In uscita il 30/11/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine nombre e inizio dicembre 2017 ( ,99 euro)
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Maria Giuseppina Pennarola
L’OMBRA DELLA FIAMMA
ZeroUnoUndici Edizioni
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L’OMBRA DELLA FIAMMA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-147-1 Copertina: immagine proposta dall’Autore
Prima edizione Novembre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
A eccezione di qualche localitĂ che esiste davvero, personaggi, situazioni ed eventi descritti in questo romanzo non sono reali e le farneticazioni matematiche sono prive di qualsiasi fondamento.
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FINALMENTE A CASA
14 agosto di un anno imprecisato Riccardo Chiodini atterrava all’aeroporto di Malpensa alle ventuno e trentacinque, di ritorno dalla Polonia, dove lavorava da alcuni anni. Trattativa col tassista di turno, cambio di programma (la tariffa aveva una sospetta tendenza ad aumentare), rincorsa al pullman per Milano, arrivo in stazione centrale, metrò. E infine l'ultimo tratto a piedi, poco meno di quattrocento metri. A quel punto iniziava il calcolo inesorabile della distanza ancora da percorrere: a due terzi gliene sarebbe rimasto un terzo; a due terzi dell’ultimo terzo ancora un nono e così via. Sentiva che non ce l’avrebbe mai fatta, con quel trolley che si trascinava dietro, soggetto a una forza di gravità superiore a 9,8 N. E invece, a dispetto di quella bizzarra teoria sulla divisibilità all’infinito dello spazio, a un certo punto si trovava davanti al portone del palazzo. Ricerca spasmodica delle chiavi tra le cento tasche dei pantaloni cargo; uso improprio del citofono dello studio legale per far scattare l’apertura automatica; promessa di non farlo più, che glielo doveva dire all’avvocato di disattivarla al di fuori degli orari d’ufficio. Ed era dentro le mura. Sull'ascensore riprendeva l'esercizio mentale di divisione degli intervalli, questa volta lungo una retta verticale: meno un mezzo, meno un quarto, meno un ottavo, eccetera eccetera. Ma anche l’ascensore riusciva a tagliare il traguardo, sebbene in questo caso l'esito fosse meno scontato, dato che l’ascensore era stato dichiarato “Fuori Servizio” da mesi, da quando cioè l’amministratore aveva deciso di non pagare più il contratto di assistenza. Decisione presa all’ultima riunione condominiale, di concerto con l’atletico avvocato, cui Riccardo aveva dato la delega, che tanto aveva lo studio al primo piano. È facile essere atletici quando si devono salire solo venti gradini.
6 Nel frattempo le chiavi erano riemerse dalla prima tasca in cui aveva cercato. Finalmente a casa. Desiderio di fresco, di una doccia, di una birra. E desiderio di riabbracciare Francesca, che però non c’era, lui lo sapeva che non l'avrebbe trovata; ormai era più di un anno e mezzo che non riuscivano più a far coincidere i rispettivi ritorni all'ovile: quando rientrava l'uno doveva ripartire l'altra e viceversa. Le loro professioni li dividevano, la casa ancora li univa. Parquet, luci soffuse, un po’ di sano disordine, aria di casa. E neppure troppo calda: se c'era una cosa impagabile di quell’appartamento era proprio l'isolamento termico di cui godeva, non doveva neanche accendere il condizionatore. Dopo la doccia andava molto meglio. Una sbirciatina al frigo, ma dentro non c'era niente di sfizioso. Sospiro di delusione, un po' come quella che doveva provare Francesca ogni volta che scopriva che la scatola dei gelati dimenticata da lui nel freezer era vuota. Ma non era stata una vendetta, no, solo che Francesca non sapeva che sarebbe rientrato quella sera, altrimenti avrebbe commissionato la spesa a Javier. Birra fresca, divano e TV, neanche il tempo di capire di che razza di film si trattasse che si era già addormentato. Era trascorsa forse poco più di un’ora e mezza da quando si era assopito, che cadde rotolando giù dal divano, in preda a un incubo in cui, inseguito da due cani feroci, si metteva in salvo facendosi cadere da un muretto. Parasonnie del sonno REM si chiamano questi fenomeni, quegli scatti inconsulti durante il sonno, pare dovuti al fatto che le aree del cervello deputate al movimento sono sveglie mentre le altre no. Perlomeno così aveva letto su un sito specializzato. Aveva anche letto che durante la fase REM la ghiandola pineale produce dimetiltriptammina, un allucinogeno forse responsabile dei suoi sogni agitati; doveva essere quello che adesso gli faceva udire un suono, come un cicalio, dato che la TV si era spenta da sola e da lì non poteva provenire. Di nuovo il trillo, ma questa volta senza dubbio reale, doveva trattarsi del citofono. L'immagine stampata sulla parete dall'orologio a proiezione diceva che era mezzanotte e trentaquattro, Ferragosto. A Ferragosto in città restavano solo dei disagiati che si divertivano a fare scherzi idioti ad altri disagiati.
7 Erano in tre, li aveva intravisti dal monitor del videocitofono, giusto un istante prima che si allontanassero; e avevano fatto bene ad andarsene, perché era quasi tentato di scendere e andare a dirgliene quattro. Stava per tornare a riprendere la sua appassionante attività onirica, quando percepì, seppur debole, lo scatto del portoncino interno che si chiudeva; per quanto uno si sforzasse di non far rumore quello voleva avere sempre l’ultima parola e sbamm, finiva sempre per sbattere. Allora erano entrati! In effetti, prima al monitor gli era sembrato che quei tre fossero stati risucchiati dalle mura del palazzo. L’apertura automatica collegata al citofono dello studio legale: ma certo, i ladri sono sempre al corrente di queste cose; come del fatto che nello stabile c’erano molti appartamenti disabitati con ancora pezzi di arredamento. Avvicinò l’orecchio alla porta augurandosi di non udire quello che invece si sentiva sempre più chiaro: passi lungo le scale via via più vicini, ormai dovevano essere già al terzo piano, neanche nello studio dell’avvocato si erano fermati, accidenti a lui. Si vede allora che ai mobili vecchi non erano interessati e cercavano altro, soldi per esempio. E, no, quelli di certo non li avrebbero trovati nelle case abbandonate, probabile quindi che stessero venendo su da lui, intenzionati a farseli dare con le buone o le cattive; più verosimilmente con le seconde. E dal momento che non ne aveva con sé così tanti a quel punto lo avrebbero torturato finché non avesse rivelato loro il PIN del bancomat. Il rumore di passi cessò, ora si udivano delle voci sommesse dietro la porta, non ebbe bisogno di guardare dallo spioncino per capire che avevano iniziato a trafficare sulla serratura. Doveva chiamare la polizia; certo, come no, sarebbe arrivata in tempo; a quel punto non gli restava che tentare di difendersi da solo, prendendoli a sprangate per esempio. Ad avercela una spranga. C'è un film, Panic room, in cui Jodie Foster viene a trovarsi in una situazione analoga e si rifugia con la figlia in una stanza blindata, una panic room appunto; ad avercela una panic room. Quella casa purtroppo non era abbastanza grande. Era in trappola, a quel punto non gli restava che buttarsi giù dal balcone. Buttarsi dal balcone magari no, ma uscire dalla finestra dello studio, forse. Lo studio, infatti, era adiacente a una delle due ali laterali del palazzo,
8 più basse di un piano, il cui tetto era pertanto accessibile dalla finestra. Quella via d'uscita era già stata sperimentata da sua moglie, una volta che lui era partito portandosi dietro anche le sue chiavi. Quando lei se ne era resa conto, Riccardo era ormai in volo, con il cellulare spento. Entro un’ora Francesca si sarebbe dovuta trovare dalla parte opposta della città, per un incontro di lavoro importante e non poteva stare ad aspettare il fabbro; così mentre pensava a una possibile soluzione, affacciandosi dallo studio notò che la porta-finestra del balcone di uno degli appartamenti dell'altra ala era aperta e si autoconvinse che non doveva essere poi così difficile; si era fatta coraggio, era salita sul tetto e dopo aver percorso carponi pochi metri era saltata nel balconcino. Nella cucina c'era una ragazza che stava studiando; Disturbo? Aveva domandato Francesca bussando con delicatezza sul vetro. Niente affatto, aveva risposto la ragazza senza scomporsi, quasi fosse naturale per lei che le persone entrassero in casa sua in quel modo. Le raccontò cos'era successo, Sai, mio marito ha sempre la testa fra le nuvole, aveva detto come scusandosi. La ragazza faceva cenno di sì. Meno male che avevi la finestra aperta, continuò Francesca, Perché, sai com’è, il pronto intervento mica arriva subito. La ragazza rispose che poteva tornare quando voleva, tanto la finestra non la chiudeva mai, così il gatto poteva entrare e uscire a suo piacimento. Ma dai, anche tu hai un gatto, aveva commentato Francesca. Veramente non era suo, era uno che andava a trovarla ogni tanto. Beatrice, così si chiamava la ragazza, stava da sola in quell’appartamento di cui la nonna era usufruttuaria; che però era ricoverata in un istituto da diversi mesi e Beatrice viveva nel costante timore che morisse prima che lei riuscisse a laurearsi, costringendola a lasciare la casa e a far la spola da Casalpusterlengo. Ma stava già lavorando alla tesi e un po’ era anche merito di quel gatto se aveva passato in fretta gli ultimi quattro esami, perché tutte le volte che veniva a trovarla si piazzava sulle sue gambe e non la lasciava più alzare dalla sedia, impedendole di distrarsi; neanche in bagno le permetteva di andare. In quel momento un ticchettio sul vetro aveva richiamato la loro attenzione. Dietro la finestra era apparso un faccione tigrato. Eccolo, è lui, aveva esclamato Beatrice. Ma è il mio gatto, le aveva fatto eco Francesca. Ah sì, e come si chiama? Maurice.
