che lui fosse soltanto un piccolo bandito. «Italiano non provare a minacciarmi!» «Mike io non ti minaccio ma voglio recuperare i miei soldi.» «Non li ho più i tuoi soldi. Sono stato derubato quando ero addormentato.» «Eri ubriaco fradicio e non addormentato.» «Io non ho più i tuoi soldi!» ringhiò il sergente avvicinandosi pericolosamente a Franco con i pugni chiusi. «Ok, ok Mike. Però dobbiamo trovare il modo di compensare la perdita.» «Io non faccio più affari con te Mussolini.» «Non te la prendere Mike, finora ci siamo trovati bene insieme. Ti sei intascato un sacco di soldi. Sei diventato un ricco sergente nero, ma l’ultima volta mi hai fregato.» Franco non voleva che Mike lo mollasse proprio in quel momento; aveva bisogno d’informazioni sul possibile contrabbando di armi. Quel sergente nero era molto meno stupido di quanto potesse apparire. Gestiva la vendita clandestina di centinaia di litri di carburante e finora l’aveva fatta franca. Era ingordo ma anche furbo, sapeva che sarebbe stato sufficiente un solo errore per finire sotto la Corte marziale con la sicurezza di essere fucilato. E Franco giocava proprio su questo: Mike sapeva di non potersi mettere contro i contrabbandieri con cui faceva


27 affari, era indispensabile che mantenesse i patti e se riceveva denaro doveva consegnare la merce, uno sgarro fatto una volta poteva passare ma, se si fosse ripetuto, sarebbe stato sufficiente che giungesse al comando americano una segnalazione e lui sarebbe stato arrestato e processato. «Ascolta Mike, lasciamo stare quello che è successo. Sei in debito con me e devi farmi entrare in un affare importante. Più importante della benzina.» «Di cosa stai parlando?» «Le voci girano, lo sai anche tu. A volte sono solo voci, ma altre volte…» «Parla più chiaro italiano!» «Va bene Mike. Voglio entrare nell’affare delle armi.» La sorpresa del sergente sembrò autentica, spalancò i grandi occhi percorsi da capillari rossastri, arricciò le labbra e alzò le spalle. «Non so di che cosa parli. Quali armi?» «Se tu non ne sai niente può darsi che sia una frottola, ma mi è arrivata all’orecchio una voce sicura che parla di una grossa partita di armi che starebbe per lasciare i vostri magazzini. Intendo dire che sta per essere rubata e venduta dai tuoi commilitoni. Ci sono in ballo un sacco di soldi. Questa volta potrebbe essere l’occasione buona per prendere la mia parte e ritirarmi definitivamente.» Franco sapeva che parlare di soldi a Mike significava metterlo subito in azione, non aveva dubbi che il sergente avrebbe mosso mari e monti per verificare la notizia. Il problema era, piuttosto, tenerlo legato a sé, essere sicuro che avrebbe condiviso con lui le informazioni. «Mike, sarei molto addolorato se tu non mi facessi partecipe dell’affare. Te l’ho detto, per me sarebbe l’ultimo. Ma sono sicuro che mi terrai informato, perché io so che tu sai e, se resto all’asciutto, non vorrei che qualcosa mi sfuggisse dalla bocca.» «Non minacciarmi italiano.»


28 «Non ti minaccio Mike, come potrei? Voglio solo essere sicuro che sarò della partita. Salute» disse Franco alzando la bottiglia di birra. Mike borbottò qualcosa e tracannò la birra. «Tornerò tra due giorni, ciao sergente.» Mike non rispose. *** Guido era diventato un personaggio di rilievo in quel territorio senza legge. Era giovane, giovanissimo, ma svelto di cervello e di mano, molti piccoli traffici passavano da lui, ma non era riuscito a fare quel salto di qualità che sognava. Non aveva trovato l’occasione giusta fino a quando era entrato in contatto con uno strano personaggio apparso nella pineta. Aveva il volto scavato e una rada barba bianca gli infossava ancora di più le guance, gli occhi vivi, attenti, mobilissimi, i capelli grigi pettinati indietro. Era sempre in ordine, pur se vestito con una specie di divisa mezza americana e mezza tedesca. Inizialmente aveva suscitato diffidenza, molti pensavano fosse una spia della polizia, nessuno voleva trattare con lui e lui, d’altronde, non sembrava interessato ai traffici di Tombolo. Con il tempo divenne, però, una presenza tollerata; Guido, incuriosito da quella strana figura, sin dall’inizio aveva provato a stabilire un rapporto e lo aveva protetto dalle cattive intenzioni degli altri abitanti del bosco che, se non altro per prudenza, avrebbero voluto farlo sparire affogandolo in uno dei tanti fossi del padule di Coltano. Sergio, così quell’uomo aveva detto di chiamarsi, spariva per giorni poi tornava e costruiva la sua tenda con teli cerati tesi tra due alberi. Una mattina, mentre Guido finiva di trattare l’acquisto di provviste americane, Sergio gli fece un cenno e lui, incuriosito, lo seguì nel folto del bosco. «Tu sei un giovane coraggioso» disse Sergio, «coraggioso e ambizioso, forse riuscirai a fare fortuna in questa specie di


29 repubblica anarchica e corsara.» Per la prima volta Guido sentiva definire così il popolo che viveva a Tombolo. “Repubblica anarchica e corsara”, un po’ gli veniva da ridere pensando a quei ladri, quelle puttane, quei disertori con cui ogni giorno faceva affari, e un po’ era affascinato dalla dignità che le parole di quell’uomo conferivano a quei disperati. «Oppure» continuò Sergio, «creperai per qualche chilo di cibo o litro di benzina, con una coltellata a tradimento o sotto i colpi della polizia americana. Creperai povero come quando ti sei rifugiato in questa foresta. Ti ho osservato e mi sono accorto quanto sei diverso dalla maggior parte di chi vive qui, non solo sei ambizioso ma hai nel cuore entusiasmo e sogni. Ho scelto te e voglio farti una proposta. Si tratta di un’impresa per la quale riceverai denaro sufficiente per ritirarti da questa vita e per provare a costruirtene una diversa. Non saranno solo i soldi, il premio per l’impresa; per una volta combatterai per una causa diversa dal contrabbando e dal furto.» Guido ascoltava stupito e incuriosito tanto quanto infastidito, ma quell’uomo parlava bene, in modo diverso da tutti gli altri che conosceva. «Fai la tua proposta. Poi ti dirò se accetto, ma stai attento Sergio, a me interessano solo i soldi, non voglio combattere per nessuna “causa” come dici tu.» «Stai tranquillo, i soldi ci saranno» rispose l’uomo, «ma solo se riuscirai a condurre a termine il lavoro. Questa è la condizione.» «Non sono d’accordo. Chi mi assicura che sarò pagato?» «Io, sono io la tua garanzia Guido e, poi, tu lo sai che i soldi passano da una mano all’altra solo quando passa anche la merce.» «Ammesso che io accetti, voglio sapere prima di che merce si tratta.» «La merce in questo caso è un uomo. Ora ti spiegherò tutto. Bada bene, io mi sto fidando di te perché non posso farne a meno. Spero di non sbagliarmi sul tuo conto. Se mi tradisci, non sopravvivrai un solo giorno. Non sarò io a ucciderti perché forse


30 sarò morto, ma ci sono altri che sanno chi sei e non perdoneranno.» «Non minacciarmi, vecchio! Non ho paura di nessuno, né di te né dei tuoi amici e quest’impresa che vuoi proporre comincia a puzzare. Ora dimmi quel che devi oppure lasciami in pace e arrivederci.» «Non pensavo di farti paura, volevo solo mettere le cose ben in chiaro.» «Ora sono chiare sia per me sia per te. Parla oppure me ne vado» finì Guido. «Tu sai» iniziò Sergio, «che a pochi chilometri da qui gli americani stanno organizzando un campo di concentramento. Anche se non è ancora del tutto terminato, ci sono già numerosi prigionieri. L’azione che ti propongo è far fuggire un uomo dal Campo. È una persona molto importante e, se riuscirai, sarai ben pagato.» «Chi è?» chiese Guido. «Un fascistone, immagino.» «Ti ho detto che è una persona molto importante. Questo deve bastarti.» «Dimmi quanto mi pagherai.» Il confronto fra Guido e Sergio andò avanti ancora a lungo. Poi ognuno tornò indietro seguendo percorsi diversi. Guido aveva accettato. *** Gli americani avevano costruito a Coltano un campo di prigionia per i militari della Repubblica Sociale catturati in combattimento e vi avevano rinchiuso anche il poeta statunitense Ezra Pound, sostenitore da sempre del fascismo e di Mussolini. Le poche notizie che riuscivano a filtrare raccontavano quanto duro fosse il trattamento riservato a Pound; si diceva anche che fosse stato tenuto per quindici giorni in una gabbia di filo spinato senza riparo dal sole o dalla pioggia. Guido non aveva interesse per i