9 Si era fatto troppo tardi, Francesca si era accomiatata ed era andata via di corsa, promettendo di completare le presentazioni in un altro momento. Per fortuna era riuscita poi ad arrivare in tempo all’appuntamento. Al ritorno, avendo trovato aperto il portoncino delle scale, salita al quinto piano, si era accorta che Riccardo nella fretta, era sempre di fretta quell'uomo, aveva lasciato le chiavi nella toppa, dall'esterno; meno male, un problema in meno, così non avrebbe dovuto neanche chiamare il fabbro. Con il marito avrebbe fatto i conti a tempo debito, intanto aveva scoperto che il loro gatto conduceva una doppia vita, nella quale svolgeva una preziosa funzione educativa; chi lo avrebbe detto, quell’essere indolente che trascorreva interi pomeriggi davanti alla TV a guardare i cartoni animati. In seguito Francesca andò spesso a trovare Beatrice, non transitando dal tetto però, e col tempo loro due strinsero amicizia. Beatrice riuscì poi a laurearsi poco prima che la nonna morisse; l'appartamento passò al nuovo proprietario che però non si fece mai vedere; da allora erano trascorsi quasi due anni. Se era stata in grado di farlo sua moglie, che aveva il terrore del vuoto, poteva riuscirci anche lui: Riccardo si infilò le scarpe da ginnastica senza neppure allacciarle, corse nello studio dalla parte opposta della casa e scavalcò il davanzale, nel momento esatto in cui la porta d'ingresso veniva aperta. Ma non c'era più il tempo di arrivare fino al balconcino, avrebbe fatto troppo rumore o poteva essere visto, quindi rimase appiattito sul tetto nell’oscurità, augurandosi che i visitatori non facessero caso alla finestra aperta a metà. Meno male che non aveva acceso il condizionatore, le chiavi però non ricordava dove fossero, doveva augurarsi che non le trovassero loro, altrimenti avrebbero capito che lui era ancora nei paraggi. Entrarono senza accendere le luci, Riccardo dal tetto vedeva dei fasci luminosi ondeggianti da dietro le finestre della sala, come di qualcuno che stesse usando delle torce. Arrivarono alla fine anche nello studio, si percepivano due sole voci, si vede che il terzo era rimasto a far da palo. Parole incomprensibili, pronunciate in una lingua straniera caratterizzata da un forte accento
10 slavo; la lampada da tavolo che veniva accesa; una maglia dei Metallica riflessa nel vetro della finestra; uno di due che urlava un insulto all’altro, poi di nuovo buio. Poco dopo uscirono dallo studio. Rumore di passi lungo il corridoio, la porta che si richiudeva, rumore di passi in cortile e infine silenzio. La perquisizione era durata pochi minuti, che però, come si dice sempre in questi casi, gli erano parsi un’eternità. Gli ci vollero ancora alcuni istanti per convincersi che se n'erano andati; staccò a fatica le mani dalle tegole, parevano incollate col velcro, si sollevò carponi, raggiunse la finestra e rientrò nello studio. Corse alla porta di ingresso, vi spinse contro la cassapanca, agganciò la catenella e diede un numero dispari di mandate alla serratura, in modo da impedire che qualcuno potesse aprire da fuori con un’altra chiave, perlomeno così si augurava. Intanto il suo cuore aveva continuato a battere all’impazzata. Solo dopo controllò dallo spioncino, ma essendo buio dall’altra parte non vide niente. Tornò nello studio, accese la lampada da tavolo e si guardò intorno: non era stato toccato niente; allora ispezionò anche le altre stanze, non prima di aver accostato le spesse tende delle finestre del lato strada, casomai qualcuno lo stesse sorvegliando da fuori. Ma anche nel resto della casa non era stato spostato né rubato nulla, neppure il televisore da quarantadue pollici, l’unico oggetto che poteva fare gola a dei ladri comuni. Quando andò in bagno per lavarsi dalla fuliggine del tetto, rilevò un particolare che non aveva ancora notato: l’erogatore del sapone era a destra anziché a sinistra, come succedeva tutte le volte che Javier veniva a fare le pulizie, una volta la settimana. E puntualmente, quando Francesca rientrava lo rimetteva, brontolando, come lo voleva lei. Questo significava che sua moglie non era più passata da casa dopo l’ultima visita del loro collaboratore domestico. Corse a prendere il promemoria, lasciato come al solito sullo sportello del frigo da Francesca, per leggere qual era il giorno della settimana di Javier, sabato: dunque non era vero che si trovava a Milano cinque giorni prima, come gli aveva detto. Rimase lì a fissare il foglio per alcuni minuti e più lo leggeva più gli sembrava che ci fosse qualcosa di anomalo. Sua moglie aveva una grafia impossibile, tanto brutta quanto indecifrabile, ma quella volta si
11 era messa d'impegno; l'aveva scritto in stampatello, irregolare ma chiaro, le lettere ben distanziate: HO FATTO UNA BELLA SCOPERTA LETTA IERI SUI GIORNALI: BISOGNA TELEFONARE AI NUMERI SULLA TESSERA DELLA SPAZZATURA, MA BISOGNA ARRIVARE PRIMI, ALTRIMENTI NON LA RACCOLGONO. I SACCHETTI SONO QUASI FINITI, CE NE È QUALCUNO SOTTO IL LAVANDINO. JAVIER VIENE SABATO. LA BIANCHERIA LAVALA A 60 GRADI, NON A 40. CONTROLLA SE NELLA LAVASTOVIGLIE CI VUOLE IL SALE E IL BRILLANTANTE. CHIEDI ALLA VICINA SE HA BISOGNO DI QUALCOSA, ELLA SI SENTE UN PO’ SOLA, POVERINA, MA NON LE DIRE CHE IL LIBRO CHE MI HA PRESTATO RISCHIA DI UCCIDERMI DI NOIA. ORA PERÒ DEVO PROPRIO SCAPPARE. Seguiva uno sgorbio, quello sì incomprensibile, che poteva essere interpretato come “F.baci”, con la inconfondibile F della firma di sua moglie. Che però di solito avrebbe firmato “Baci Francesca” o al limite “Baci F.”. Tessera della spazzatura. Telefonare ai numeri. Arrivare primi. La vicina che si sente un po’ sola. Una vicina fantasma. Francesca doveva essere impazzita. Andò in camera da letto, cercò il cellulare per telefonarle, ma quello di sua moglie risultava non raggiungibile. Anche questa era una cosa strana, lei non lo spegneva mai. In realtà di quest’ultima cosa non poteva essere troppo sicuro, visto che era quasi sempre lei a telefonare, lo anticipava sempre; infatti dal registro chiamate l’ultima fatta da lui verso il numero di Francesca risaliva a tre settimane prima. Solo in quel momento si rese conto che lei quella mattina lo aveva chiamato da un “numero privato”: era certo che quella fosse una sua chiamata perché ricordava l’ora, qualche secondo prima delle sette, quando poi era partita in contemporanea anche la suoneria della sveglia. E c’erano molte altre telefonate dal numero privato e, sì, corrispondevano agli orari in cui di solito si sentivano; non se n’era mai reso conto, perché quando a chiamarlo era Francesca lo sapeva, senza neanche dover controllare il display.
12 Doveva esserle successo qualcosa, magari era stata rapita e gli aveva scritto un messaggio cifrato per fargli sapere qualcosa, senza che i rapitori capissero. Tachicardia, ansia, speriamo che non stia succedendo un’altra volta. Anni prima Francesca era scampata a un tentativo di rapimento da parte di una banda criminale dell’est Europa su cui il giudice Palmieri, suo padre, stava conducendo delle indagini. Calma però, doveva cercare di ragionare con lucidità; se davvero fosse stata rapita, Francesca non avrebbe certo avuto il sangue freddo necessario a scrivergli in codice, le sarebbe tremata la mano, come a chiunque, del resto, altro che scrivere in stampatello. Certo però che quel messaggio era strano. Rivolse di nuovo l’attenzione al promemoria, si mise a leggerlo e rileggerlo più volte, ma niente: non riusciva a decifrarlo. Quella notte Francesca nella sua stanza d’albergo non ce la faceva a prendere sonno; a conclusione di una giornata stressante aveva scoperto di aver perso il carica-batterie del cellulare, che nel frattempo si era spento. Purtroppo se ne era resa conto quando ormai era troppo tardi, lontana da qualsiasi negozio dove ricomprarne un altro. Aveva dovuto rimandare l'acquisto al giorno successivo e quella sera non aveva potuto parlare con Riccardo; tra l'altro doveva dirgli che forse neanche quella volta sarebbero riusciti a trascorrere qualche giorno insieme. Era soprattutto questo pensiero che la disturbava e ancora di più il fatto di non potergli raccontare tutto. Niente da fare, il sonno non arrivava e il lenzuolo le si era attorcigliato completamente attorno alla gamba destra. Le ci voleva qualcosa per dormire, un film noioso, per esempio, o meglio ancora un libro mattone. Così accese il portatile e accedette a Google, ma non aveva ancora deciso il titolo del sonnifero che si sarebbe propinata, che il browser le notificò l’arrivo di una nuova email. Il mittente era Vidocq. Un tuffo al cuore: Vidocq identificava il sistema di sicurezza di casa. Se qualcuno entrava da una delle finestre o anche dalla porta, ma senza servirsi delle chiavi speciali, il sistema inviava un sms e un’email a un numero e a un indirizzo pre-configurati. In seguito alla notifica era possibile monitorare a distanza quanto avveniva nell’abitazione, grazie alle telecamere a infrarossi disposte in
13 tutte le stanze. Collegatasi all’indirizzo IP del server in cloud del sistema, Francesca dunque aveva seguito tutti i movimenti degli intrusi, prima in cucina, poi in salotto, in camera da letto e infine nello studio; quando la luce era stata accesa i due erano girati dalla parte opposta e non era riuscita a vederli in volto, aveva solo riconosciuto una maglia con su scritto Metallica. Aveva continuato a esplorare le stanze una per una, anche dopo che quelli se ne furono andati, per cercare di capire se avessero portato via qualcosa; qualcosa di ingombrante, ovvio, perché per gli oggetti piccoli avrebbe dovuto trovarsi sul posto per verificare. Stava per interrompere il collegamento quando a un tratto con la coda dell’occhio percepì un movimento nel riquadro in basso a sinistra, quello corrispondente alla telecamera dello studio: c’era qualcuno che cercava di entrare dalla finestra. Seguì il misterioso visitatore mentre correva alla porta, spostava la cassapanca e tornava nello studio; quando accese la luce, Francesca si rese conto con sorpresa che era Riccardo. Strano, ricordava che sarebbe dovuto rincasare una settimana dopo. Allora poteva non essere un caso che i ladri fossero tornati proprio quel giorno, voleva dire che tenevano sotto controllo anche lui, chissà da quanto. Doveva dirgli di spegnere il cellulare e di allontanarsi da Milano. Almeno finché quella storia non fosse finita. Assecondando l’impulso di fargli sentire che gli era vicina, gli inviò un’email con una sua foto scattata con la webcam del portatile
Sabato 15 agosto Alla fine Riccardo si era addormentato col foglio del promemoria sulla faccia, il picco di adrenalina era crollato di colpo e lui non si era neanche tolto gli occhiali. Quindi non aveva sentito la vibrazione del telefono che notificava l’arrivo di un’email. Si svegliò il mattino seguente poco dopo le nove, una delle stanghette degli occhiali si era piegata perché aveva dormito col viso poggiato di lato sul cuscino. Mentre tentava di rimetterla a posto avvertì una vibrazione: c’erano due email non lette, entrambe di Francesca.