31 fascisti più di quanto ne avesse per gli americani. Incolpava gli uni e gli altri per la morte dei suoi genitori e la distruzione della sua casa e della sua città. Non faceva differenze. I fascisti avevano scatenato una guerra che non potevano vincere, gli americani avevano ammazzato quanta più gente possibile ed erano i nuovi padroni. Con loro si potevano fare buoni affari, ma quello che gli aveva appena proposto Sergio gli avrebbe permesso di farla finita per sempre con i piccoli traffici. Certo, rifletteva Guido, si trattava di rischiare la vita, ma lui non aveva paura. Se Sergio e i suoi amici erano talmente pazzi da pagare così bene per far fuggire quel poeta americano, lui era altrettanto pazzo da provare ad aiutarli. Sergio gli aveva detto che, insieme con una piccola squadra di gente fidata, avrebbe dovuto organizzare un attacco notturno il più rumoroso e violento possibile, in modo che gli americani pensassero che un reparto numeroso stesse assalendo il “campo”. In realtà sarebbe stato solo un diversivo per permettere ad alcuni detenuti, fra i quali Pound, di fuggire. Quando Guido aveva chiesto in che modo questi sarebbero fuggiti, Sergio gli aveva risposto duramente che quella non era una cosa che dovesse sapere. Guido avrebbe dovuto attaccare e sostenere lo scontro il più a lungo possibile. Di tutto il resto non si doveva occupare. Era questo il grosso affare che aveva accennato a Laura sulla spiaggia. Quella volta si erano lasciati sfiorandosi appena le mani. Le aveva promesso che l’indomani sarebbe tornato per raccontarle la grande occasione che avrebbe cambiato la loro vita. Laura si scoprì a pensare a lui, ora dopo ora, minuto dopo minuto, finché fu trascorsa la notte. Lui sarebbe tornato. Lo avrebbe visto ancora, pensava. Tutta la mattina si dedicò a sua madre, la accudì, la fece mangiare e, quando finalmente la vecchia si addormentò, lasciò quel piccolo spazio racchiuso fra il muro e la tenda per uscire, verso la spiaggia, sul mare, per respirarne il profumo che si fondeva con quello di resina dei pini. Pensò a Guido. Lo avrebbe incontrato di nuovo. Voleva essere pulita, profumata.


32 Aveva raccolto le spighe della lavanda che cresceva selvatica e rigogliosa al sole d’estate e ne aveva fatto un profumo. Quella sera se ne sarebbe cosparsa il collo e il seno. Poi lui arrivò, sfrontato e allegro. «Questo è per te» disse porgendole un pacchetto di carta marrone con scritte in inglese. «È zucchero.» «Non avresti dovuto, chissà quanto è costato» rispose lei mentre pensava quanto piacere avrebbe dato a sua madre succhiare quel sapore dimenticato. Erano strane quelle due piccole figure stagliate contro il mare scuro della sera; quella giovane donna che si vendeva agli americani e quel contrabbandiere, che non avrebbe esitato a uccidere chi avesse provato a rubargli un po’ di merce, sembravano ragazzi al loro primo appuntamento, imbarazzati e pieni di attese per quello che sarebbe di lì a poco accaduto. Risalirono dal mare fermandosi in un profondo avvallamento tra le dune di sabbia che difendevano la pineta dai venti salmastri. Si lasciarono quando la luna aveva quasi compiuto il suo corso, avevano parlato e fatto l’amore. Guido le aveva raccontato come sarebbe stata la loro vita insieme non appena conclusa quell’impresa importante. Lei aveva ascoltato partecipando al suo entusiasmo e alla sua allegria senza riuscire a togliersi dal cuore un peso oscuro, una paura nascosta. Poi, quando si stavano separando, gli aveva preso fra le mani il volto, lo aveva guardato a lungo e, mentre le salivano le lacrime agli occhi, lo aveva pregato di non farlo, di non correre altri rischi. «Guido» aveva detto, «non vale la pena. Voglio che tu viva e voglio che viviamo insieme. Ci arrangeremo, torniamo insieme in città, qualcosa riusciremo a fare, d’ora in poi saremo in due e io sarò forte accanto a te e tu sarai forte accanto a me. Non lo fare, non andare dietro a quel vecchio e ai suoi soldi.» «Lascia fare a me, Laura. Non devi preoccuparti, farò questo lavoro e cambieremo vita.» La attirò a se e la baciò.