14 La prima, di qualche ora prima, diceva solo: “Riccardo ti vedo, gira la faccia verso la telecamera”. La foto allegata la ritraeva in un’ordinaria camera d’albergo, naso e occhi ingranditi, per effetto del grandangolo della webcam; sulla tazza poggiata sul tavolo il logo dell’Holiday Inn. La seconda invece era una email di istruzioni: “Nel mio comodino c’è un vecchio telefono con la SIM ancora attiva; tieni spento il tuo, da ora in poi ti chiamerò su quel numero”. Gli occhiali ancora un po' storti, pur senza capire il perché di quella precauzione, si mise a rovistare con frenesia nel comodino di Francesca; ora lo ricordava: quando circa due anni prima avevano pubblicato un annuncio di vendita della loro casa, avevano indicato come riferimento il numero di una vecchia ricaricabile di cui già allora non sapevano la provenienza, di sicuro non era intestata a nessuno di loro due. Essendo il cellulare del tutto scarico non si accese neppure una volta collegato all’alimentatore. In alcuni casi bisogna aspettare qualche minuto, si disse. Poco male, nel frattempo poteva andare a farsi un caffè. Ma quando tornò in camera da letto lo schermo non dava ancora segni di vita. Impaziente pensò di spostare quella SIM nel suo smartphone, ma, accidenti, era troppo grande, non ci stava. Provare a tagliarla non era il caso, rischiava solo di danneggiare il chip. Allora accese il computer e scrisse un’email di risposta a Francesca: "Il vecchio cellulare non funziona più, vado al mega-store in Duomo a vedere se ne trovo uno adatto". Doccia rapida, un paio di bermuda, una t-shirt gialla con la scritta Hawaii ed era pronto per uscire. Ma sulla soglia fu assalito da un pensiero: i ladri sarebbero potuti tornare e certo non sarebbe stato un piacere ritrovarseli in salotto, doveva trovare un modo per scongiurare che accadesse. L’unica era impedire dall’interno l’apertura del portoncino che dava nell’androne delle scale, tanto lui poteva andare e venire dal cortile di un palazzo vicino, il cui vano cantine era comunicante con il suo. Il problema era “come” riuscire a bloccare quella porta. Ma l’avvocato del primo piano era un uomo dalle mille risorse. Tutte le volte che chiudeva lo studio per un periodo di ferie, infatti, lasciava la sua bicicletta da duemila euro non nella rastrelliera del cortile dove non avrebbe dato fastidio a nessuno, bensì sul pianerottolo del primo piano,
15 con la ruota agganciata alla ringhiera. Gliel’avrebbe staccata quella maledetta ruota prima o poi, pensò Riccardo quando, scendendo a piedi, fu costretto come al solito ad aggirare la bicicletta che ostruiva il passaggio; meglio prima che poi, anzi, era quella l’occasione giusta. Che poi non era neanche tanto furbo l’avvocato, pensò tra sé Riccardo armeggiando con la brugola che stava nella borsetta degli attrezzi sotto il sellino. Privo delle ruote, venute via senza troppa difficoltà, il leggerissimo telaio in fibra di carbonio era proprio quello che gli serviva: si incastrava alla perfezione nello spessore del muro ai lati del portoncino. Chissà se avrebbe resistito all’assalto dei tre uomini della sera prima. Nel dubbio portò su dalla cantina un sacco di calcestruzzo dimenticato lì dall’ultimo intervento di manutenzione e lo mise contro la porta. Sudato, ricoperto di polvere e con le mani unte, uscì in strada. Cielo lattiginoso. Strade deserte, compresa la via principale, che, immersa in quella foschia appiccicosa, alla luce del giorno appariva, se possibile, ancora più lugubre. Serrande tirate su a metà di traverso, vetrine rotte, le prime note dell'Adagio for Strings di Barber nella sua testa; unica forma di vita una popolazione di scarafaggi sulla sola vetrina rimasta intatta, una misura deterrente più efficace del più sofisticato sistema d’allarme, a quanto pareva. Un cartello su una saracinesca prometteva la riapertura del negozio il successivo lunedì 3 settembre, anche se quell’anno il 3 settembre sarebbe caduto di giovedì; un altro, ancora più falso, diceva: Torno subito. E intanto la tensione musicale cresceva, al primo violino si erano aggiunti via via tutti gli altri archi, ora la musica che sentiva nelle orecchie era diventata assordante. A completare quello scenario da catastrofe nucleare appena avvenuta, la solita voragine mai richiusa, che doveva essere lì da almeno sette mesi; Riccardo ci girò attorno e arrivò alla stazione del metrò. Per evitare che diventasse un rifugio per drogati e senzatetto, i tornelli erano stati piazzati all’esterno degli ingressi di superficie, così come i distributori automatici dei biglietti. Riccardo aveva tirato fuori il portafoglio per acquistarne uno mentre il concerto stava per
16 raggiungere l’apice del pathos e fu su quella nota prolungata, sospesa sulle corde dei violini, che venne aggredito alle spalle. Per poco non andò a sbattere contro la macchinetta e perse l’equilibrio, cadendo all’indietro addosso al ragazzo che lo aveva spinto. Il quale tentò l'ultima mossa per portargli via il portafoglio, ma quando vide arrivare a passo d'uomo una macchina della polizia municipale, si rialzò di scatto e se ne andò a mani vuote, non prima però di aver mollato un calcio carico di risentimento a Riccardo. Recuperato il portafoglio, Riccardo riuscì a risollevarsi ma il piede destro gli faceva un po' male e aveva la sensazione che l’alluce sanguinasse; così andò a sedersi su uno di quei dissuasori della sosta gialli e iniziò a sfilarsi la scarpa. In quel momento un agente uscì dalla macchina della polizia municipale. «Signore, favorisca i documenti». «Prego?». «Mi mostri i suoi documenti». «Scusi, ma non ha visto che sono stato aggredito? Perché se la sta prendendo con me invece di inseguire quel... quel drogato?». «Glielo ripeto, mi dia i documenti, le devo fare una multa di trentacinque euro». «E quale sarebbe l’infrazione che avrei commesso?». «Non può togliersi le scarpe in mezzo alla strada. Paghi questa multa o peggio per lei». In realtà quello non era un vigile urbano, non era neppure un ausiliario del traffico. Indossava sì una divisa, ma non era quella della polizia municipale, doveva essere di una società di vigilanza privata. L’uomo continuava a spostare la mano dall’orecchio destro alla fondina della pistola, a strizzare gli occhi e a raschiarsi la gola. Nervoso, come chi sa di fare una cosa non proprio corretta. E questo Riccardo lo aveva intuito, anche perché non gli risultava fosse vietato togliersi le scarpe. Tuttavia il coltello dalla parte del manico, o meglio la pistola d’ordinanza, ce l’aveva l’agente, insieme a tutto il suo corredo di tic. Meglio assecondarlo, consegnargli carta di identità e tessera del bancomat. Orecchio, fondina, strizzata di occhi, fondina, orecchio, cavallo dei pantaloni; il rituale si era arricchito di un nuovo gesto, evidentemente qualcosa non stava andando come si aspettava. «Col bancomat sono
17 cinque euro in più» disse, infatti, dopo aver raschiato di nuovo la gola. Doveva averci dentro una frizione difettosa. Che quello volesse fare il furbo era ormai chiaro, ma quella volta, si disse Riccardo mentre estraeva le banconote dal portafoglio, avrebbe presentato ricorso, e che diamine. Neanche il tempo di rimettere a posto la carta di identità, che l’agente era risalito in macchina e ripartito a tutta velocità. E il verbale? Alla domanda sospesa in aria rispose in lontananza lo slittamento di una frizione. Le telecamere di sicurezza: poteva contare su quelle, ormai erano ovunque, qualcuna doveva avere pur ripreso tutta la scena; ma cercando intorno con lo sguardo notò solo il disco del solito orologio rotto, le lancette ferme sulle due e quaranta. Rassegnato andò a prendere il metrò. Alla fermata di Missori fu travolto da un folto gruppo di passeggeri in entrata che lo spinse verso la porta opposta. Il treno ripartì con un’accelerazione tale da fargli perdere l’equilibrio, per fortuna riuscì ad aggrapparsi all'ultimo momento a una delle maniglie in alto, ma rimase tutto il tempo in equilibrio precario su un piede solo, con le narici troppo vicine a un’ascella non sua. Trattenne il fiato, ma la tappa sembrava non finire più. Il metrò si arrestò e mentre Riccardo si lanciava fuori inspirando a pieni polmoni l’aria salubre del mezzanino, una voce elettronica diceva: Repubblica stazione di Repubblica. Uscendo per poco non aveva travolto una signora elegante. «Quanta fretta giuovanotto!». «Mi scusi signora, non l’ho fatto apposta. Le ho fatto male?». «Ma no, si figuri. Abito a Milano da sessantotto anni e sono abituata alla veemenza della giuente. Lei è un turista? Voleva scendere in Duomo, vero?». «Sì, infatti». «Allora guardi: deve tornare indietro e scendere a Missori, perché le fermate di Duomo, Montenapoleone e Turati sono soppresse». «Ma perché, per i lavori della linea quattro?». «Ma no, che c'entra, la linea quattro mica doveva passare di qua. In ogni caso i lavori li hanno interrotti da due anni». «E per quanto tempo resteranno chiuse?».