33 *** «Allora Mike, hai qualche notizia per me?» chiese Franco quando raggiunse il sergente seduto sullo sgabello della solita baracca. Si accorse subito che l’americano doveva avere già bevuto qualche birra, ma, contrariamente al cattivo umore che accompagnava sempre le sue sbornie, quel giorno sembrava allegro. «No Mussolini, non ho niente per te.» «Accidenti a te negro, non mi chiamo Mussolini e nemmeno maccaroni. Ti ricordi quello che ti avevo chiesto?» «Ok, ok. Mi ricordo, ma ascoltami bene» disse Mike abbassando la voce e avvicinandosi all’orecchio di Franco, «non c’è nessun traffico d’armi in vista. Ho indagato e se ci fosse stato qualcosa nell’aria lo avrei saputo. Tu, italiano, mussolini, maccaroni non puoi guadagnarci proprio nulla questa volta» Una fiatata di alcol e birra investì Franco che si ritrasse. Riuscì, comunque, a mantenersi calmo, anche se avrebbe spaccato volentieri una bottiglia in testa all’americano. Lo vedeva troppo allegro. Era convinto che stesse nascondendo qualcosa, ma che, al tempo stesso, non vedesse l’ora di fare una confidenza, tanto per dimostrare che nulla poteva sfuggirgli nel campo americano. «Questa la pago io» disse Franco porgendogli un’altra bottiglia di birra. Mentre ne apriva una anche per sé, ridacchiava scuotendo la testa. «Che hai da ridere italiano?» «Ma niente!» «Mi stai prendendo in giro?» I grandi occhi bianchi di Mike si spalancarono in faccia a Franco. «Me ne guardo bene, ma comincio a credere che tu stia perdendo colpi e che alcune cose importanti avvengano tra i tuoi compatrioti senza che tu lo sappia, sergente! Non è possibile che a me sia arrivata la voce che una cosa molto importante sta per succedere, probabilmente un furto d’armi dai vostri magazzini, e


34 tu non ne sappia niente. Forse ti stanno lasciando un po’ fuori dai giochi più grossi.» E Franco ridacchiò di nuovo. «Bada a quel che dici italiano. Nessuno prende in giro Mike.» «Ok ti credo sergente, ma allora sei tu che mi vuoi prendere in giro tenendomi fuori da un affare importante. Se è così ricordati quello che ti ho detto l’ultima volta: tu e io siamo sulla stessa barca, se guadagni te voglio guadagnare anch’io, ma se vado a fondo io, puoi star certo che tu affondi con me. Siamo buoni amici e allora non fare il misterioso con me» continuò Franco alzando la bottiglia di birra come in un brindisi. Si accorse che il sergente stava per parlare e si sporse verso di lui quasi in segno d’incoraggiamento. Dopo aver bevuto ancora, Mike raccontò che qualcosa di grosso stava per succedere. Spie americane infiltrate tra i contrabbandieri e i ladri che vivevano nel bosco, avevano captato alcune voci che parlavano di un prossimo attacco al Campo di prigionia di Coltano. Non si sapeva se potessero essere notizie vere o inventate, ma sembrava che il Comando le avesse prese sul serio. Franco si mostrò stupito e incredulo, finì di bere e salutò Mike. In realtà questa notizia, anche se poteva sembrare incredibile, ben si accordava con il sospetto che una banda fascista stesse organizzandosi dietro le linee degli alleati, proprio quella banda su cui il Sim stava indagando. Qualche ora più tardi si trovava nell’ufficio del maggiore Catarsi. Fece rapporto riferendo che gli americani sospettavano che il campo di detenzione di Coltano sarebbe stato attaccato dai fascisti. Catarsi si guardava le mani e per la prima volta Franco lo vide indeciso. Aspettò in silenzio che il superiore parlasse. «L’ordine pubblico è compito della polizia e delle forze armate italiane» disse infine, «anche se loro, intendo gli alleati, non si fidano di noi. L’attacco al campo di prigionia non è una questione di ordine pubblico e quindi capisco che vogliano tenerci fuori,