18 «E chi lo sa. A inizio anno hanno chiuso la fermata di Garibaldi su entrambe le linee verde e lilla, compresa la stazione ferroviaria. Lo sa che neanche l'alta velocità ferma più a Garibaldi? E a maggiuo è toccato a queste tre. Dicono per motivi di ordine pubblico. Quanto a questo, ora che va in centro vedrà com’è tutto “ordinato”, non c’è più un ambulante in giuiro. Il problema è quando piove: non si trova più un venditore di ombrelli neanche a pagarlo oro. Ormai siamo costretti a portarciueli da casa, dove andremo a finire?». «Per fortuna oggi non piove, perché neppure io ho l’ombrello. Comunque la ringrazio, è stata molto gentile». «Ma si figuri. È stato un piaciuere!». Riccardo si recò al binario nella direzione da cui era venuto, poi salì sul treno e scese a Missori. A sorpresa qui le strade erano popolate, come se quello fosse un normale sabato di una settimana lavorativa, i negozi erano tutti aperti e le vetrine esponevano scarpe costose, pellicce e orologi d’oro massiccio. Non era certo uno scenario post bellico quello: piazza Duomo era gremita di turisti multicolori, che parlavano una mescolanza di idiomi diversi, in prevalenza medio-orientali; uomini sia in completo formale sia in tenuta casual e donne elegantissime per cui il velo era solo il pretesto per indossare un ulteriore complemento di lusso. Il mega-store di editoria e articoli tecnologici c’era ancora, anche se aveva cambiato nome, ed era aperto nonostante la giornata festiva. Riccardo salì quindi al secondo piano alla ricerca di un telefonino che facesse al caso suo; l’unico dotato di slot per le SIM di vecchia generazione era un modello molto elementare, con lo schermo piccolo e i tasti enormi, un semplicissimo cellulare. Michele era uno studente al terzo anno di una rinomata scuola di specializzazione in lingue, che stava svolgendo lo stage estivo, non retribuito, previsto dal suo piano di studi. Quel sabato era stato messo alla cassa ed era molto orgoglioso di avere a che fare con quei clienti facoltosi. Come il ragazzo, sneakers in pelle leggera, jeans all’ultima moda strappati ad arte e smartphone placcato oro, che gli aveva allungato una banconota da cinquanta euro per pagare una ricarica del cellulare da cinque. Gli diede il resto tra mille inchini. Poi venne il turno di un uomo in bermuda, barba lunga di perlomeno tre
19 giorni, t-shirt sporca e un po’ tutto sbrindellato. Non era certo uno sceicco quello. Fosse stato per lui tipi come quello non sarebbero neanche dovuti entrare e non voleva proprio averci a che fare; si guardò in giro nella speranza di incrociare gli occhi di qualcuno dei colleghi per farsi sostituire, ma purtroppo erano tutti impegnati e lo ignoravano. Riccardo intanto aspettava con crescente impazienza che gli desse retta, l’articolo confezionato in una mano e la tessera del bancomat già pronta nell’altra. Finalmente quello si degnò e dopo aver letto il prezzo sul codice a barre, cinquanta euro, gli fece capire a gesti che doveva inserire la tessera nel POS. Riccardo obbedì, ma, dopo aver digitato il PIN, la macchinetta emise il segnale di transazione fallita. Doveva aver sbagliato il codice, pensò, ma anche la seconda volta l’esito fu identico. Intanto Michele lo guardava con aria sempre più sprezzante, chissà quello a chi l’aveva rubato il bancomat; ora stava tirando fuori una banconota da cento, sicuramente falsa. No, lui il resto non glielo voleva dare. Senza neanche far finta di cercare la moneta in cassa, respinse la banconota che il rumeno gli porgeva, I have no rest, mentì. Ma se quel ragazzino prima di lui gli aveva appena dato un biglietto da cinquanta, voleva dire Riccardo; ma dato che il cassiere stava facendo segno al buttafuori di tenerlo d’occhio, pensò che fosse meglio andarsene. La cosa non gli tornava, non poteva aver sbagliato a digitare il codice due volte di seguito, quanto al plafond, non poteva essere esaurito, lui il bancomat non lo usava praticamente mai, dato che quando era in Polonia si serviva sempre della carta di credito aziendale. Assorto in quei pensieri, non si era accorto di una donna col viso coperto da un velo che stava venendo nella sua direzione; si urtarono spalla contro spalla, la donna perse l’equilibrio aggrappandosi a lui e facendo cadere a terra tutti e due, lei sopra, lui sotto. La situazione era imbarazzante, soprattutto perché il buttafuori allertato dal cassiere stava avanzando nella loro direzione. Riccardo allora aiutò la ragazza a rialzarsi, le raccolse la borsa e si affrettò a scappare dal negozio. Ripiombato nella canicola di piazza Duomo si mise alla ricerca di uno
20 sportello bancomat della sua banca, per fare un’interrogazione dell’estratto conto. Dovette allontanarsi un po’ per trovarlo e c’erano già due persone in attesa. Mentre aspettava il suo turno, portando la mano alla tasca laterale dei bermuda si accorse che era un po' più voluminosa di prima. C’era una busta di carta gialla, che conteneva delle banconote da cinquanta euro e il telecomando di un'automobile, una Toyota. Sul retro del pacchetto era scritto: “Via Monte Ortigara”. Ricapitolò le sue mosse: l’ultima volta che aveva messo la mano in tasca era stato nel negozio, quando aveva cercato di pagare e fino a quel momento la busta non c’era. Poi si era verificato l’incidente con la giovane donna araba. Ma sì, certo, doveva essere stata lei; era evidente che quel capitombolo fosse una messinscena; in effetti, ripensandoci, aveva avuto l’impressione che quella ragazza l’avesse spinto di proposito a terra. Ma perché l’aveva fatto? Sempre che fosse destinata a lui quella busta, forse doveva portarla alla polizia. Be’, considerato quello di cui aveva bisogno, poteva intanto scambiare la sua banconota da cento con due da cinquanta, alla polizia ci avrebbe pensato dopo. Stava dunque per tornare al mega-store quando l’occhio gli cadde su un manifesto pubblicitario del centro commerciale vicino casa sua: 15 agosto aperto, vi aspettiamo. Benissimo, il telefono lo avrebbe comprato là, non aveva voglia di imbattersi un’altra volta in quel ragazzino odioso che stava alla cassa. Si avviò quindi al metrò e una volta sceso si diresse al centro commerciale. Oh oh oh, canticchiò un Babbo Natale meccanizzato, non appena ebbe oltrepassato la porta automatica. Tutto era ormai pronto per le imminenti festività, persino il presepe con le statuine a grandezza naturale; un display sopra la fila delle casse del supermercato gli ricordava che mancavano solo centotrentadue giorni, tredici ore e ventidue minuti al 25 dicembre, doveva affrettarsi. Con il sottofondo di Jingle bells trasmesso dagli altoparlanti, Riccardo andò dritto al reparto di elettronica, vincendo senza troppa fatica la tentazione di acquistare uno dei tanti panettoni d’annata esposti sugli scaffali. Il modello che gli serviva ce l’avevano anche lì, lo stesso del Duomo, a cinque euro in meno. Soddisfatto si avviò a piedi verso casa.
21 Aveva appena svoltato a un isolato di distanza dal palazzo, quando i suoi occhi catturarono un segnale di allarme. Una maglia dei Metallica. Indosso a un uomo dalla corporatura massiccia, che in quel momento gli stava dando le spalle mentre parlava al telefono, appoggiato alla ringhiera del cortile da cui sarebbe dovuto entrare. Il cancello laterale di casa sua era proprio di fronte, quell’uomo gli stava facendo la guardia. Tornò subito sui suoi passi, fece il giro completo del caseggiato per andare a controllare la situazione davanti al portone principale, situato sulla via all’angolo con quella dell’ingresso secondario. La via era deserta, fatta eccezione che per un furgone scuro con una parabola sul tetto. Avvertì come una mano invisibile che gli strizzava l'intestino pieno di pece bollente. Si girò di scatto e con il cuore che gli batteva all’impazzata si allontanò di corsa, ma si vede che il suo cervello non era andato del tutto in tilt, perché costeggiando il teatro ebbe l’illuminazione. Ora sapeva come rientrare, ma a quel punto aveva bisogno di una torcia. Il piano era di arrivare per il sottosuolo, attraverso un passaggio che costeggiava la rete fognaria e che solo lui e pochi altri conoscevano. Era successo, infatti, che nel mese di ottobre di due anni prima c’era stata una settimana di piogge un po’ troppo abbondanti; tra le zone più colpite di Milano, il quartiere dove abitavano Riccardo e Francesca si era ritrovato da un giorno all’altro sotto mezzo metro d’acqua, con tutte le conseguenze del caso: la stazione del metrò, i negozi, gli appartamenti al piano terra, per non parlare di cantine e seminterrati, erano stati allagati. Qualcuno dei soliti megalomani in seguito giurò di aver avvistato dei pesci siluro aggirarsi con disinvoltura nel proprio garage. Neanche i tram potevano transitare, la zona era isolata e la corrente elettrica era saltata. La situazione era seria e rischiava di peggiorare, perché il quadro meteorologico non prometteva niente di buono. Il sindaco aveva diramato un appello via SMS a tutta la città per raccogliere volontari, ma solo quelli che avevano ancora un residuo di carica sul telefono riuscirono a leggerlo. Tra costoro uno dei primi ad arrivare a Palazzo Marino fu Riccardo, che essendo ingegnere chimico fu messo a capo di un gruppo di altri
22 undici volontari per l'operazione di bonifica della sua zona. Senonché a lavori appena iniziati - in realtà avevano giusto finito di indossare le tute anti infortunistiche - l'eccessiva pressione dell'acqua infiltrata nel sottosuolo causò il cedimento di un condotto fognario localizzato in corrispondenza della piscina adiacente al teatro. Conseguenza di tale evento fu la risalita di un'enorme massa di liquami che andarono a occupare le vasche. Nonostante ciò, sfidando il pericolo Riccardo e i suoi uomini si immersero sotto il livello stradale e dopo quarantotto ore di lavoro indefesso riuscirono a riportare alla normalità la situazione del quartiere, il primo della città a tornare all'asciutto. Alla squadra di Riccardo il Corriere della Sera dedicò poi un articolo nella pagina di Milano, intitolato "Quella sporca dozzina che ha salvato la città", roba da Pulitzer; l'articolo era corredato di una foto che ritraeva lui e gli altri volontari infangati e maleodoranti, anche se questo nella foto non si vedeva. Quell'ondata di maltempo eccezionale aveva lasciato danni non indifferenti, ma i più ingenti li aveva subiti la piscina, data in concessione al teatro dopo un lungo lavoro di ristrutturazione, finanziato in gran parte dall’associazione culturale che gestiva il teatro stesso. Inutile dire che, pur non essendo responsabile dell'incidente delle vasche, che si sarebbe comunque verificato, Riccardo agli occhi della direzione ne divenne il capro espiatorio e da allora era considerato "persona non gradita". A ogni modo, a giugno dell'anno successivo, quando la piscina riaprì al pubblico, della puzza non era rimasta traccia: le vasche erano state rifatte del tutto e il complesso si era arricchito di una zona benessere con un’ulteriore vasca idromassaggio e una per il percorso Kneipp. Fu proprio in occasione di quell'intervento di bonifica che venne scoperto un collegamento sotterraneo che univa la piscina ai palazzi dei dintorni ed era appunto quello che Riccardo intendeva ripercorrere.
23
NELLE VISCERE DELLA TERRA
Riccardo tornò al centro commerciale per procurarsi una torcia e, già che c’era, un berretto da calarsi sulla fronte per cercare di non farsi riconoscere dai gestori della piscina. Per fortuna davanti all’ingresso secondario non c’era nessuno; aprì dunque con cautela la porta e si trovò in un corridoio stretto e poco illuminato, anche questo deserto; si vede che il personale era impegnato a bordo vasca, del resto era la mattina di Ferragosto e la piscina doveva essere già affollata. Ma se gli era andata bene fino a quel momento, non poteva sperare di farla franca mentre attraversava il prato, perciò doveva fare in modo di non dare nell’occhio; la cosa migliore era procurarsi una divisa della piscina. Quando la vista si fu abituata alla minore luce, notò la presenza di due porte chiuse all’estremità del lato da cui era entrato. Scelse quella con il cartello Staff only. Uno spogliatoio, benissimo, quello era il posto giusto dove cercare; ma purtroppo l'unica maglietta che trovò dopo aver perquisito tre armadietti era sgualcita e con dei vistosi aloni sotto le ascelle. “Manuel”, c’era scritto sulla schiena. Si fece coraggio e la infilò sulla sua trattenendo il fiato, poi sostituì il berretto con uno della divisa che stava appeso a un gancio e infine si diresse al vano dove c’era l'impianto di ionizzazione dell'acqua. Attraversare il prato a testa bassa, confidare che nessuno facesse caso a lui, raggiungere la porta dal lato opposto, pregare di trovare la strada libera, entrare. Ora doveva solo sperare che la botola non fosse stata coperta da qualche oggetto ingombrante o in qualche modo sigillata. Per fortuna il portello era libero e privo di lucchetto, anche se, come ricordava, fu piuttosto pesante da tirare su. Si calò con cautela lungo la scaletta a pioli e, dopo i primi gradini, la richiuse sopra di sé. Fino a quel momento tutto era filato liscio, nessuno si era accorto del
24 suo passaggio e a maggior ragione ora sarebbe stato improbabile imbattersi in qualcuno; ma proprio per quello stesso motivo ora arrivava la parte più rischiosa e una volta lì sotto, in caso di pericolo nessuno sarebbe venuto ad aiutarlo. Con la torcia accesa in una mano e l’altra aggrappata al sostegno della scala, scese con prudenza fino in fondo. Un corridoio, altri gradini in discesa, questa volta in pietra, infine arrivò a un crocevia di tre cunicoli. In base ai suoi ricordi ora doveva immettersi nel primo a sinistra, ma erano trascorsi due anni dall’ultima visita in quei posti, che poi era stata anche l’unica, e a un certo punto ebbe la sensazione di essersi perso. Quella galleria non la ricordava così lunga e stretta. E il soffitto che incombeva sempre più. E quella puzza di uovo marcio. Diavolo, la maglia! Se la strappò di dosso con furia, arrabbiato, manco fosse stata colpa di Manuel se si era smarrito. E comunque era improbabile che il sudore dell’ignaro Manuel sapesse di idrogeno solforato, infatti, anche senza la t-shirt l’odore persisteva, era anzi diventato più intenso, impregnando l’aria. Aria umida, densa, oppressiva. Calma, si disse, non doveva perdere la calma. Ora sarebbe tornato indietro fino al bivio e avrebbe ritrovato la strada, era tutto a posto. Ripercorse il tragitto a ritroso e quando si trovò al crocevia ricordò, rendendosi conto che prima aveva svoltato troppo presto. Imboccato il cunicolo giusto, man mano che proseguiva le immagini di quell’avventura passata restituite dalla memoria erano via via più nitide; ridendo per lo scampato pericolo, che un’idea più assurda non poteva venirgli, giunse a una porta di legno, chiusa ma non a chiave. E se anche lo fosse stata l’avrebbe abbattuta a calci, che tanto era mezza marcia. Penultima scala, questa volta in salita, e infine si trovò nel vano cantine del suo palazzo; ancora altri gradini e sarebbe riemerso dalle viscere della terra, lasciandosi alle spalle i pericoli della speleologia. Ora però si riproponevano quelli della vita in superficie per cui doveva tenere occhi e orecchie ben aperti ed evitare di fare rumore. Un violino straziato da un bambino indotto a studiare al conservatorio contro la sua volontà: la porta delle cantine si aprì emettendo un lamento sinistro che rimbombò nell’androne. Se qualcuno era lì ad aspettarlo ora era fregato. Stette alcuni secondi immobile ad ascoltare,