35 ma, maledizione, un gruppo fascista che opera sul nostro territorio non è solo affare loro!» Il maggiore sollevò il telefono e ordinò al centralino di metterlo in contatto con il Comando alleato. Il colloquio fu teso, privo di qualsiasi cordialità. Gli americani, in un primo tempo, negarono di avere notizie di un’azione contro il campo di prigionia. Catarsi non mollò, alzò la voce, rivendicò al Sim il sacrosanto diritto – così si espresse – di essere tenuto informato di eventuali attività insurrezionali fasciste. Le forze armate italiane non avevano particolari strumenti di pressione nei confronti degli alleati, ma, anche questa volta, l’abilità e la fermezza di Catarsi vinsero sulle resistenze del Comando americano e il maggiore ottenne non solo tutte le informazioni sul caso ma anche la possibilità di far partecipare militari italiani all’operazione di contrasto all’ipotetico attacco al campo di prigionia. *** Ogni pomeriggio Laura, cercando di non suscitare curiosità o sospetti tra le donne delle colonie, cercava, sul limitare della pineta il segnale di Guido. Se lo trovava, significava che lui, quella sera sarebbe venuto e lei si sarebbe fatta trovare in quella buca fra le dune che dal primo giorno li aveva accolti e protetti. Molte volte non c’era tempo per le parole. Lui la baciava forte, profondamente, la toccava fra le cosce e saliva su; non incontrava ostacoli la mano. Tutto andava fatto in fretta e lei scopriva, ogni volta, in quella fretta senza tenerezza, un piacere violento che la lasciava stremata sulla coperta sotto le stelle. Il giorno prima si erano salutati mentre il vento soffiava impetuoso sul mare e fra i pini. Lui sorrideva sussurrandole parole che il libeccio portava troppo lontano, per essere udite. Quella sera Laura non trovò il segnale.


36 Il mattino successivo una voce corse di bocca in bocca fra il popolo delle colonie. C’era stata battaglia a Coltano. Gli americani avevano sterminato una banda di fascisti che aveva assalito il campo di prigionia. Laura udì la notizia mentre era dietro la sua tenda, vicino alla madre. La “capo camerata” gridava contenta: «Quei maledetti fascisti hanno avuto ciò che meritavano. Li hanno ammazzati tutti.» Laura si sentì mancare. Un freddo terribile le percorse il corpo fin dentro le ossa, l’aria non riuscì a scendere nei polmoni. Si aggrappò alla tenda e cadde per terra tirandosela addosso. Restò a lungo inebetita, incapace di parlare e perfino di piangere. Il giorno dopo seppe che i corpi degli assalitori del campo sarebbero stati esposti per qualche ora nella cappella del Calambrone. C’erano soldati americani di guardia fuori dalla chiesa, nessun civile sembrava volesse dire una preghiera per quegli uomini senza vita e senza perdono. Laura percorse il breve tratto di strada sotto gli occhi curiosi dei militari, non c’era pianto negli occhi, la schiena era diritta. Entrò nella penombra della cappella, il profumo forte dell’incenso camuffava appena l’odore dei corpi che aspettavano la sepoltura. Vinse l’impulso di fuggire, di sottrarsi a quella tortura. Doveva a Guido un ultimo sguardo, un ultimo saluto. Nella penombra scorse un uomo, un ufficiale italiano, le sembrò di conoscerlo, anche lui la guardò e fece un breve gesto. Era l’uomo che aveva incontrato nella pineta quando c’era stata la retata americana, quando entrambi si erano acquattati nell’acqua lurida di un fosso per sfuggire alla polizia americana. L’ufficiale la osservava incuriosito, forse stava pensando dinanzi a quale bara si sarebbe soffermata. Laura non riusciva quasi a respirare per quell’odore pungente che le stringeva il petto, ma passò oltre le prime bare, aveva dato un breve sguardo a quei poveri corpi, giovani come Guido. Avvicinandosi all’ultima sentì