25 ma l'unico suono che avvertì fu lo sbattere di ali dei piccioni che sostavano sui davanzali esterni delle finestre. Si fece coraggio, entrò e come prima cosa andò a verificare lo stato del sistema antisfondamento del portoncino; il telaio in fibra di carbonio era ancora là, incastrato alla perfezione nel muro e il sacco di calcestruzzo non sembrava essersi spostato di un millimetro. Per prudenza decise di non prendere l’ascensore, avrebbe rischiato di farsi sentire da qualcuno eventualmente appostato in cortile; così cominciò a salire con lentezza i novantacinque gradini fino al quinto piano, contandoli alla rovescia, come era solita fare Francesca. Ma gli ultimi li fece di corsa, impaziente di chiudersi la porta alle spalle. Non appena dentro sedette a terra appoggiandovisi sopra esausto e ricoperto di polvere fino ai capelli. Rimase immobile in quella posizione per una decina di minuti mentre dei grossi goccioloni di sudore gli scivolavano giù dalla fronte per cadere poi sul parquet. Prima di andare a farsi la doccia diede tre mandate di chiave e riposizionò la cassapanca contro la porta, casomai i duemila euro della bicicletta non avessero resistito a un ennesimo tentativo di intrusione. Poi si occupò della ragione per cui era uscito quella mattina: spostare la SIM dal vecchio al nuovo cellulare, che si accese in pochi secondi; quando ebbe agganciato una cella del gestore telefonico una raffica di beep lo avvisò dell’arrivo di tre SMS: il primo era la notifica di una chiamata persa, il secondo lo ringraziava della ricarica effettuata, evidentemente da Francesca, il terzo infine diceva: “Chiamami appena puoi”. «Pronto Francesca?» «Pronto Riccardo, finalmente! Ma quanto tempo ci hai messo!». «Ho avuto un contrattempo, ma tu come stai, dove sei?». «Sto bene, sono a… Barcellona, come al solito. Ma non dovevi tornare tra una settimana?». «Sì, ma l’avviamento dell'impianto è stato rimandato a settembre, così sono venuto via prima». «Ascoltami: quelle persone che sono entrate in casa…». «Ah, quindi hai visto tutto?». «Sì, perché mentre stavo lavorando è arrivata una notifica dal nostro sistema di sorveglianza; sai, l’ho riattivato prima di partire perché erano già venuti un’altra volta, ma per fortuna ero riuscita a scappare dal
26 tetto». «Ho fatto anch'io la stessa cosa, d'altra parte non c'era alternativa». «Sì, ti ho visto dopo, quando sei rientrato». «Mi vedi anche adesso?». «No, ora non sono collegata a internet. Ma dimmi, hanno rubato qualcosa?». «No, mi pare di no». «Be’ meglio così. Senti, visto che a quanto pare in casa non sei al sicuro, non sarebbe meglio se te ne andassi via da Milano per un po’?» «In effetti ci stavo pensando anch’io, ma chi sono questi?». «Boh, saranno dei ladri, sapranno che siamo gli unici rimasti nel palazzo, vorranno derubarci». «Ma se volessero solo rubare, perché venire quando noi siamo in casa, visto che sanno tutte queste cose?». «Non ne ho idea, Riccardo, ne so quanto te». «Secondo me cercavano me, o te, insomma: noi. Non hai pensato anche tu a quelli che avevano tentato di rapirti?». Francesca stette a riflettere per alcuni secondi, prima di ribattere: «Può essere. Sai cosa? A questo punto penso che il posto più sicuro dove andare sia a casa di mio papà». «Da tuo papà? Voglio dire, fino a lì? Non posso andare in albergo da qualche parte?». «No, è meglio se vai da lui, questa è gente pericolosa che riesce a rintracciarti come niente. Ascolta, ho fatto bloccare il conto corrente e ho mandato Diego a consegnarti dei soldi e ho chiesto a Javier di procurarti una macchina, vi siete visti?». «Ah, allora era lui! Sì ci siamo visti, anche se in un primo momento non l’avevo riconosciuto». «Un’altra cosa: devi passare per Bologna da Maurizio, che ti darà una carta di credito». «E chi è Maurizio?». «Quel mio ex-collega, te lo ricordi? Non importa, ti chiamerà lui domani». «Ma dove la trovo la macchina?». «Non te l’ha detto Diego?». «Ah sì, deve averlo scritto sulla busta con i soldi». «Perfetto. Allora è tutto a posto, ora però devo chiudere, ciao». «Ciao» mormorò Riccardo, ma Francesca aveva già messo giù.
27 Diego, unico figlio di Javier e sua moglie Rosario, lui e la sua fissazione per lo spionaggio e i film d’azione, divoratore di tutta la collezione di Francesca di libri di Tom Clancy; solo lui poteva pensare di travestirsi in quel modo, un travestimento perfetto, non fosse stato per quei bicipiti muscolosi che Riccardo gli aveva sentito quando lo aveva aiutato a tirarsi su. Ecco cosa non lo aveva convinto di quella ragazza velata che lo aveva messo KO nel negozio. Sorrise, ma aveva la sensazione che qualcosa non quadrasse, un pensiero sfuggente che gli aveva attraversato la mente durante la telefonata e che ora se ne stava appollaiato sulle stanghette degli occhiali, dietro le orecchie. Sua moglie non era stata rapita e stava bene, quindi era tutto a posto, eppure c’era ancora qualcosa che lo preoccupava. Ma no, era solo stanco e provato, una doccia ristoratrice, ecco cosa gli ci voleva; appena tolti gli occhiali gli parve di stare già meglio. Uscito dalla doccia si mise a pianificare le sue prossime mosse. I soldi della busta, cinquecento euro, sarebbero stati più che sufficienti per arrivare a Bologna, dove il giorno seguente avrebbe incontrato questo Maurizio, che ancora non aveva capito bene chi fosse. Lui però voleva andarsene subito; calcolò che se fosse partito entro le sei, intorno alle otto sarebbe arrivato, traffico permettendo, a Parma, dove poteva trovare ospitalità presso suo cugino Leonardo, che per lui era quasi un fratello. Era da poco passata l’una: aveva giusto il tempo di fare un bucato rapido e decidere come fuggire; non poteva tornare alla piscina per la strada appena percorsa perché la botola si apriva solo dall’esterno, doveva per forza uscire dal palazzo vicino. Ma c’era il brutto ceffo lì, di guardia al suo cortile, perciò doveva fare in modo di non farsi riconoscere. L’idea gliel’aveva suggerita Diego, ora doveva solo trovare l’occorrente. Per il velo i cassetti di Francesca offrivano una vasta scelta di foulard, mentre per il vestito la ricerca durò un po' di più. Finalmente, dopo aver rovistato per una buona mezz’ora nel mobile della biancheria per la casa, trovò quello che faceva al caso suo: due teli copri-divano blu a fiori bianchi, nuovi, ancora nella scatola del negozio. Ora che aveva trovato il materiale arrivava la parte più difficile:
28 confezionare l'abito. Grazie a un tutorial su YouTube, che aveva dovuto rivedere almeno una ventina di volte, in un paio d’ore il burqa era pronto; sì, le cuciture erano un po' cedevoli, ma in fondo non doveva mica fare una sfilata, era sufficiente che reggessero almeno per un paio di isolati. Poi, con un occhio allo specchio e uno sempre a YouTube, si esercitò a indossare il velo. Nel frattempo anche la lava-asciugatrice aveva completato il suo ciclo, quindi raccolse tutto quello che poteva servirgli, lo infilò in uno zaino e indossò il suo capo di alta sartoria. A completamento del travestimento prese un paio di occhiali da sole di Francesca e una sua borsa firmata, di quelle a braccio che fanno tanto bon ton.