37 venir meno l’appoggio delle gambe, l’ufficiale probabilmente se ne era accorto e si era mosso, forse per sorreggerla. Lei si riprese, recuperò la forza, con uno sguardo rifiutò ogni aiuto, poi si volse a osservare l’ultimo volto disteso nella cassa di legno. «Non è Guido, non è Guido!» Il grido silenzioso le esplose nel cuore così forte da intontirla. Questa volta l’ufficiale corse da lei e la sorresse: «Venga, signorina, l’accompagno fuori.» Lei non ebbe la forza di rifiutare. «Lo conosceva?» le chiese poi l’ufficiale. Laura non rispose e si allontanò, ma la sua espressione aveva tradito un sollievo che non era certamente sfuggito all’ufficiale del Sim. Più tardi, sul limitare della pineta lei trovò il segnale. Quella sera, Guido sarebbe tornato. Franco sapeva che la caccia non era ancora finita. L’assalto al campo di prigionia era fallito, ma alcuni fascisti erano riusciti a fuggire. L’esposizione dei corpi degli uccisi aveva lo scopo di osservare chi veniva per un ultimo saluto e una preghiera. Forse attraverso di loro il Sim avrebbe potuto scoprire anche l’identità dei sopravvissuti. Per questo, non appena Laura fu uscita dalla cappella, un semplice gesto di Franco fu sufficiente perché un suo agente la seguisse. «Quella ragazza conosce uno dei sopravvissuti all’assalto e se è così, questi non tarderà a farsi vivo con lei. Da questo momento, una pattuglia sorveglierà discretamente i dintorni della Colonia dove vive.» Questi furono gli ordini che dette al sergente. Quella sera Laura si profumò con la lavanda, baciò sulla fronte la madre e uscì trattenendosi a stento dal correre verso la pineta. Non voleva destare sospetti. Camminò lungo il mare; solo dopo qualche minuto tagliò attraverso la spiaggia verso il buio dei pini e quel rifugio, dove era convinta che lui la stesse già aspettando. Guido era lì.


38 «Sei salvo, sei salvo amore mio.» Non ebbe il tempo di udire la risposta. Improvvisamente la luce delle torce elettriche illuminò i due giovani fugando ogni ombra protettrice. Laura gridò, mentre Guido la spingeva via tentando di raggiungere il mitra. Altre armi spararono dal buio oltre le torce. «Sergente, che cazzo avete fatto! Avete ucciso una povera ragazza e l’unica persona che avrebbe potuto aiutarci a ricostruire tutta questa dannata storia.» Franco era furioso mentre scaricava in faccia al sergente la sua rabbia. «Basta morti ammazzati. Basta! Basta!» avrebbe voluto gridare. Guardava Laura, quel corpo minuto, insanguinato, rattrappito nel terrore della morte. L’aveva stretta a sé mentre cercava di proteggerla dalla polizia americana, nel fosso della pineta di Tombolo. Poi, i suoi uomini le avevano tolto la vita e ogni sogno.


39

UN NUOVO INCARICO

La morte di Guido aveva eliminato una possibile buona fonte d’informazioni. Catarsi era irritato, scontento, ma anche sorpreso per una sorta di turbamento che aveva percepito nel tono e nell’espressione del tenente Bandi durante il rapporto. «Dovremo continuare le indagini, ma lei, tenente è destinato a un altro incarico. Andrà a Roma. Partirà domani mattina.» «Roma?» «Roma, esatto. Qualche giorno fa una pattuglia della nostra polizia militare ha arrestato un borsaro nero, certo Annichiarico Salvatore. Sembrava uno dei tanti, ma ciò che i militari hanno trovato nel suo magazzino ha fornito ben altra immagine dell’uomo. Non c’erano solo zucchero e latte in polvere, ma anche taniche di benzina e mitra Sten, oltre a una notevole quantità di denaro.» «Non poco per un semplice profittatore.» «Proprio così. I militari l’hanno torchiato ben bene ed è venuta fuori una storia complicata e non del tutto credibile. In sostanza l’Annichiarico ha raccontato di aver fatto parte, a Roma, di una banda, non si capisce se di partigiani o di delinquenti, comandata da un gobbo. Ebbene, secondo lui, questa banda ha un tesoro di monete d’oro custodito e nascosto in fondo a certe grotte vicino a Roma. Dice che lui è dovuto scappare perché era entrato in contrasto con il gobbo e temeva per la propria vita.» «Un po’ fantasiosa tutta quanta la faccenda.» «Anche a me sembra poco credibile. È probabile che l’Annichiarico sia fuggito da Roma, per salvarsi la vita, dopo essersi appropriato di un bel po’ di denaro della banda. Quel che


40 è più interessante, è che quel delinquente ha fatto cenno a un episodio sul quale il Sim sta indagando da tempo. Secondo lui, la ricchezza della banda romana deriva da un carico di monete d’oro conquistato dopo uno scontro a fuoco con i tedeschi in ritirata da Roma. Non so, ma se è vero, è probabile che non si tratti di monete o almeno, non solo di quello.» «Pensa ai lingotti della Banca d’Italia?» «Esatto. A quel che sappiamo, sembra che dopo l’8 settembre del ’43 i tedeschi, mentre trasferivano in accordo con i fascisti l’oro della Banca d’Italia da Roma a Salò, abbiano pensato bene di trafugare e nascondere alcune casse di lingotti. I nostri informatori sostengono che, qualche mese più tardi, quando ormai gli americani erano alla periferia di Roma, un camion tedesco che trasportava verso nord i lingotti rubati sia stato intercettato da una squadra di uomini armati.» «Partigiani?» «Non lo sappiamo. A Roma operavano formazioni partigiane, ma anche bande armate che non facevano riferimento a nessun comando della resistenza. E neppure siamo certi che quell’episodio sia veramente accaduto. Comunque sia, corre voce che l’agguato al camion tedesco sia stato organizzato da un gruppo comandato da un giovane con una vistosa gobba sulle spalle. Annichiarico parla di monete d’oro, ma, a quanto sembra, ne sa ben poco. Il tenente della polizia militare che l’ha interrogato ha messo in relazione il racconto del borsaro nero con i lingotti della Banca d’Italia e ha pensato bene di avvertirci. A questo punto, entra in ballo lei. A Roma c’è necessità di un volto nuovo che non possa essere riconosciuto né messo in minima relazione con il Sim. Lei dovrà infiltrarsi nella banda del gobbo e scoprire cosa c’è di vero in tutta questa storia.» «Agli ordini.» Franco era felice di poter lasciare Livorno. Aveva bisogno di togliersi dalla testa e dall’anima l’odore di marcio e di morte che aveva a lungo respirato nella foresta di Tombolo.


41 «Prima di partire potrà leggere gli appunti del tenente circa l’interrogatorio dell’Annichiarico e sarà bene che lo interroghi anche lei. Domani mattina tornerà da me per un ultimo aggiornamento.» Catarsi lo congedò.


42

ROMA 1994

Ettore Bandi si svegliò presto dopo una notte inquieta di sogni. Quella mattina voleva sgombrare la mente dai fantasmi di un tempo lontano. Fece una lunga passeggiata arrivando a piedi all’Agenzia. Le carte lasciate da Gilda, quelle che riguardavano il rumeno, sarebbero state un buon diversivo. Gli appunti descrivevano Dragan e riportavano il suo racconto. Non mancava una descrizione fisica dell’uomo. Si era sempre raccomandato, sin da quando la giovane aveva iniziato a collaborare con lui, di non sottovalutare l’osservazione dell’aspetto. A quest’osservazione Bandi attribuiva particolare valore. Aveva più volte riscontrato quanto certi modi di proporsi fisicamente, certi atteggiamenti del corpo e del volto possano essere utili a valutare la sincerità dell’interlocutore. Gilda aveva seguito i suoi consigli e aveva bene osservato Dragan: le era apparso molto diverso dall’uomo che, a suo tempo, aveva difeso. Non aveva più l’aria spaurita, guardava negli occhi, senza alterigia ma con sicurezza, aveva un aspetto curato e tutta la persona, nell’atteggiarsi, trasmetteva una sensazione di affidabilità. Completamente trasformato, continuava Gilda, dall’uomo insicuro, emotivo, e per niente credibile che era stato arrestato e processato pochi anni prima. A quel tempo, lei era riuscita a ottenere l’espulsione dall’Italia senza alcun provvedimento restrittivo della libertà, solamente grazie alla fretta del giudice di togliersi di torno quel caso insignificante, unitamente al fatto che i carabinieri non gli avevano trovato niente addosso e che la casa dove era stato catturato non mostrava segni di danneggiamenti.


43 Adesso, a giudicare dagli abiti, appariva economicamente benestante, molto benestante. La relazione di Gilda continuava riferendo puntualmente ciò che il rumeno le aveva raccontato nel suo recente incontro: Andrej Dragan, dopo la sua espulsione dall’Italia e il ritorno in Romania, era riuscito ad avviare un’attività di trasporto merci dal suo paese verso altre nazioni europee. «Vede, avvocato Pellegrino, la dura esperienza fatta in Italia prima del mio arresto mi aveva insegnato che nessuno ti dà una mano se tu, per primo, non combatti per te stesso. Ebbene, tornato in Romania, la fortuna mi ha aiutato perché io ho aiutato la fortuna. E ora sono nuovamente qui a Roma. Questa volta regolarmente; sono iscritto alla Camera di commercio e la mia ditta d’import-export riscuote la fiducia degli operatori italiani e rumeni.» Dragan le aveva poi spiegato perché richiedeva l’assistenza della loro agenzia d’investigazione: un suo dipendente italiano, un autotrasportatore, era letteralmente sparito e lui intendeva ritrovarlo. Il camionista da qualche tempo non si era più presentato al lavoro e non rispondeva al telefono, Dragan stesso si era recato all’indirizzo che risultava sui documenti di assunzione e i vicini avevano confermato che abitava lì, ma nessuno lo aveva più visto da alcune settimane. D’altronde era sicuro – aveva continuato il rumeno – che se si fosse rivolto alla polizia, la segnalazione, in mancanza di un reato, non avrebbe avuto alcun esito; anzi, vista la sua nazionalità, rischiava anche di sollevare qualche sospetto. «Sono un imprenditore onesto» aveva aggiunto, «ma non sono certo un ingenuo. Svolgo un’attività d’import-export con camion che viaggiano tra Romania, Italia e il resto d’Europa. Se mi presentassi alla polizia denunciando la scomparsa di un mio dipendente senza denunciare alcun furto, lei, avvocato, crede veramente che le domande non verterebbero immediatamente


44 sulla mia attività? Diventerei, in breve tempo, un sospetto di qualche attività illecita.» Gilda era stata sul punto di rifiutare immediatamente un incarico di tale apparente banalità: si sarebbe trattato, in sostanza, di trovare il nuovo indirizzo di un uomo che aveva cambiato casa senza avvertire il datore di lavoro e senza segnalare la nuova residenza all’ufficio anagrafe. A Roma accadevano cose ben peggiori in ogni ora del giorno. «Vede signor Dragan» gli aveva detto, «ogni persona maggiorenne può sparire senza dover dare alcuna giustificazione a nessuno, tantomeno al suo datore di lavoro. Il suo autista probabilmente avrà trovato un lavoro migliore.» Dragan aveva insistito sostenendo che se il suo dipendente voleva licenziarsi, certamente non avrebbe rinunciato alla liquidazione che gli spettava per i due anni di lavoro svolti, inoltre i loro rapporti personali erano stati sempre ottimi e non c’era alcuna ragione per la sua sparizione. Gilda era seriamente intenzionata a non accettare l’incarico, ma un piccolo segnale, un’incertezza di Dragan e un’espressione del volto e degli occhi mentre descriveva la cordialità dei rapporti con l’autista, un’espressione dura che contraddiceva le sue parole, le aveva dato la certezza che il rumeno non stesse dicendo tutta la verità. “Non m’inganni caro mio” aveva pensato mentre l’altro continuava a parlare. “C’è qualcos’altro dietro la tua richiesta e m’incuriosisce capire che cosa.” Così non aveva rifiutato subito l’incarico dicendo che ci avrebbe riflettuto. Bandi aveva letto con attenzione la relazione della giovane socia, divertito per le ragioni che Gilda adduceva per il suo interesse alla questione. Lei aveva intuito, sensibilità e curiosità che non erano fine a se stesse, ma significavano voglia di sfida, desiderio di riuscire a svelare un pensiero nascosto, una verità da ricercare dietro parole che cercavano di celarla. Gilda era giovane, attraente, determinata, ma c’era in lei qualcosa che sfuggiva alla comprensione di Ettore. Lui aveva poco più di cinquant’anni, si


45 sentiva e si riteneva ancora giovane, ancora pieno di voglia di fare progetti e, con lui, Bianca, sua moglie. Entrambi ancora giovani, ma già con una vita alle spalle, costruita attraverso scelte e affetti concreti: il loro matrimonio, il loro amore, i figli. Scelte fatte quando ambedue erano molto più giovani di quanto lo fosse in quel momento Gilda. Lei era brava nel suo lavoro, aveva saputo conquistarsi la qualifica di socio dell’agenzia e un discreto stipendio, viveva in un appartamento arredato con gusto. Cose concrete, anche queste, ma a Ettore sembrava strano che, a trent’anni, lei non avesse ancora una relazione stabile e non coltivasse il progetto di una famiglia. I pensieri di Gilda erano esclusivamente rivolti al suo futuro professionale. Comunque era brava e lui, incuriosito dagli appunti sul rumeno, avrebbe ascoltato con interesse dalla viva voce di lei maggiori dettagli della vicenda di Dragan. ),1( $17(35,0$ &217,18$


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