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IN VIAGGIO VERSO BOLOGNA
Un uomo con la maglia dei Metallica stava giocando a scacchi online con lo smartphone; era arrivato al livello sette ma, avendo già perso due partite consecutive, ora doveva cercare di non perdere anche quella, altrimenti avrebbe dovuto ricominciare da capo. Pardon sentì dire alle sue spalle; una donna col burqa doveva uscire dal cancello su cui si era appoggiato. Che seccatura. Lo capì quando vide come si era mossa: un passo a destra poi novanta gradi a sinistra. Ma certo, perché non ci aveva pensato prima! Era il cavallo che doveva spostare, non la regina. Scacco matto. Erano da poco passate le sei e mezza, Riccardo si allontanò dal palazzo a passo veloce, sempre guardandosi in giro con circospezione, poi quando fu abbastanza lontano si rimise i suoi occhiali e in circa mezz’ora arrivò in via Monte Ortigara. Una Toyota, una pressione al pulsante del telecomando, prima o poi una delle vetture parcheggiate avrebbe risposto al richiamo, che ci voleva. E, invece, dopo ben oltre la metà della strada non era successo ancora niente. A meno che l’antifurto fosse stato disattivato; mannaggia, a quella eventualità non aveva pensato. Quindi ora gli toccava ricominciare da capo, provando ad aprirle una per una con la chiave. Che poi pareva che tutte le Toyota di Milano fossero parcheggiate lì. Ma porca miseria, se almeno Javier gli avesse lasciato scritto il numero di targa, quattro lettere e tre cifre, che gli costava. Anche se nella sua testa si era fatta ormai strada la convinzione che avrebbe dovuto adottare il secondo metodo, l’automatismo “simbolo Toyota, schiaccia bottone” non si era disinnescato e a un tratto, inaspettatamente i fanali posteriori di una Yaris blu petrolio lampeggiarono. AZ847PH, un numero multiplo di undici, Francesca l’aveva contagiato con quella mania di calcolare a mente i divisori dei numeri di targa, che tanto con tre cifre si deve tentare al più fino a trentuno. Che
30 combinazione, anche l’automobile che aveva avuto fino a due anni prima era divisibile per undici, una Yaris blu petrolio proprio come quella, targata… Non ci poteva credere: Javier gli aveva procurato la ex-sua macchina. Non poteva esserne più contento e la trovava in condizioni perfette. Accertatosi per l’ennesima volta di non essere osservato, si liberò del burqa lanciandolo appallottolato sul sedile posteriore, poi sedette al volante e avviò il motore. Ma imboccata la rampa dell’uscita di Corvetto, un cartello a messaggio variabile annunciava la chiusura dell’A1 nel tratto Lodi – Parma, sicché dovette riprogrammare mentalmente l’itinerario. A quel punto gli conveniva raggiungere Parma transitando per la Liguria e il passo della Cisa. Poco male, anche se quella deviazione avrebbe comportato un po’ di ritardo sui suoi piani. Autostrada deserta, molte buche, lampioni perlopiù rotti; meno male che il sole non era ancora tramontato, con un po’ di fortuna ce l’avrebbe fatta ad arrivare a Parma con la luce naturale, magari con l’accompagnamento di una bella colonna sonora. Senza distogliere lo sguardo dalla strada, prese la pen drive dal cassettino a lato del cruscotto e la inserì nel lettore mp3; gesti abituali, meccanici, come se i due anni durante i quali l’aveva cercata invano non fossero trascorsi. Quando realizzò la portata del ritrovamento fu assalito dal timore che il nuovo proprietario della Yaris potesse aver cancellato la compilation da viaggio memorizzata dentro. Le prime note della canzone fugarono ogni dubbio. Fu come sfogliare un album di vecchie fotografie: quella raccolta l’aveva messa insieme Francesca tra cover e versioni originali delle canzoni che più avevano amato. Si erano conosciuti circa vent'anni prima a un matrimonio. Francesca era una delle invitate, Riccardo invece si trovava a passare per puro caso davanti a quella chiesa di Magenta, quando fu travolto dalla foga di una valchiria intenzionata a tutti i costi ad accaparrarsi il bouquet; che invece finì per colpirlo sulla testa. Agitazione tra le persone che si trovavano lì vicino, Santo cielo, Si è fatto male, Qualcuno chiami l’ambulanza. Aveva voglia Riccardo di dire che non era necessario, che stava bene, guardi mi sto pure rialzando. Un calcio negli stinchi lo aveva di nuovo steso a terra.
31 Francesca, che aveva trovato un’ottima scusa per abbandonare la cerimonia e non poteva certo lasciarsela sfuggire, fremeva per accompagnarlo al pronto soccorso e Riccardo, che aveva intuito quella necessità, stette al gioco; del resto come darle torto, anche lui detestava i matrimoni in chiesa. Ma non chiami il taxi, riuscì a mormorare, la mia automobile è parcheggiata laggiù. Montarono sulla macchina, Francesca al posto di guida, l’infortunato su quello del passeggero. Dove andiamo di bello? Aveva osato domandare lui. Mi porti alla stazione, aveva risposto Francesca. Ma guardi che sta guidando lei. Arrivati a destinazione Riccardo osservò la ragazza allontanarsi un po’ incerta su quei tacchi, uno dei quali forse l’aveva colpito alla gamba; l’aveva trovata adorabile. Al momento dei saluti avrebbe voluto dirle Mi deve come minimo un caffè, ma gliene era mancato il coraggio. Era quasi arrivato al residence dove alloggiava, quando avvertì delle vibrazioni preoccupanti provenire dal pavimento dell’automobile. Non era l’albero motore che stava perdendo i pezzi, ma il cellulare di Francesca che doveva esserle caduto poco prima dalla borsa. “Mio Uff”, lampeggiava sul display e l’intensità della vibrazione trasmetteva tutta la stizza della legittima proprietaria. Domani in quella piazza, alle undici precise; istruzioni perentorie, ci mancava solo che dicesse Non venga armato; solo poco prima di chiudere la telefonata si era premurata di domandargli se gli faceva ancora male la testa. La testa no, in compenso aveva un enorme livido sul malleolo. Lo sa che lei ha proprio un tallone da killer? Aveva concluso Riccardo. Che battuta penosa, aveva pensato Francesca e interpretandola come un tentativo di rimorchio, il giorno dopo andò vestita nel modo più improbabile e meno attraente possibile, così da scoraggiare eventuali avances da parte dello sconosciuto. Lui invece si presentò in giacca, cravatta appena allentata sul collo e camicia azzurra, non assomigliava per niente al bietolone del giorno prima. Ecco il suo cellulare, aveva detto Riccardo. E mi spiace sembrare scortese, ma ora devo davvero andare, non posso cambiare la prenotazione due volte, l'ho già fatto stamattina. Francesca si era sentita meschina, non solo il giorno prima l’aveva preso a calci, ma lo aveva anche costretto a spostare il volo. Era
32 arrossita, lui così bello, lei vestita da spaventapasseri. Grazie, aveva mormorato, con una mano aggiustandosi un ciuffo di capelli immaginario, come per darsi un tono. Le lascio il mio biglietto da visita, qualora ritenga di dovermi denunciare per violazione della sua privacy, aveva aggiunto Riccardo, Anche se preferirei che mi invitasse per un caffè, in fondo me lo deve. Ecco, ci era riuscito. Fu così che avevano iniziato a frequentarsi, lei neo-laureata in filosofia, impiegata in una delle tante società di consulenza informatica scaturite dal mito del millenium bug, lui ingegnere di processo presso una multinazionale del settore chimico. Accomunati dalla passione per le loro professioni, candidi e sognatori, si erano sposati tre anni dopo. Rito civile. Quando il giudice Palmieri aveva saputo di quella intenzione era andato su tutte le furie. Ma come, proprio tu che non sei mai andato a messa in vita tua, aveva ribattuto Francesca. Che c’entra e poi tua madre avrebbe voluto la cerimonia in chiesa. Vai a fidarti delle toghe rosse. Padre e figlia non si erano parlati per un mese, Umberto sempre più convinto che la sciagurata idea fosse del futuro genero, uno scapestrato, che di sicuro non sarebbe stato capace di rendere felice la “sua bambina”. E invece. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD